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Massimo Fabiani, Ordinario presso l'Università del Molise

IMPRESE IN CRISI E COMPLESSITA' DEGLI INTERESSI TUTELABILI

26 Maggio 2021

L'acuto saggio di Giacomo D’Attorre sulla responsabilità sociale dell'impresa in crisi e una scorrevole narrazione di Vittorio Minervini sul dialogo tra par condicio creditorum e par condicio concorrentium, sebbene da diverse angolature pongono una identica esigenza e cioè quella di verificare quanto siano assolute le regole e i principi che accompagnano una società in crisi ovvero quanto debbono essere graduati e proporzionati ad interessi altri. Pensiamo alla sostenibilità sociale da un lato, oppure alla non alterazione delle regole del mercato concorrenziale dall'altro. Dobbiamo, allora, capire quali sono i punti cardinali che segnalano la presenza di interessi a vocazione pubblica nelle procedure giudiziarie. La presenza del pubblico ministero nelle procedure di insolvenza è un segnale importante perché, messi da parte i rilievi penalistici, il pubblico ministero può agire come ‘collettore’ di interessi collettivi e ciò perché ogni qualvolta un'impresa in crisi imbocca un canale procedimentale, l’affare non riguarda solo il debitore e i suoi creditori. La crisi di un'impresa impone che si guardi al rispetto di tutti i principi che appartengono alla garanzia patrimoniale superando il rapporto duale “creditore-debitore”. Il contesto è certamente espressione di pulsioni plurali, perché ciascun creditore è portatore di un interesse diverso forse confliggente con quello degli altri e tuttavia la pluralità di interessi concorrenti muove indubbiamente il coinvolgimento di soggetti distinti, quali i lavoratori o coloro che hanno acquistato una prima casa. Ed ancora, sappiamo che un'impresa in crisi impatta in modo decisivo anche sul mercato concorrenziale e tutta questa variegata complessità deflagra quando si aprono le procedure amministrative laddove gli interessi altri non solo devono essere ponderati ma spesso sono sbattuti in prima pagina ed è proprio la controversa legge sull'amministrazione straordinaria che esibisce il conflitto tra interessi dei creditori e interessi collettivi altri. L’esperienza dell'amministrazione straordinaria ci ha consegnato un sistema instabile privo di una gradazione valoriale sicura; quando si vuole gestire la crisi in coerenza con altri valori primordiali, costituzionalmente protetti, si fa un enorme fatica per cercare un punto di equilibrio. I principi di ragionevolezza e di proporzionalità di impronta unionale rischiano di rivelarsi tanto virtualmente convincenti quanto concretamente inafferrabili e si corre il pericolo di avere a disposizione tanti tasselli di pari pregio ma difficili da comporre in un mosaico armonioso e allora al fondo ci troviamo di fronte all'ormai consueto dilemma: a cosa vanno funzionalizzate le sistemazioni delle crisi ? probabilmente l'aver spesso premuto l'acceleratore sull'interesse dei creditori può essere stato forse anche molto comodo, una soluzione quasi banale e semplicistica quando si parla di tutela dei diritti. Ma in questo periodo emergenziale - di fronte da un lato ad una endemica scarsità di risorse ma dall'altra parte ad un imponente flusso di fondi europei - potrebbe rivelarsi un grimaldello, per operare una selezione virtuosa fra imprese inclusive di valore e altre destinate all'uscita dal mercato, la valorizzazione di questi ricorrenti interessi altri e, perché no, una selezione fondata sulla meritevolezza ai fini della destinazione delle risorse a queste imprese in crisi ma risanabili. In questo potremmo trovare un punto di equilibrio fra interessi dei creditori e interessi altri in un'impresa che giudichiamo meritevole perché persegue determinate finalità (etiche e sostenibili) che vanno oltre il rispetto delle relazioni commerciali bilaterali tra debitore e creditori. Un trattamento preferenziale in termini di afflusso di risorse potrebbe ricomporre in modo virtuoso il mosaico in una virtuale circolarità che premia l’impresa che davvero vuole assecondare il principio costituzionale di utilità sociale.
Antonio Pezzano, Avvocato in Firenze

27 Maggio 2021 21:30

Intervento di ampio respiro e condivisibile . In questa particolare fase e’ necessario , infatti, salvaguardare i più centri di interesse in gioco, spesso a valenza anche costituzionale, come opportunamente già accennato .A ciò , d’altro canto , indirizza anche la Dir. 2019/2019. Ed in fondo anche la stessa normativa concorsuale “ordinaria” ove si pensi al disposto dell’art.182quiqnuies co.3 lf. Al contempo e’ importante rimarcare come il fattore “tempo” risulti decisivo, quasi più della nuova finanza , per le imprese sane ante Covid e che sane torneranno post pandemia, solo che gli si dia, appunto, tempo. Senza , dunque, che siano assorbite subito in un vortice concorsuale che potrebbe divenire un tornado, anzi un uragano per le stesse strutture statali, giudiziali in primis , che fossero preposte ad affrontarlo con gli attuali strumenti Inviato da iPhone
Antonio Rossi, Associato di diritto commerciale nell'Università di Bologna

30 Maggio 2021 19:49

Il fascino degli interessi “altri” nelle procedure concorsuali non intercetta necessariamente i temi à la page della sostenibilità e della RSI ma corrisponde al bisogno di corretta funzionalizzazione delle procedure che ci trasciniamo da decenni. Paradossalmente, l’A.S., pur con i problemi che si porta dietro, è la procedura in cui più chiaramente che nelle altre il legislatore ha dichiarato gli obiettivi. Nel fallimento, temo che l’art. 105 l. Fall. / 214 CCII non sia così semplice da superare per affermare la pari concorrenza degli interessi dei creditori e degli “altri” interessi costituzionalmente rilevanti. Parimenti, dubito che la governance del fallimento e, in particolare, la disciplina del comitato dei creditori, sia neutra al fine della individuazione di una graduazione di interessi. Il diritto al lavoro è sicuramente rilevante nella Costituzione ma dubito che un c.c. non abbia il potere di disporre la cessazione di un esercizio provvisorio che conserva posti di lavoro bruciando cassa. Vero senz’altro che la realizzazione degli interessi dei creditori può conciliarsi con la tutela di interessi “altri” e nella prassi del foro bolognese i bandi di vendita dei fallimenti e dei concordati preventivi già prevedono clausole “sociali” (conservazione dei posti di lavoro e divieto di trasferimento della sede aziendale, soprattutto), ma questo non significa che, finché non ci sarà un intervento normativo, la possibilità di conciliazione degli interessi costituisca già un obbligo.
Massimiliano Ratti, Avvocato in La Spezia

31 Maggio 2021 10:28

Il fascino degli interessi “altri” nelle procedure concorsuali non intercetta necessariamente i temi à la page della sostenibilità e della RSI ma corrisponde al bisogno di corretta funzionalizzazione delle procedure che ci trasciniamo da decenni. Paradossalmente, l’A.S., pur con i problemi che si porta dietro, è la procedura in cui più chiaramente che nelle altre il legislatore ha dichiarato gli obiettivi. Nel fallimento, temo che l’art. 105 l. Fall. / 214 CCII non sia così semplice da superare per affermare la pari concorrenza degli interessi dei creditori e degli “altri” interessi costituzionalmente rilevanti. Parimenti, dubito che la governance del fallimento e, in particolare, la disciplina del comitato dei creditori, sia neutra al fine della individuazione di una graduazione di interessi. Il diritto al lavoro è sicuramente rilevante nella Costituzione ma dubito che un c.c. non abbia il potere di disporre la cessazione di un esercizio provvisorio che conserva posti di lavoro bruciando cassa. Vero senz’altro che la realizzazione degli interessi dei creditori può conciliarsi con la tutela di interessi “altri” e nella prassi del foro bolognese i bandi di vendita dei fallimenti e dei concordati preventivi già prevedono clausole “sociali” (conservazione dei posti di lavoro e divieto di trasferimento della sede aziendale, soprattutto), ma questo non significa che, finché non ci sarà un intervento normativo, la possibilità di conciliazione degli interessi costituisca già un obbligo.
E' vero: l'interesse dei creditori è rimasto ancorato a dogmi e ad apparati burocratici, che, lungi dal consentirne "un'accelerazione" satisfattiva, conducono, in una sorta di eterogenesi dei fini, a infettare anche gli interessi di "altri" (sociali, occupazionali etc).
Chi dirige una procedura concorsuale (e mi riferisco in particolare alla figura del Curatore) deve responsabilmente valorizzare il fattore tempo, per evitare l'aggravamento dei fisiologici pregiudizi all'interesse del creditore, cagionati questi ultimi "dal ritardo".
Abbiamo già nel sistema l'art. 104-ter co. 6 che consente di accelerare la liquidazione, prima ancora dell'approvazione del programma di liquidazione: eppure questa virtuosa norma trova rara applicazione nei fallimenti, sebbene siamo tutti ben consci del fatto che la vendita d'un complesso dinamico, qual è l'azienda, diviene appetibile quando ancora "pulsa", altrimenti i costi di riavvio rendono antieconomica l'operazione.
Anche nel concordato con riserva, trova applicazione la norma dell'art. 182-co. 5 l.fall. (i.e. 105/108 l.fall.), eppure molti Tribunali sono ancora restii ad ottimizzare le vendite nella suddetta fase.
Mi permetto, a tal proposito, di rinviare alle ben note vicende Chrysler o Lehman Brothers ed all'esempio metaforico da parte del Giudice Peck dell’immagine del cubetto di ghiaccio come bene che svanisce a vista d’occhio (in Italia, anche il Banco Ambrosiano venne venduto nel 1982, seppur in presenza d'un fondo di garanzia per le banche, pochissimi giorni dopo l’apertura della procedura).
A mio avviso, quindi, il miglior soddisfacimento per i creditori concorsuali e la tutela degli interessi "altri" procedono di pari passo solo a fronte d'una professionale responsabilizzazione di chi amministra la procedura (ovverosia il Curatore), scevra da preconcetti e sin da subito indirizzata nella immediata valorizzazione dell'attivo.
Salvo Leuzzi, Magistrato

9 Giugno 2021 10:55

La rilevanza degli interessi “altri” è ormai calata nel sistema. L'art. 2086 c.c., ora rubricato "Gestione dell'impresa" funzionalizza l'obbligo di istituire gli adeguati assetti, non solo alla natura e alle dimensioni dell'impresa come finora previsto, ma alla rilevazione tempestiva della crisi nell’ottica del salvataggio della continuità aziendale. Significativi due aspetti: che la norma si collochi fuori dal CCII, con una saldatura evidente tra diritto commerciale e diritto della crisi d’impresa; che la norma fissi un novero di obblighi che riguarda l’imprenditore in quanto tale, non l’imprenditore in quanto debitore. La responsabilità del capo dell’impresa è, in tal guisa, proiettata nei riguardi di tutti i soggetti interessati a vario titolo alla conservazione dell’attività economica. L’assetto organizzativo è della società, ma ha per oggetto l’impresa e fissare doveri generali dell’imprenditore verso quest’ultima significa onerarlo di condotte protettive dell’intera gamma degli interessi coinvolti da essa, non solo del suo o di quello dei creditori. Del resto, se nel diritto civile la fenomenologia economica si presta ad essere disciplinata secondo i moduli dell’obbligazione, del contratto e dell’adempimento garantito dal patrimonio, nel teatro della crisi e dell’insolvenza il baricentro fisiologicamente si sposta e si espande. Riduttivo pensare l’impresa alla stregua di microcosmo occupato per competenza esclusiva da debitori e creditori. La crisi si distende sul mercato e le figure in parola ne sono una voce importante, non certo l’unica. Peregrino ipotizzare che tutti i creditori si determinino nelle scelte ignorando la propria specifica posizione nella piattaforma della crisi: essi (in primis lavoratori o fornitori) partecipano alla decisione sull’impresa per crediti maturati nel passato, ma scelgono con lo sguardo lanciato al futuro. L’art. 2086 è il viatico che consente di predicare come acquisita un’esigenza: quella dell’equa, contestuale tutela di due valori: creditori e continuità dell’impresa.
Giovanni La Croce, Dottore commercialista

14 Giugno 2021 9:30

Il tema degli “interessi altri” è indubbiamente coinvolgente. Mi domando, però, se sia questione del diritto e non, invece, della politica economica.
Nella risposta a un’altra domanda la soluzione: a chi spetta la mediazione tra gli interessi e a chi incombe il carico della “funzione sociale dell’impresa” (sempre ammesso che nell’epoca in cui l’uno per cento della popolazione mondiale possiede più del restante novantanove, parlare di “funzione sociale dell’impresa” non costituisca un ossimoro, o, quantomeno, un residuato culturale del ‘900)?
Non mi pare che vi siano spazi costituzionali per accollare il costo della ”socialità” dell’intrapresa economica ai creditori, come accade - con anarchica e intollerabile ingiustizia - nelle procedure di amministrazione straordinaria.
La lettura non mi pare possa cambiare neppure si volesse circoscrivere lo sguardo ai soli creditori pubblici, che il CCII e le recenti modifiche alla legge fallimentare hanno espropriato dei loro legittimi costituzionali diritti. (recte: obblighi)
La “funzione sociale” dell’impresa può trovare spazio solo nella programmazione economica tramite la scelta dei settori, delle filiere, dei territori destinatari di risorse pubbliche per lo sviluppo e il recupero delle imprese funzionali alla “scelta politica”.
La cifra, dunque, non è né giuridica, né trasversale, è politicamente selettiva in funzione della non illimitata dimensione delle risorse.
Le regole del diritto sono semplici strumenti, non governo e la contendibilità dell’impresa in crisi è la regola che manca.
La confusione esistente nel diritto vivente, come negli aneliti di riforma ai tempi attuali della pandemia, tra impresa e imprenditore costituisce il maggior ostacolo all’affermazione del suo, pur limitato, fine sociale.
Il diritto, per altro, può e deve fare di più: abbandonare la Torre di Babele e dotarsi di procedure rapide, efficaci ed efficienti.
La tempestività, come la discontinuità, è condizione ineludibile del risanamento.
Procedure rapide significa anche finalità chiare, attori competenti e specializzati, i cui sforzi siano indirizzati al fine principale del salvataggio dell’impresa o della sua rapida liquidazione e non all’accertamento delle responsabilità dell’insuccesso, mero corollario dello scopo principale.
Solo così, almeno a mio parere, si salvaguarderebbe quel poco di “funzione sociale” cui l’impresa in crisi del terzo millennio può ancora ambire.
In quest’ottica, anche le “clausole sociali” dei bandi di vendita bolognesi si rappresentano come un laccio all’efficienza e all’efficacia delle procedure, laddove pretendono di dirigere giudizialmente l’evoluzione economica di una crisi dell’impresa a dispetto del mercato: il costo del lavoro non è (purtroppo) una variabile indipendente del sistema economico, come, con una certa imberbe ingenuità, sostenevo nel lontano ‘67.
Luigi Bottai, Avvocato

19 Giugno 2021 15:32

Il tema degli “interessi altri” è indubbiamente coinvolgente. Mi domando, però, se sia questione del diritto e non, invece, della politica economica.
Nella risposta a un’altra domanda la soluzione: a chi spetta la mediazione tra gli interessi e a chi incombe il carico della “funzione sociale dell’impresa” (sempre ammesso che nell’epoca in cui l’uno per cento della popolazione mondiale possiede più del restante novantanove, parlare di “funzione sociale dell’impresa” non costituisca un ossimoro, o, quantomeno, un residuato culturale del ‘900)?
Non mi pare che vi siano spazi costituzionali per accollare il costo della ”socialità” dell’intrapresa economica ai creditori, come accade - con anarchica e intollerabile ingiustizia - nelle procedure di amministrazione straordinaria.
La lettura non mi pare possa cambiare neppure si volesse circoscrivere lo sguardo ai soli creditori pubblici, che il CCII e le recenti modifiche alla legge fallimentare hanno espropriato dei loro legittimi costituzionali diritti. (recte: obblighi)
La “funzione sociale” dell’impresa può trovare spazio solo nella programmazione economica tramite la scelta dei settori, delle filiere, dei territori destinatari di risorse pubbliche per lo sviluppo e il recupero delle imprese funzionali alla “scelta politica”.
La cifra, dunque, non è né giuridica, né trasversale, è politicamente selettiva in funzione della non illimitata dimensione delle risorse.
Le regole del diritto sono semplici strumenti, non governo e la contendibilità dell’impresa in crisi è la regola che manca.
La confusione esistente nel diritto vivente, come negli aneliti di riforma ai tempi attuali della pandemia, tra impresa e imprenditore costituisce il maggior ostacolo all’affermazione del suo, pur limitato, fine sociale.
Il diritto, per altro, può e deve fare di più: abbandonare la Torre di Babele e dotarsi di procedure rapide, efficaci ed efficienti.
La tempestività, come la discontinuità, è condizione ineludibile del risanamento.
Procedure rapide significa anche finalità chiare, attori competenti e specializzati, i cui sforzi siano indirizzati al fine principale del salvataggio dell’impresa o della sua rapida liquidazione e non all’accertamento delle responsabilità dell’insuccesso, mero corollario dello scopo principale.
Solo così, almeno a mio parere, si salvaguarderebbe quel poco di “funzione sociale” cui l’impresa in crisi del terzo millennio può ancora ambire.
In quest’ottica, anche le “clausole sociali” dei bandi di vendita bolognesi si rappresentano come un laccio all’efficienza e all’efficacia delle procedure, laddove pretendono di dirigere giudizialmente l’evoluzione economica di una crisi dell’impresa a dispetto del mercato: il costo del lavoro non è (purtroppo) una variabile indipendente del sistema economico, come, con una certa imberbe ingenuità, sostenevo nel lontano ‘67.
Scusate il ritardo, ma non conoscevo questo blog. Il tema della RSI (o CSR per l'UE, oggi esteso a ESG) risale già al 2013 e non mi pare abbia avuto un gran seguito. Nella versione più recente della Proposta di Direttiva si trascende, com'è d'uso a Bruxelles, in legislazione dell'etica (gli amministratori devono tener conto degli interessi di categorie aventi esigenze confliggenti tra loro).... Resta poi non trattato il problema dei costi di tutte le misure astrattamente prescritte, che condurrebbero le imprese europee ligie alle regole fuori mercato rispetto alle concorrenti extra UE. Addirittura bisognerebbe farsi carico dei comportamenti degli altri soggetti che costituiscono le catene del valore: è davvero troppo!!
Oggi la materia riscuote maggiore attenzione per via dell'accentuata sensibilità sociale sui vari profili coinvolti e soprattutto per il penetrante intervento pubblico nel tessuto economico, ma, ferma la condivisione generale degli obiettivi, vorrei rimanere ancorato al principio che l'utilità e i fini sociali dell'impresa, come ricordava Giorgio Oppo, sono rispettati dal semplice suo stare sul mercato in modo regolare, senza dover funzionalizzare la produzione a tali miti. Einaudi ripeteva infatti che il mercato soddisfa domande, non bisogni....
Fabio Onofri, Dottore Commercialista in Bologna

28 Giugno 2021 15:30

Scusate il ritardo, ma non conoscevo questo blog. Il tema della RSI (o CSR per l'UE, oggi esteso a ESG) risale già al 2013 e non mi pare abbia avuto un gran seguito. Nella versione più recente della Proposta di Direttiva si trascende, com'è d'uso a Bruxelles, in legislazione dell'etica (gli amministratori devono tener conto degli interessi di categorie aventi esigenze confliggenti tra loro).... Resta poi non trattato il problema dei costi di tutte le misure astrattamente prescritte, che condurrebbero le imprese europee ligie alle regole fuori mercato rispetto alle concorrenti extra UE. Addirittura bisognerebbe farsi carico dei comportamenti degli altri soggetti che costituiscono le catene del valore: è davvero troppo!!
Oggi la materia riscuote maggiore attenzione per via dell'accentuata sensibilità sociale sui vari profili coinvolti e soprattutto per il penetrante intervento pubblico nel tessuto economico, ma, ferma la condivisione generale degli obiettivi, vorrei rimanere ancorato al principio che l'utilità e i fini sociali dell'impresa, come ricordava Giorgio Oppo, sono rispettati dal semplice suo stare sul mercato in modo regolare, senza dover funzionalizzare la produzione a tali miti. Einaudi ripeteva infatti che il mercato soddisfa domande, non bisogni....
Perdonate la domanda, ma perché mai la Legge, o qualcun altro soggetto designato dalla Legge, che per definizione deve espellere dal mercato imprese inefficienti, nel minor tempo possibile, al minor costo, dovrebbe occuparsi di "diritti altri"? Se sgombriamo il campo dall'italico equivoco della "procedura di risanamento", una farsa che dopo 15 anni di stanche repliche, non fa più nemmeno sorridere, resta solamente la considerazione che, prima di tutto, è il singolo operatore, che deve, in maniera proattiva, pensare a tutelare se stesso. La figura dell'attestatore dovrebbe avere insegnato che se un soggetto economico vuole capire e magari, sapere dove andrà a parare una procedura, ma anche un'azienda in funzionamento, sarà meglio che si cerchi uno bravo che lette le carte gliela spieghi. Il tema che non si affronta mai, ma che è il presupposto di qualsiasi ragionamento in materia, è che, nessuno, obbliga nessun altro, a fare impresa, la cui conseguenza è che se, per qualsiasi motivo, l'azienda non riesce a stare sul mercato deve uscire, per non compromettere il sistema, Le regole sono date, sono funzionali da almeno sei secoli e nessuno ha ancora dimostrato la loro obsolescenza. Fornitori, clienti, banche, artigiani, ma perfino "involontari" come Agenzie fiscali, Enti Previdenziali, persino i sindacati, se solo volessero, prima ancora di dare credito, sarebbero già in grado di capire le condizioni dell'impresa con cui interagiscono e di conseguenza, rimanere irrimediabilmente esposti.
Le banche non hanno forse i mezzi sufficienti? E i fornitori prima di accettare un ordine? I clienti prima di inoltrare una commessa? Fisco e Previdenza? Devono solamente preoccuparsi di incassare a scadenza. I sindacati? possono scaricare i bilanci e rendersi conto dello stato delle aziende e intraprendere le opportune iniziative. Per il patologico c'è il PM, ma ancora prima, c'è il Collegio sindacale e il Revisore. Non credete che se ognuno facesse il proprio mestiere, invece di fare quello di qualcun altro, il problema non si porrebbe? Fisco & Previdenza: 950 miliardi di soli crediti fiscali inesigibili, dell'INPS non si sa. Se tutte le CONF imprenditoriali possibili, CONSOB, Banca d'Italia, ABI e chi volete Voi, non formano e/o supportano le loro imprese associate, chi si deve preoccupare? Il giudice imprenditore,? il curatore manager? L’amministratore ministeriale?
Perdonate il bassissimo profilo, ma si avrà tutela solamente quando i vari soggetti, economici e giuridici, torneranno ad occuparsi efficacemente ed esclusivamente delle questioni di loro competenza, chi applicando la Legge, chi formando i propri iscritti, chi esercitando la vigilanza, chi riscuotendo imposte e contributi. Magari saranno costretti a disertare le sempre piacevoli tavolate oceaniche del "confronto", alle quali abbiamo assistito nell'ultimo decennio, ma spiace dirlo, non è una questione risolvibile scrivendo norme, e men meno coinvolgendo nel processo soggetti che hanno dimostrato, questi si, di avere Interessi Altri, rispetto a quelli che, la Legge, vorrebbe/dovrebbe tutelare.
Grazie per il Vostro tempo.

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REV 02