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Analisi economica del diritto delle imprese e della crisi

Luciano Panzani, già Presidente della Corte d’Appello di Roma

7 Febbraio 2024

L’analisi economica del diritto è il nome dato ad un orientamento dottrinale e culturale che ritiene che la disciplina giuridica debba tener conto del risultato dei metodi ed acquisizioni della scienza economica. Partita dal c.d. neoliberalismo economico, l’analisi economica del diritto è stata utilizzata per lo studio delle asimmetrie informative nella disciplina dei contratti e per indagare sulle possibilità di integrazione della disciplina contrattuale per le tematiche che non sono state oggetto di pattuizione.
L’A. prova ad individuare con riferimento alla disciplina concorsuale le ragioni economiche sottostanti che presiedono all’alternativa tra liquidazione e ristrutturazione delle imprese in crisi ed insolventi, ripercorrendo il dibattito che si è svolto non soltanto in Italia sia in occasione dell’introduzione nel nostro ordinamento dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi che dell’adozione della Direttiva Insolvency e del CCII. Ancora l’A. si sofferma sul principio fondamentale della responsabilità del debitore con tutti i propri beni presenti e futuri, dettato dall’art. 2740 c.c., e lo pone in rapporto con la nuova estensione della disciplina dell’esdebitazione, considerata in molti casi più efficiente perché idonea a garantire il c.d. fresh start.
Ancora è fondamentale considerare la tutela del diritto di credito, attuata dalla Direttiva nei limiti del best creditors’ interest test, in rapporto alla pluralità di interessi che le procedure di ristrutturazione tutelano. Anche il principio della par condicio esce ridimensionato dalla disciplina del CCII, che lo applica rigorosamente nel caso della liquidazione, derogandovi ampiamente grazie a strumenti come il classamento dei creditori, la deroga al principio di maggioranza propria del cd. cross class cram down e alla regola della absolute priority rule
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1 . Introduzione
Occorre anzitutto chiarire qual è il contenuto di questa relazione perché l’impiego dell’espressione “analisi economica del diritto” potrebbe dar luogo a fraintendimenti. Con tale termine si è fatto prevalentemente riferimento, anche nella dottrina italiana[1], ai risultati dell’elaborazione della c.d.  Scuola di Chicago, ed al c.d. neoliberalismo economico. Com’è noto, si tratta di una scuola di pensiero la cui nascita può essere collocata all’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso negli Stati Uniti con i lavori di Ronald Coase, cui si è parzialmente contrapposta la Scuola di Yale con Guido Calabresi. Quest’ultima scuola è però nota, almeno nella letteratura in lingua inglese, come Law & Economics, e si differenzia in misura rilevante dalla EAL Economic Analysis of Law, anche se qualche volta i lavori, molto diversi delle due Scuole, sono stati accomunati in Italia sotto quest’ultima formula.
I lavori di queste due Scuole sono stati oggettivamente importanti ed hanno portato a risultati che non possono essere trascurati, anche se l’estremizzazione delle conclusioni cui questi studi sono pervenuti ha portato a critiche. 
L’idea fondante, che non può non essere condivisa, è che i metodi e le acquisizioni della scienza economica vanno utilizzati ai fini di comprendere le caratteristiche della realtà cui le norme debbono essere applicate. Ciò è ovviamente tanto più vero, quando le norme in questione riguardano fenomeni che hanno un prevalente carattere economico, quali sono la crisi d’impresa e le procedure concorsuali. 
L’assunto della EAL è che gli individui ispirano il loro comportamento al criterio del razionale perseguimento del loro benessere personale, secondo il c.d. principio dell’ottimo paretiano, che presuppone che ogni soggetto economico agisca secondo un criterio razionale diretto al conseguimento del proprio interesse. La massimizzazione del benessere complessivo è l’obiettivo che la società nel suo complesso deve perseguire. L’approccio neo-liberista, che la EAL pone a proprio fondamento, è che il modo migliore di conseguire il benessere complessivo è di consentire agli individui di perseguire senza ostacoli la propria tendenza al benessere personale. 
Esaminando le nozioni fondamentali del diritto privato, proprietà, contratto, responsabilità, ne viene esaltata la funzione economica, individuata alla luce dei criteri di efficienza e razionalità che si sono prima indicati. Di conseguenza la proprietà è vista come strumento atto a distribuire correttamente gli incentivi ed a prevenire inefficienze, perché ogni proprietario gestirà il suo bene nel modo più razionale. Il contratto è considerato come strumento volto a facilitare gli scambi ed a minimizzare i costi di prevenzione degli inadempimenti e delle frodi. Della disciplina dell’illecito viene valorizzata non tanto la sanzione e la funzione retributiva, quanto l’efficacia deterrente. Si confrontano i costi dell’illecito con i costi della prevenzione[2]. 
Il teorema di Coase, che viene immancabilmente citato trattando della EAL, si può riassumere in questi termini: in assenza di costi transattivi (cioè di negoziazione), la contrattazione tra gli operatori economici porterà a soluzioni efficienti da un punto di vista sociale anche in presenza di esternalità[3] e a prescindere dalla distribuzione degli entitlements, dei diritti di cui sono titolari le parti della negoziazione. Le parti interessate contratteranno privatamente per correggere ogni esternalità. Così nel caso di immissioni, in assenza di costi transattivi, è indifferente la allocazione degli entitlements, perché le parti tra loro se li distribuiranno nel modo più efficiente. Ovviamente, questo teorema si può applicare solo ai rapporti tra privati, mentre le cose cambiano quando entra in gioco la mano pubblica[4]
Com’è evidente, le premesse non sono errate, ma incomplete, perché esaminano soltanto una parte dei fenomeni oggetto di indagine e le valutazioni del comportamento dell’uomo razionale sono sovente carenti a fronte di situazioni troppo complesse perché ogni loro implicazione possa essere adeguatamente valutata. 
Gli sviluppi recenti dell’analisi economica del diritto sono legati ai lavori di Oliver Hart e Bengt Holmström che hanno ricevuto il premio Nobel per l’economia nel 2016, con i loro lavori dedicati alla teoria dei contratti.
La premessa di quest’analisi sta nella constatazione che sovente gli impegni contrattuali che caratterizzano gli scambi economici sono caratterizzati da informazione incompleta e incertezza che originano una situazione definita come un ‘velo di ignoranza’ circa le future condizioni all’interno delle quali dovranno essere mantenuti gli impegni assunti. Si tratta della cosiddetta incompletezza contrattuale (indagata da un altro premio Nobel, Oliver Williamson). Un contratto è incompleto quando la sua esecuzione non è garantita e la sua forza ‘giuridica’ è limitata. Non interessa rilevare la causa di tale incompletezza. Ciò che conta è l’inefficienza che ne deriva che può incidere sulla propensione delle parti a contrarre. Holmström ha analizzato soprattutto le situazioni di asimmetria informativa, ad esempio la disciplina degli incentivi nei rapporti tra manager ed azionisti. 
Hart ha studiato soprattutto i casi in cui l’investimento dei contraenti è specifico alla relazione contrattuale, cioè non valorizzabile in relazioni di mercato alternative. Per chi investe restare nel contratto è l’unica possibilità di valorizzare l’investimento effettuato. Per questa ragione, in assenza di regole vincolanti, nessun soggetto razionale si vincolerà per primo al contratto, effettuando investimenti specifici, se non avrà la certezza che anche la controparte avrà fatto altrettanto. Da ciò consegue, soprattutto nelle organizzazioni societarie, che diventa rilevante il potere residuale di controllo. Chi dispone di tale diritto di fatto esercita il potere perché decide cosa va fatto quando il contratto tace. Di qui suggerimenti su come regolare la retribuzione dei manager o i limiti del potere di controllo delle imprese costituite in forma societaria o le modalità dell’intervento pubblico per quanto concerne servizi essenziali quali la sanità, l’istruzione, le carceri, nell’alternativa tra interventi in house o privatizzazione. 
Si tratta quindi di analisi che possono offrire suggerimenti su come integrare la disciplina giuridica, ma che non si sostituiscono a quest’ultima. 
E’ evidente che l’analisi economica del diritto ha raggiunto nel tempo un grado di complessità e sofisticazione molto maggiore, superando le semplificazioni che inizialmente hanno sollevato le maggiori perplessità dei giuristi. 
Era stato infatti osservato che l’ottimo paretiano presenta un vizio di origine. Non prende in considerazione il punto di partenza. La situazione non può dirsi efficiente, perché si fonda sulle diseguaglianze di origine. Ancora il modello paretiano appare insufficiente perché non tiene conto dei tipi di preferenza che entrano in gioco nei comportamenti sociali. Le scelte non possono fondarsi soltanto sulla razionalità pura senza considerare i costi sociali. Non bisogna in altri termini perseguire l’efficienza come fine ma piuttosto utilizzarla come mezzo per raggiungere il fine desiderato[5].
E’ comunque indispensabile ricordare che il diritto commerciale da sempre si fonda sull’analisi della realtà economica sottostante, come ricordava Cesare Vivante nella Prefazione alla prima edizione del suo Trattato di diritto commerciale nel 1893, ammonendo che il diritto commerciale andava cercato ed indagato nelle fiere e nei mercati, non nelle astratte elaborazioni giuridiche, ed invitando a “studiare la pratica mercantile dominata com’è da grandi leggi economiche, facendo dello studio del diritto una scienza di osservazione”[6]. E se la cambiale e la società di persone sono invenzione e conseguenza del commercio nel Mediterraneo grazie alle Repubbliche marinare, la società per azioni nasce in Olanda per effetto dell’ulteriore sviluppo dei traffici, che richiede uno strumento che limiti la responsabilità dell’investitore, che non può partecipare ai rischi dell’impresa che si sviluppa in forma capitalistica[7]. 
Per altro verso, il diritto rappresenta la codificazione dei rapporti tra le classi sociali in un dato momento storico. E’ sufficiente a questo proposito considerare la nozione di diritto di proprietà, dallo ius utendi ed abutendi del diritto romano, fatto proprio dal code Napoleon, espressione della vittoria della borghesia all’indomani della Rivoluzione francese, all’introduzione della sua funzione sociale già nel codice del 1942, poi innervato dalla Costituzione repubblicana. 
2 . Ristrutturazione o liquidazione?
La disciplina delle procedure concorsuali risente non soltanto in Italia, ma in tutti gli ordinamenti, di un fortissimo contrasto tra la visione punitiva ed afflittiva che del fallimento avevano dato gli ordinamenti antichi ed ancora il codice di commercio francese del 1808, poi reso meno rigoroso nel 1838, e le esigenze che si sono manifestate dapprima negli Stati Uniti e successivamente, sul modello del Chapter 11 del Banktruptcy Code, approvato nel 1978, nella maggior parte degli ordinamenti mondiali. 
L’impostazione tradizionale della disciplina concorsuale parte dalla teoria economica classica che vede l’impresa insolvente come un fattore negativo che altera la concorrenza tra imprese. L’impresa insolvente danneggia le imprese concorrenti perché opera sul mercato a condizioni diverse. In questo senso erano ancora orientate le Linee Guida della Commissione UE in materia di aiuti di Stato, emanate nel 2014 e successivamente aggiornate[8], per il caso di salvataggio e ristrutturazione delle imprese non finanziarie in difficoltà. Essi esprimevano una visione di sfavore per gli aiuti di Stato che si fondava sulla premessa che il salvataggio e la ristrutturazione da parte dello Stato o di un soggetto pubblico rappresentavano due delle forme più distorsive della concorrenza. Le imprese più efficienti debbono crescere a spese di quelle meno sane, mettendo altrimenti in crisi la crescita economica. 
Ho citato un atto normativo recente, superato soltanto temporaneamente dal Temporary Framework emanato dalla Commissione UE in occasione della crisi pandemica, per mostrare come quest’impostazione tradizionale non possa ritenersi del tutto superata. 
L’orientamento di gran lunga prevalente negli ordinamenti della maggior parte degli Stati si fonda oggi sull’opposto principio che la possibilità di tempestiva e rapida ristrutturazione sia di vantaggio per i creditori e l’economia in generale e che favorisca l’efficienza del mercato, in particolare del mercato unico europeo, minimizzando i costi ed evitando fenomeni di forum shopping.  Si tratta di affermazioni che sono diventate nel tempo ius receptum nell’ambito delle linee guida in tema d’insolvenza elaborate dall’Uncitral nella Legislative Guide e dalla World Bank, affermazioni che hanno tratto linfa dall’ampia letteratura americana sul Chapter 11, entrato in vigore negli Stati Uniti nel 1978 .
La premessa teorica su cui si è fondata, almeno nei primi decenni della sua applicazione, la disciplina della reorganization contenuta nel Chapter 11 americano, era che la ristrutturazione dell’impresa in crisi fosse possibile a condizione che essa intervenisse prima che l’insolvenza fosse conclamata, che prevedesse un piano di riorganizzazione dell’attività d’impresa viable e feasible e che ad esso si accompagnasse, per il tramite della negoziazione con i creditori, un abbattimento sostanziale del debito anche attraverso lo strumento del debt equity swap, in forza del quale i creditori trasformano i loro crediti in tutto o in parte in azioni e scommettono sostanzialmente sulle prospettive di recupero dell’impresa. La ristrutturazione non doveva pertanto essere soltanto finanziaria, ma anche economica ed industriale. Era poi necessario che le dimensioni dell’impresa assicurassero le dimensioni minime perché un processo di ristrutturazione potesse aver luogo.
In Italia i principi affermati negli USA sono stati applicati dapprima con la legge Prodi del 1979 ( legge 95/1979), soltanto per l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, e dopo molti anni con la riforma Vietti della legge fallimentare del 2005-2006. Possono essere citati i casi delle amministrazioni straordinarie di Parmalat e di Alitalia ( la prima amministrazione straordinaria Alitalia disposta nel 2008). Nel caso di Parmalat poiché l’attività industriale era efficiente ed in grado di generale utili, è stato sufficiente separare la società dai suoi debiti ed addivenire ad un concordato con i creditori, remunerati proprio grazie allo strumento dell’equity, per ottenere un risultato ampiamente positivo. Nel secondo poiché il piano di ristrutturazione si è tradotto nella sostanza nella cessione dell’azienda ed il piano industriale che ad esso si accompagnava non risolveva le criticità esistenti, a distanza di pochi anni la situazione di crisi si è ripresentata.
I principi su cui si fonda la reorganization, oggi fatti propri dal codice della crisi anche in attuazione della Direttiva Insolvency ( Direttiva UE 1023/2019), sono ben noti. 
Si afferma in sostanza non soltanto che la liquidazione e la chiusura di un’impresa in attività è di danno all’economia in generale, perché brucia risorse e ricchezza che con una tempestiva ed adeguata ristrutturazione potrebbero essere conservate, ma che gli stessi creditori traggono vantaggio dalla ristrutturazione perché la vendita degli asset riesce di poca o nulla utilità, Normalmente il ricavato è modesto e la maggior parte dei crediti rimane insoddisfatta anche perché oggi le imprese sono costituite prevalentemente da beni immateriali il cui valore viene meno con il cessare dell’attività. Al contrario la prosecuzione  consente un maggior ricavo ed offre ai creditori chirografari che sono anche fornitori la possibilità di continuare a fornire anche in futuro, possibilità che è più preziosa ancora del recupero dei crediti pregressi. Analoghe considerazioni valgono per i dipendenti, per i quali è evidentemente essenziale la conservazione dei posti di lavoro.
Il secondo ed il terzo Considerando della Direttiva indicano chiaramente quali sono gli obiettivi, di carattere economico, che si pone il legislatore unionale ed ai quali debbono rispondere le procedure di ristrutturazione, nel linguaggio della Direttiva i quadri di ristrutturazione preventiva ( preventive restructuring frameworks). I quadri di ristrutturazione preventiva dovrebbero innanzitutto permettere ai debitori di ristrutturarsi efficacemente in una fase precoce e prevenire l'insolvenza e quindi evitare la liquidazione di imprese sane. Tali quadri dovrebbero impedire la perdita di posti di lavoro nonché la perdita di conoscenze e competenze e massimizzare il valore totale per i creditori, rispetto a quanto avrebbero ricevuto in caso di liquidazione degli attivi della società o nel caso del migliore scenario alternativo possibile in mancanza di un piano, così come per i proprietari e per l'economia nel suo complesso. Ed ancora “I quadri di ristrutturazione preventiva dovrebbero inoltre prevenire l'accumulo di crediti deteriorati. La disponibilità di quadri efficaci di ristrutturazione preventiva garantirebbe di poter intervenire prima che le società non siano più in grado di rimborsare i prestiti, contribuendo in tal modo a ridurre il rischio di un deterioramento di questi ultimi nei periodi di congiuntura sfavorevole nonché ad attenuare l'impatto negativo sul settore finanziario. Una percentuale significativa di imprese e di posti di lavoro potrebbe essere salvata se esistessero quadri di prevenzione in tutti gli Stati membri in cui sono ubicati i luoghi di stabilimento dell'impresa, le sue attività o i suoi creditori”. 
Questi obiettivi possono essere colti, avverte la Direttiva, ancora nel terzo Considerando, soltanto se la ristrutturazione viene avviata al più presto, grazie a early warning tools che consentano di avvertire lo stato di crisi prima che sia troppo tardi. La conseguenza è che “le imprese non sane che non hanno prospettive di sopravvivenza dovrebbero essere liquidate il più presto possibile. Se un debitore che versa in difficoltà finanziarie non è sano o non può tornare a esserlo in tempi rapidi, gli sforzi di ristrutturazione potrebbero comportare un'accelerazione e un accumulo delle perdite a danno dei creditori, dei lavoratori e di altri portatori di interessi, come anche dell'economia nel suo complesso”. 
Per quanto i principi su cui si fonda la Direttiva Insolvency siano generalmente accettati a livello internazionale, va sottolineato che essi sono stati contrastati in sede dottrinale sia quando venne approvata la legge Prodi nel 1979, sia nel 2005 quando fu attuata la riforma Vietti, sia infine nel corso del dibattito che ha portato all’approvazione della Direttiva Insolvency
Le critiche possono essere riassunte in questi termini[9]:
- la risanabilità riguarda una minoranza di casi, mentre la regola è che la crisi è irreversibile;
- se il risanamento è un’ipotesi realistica, potrà essere realizzato dal mercato con gli strumenti dell’autonomia contrattuale senza il ricorso al giudice;
- non occorre la procedura di ristrutturazione perché anche in caso di fallimento sarà ben possibile vendere l’azienda in attività o risanarla per il tramite di un concordato fallimentare, sul modello, aggiungiamo noi, di quanto è avvenuto nel caso Parmalat, dove i creditori furono convinti ad accettare un concordato in cui essi conferivano i loro crediti a fronte di un debt equity swap, rivelatosi poi molto conveniente;
- non è poi il caso di credere che il mantra che l’azienda in attività valga più della somma dei suoi componenti venduti singolarmente sia sempre vero, posto che per lo più si tratta di imprese che hanno dato risultati pesantemente negativi;
- se proprio, comunque, si vuole parlare di continuità è il caso di far riferimento alla continuità indiretta o traslativa sia perché è la strada più trasparente e sicura sia perché in questo modo il danno per i creditori viene ridotto al minimo. Se l’azienda è ceduta ad un terzo non maturano infatti crediti in prededuzione.
Va osservato che non si tratta di critiche del tutto prive di fondamento, come dimostra il fatto che la cessione dell’azienda a terzi è di gran lunga l’ipotesi più frequente di soluzione della crisi d’impresa e che il problema del tempestivo accesso alla procedura di ristrutturazione, e conseguentemente quello degli assetti adeguati e del tempestivo avvio del risanamento è indubbiamente il tema centrale. 
3 . Garanzia patrimoniale ed esdebitazione
La scelta di favorire la ristrutturazione dell’impresa attraverso gli early warning tools ed a monte di questi ultimi con la previsione nell’art. 2086 c.c. e nell’art. 3 del CCII dell’obbligo per l’imprenditore, soprattutto per l’imprenditore collettivo, di adottare assetti adeguati alla tempestiva rilevazione della crisi, nasce dalla consapevolezza della sempre più evidente inadeguatezza degli strumenti tradizionali di gestione dell’insolvenza.
Il principio affermato dall’art. 2740 c.c. in forza del quale il debitore risponde delle proprie obbligazioni con tutti i suoi beni, presenti e futuri, e la previsione che il concorso dei creditori si fonda sulla regola della par condicio, fatte salve le cause legittime di prelazione, contenuta nell’art. 2741 c.c., vere e proprie pietre angolari del diritto delle obbligazioni, non sono sufficienti a tutelare i creditori. Tali regole presuppongono infatti che l’apprensione e la vendita dei beni siano strumento idoneo a consentire ai creditori di soddisfarsi sul ricavato in misura adeguata. Nella sostanza invece le liquidazioni concorsuali danno risultati insoddisfacenti. 
Un recente studio della Banca d’Italia, utilizzando i dati del Ministero della Giustizia, evidenzia come circa il 44 per cento delle procedure fallimentari si chiuda senza alcun riparto. Le procedure durano in media circa 7 anni, quasi 9 se vi è il riparto, 5 anni senza. Riguardo ai concordati preventivi, solamente il 20 per cento delle domande giunge all’omologazione e in circa il 20 per cento di questi casi la procedura si conclude con un fallimento. Quasi due terzi dei concordati omologati hanno una funzione liquidatoria[10].
Non si tratta di un dato che riguarda soltanto l’Italia, anche se indubbiamente i risultati italiani sono lontani dall’essere ottimali, e non dipende soltanto dall’inefficienza del nostro sistema giustizia. Si tratta al contrario di un dato strutturale che dipende in certa misura sia dalla sottocapitalizzazione delle imprese, che è particolarmente evidente in Italia, sia dal fatto che di regola le imprese sono molto meno patrimonializzate che in passato, perché macchinari ed immobili sono generalmente in leasing, si tende a ridurre al minimo il magazzino e le scorte, aumenta l’incidenza sull’attivo patrimoniale dei c.d. intangibles, vale a dire dei beni  immateriali ( avviamento, brevetti, marchi) il cui valore è direttamente connesso alla prosecuzione dell’attività. 
E va tenuto conto che una parte dell’attivo è impegnata dalle spese di procedura e dal compenso del curatore e degli altri soggetti che operano nella procedura di liquidazione giudiziale, da soddisfarsi in prededuzione. I crediti privilegiati sono sovente superiori all’ammontare dell’attivo realizzato, con la conseguenza che i creditori chirografari spesso non ricevono alcuna soddisfazione. 
Più in generale va osservato che dal punto di vista dell’analisi economica il  rischio d’impresa è connaturato all’attività imprenditoriale; quindi, anche il fallimento è strettamente correlato all’attività d’impresa. La crisi è una conseguenza dell’attività economica così come lo è il profitto. La perdita che il creditore subisce ha carattere fisiologico perché è la conseguenza del rischio d’impresa.
Il modello economico utilizzato per analizzare le procedure concorsuali è il seguente:

pe ≥ i + r
dove:
pe = tasso di profitto atteso;
i = tasso d’interesse;
r = premio per il rischio d’impresa.
 
L’investimento è effettuato se e solo se il tasso di profitto atteso è maggiore o uguale alla somma del saggio d’interesse (il costo del denaro in prestito o il costo opportunità del denaro) e del premio per il rischio d’impresa (ovvero il premio per aver corso il rischio d’impresa). Il problema economico consiste perciò nel capire come le procedure concorsuali incidono su i e su r.  
Tralasciando il premio per il rischio d’impresa, interessa sottolineare che la grandezza i interessa il mercato del credito. Se le procedure concorsuali sono inefficienti, il tasso d’interesse da parte delle banche e degli altri prestatori aumenta perché aumenta il rischio di non poter recuperare il credito.
Da questo punto il mercato italiano, caratterizzato da un elevato numero di crediti non facilmente realizzabili ( NPL, UTP), è certamente un mercato che non favorisce i creditori e che determina un maggior costo del denaro ed una maggior difficoltà di accedere al credito.
Le norme sull’ordine di priorità nella soddisfazione dei creditori possono agevolare il mercato del credito, ma creano difficoltà ai creditori che non possono beneficiare di questi vantaggi, ad esempio i fornitori, che sono costretti dal sistema a concedere ugualmente credito all’imprenditore perché i pagamenti non avvengono in contanti alla consegna della merce.
Anche il riconoscimento della prededuzione incide sulla possibilità di soddisfacimento dei creditori chirografari, riducendola.
Per quel che riguarda il rischio d’impresa l’eliminazione dal nostro ordinamento, come in tutti gli ordinamenti moderni, delle sanzioni e dello stigma per il debitore, ha ridotto il rischio d’impresa, così come la possibilità di ottenere l’esdebitazione, che è particolarmente favorita nel caso degli imprenditori commerciali sotto soglia, degli imprenditori agricoli e dei consumatori, cioè nel caso del sovraindebitamento.
L’esdebitazione incentiva il debitore ad accedere alle procedure, anche nel caso di liquidazione giudiziale, perché egli può contare sulla possibilità di ottenere in tempi relativamente brevi l’esdebitazione e ripartire con una nuova attività imprenditoriale (fresh start).
Ciò consente anche di eliminare dal mercato le imprese ( soprattutto quelle di minori dimensioni) in tempi più brevi e con minori resistenze da parte del debitore.
Va poi considerata la disciplina delle azioni revocatorie, che sono state sostanzialmente ridimensionate nella loro portata dalla riforma Vietti del 2005-2006, con la conseguenza di ridurre l’incertezza sulla stabilità delle transazioni compiute prima dell’apertura della procedura concorsuale liquidatoria. Tale incertezza aumenta il rischio per le altre imprese che sono coinvolte nell’insolvenza del soggetto cui si applica la procedura concorsuale liquidatoria.
Una delle caratteristiche più innovative del codice della crisi, in parte anticipata dalla legge 3/2012, la legge che ha introdotto nel nostro sistema la disciplina del sovraindebitamento, è la previsione di procedure concorsuali che non riguardano soltanto gli imprenditori, e tra questi soltanto gli imprenditori minori. Storicamente il nostro ordinamento prevedeva procedure concorsuali soltanto per gli imprenditori e tra questi per gli imprenditori di qualche dimensione. Il nuovo sistema estende queste regole anche agli imprenditori di minori dimensioni ed a coloro che non sono imprenditori, ivi compresi i consumatori. 
Là dove non è possibile raggiungere un accordo con i creditori, è possibile pervenire all’esdebitazione anche senza far luogo alla procedura concorsuale quando non vi sono possibilità di utile soddisfacimento per i creditori. Si accelera la possibilità di esdebitazione, che con l’esdebitazione dell’incapiente può essere di accesso immediato. 
Si tratta quindi di un procedimento che è orientato nell’evidente interesse del debitore, nella convinzione che la sua esdebitazione risparmi i costi di una procedura inutile e consenta di reimmettere questi soggetti nel ciclo produttivo. La Direttiva Insolvency prevede l’esdebitazione dopo al massimo tre anni dall’apertura della procedura concorsuale, ma soltanto per gli imprenditori, auspicando che gli Stati membri la estendano anche a chi imprenditore non è. L’esdebitazione dell’incapiente va oltre le previsioni della Direttiva, rispetto alla quale rappresenta un evidente miglioramento.
Si registra peraltro una tendenza in molti ordinamenti, ed anche nei progetti che sono in corso di elaborazione da parte dell’Uncitral, proposti a tutti gli Stati perché li possano adottare, a prevedere forme di liquidazione semplificate rispetto al tradizionale procedimento concorsuale liquidatorio, quello che oggi chiamiamo liquidazione giudiziale. 
La recente Proposta di Direttiva[11], elaborata dalla Commissione UE il 7 dicembre 2022, che contiene un progetto di armonizzazione della disciplina delle procedure liquidatorie tra gli Stati dell’Unione, prevede tra l’altro un procedimento liquidatorio semplificato che si propone di ridurre i costi della procedura in base al rivoluzionario principio che i costi relativi agli organi della procedura debbono ricadere su chi se ne avvantaggia. Di conseguenza il curatore viene nominato soltanto se i creditori lo richiedono e vi sono le risorse, eventualmente a carico dei creditori, per farvi fronte. Altrimenti il debitore diviene il liquidatore di se stesso e deve procedere direttamente all’attività di liquidazione dell’attivo nell’interesse dei creditori.
4 . I limiti della tutela del diritto di credito
Occorre a questo punto richiamare le motivazioni con cui si è affermato, prima di tutto da un punto di vista di razionalità economica e poi sul piano giuridico, che la reorganization dell’impresa in crisi possa essere avviata sacrificando l’astratto diritto dei creditori a soddisfarsi senza limiti sul patrimonio del debitore. 
Il diritto di credito non può essere compresso oltre ogni limite[12], ma sia nel diritto americano che nella Direttiva Insolvency ed oggi nel codice della crisi, si applica alle procedure di ristrutturazione il principio del best creditors’ interest test, che comporta che il creditore non può dolersi della compressione del suo diritto a soddisfarsi sul patrimonio del debitore fino a quando il piano di ristrutturazione gli assicura un risultato non deteriore rispetto a quanto potrebbe ottenere nel caso di liquidazione giudiziale, e cioè del soddisfacimento con gli strumenti tradizionali della garanzia patrimoniale. Questo principio è affermato con chiarezza dall’art. 84, comma 1, CCII.  
Per contro i doveri dell’imprenditore nei confronti dei creditori sono affermati dagli artt. 4 e 23 del codice. L’art. 21 con riferimento alla composizione negoziata, e dunque ad una situazione in cui l’imprenditore è in bonis, stabilisce che l’imprenditore in stato di crisi gestisce l’impresa in modo da evitare pregiudizio alla sostenibilità economico-finanziaria dell’attività, conservando quindi l’integrità della garanzia patrimoniale, ma nei limiti del rischio d’impresa. In ogni caso egli, ai sensi dell’art. 16, comma 4, non deve pregiudicare ingiustamente gli interessi dei creditori. Se invece ci si trova in stato di insolvenza, sempre in forza dell’art. 21, gestisce nel prevalente interesse dei creditori.
L’art. 4, quando l’imprenditore ha avviato uno dei procedimenti di accesso alle procedure di composizione della crisi e dell’insolvenza, prevede invece che egli debba gestire il patrimonio e l’impresa nell’interesse prioritario dei creditori. 
L’interesse dei creditori è dunque tutelato, ma nei limiti in cui è ritenuto razionale favorire la ristrutturazione, procedimento questo che tutela i creditori nei limiti ora detti, ma che consente di tener anche conto di altri interessi, ugualmente compromessi dalla crisi d’impresa. 
La possibilità di compressione del diritto di credito lascia spazio alla tutela di altri diritti, anch’essi lesi dalla crisi o dall’insolvenza dell’impresa, in primo luogo la conservazione dei posti di lavoro, il mantenimento dell’impresa nell’interesse dei fornitori a continuare i rapporti contrattuali in essere, il recupero dell’equilibrio economico dell’impresa nell’interesse dell’economia in generale, l’interesse dell’imprenditore persona fisica e dei soci dell’impresa costituita in forma collettiva a proseguire l’attività.
L’analisi giuridico-economica ha da tempo affermato che la società insolvente è ormai, dal punto di vista economico, nella disponibilità dei creditori perché all’insolvenza corrisponde l’esaurimento del capitale di rischio, e dunque la prosecuzione dell’attività può avvenire soltanto con il consenso della maggioranza dei creditori. Da questo punto di vista la procedura concorsuale, è stato osservato[13], produce coattivamente il trasferimento del controllo dell’impresa ai soggetti, i creditori, che loro malgrado hanno fornito il nuovo capitale di rischio, e crea un’organizzazione attraverso la quale i creditori-controllanti possono esercitare i poteri che spettano agli investitori. Nel caso in cui l’impresa non sia insolvente, ma si trovi in situazione di crisi, cioè di probabilità d’insolvenza, l’iniziativa per la ristrutturazione spetta soltanto al debitore, proprio perché ancora l’insolvenza non si è ancora verificata[14]. Essa però richiede l’approvazione della maggioranza dei creditori, approvazione tuttavia che può anche mancare ed essere sostituita dal solo controllo giudiziale, come avviene nel concordato semplificato che però ha funzione liquidatoria e nel concordato in continuità nell’ipotesi di ristrutturazione trasversale (cross class cram down), dove è sufficiente l’approvazione a determinate condizioni di una sola classe.
Ciò che conta è che un giudice o comunque un’autorità terza sia chiamata a valutare se vi sono alternative concrete più convenienti per i creditori dissenzienti. E se è vero che costoro possono essere pregiudicati non soltanto dalla minor entità del realizzo del credito, ma anche dalla sospensione delle azioni esecutive, va detto che la Direttiva ed il codice della crisi prevedono che i creditori possano opporsi alla concessione delle misure protettive e ne possano anche domandare la revoca. In ogni caso la sospensione non è automatica e richiede l’intervento del giudice.
Torneremo su questo punto, per il momento va invece sottolineato che la ristrutturazione consente, entro certi limiti, all’imprenditore, soprattutto se costituito in forma societaria, di mantenere il controllo dell’impresa.
I diritti dei soci sono presi in considerazione dalla Direttiva e dal codice della crisi. Essi possono essere considerati come residual claimants, creditori del diritto al rimborso del capitale investito, come tali postergati a tutti gli altri creditori, ammessi a soddisfarsi del loro credito relativo al conferimento effettuato soltanto in quanto tutti gli altri creditori siano stati soddisfatti[15]. 
Il legislatore della Direttiva si preoccupa che i soci non possano svolgere azioni di disturbo ed ostacolare il progetto di ristrutturazione esercitando i diritti loro riconosciuti dall’ordinamento in qualità di soci. 
Il Considerando 57 afferma che 
“Sebbene sia necessario tutelare i legittimi interessi degli azionisti o altri detentori di strumenti di capitale, gli Stati membri dovrebbero garantire che essi non possano impedire irragionevolmente l'adozione di un piano di ristrutturazione che ripristinerebbe la sostenibilità economica del debitore. Gli Stati membri dovrebbero poter usare mezzi diversi per raggiungere tale obiettivo, ad esempio non concedendo ai detentori di strumenti di capitale il diritto di voto sul piano di ristrutturazione e non subordinando l'adozione del piano di ristrutturazione all'accordo dei detentori di strumenti di capitale che in base a una valutazione dell'impresa non riceverebbero alcun pagamento o altro corrispettivo se fosse applicato il normale grado di priorità della liquidazione. Tuttavia, qualora i detentori di strumenti di capitale abbiano diritto di voto sul piano di ristrutturazione, l'autorità giudiziaria o amministrativa dovrebbe poter omologare il piano applicando le norme sulla ristrutturazione trasversale dei debiti nonostante il dissenso di una o più delle loro classi”
Il codice della crisi non esclude i soci dal voto nel concordato preventivo, sia pur dettando regole particolari quanto al loro classamento, al trattamento riservato alle classi di soci che non può andare a detrimento delle classi di creditori, alla distribuzione del plusvalore da ristrutturazione loro spettando soltanto il valore effettivo delle loro partecipazioni derivante dall’avvenuta esecuzione del piano. 
I soci non possono opporsi all’adozione da parte degli amministratori del piano di ristrutturazione, anche quando esso preveda aumenti o riduzione del capitale, con limitazione od esclusione del diritto di opzione o altre modificazioni che incidono direttamente sui diritti di partecipazione. A tal fine l’art. 120 bis CCII prevede che essi abbiano soltanto un diritto di informazione e che il piano approvato dagli amministratori non richieda la loro approvazione e che gli amministratori non possano essere revocati se non per giusta causa, salvo il diritto alla presentazione di proposte concorrenti se rappresentano almeno il 10% del capitale sociale.
Essi tuttavia, in quanto legittimati al voto sulla proposta, possono proporre opposizione all’omologazione del piano e far valere i loro diritti in tale occasione. I limiti della tutela dei diritti dei soci sono ancora oggetto di esame da parte della dottrina e sollevano qualche dubbio dal punto di vista del possibile rischio di abusi.
Torniamo alla tutela di una pluralità di interessi e del rapporto tra la tutela di questi interessi e la difesa del diritto dei creditori al soddisfacimento del loro credito. Occorre ricordare che il piano di ristrutturazione si fonda sul coinvolgimento dei creditori ed in rilevante misura sul consenso degli stessi. Ciò non dipende soltanto dal fatto che di regola il piano deve essere approvato dalla maggioranza dei creditori, che votano suddivisi in classi omogenee, ma dal fatto che la ristrutturazione richiede di regola l’apporto di capitali, almeno quando non si traduca nella cessione dell’azienda ad un soggetto terzo, che è comunque spesso chiamato ad anticipare nuova finanza nelle more dell’approvazione del piano e del trasferimento.
E’ dunque difficile concepire un piano di ristrutturazione senza il consenso di una parte rilevante dei creditori e senza l’apporto delle banche o di altri investitori. Ciò è particolarmente evidente nel caso delle procedure di Chapter 11 che sono state approvate dai giudici recentemente negli Stati Uniti, dopo la crisi pandemica, soprattutto nel settore retail. Una caratteristica di queste procedure, tutte di dimensioni molto maggiori di quelle cui siamo abituati in Italia, è che in genere si tratta di imprese e di gruppi che sono stati finanziati da un gruppo di investitori, che non sono necessariamente banche, come avviene invece in Italia. Questi soggetti sono garantiti da un lien, da un pegno revolving sul complesso delle attività aziendali. E’ un tipo di finanziamento poco utilizzato in Italia perché il pegno mobiliare non possessorio stenta a diffondersi per le difficoltà registrate nell’emanazione della disciplina attuativa di norme pur esistenti. 
Questi investitori sanno bene in caso di crisi che l’unica possibilità di recupero dell’investimento effettuato sta nella prosecuzione dell’attività, perché altrimenti il complesso aziendale su cui sono garantiti perderebbe ogni valore. Di qui la scelta di garantire il piano di ristrutturazione, sacrificando in primis il loro credito pregresso. In effetti esaminando questi piani contenuti nelle procedure di Chapter 11, sovente si verifica che la percentuale di soddisfacimento dei creditori pregressi è modestissima. Tali piano vengono comunque approvati perché considerati fair and equitable, in quanto il sacrificio dei creditori supera il best creditors’ interest test, creditori che non potrebbero ricevere altrimenti un miglior soddisfacimento.
5 . La tutela degli interessi dei creditori: classamento, absolute e relative priority rule
Abbiamo visto che la tutela degli interessi dei creditori nel caso di ristrutturazione non è assoluta come nel caso di liquidazione concorsuale. La differenza nasce dal fatto che nel caso della liquidazione concorsuale l’unico scopo della procedura è soddisfare i creditori, consentendo loro di realizzare la garanzia patrimoniale sulla base del principio del concorso, fondato sulla regola della par condicio
Tale regola si fonda su un principio di efficienza economica perché:
a) permette di liquidare i beni del debitore insolvente in maniera ordinata; 
b)  evita una gara dispendiosa tra i creditori ordinari; 
c)  vi è un risparmio di costi nella liquidazione dei beni del debitore; 
d) scongiura il pericolo che il singolo creditore ordinario, interessato solo a recuperare quanto gli è dovuto, non si preoccupi di realizzare i beni aziendali al massimo valore possibile.
Si è però già visto che la prosecuzione dell’attività d’impresa è di regola più conveniente ed efficiente, non necessariamente nei confronti dei creditori, che però non riceveranno comunque meno di quanto otterrebbero in caso di liquidazione giudiziale, ma per il complesso degli interessi tutelati.
In questa prospettiva alcune regole che riguardano l’attuazione della garanzia patrimoniale, in primo luogo la valutazione del “peso” di ogni credito, variano rispetto all’ipotesi liquidatoria.
I creditori nella disciplina della Direttiva Insolvency sono chiamati ad esprimere il loro voto organizzati per classi. Le classi sono formate raggruppando i crediti in base a criteri omogenei. Ciò consente da un lato al debitore di proporre un piano che può meglio soddisfare gli interessi divergenti dei vari gruppi di creditori e dall’altro attenua il peso specifico di singoli creditori, anche titolari di crediti di rilevante ammontare. Complessivamente il voto per classi favorisce le probabilità di approvazione del piano, anche perché le classi, non in tutti gli ordinamenti, vengono formate dal debitore, anche se sono soggette al controllo del giudice, come in Italia, in ordine ai criteri di formazione.
In secondo luogo l’approvazione del piano di ristrutturazione si fonda o sul consenso di tutte le classi o della maggioranza delle classi, fermo restando il rispetto del best creditors’ interest test. In taluni casi tuttavia il legislatore prescinde anche dall’approvazione della maggioranza delle classi, ritenendo prevalente l’interesse all’approvazione del piano, a condizione che i creditori dissenzienti non siano pregiudicati sempre avuto riguardo al best creditors’ interest test.
Da questo punto di vista il legislatore italiano ha adottato un duplice criterio di determinazione legale della maggioranza in ogni classe nel concordato in continuità. L’art. 109, comma 5, CCII stabilisce che in ogni classe la proposta è approvata se è raggiunta la maggioranza dei crediti ammessi al voto o se, in alternativa, hanno votato favorevolmente i due terzi dei crediti dei votanti, purché vi sia un quorum di almeno la metà dei crediti ammessi al voto. In altri termini è sufficiente il voto favorevole del 33,33% degli aventi diritto. Ciò indubbiamente riduce il peso dei creditori che non si sono espressi. L’art. 9, par. 6, della Direttiva, non stabilisce una maggioranza minima, rinviando al diritto nazionale, e prevede soltanto che la maggioranza all’interno di ogni classe non può essere superiore al 75% dell’importo dei crediti.
Il secondo tema che incide sul trattamento dei creditori è rappresentato dalla sostituzione del criterio dell’absolute priority rule, che si applica in caso di liquidazione, con il diverso criterio della relative priority rule
L’art. 2741 c.c. prevede come criterio di distribuzione dell’attivo tra i creditori il principio di parità di trattamento, contemperato dal rispetto dell’ordine delle cause di prelazione. Tale criterio è funzionale alla liquidazione concorsuale. Il nostro ordinamento prevede, oltre ai diritti reali di garanzia che hanno prevalentemente carattere consensuale, il sistema dei privilegi accordati dalla legge in relazione alla causa del credito. Altri ordinamenti hanno rinunciato ad un ampio sistema di cause legali di prelazione, viste come distorsive di una tutela uniforme del ceto creditorio.
Nel caso della ristrutturazione dell’impresa i criteri applicati per la liquidazione concorsuale hanno minor ragione di essere applicati.
L’absolute priority rule comporta che i creditori di grado inferiore non possono ricevere nulla sino a quando non sono stati integralmente soddisfatti i creditori di grado poziore. Poiché i creditori sono suddivisi in classi, ne deriva che una classe di grado inferiore non può ricevere nulla sino a quando le classi di grado superiore non sono state integralmente soddisfatte. La relative priority rule consente una deroga a tale principio, nel senso che i creditori di grado inferiore possono ricevere un parziale soddisfacimento a condizione che essi non siano trattati meglio dei creditori di grado superiore. Ne deriva che in questo modo è possibile predisporre un piano che ripartisca il valore derivante dalla ristrutturazione in modo più articolato di quanto consentirebbe l’applicazione rigorosa dell’APR. 
La Direttiva Insolvency ha previsto come regola di default che il piano debba rispettare la relative priority rule ( Considerando 55 e art. 11, par. 1, lett. c), lasciando però agli Stati membri la possibilità di optare per l’absolute priority rule ( art. 11, par. 2). 
L’Italia ha optato per l’applicazione della relative priority rule, a differenza dei principali ordinamenti europei ( Francia, Germania, Olanda). 
Va aggiunto che il Considerando 56 prevede che “Gli Stati membri dovrebbero poter derogare alla regola della priorità assoluta, se … si consideri giusto che i detentori di strumenti di capitale mantengano determinati interessi ai sensi del piano, nonostante che una classe di rango superiore sia obbligata ad accettare una falcidia dei suoi crediti, o che i fornitori essenziali cui si applica la disposizione sulla sospensione delle azioni esecutive individuali siano pagati prima di classi di creditori di rango superiore”. 
L’art. 120-quater del codice della crisi ha previsto, come si è visto, che i soci nel caso del concordato in continuità possono giovarsi soltanto dell’incremento di valore delle loro partecipazioni per effetto dell’esecuzione del piano e del risanamento dell’impresa. Per il resto l’art. 112 CCII prevede che il valore di liquidazione sia distribuito nel rispetto delle cause legittime di prelazione e quindi secondo l’absolute priority rule. Il valore eccedente quello di liquidazione segue invece la relative priority rule ( cfr. anche art. 86, comma 6, CCII). 
Va sottolineato che l’art. 112 prevede che il tribunale in sede di omologazione verifichi il rispetto della corretta ripartizione del valore soltanto nel caso in cui una o più classi siano dissenzienti. Poiché, come si è visto, la maggioranza all’interno delle classi non significa unanimità dei creditori che appartengono alla classe, i creditori uti singuli non sono tutelati sotto questo profilo. Occorre che la classe sia dissenziente. Il singolo creditore dissenziente è invece tutelato dalla possibilità di eccepire che il trattamento non rispetta il best interest of creditors e quindi è inferiore a quanto potrebbe ottenere in caso di liquidazione giudiziale.
Anche sotto questo profilo, pertanto, il sistema è orientato in senso favorevole all’approvazione della proposta concordataria in continuità.
Va poi aggiunto che la previsione di un trattamento differenziato dei creditori secondo criteri diversi dal rispetto rigoroso dell’ordine delle cause di prelazione non è l’unica ed importante deroga al sistema tradizionale di ripartizione dell’attivo, tuttora valido in caso di liquidazione giudiziale e, nel caso del concordato preventivo, nel caso di concordato liquidatorio.
La ristrutturazione trasversale o cross class cram down consente infatti di ritenere approvato il piano non soltanto quando esso è approvato da tutte le classi o dalla maggioranza delle classi, purché almeno una di esse sia formata da creditori titolari di diritti di prelazione, ma anche nel caso in cui vi sia l’approvazione di una sola classe, a condizione che tali creditori siano almeno parzialmente soddisfatti applicando l’absolute priority rule, anche sul valore eccedente quello di liquidazione.
Di tale regola sono state date in dottrina e giurisprudenza almeno due letture differenti. Si è detto che occorre che la classe che vota a favore rinunci ad un trattamento più favorevole che otterrebbe se la proposta concordataria rispettasse l’absolute priority rule, confidando evidentemente nella bontà del piano di ristrutturazione[16]. Si è sostenuto, al contrario, e a mio avviso più convincentemente, che la classe che vota a favore deve essere soltanto una classe c.d. in the money, cioè che sarebbe almeno parzialmente soddisfatta applicando integralmente l’absolute priority rule, e che quindi non voti a favore, per così dire, con i soldi degli altri[17]. 
Non è in realtà facilissimo che si verifichi una situazione di questo tipo. Qui tuttavia non interessa tanto questa diversa interpretazione della norma, quanto il fatto che è possibile considerare approvato il piano anche con il voto favorevole di una sola classe e quindi al di fuori del principio di maggioranza, fermo restando che occorre l’omologazione del tribunale.
Se guardiamo a come altri Paesi hanno recepito la Direttiva Insolvency possiamo notare che sovente è stata adottata l’absolute priority rule, ma con contemperamenti. Sono gli stessi contemperamenti che per diritto americano, dove si applica ugualmente l’APR, consentono al giudice di ritenere fair and equitable un piano che deroga in qualche misura all’applicazione rigorosa della regola. 
Va sottolineato che la legge tedesca[18] ha escluso che il piano possa essere approvato senza la maggioranza delle classi, salvo il caso, espressamente previsto dalla Direttiva in cui vi sono soltanto due classi ed è sufficiente che si sia espressa a favore una classe soltanto. 
Guardando complessivamente alla disciplina adottata in Europa ed anche negli Stati Uniti possiamo affermare che sono introdotti contemperamenti, non sempre al principio di maggioranza, ma alla ripartizione dell’attivo tra i creditori secondo le regole del concorso valide in caso di liquidazione, perché l’obiettivo del legislatore è di favorire la conservazione dell’impresa a tutela più che dei creditori della somma complessiva degli interessi coinvolti. 


 Il testo riproduce la relazione tenuta il 3 ottobre 2023 alla Scuola Superiore della Magistratura nell’ambito del corso “Analisi economica del diritto: concorrenza, contratti e responsabilità”.

Note:

[1] 
Esula dalle finalità di questo lavoro una bibliografia completa. Cfr. per tutti Alpa, Pulitini, Rodotà, Romani, Interpretazione giuridica e analisi economica, con prefazione di Guido Calabresi, Milano, 1982.
[2] 
Si veda l’analisi critica di F. Denozza, Il modello dell’analisi economica del diritto. Come si spiega il tanto successo di una tanto debole teoria?, in Ars Interpretandi, 2013, n. 2, 43 e ss.
[3] 
L'insieme degli effetti esterni (detti anche economie o diseconomie esterne) che l'attività di un'unità economica (individuo, impresa, pubblica amministrazione) esercita, al di fuori delle transazioni di mercato, sulla produzione o sul benessere di altre unità.
[4] 
Riprendo questa definizione da G.Alpa, L’analisi economica del diritto, in Altalex, 9 marzo 2017.
[5] 
Cfr. ancora G.Alpa, op.cit. 
[6] 
C. Vivante, Trattato di diritto commerciale, Prefazione alla Prima Edizione, Torino, 1893, XI e ss.
[7] 
G. Cottino, Introduzione al Trattato. Il diritto commerciale tra antichità, medioevo e tempo presente: una riflessione critica, in Cottino-Bonfante, L’imprenditore, in Trattato di diritto commerciale, diretto da G. Cottino, vol. I, Cedam, Padova, 2001. 
[8] 
Commissione UE, Guidelines on State Aid for rescuing and restructuring non financial undertakings in difficulty, 2014/C 249/01, n. 6: “Rescue and restructuring aid are among the most distortive types of State aid. It is well established that successful sectors of the economy witness productivity growth not because all the undertakings present in the market gain in productivity, but rather because the more efficient and technologically advanced undertakings grow at the expense of those that are less efficient or have obsolete products. Exit of less efficient undertakings allows their more efficient competitors to grow and return assets to the market, where they can be applied to more productive uses. By interfering with this process, rescue and restructuring aid may significantly slow economic growth in the sectors concerned”. 
[9] 
Sulla disciplina dell’amministrazione straordinaria si veda F. D’Alessandro, Conservazione o dissoluzione dell’impresa in crisi: ancora su un vecchio dilemma sempre attuale, lezione tenuta l’11 luglio 2017 nell’ambito di un corso di Alta formazione organizzato dall’Ordine degli avvocati di Roma. Sugli stessi temi dello stesso A. si vedano La crisi dell’impresa tra diagnosi  precoci e accanimenti terapeutici, in Giur.comm., 2001, I, 411; Id., Interesse pubblico alla conservazione dell’impresa e diritti privati sul patrimonio dell’imprenditore, ivi, 1984, I, 53. 
Per quanto concerne la (allora) Proposta di Direttiva Insolvency cfr. in particolare H. Eidenmuller,  Contracting for a European Insolvency Regime (January 9, 2017). European Corporate Governance Institute (ECGI) - Law Working Paper No. 341/2017; Oxford Legal Studies Research Paper No. 28/2017. SSRN: https://ssrn.com/abstract=2896340; R.Bork, Preventive restructuring frameworks: a “Comedy of Errors” or “All’s Well That Ends Well”?, relazione tenuta il 29 giugno 2017 al 6th European Insolvency & Restructuring Congress organizzato dalla German Bar Association in Bruxelles.
[10] 
Banca D’Italia, Le caratteristiche e la durata dei fallimenti  e dei concordati preventivi, a cura di Marina Calanca, Luigi Cipollini, Federico Fornasari, Silvia Giacomelli,  Giuliana Palumbo e Giacomo Rodano, in Questioni di Economia e Finanza, luglio 2023. 
[11] 
European Commission, Proposal for a Directive of The European Parliament  and of the Council harmonising certain aspects of insolvency law, 2022/0408 (COD), SEC(2022) 434 final} - {SWD(2022) 395 final} - {SWD(2022) 396 final. Per un commento L. Panzani,  in Dirittodellacrisi.it, 10 gennaio 2023.
[12] 
Non affronto qui il tema della protezione del diritto di credito quale diritto equiparabile al diritto di proprietà. Corte EDU va ricordato che la Corte ha ritenuto che il diritto del creditore possa trovare tutela ai sensi dell’art. 1, Protocollo 1 della CEDU in forza del quale “Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni”. Soffermandosi sul concetto di “bene” la Corte affermava che un “credito” può costituire un “bene” a mente della norma in parola a condizione che fosse sufficientemente accertato per essere esigibile. Sia con la sentenza Raffinerie greche Stran e Stratis Andreadis c. Grecia, 9 dicembre 1994, che con quella Bourdov c. Russia del 15 gennaio 2009 la Corte aveva qualificato come bene il credito derivante da un lodo arbitrale a condizione che avesse i caratteri della definitività e della obbligatorietà. Già con la sentenza (GC) Marckx c. Belgio del 13 giugno 1979 la Corte EDU « rappelle que la notion de “bien” évoquée à la première partie de l’article 1 du Protocole n. 1 a une portée autonome qui ne se limite pas à la propriété de biens corporels et qui est indépendante des qualifications formelles du droit interne: certains autres droits et intérêts constituant des actifs peuvent aussi passer pour des “droits patrimoniaux” et donc des “biens” aux fins de cette disposition. Dans chaque affaire, il importe d’examiner si les circonstances, considérées dans leur ensemble, ont rendu le requérant titulaire d’un intérêt substantiel protégé par l’article 1 du Protocole no 1». La necessità di una definizione autonoma era stata ribadita in altre pronunce, quali ad es.: Gasus Dosier e Fördertechnik c. Olanda del 23 febbraio 1995; Iatridis c. Grecia (GC) del 25 marzo 1999; Beyeler c. Italia del 5 gennaio 2000 (GC); Ex-Re di Grecia e altri c. Grecia del 23 novembre 2000 (GC); Lallement c. Francia, 11 aprile 2002; Broniowski c. Polonia (GC) del 22 giugno 2004; Depalle c. Francia (GC) del 29 marzo 2010; Antunes Rodrigues c. Portogallo del 26 aprile 2011; De Luca c. Italia del 24 settembre 2013; Pennino c. Italia dell’8 luglio 2014.  
[13] 
di L.Stanghellini, Le crisi d’impresa tra diritto ed economia, 2007, Bologna, 54 e ss.
[14] 
In realtà nel nostro sistema la situazione di insolvenza consente l’accesso alle procedure di ristrutturazione, con prevalenza della domanda del debitore in questo senso sulle richieste dei creditori di avviare la liquidazione giudiziale. Il limite a questo favor per la ristrutturazione sta nella possibilità che l’insolvenza sia reversibile, e che quindi gli interessi tutelati in sede di ristrutturazione, ivi compresi quelli dei creditori, possano ricevere protezione sufficiente. 
[15] 
L.Stanghellini, Le crisi d’impresa tra diritto ed economia, 2007, Bologna, 40 e ss., 112 e ss. 
[16] 
S. Leuzzi, L’omologazione del concordato preventivo in continuità, cit. 25; B. Inzitari, Le mobili frontiere, cit., 27; M. Fabiani, Il diritto diseguale nella concorsualità concordataria postmoderna, in Fallimento, 2022, 1489. In giurisprudenza Trib. Bergamo, 11 aprile 2023, in Fallimento, 2023, 797, con nota di I. Donati, Il requisito del “sostegno minimo” dei creditori per l’omologazione del concordato in continuità: una prima (errata) applicazione dell’art. 112, comma 2, lett. d) CCII.
[17] 
In questo senso si veda I. Donati, Il requisito del “sostegno minimo”, cit.
[18] 
Gesetz über den Stabilisierungs- und Restrukturierungsrahmen für Unternehmen (Unternehmensstabilisierungs- und -restrukturierungsgesetz - StaRUG), 22 ottobre 2020, par. 27 e ss. 

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