Saggio
Azioni demolitorie e stato passivo; il caso strano delle c.d. “operazioni baciate”
Federico Casa e Fabio Sebastiano, Avvocati del foro di Vicenza
11 Maggio 2021
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Sommario:
Una volta prospettata una qualche soluzione, si tratterà di verificare la bontà della spiegazione proposta con riferimento al problema giuridico delle c.d. “operazioni baciate”, divenuto significativo in termini dogmatici in prossimità della declaratoria di l.c.a. delle “banche venete”. Prima di procedere alla trattazione del quesito giuridico, siano allora consentite alcune osservazioni, soprattutto con riferimento alla giurisprudenza di legittimità e alla dottrina fallimentare, nei limiti in cui esse hanno affrontato il problema dei rapporti tra la competenza del Tribunale fallimentare, il procedimento di cui agli artt. 93 ss. L. fall. e la natura delle azioni che “derivano” dal fallimento; tali precisazioni dovrebbero consentire di meglio impostare i termini della questione.
Ciò detto, sia consentito rilevare che, pur non essendosi ancora affermato un consolidato formante giurisprudenziale [3], la questione che oggi continua ad affaticare gli interpreti è rappresentata dall’esegesi del concetto di “derivazione”, di cui all’art. 24 L. fall. Dal punto di vista teorico, due orientamenti sembrano essersi formati, anche se spesso le soluzioni proposte non divergono in maniera significativa, non essendo nemmeno facilmente attribuibili a questo oppure a quell’orientamento.
In ogni caso, al fine d’illustrare il primo, pare possibile prendere le mossa del ragionamento dalla tesi, in virtù della quale tutte le azioni promosse dal curatore e quelle avanzate dal creditore in bonis, qualora potessero avere l’attitudine di modificare il patrimonio, comunque indirettamente ed eventualmente incidendo anche su una minore consistenza dell’attivo, del fallito [4], siano attratte alla competenza del Tribunale fallimentare ex art. 24 L. fall. Con la precisazione che alcune di queste, tra quelle promosse dal creditore in bonis, devono naturalmente essere assogettate al rito di cui agli artt. 93 ss. L. fall. Questo impone il contraddittorio pieno delle parti solo in caso di contestazione [5], poiché in grado di meglio assicurare l’unità e garantire la par condicio creditorum [6]. Questa dottrina attribuisce particolare rilevanza all’incidenza delle azioni proponibili ex art. 24 L. fall. sul patrimonio del fallito, anche con riferimento alla sua consistenza dal punto di vista dell’attivo. Dal punto di vista sistematico, pare allora doversi prendere atto che il procedimento di cui agli artt. 93 ss. altro non rappresenti se non una species del più ampio genere disciplinato dall’art. 24 L. fall., soprattutto destinato, ma non solo, agli accertamenti che possano comportare in via diretta una pretesa creditoria sul passivo del patrimonio del fallito. Salvo, poi, doversi discutere (su cui infra) se gli accertamenti su pretese da fare valere indirettamente con riferimento al passivo del patrimonio del fallito siano inderogabilmente o meno attratti al Giudice dello stato passivo [7]. Invece, sempre secondo questa teorica, le azioni promosse dal curatore, che intendano non solo ricostruire ma anche solo incrementare l’attivo, sarebbero più pacificamente attribuite al Tribunale fallimentare [8], anche se già presenti nel patrimonio del fallito al momento della dichiarazione dello stato d’insolvenza. Non è chi non veda come questa tesi attribuisca al concetto di derivazione di cui all’art. 24 L. fall. un significato ben più ampio rispetto a quello riconosciuto da quella giurisprudenza di legittimità e dalla dottrina, le quali intendono invece ricomprendere nella lettera di cui all’art. 24 L. fall le sole azioni c.d. “della massa” [9]. D’altro canto, sempre a seguire questa impostazione, dovrebbero essere assoggettate al Giudice dello stato passivo tutte le azioni prodromiche all’insinuazione di un credito nello stato passivo, anche se promosse anterioriormente al fallimento [10]; ferma, come dicevamo, la discussione delle vicende dei giudizi iniziati prima oppure da intraprendersi dopo il fallimento, che non comportino pretese restitutorie e/o risarcitorie da insinuarsi allo stato passivo [11]. Inoltre, è affermato l’argomento, non del tutto secondario, fondato sul principio del concorso formale sancito dall’art. 52 L. fall., secondo il quale il significato del procedimento di verifica dello stato passivo è costituito dall’esigenza che ciascun creditore sia posto nella condizione di partecipare dialetticamente all’accertamento di tutti crediti, e pertanto di ogni situazione soggettiva la cui verifica oppure la cui attuazione in via giudiziaria sia strumentale all’inserimento del credito nel passivo del fallimento. Diversamente argomentando, il procedimento di verifica dello stato passivo non avrebbe alcuna valenza, altro non essendo se non una presa d’atto di una decisione assunta altrove [12].
Sempre seguendo questo primo orientamento, occorre allora domandarsi quale rapporto debba sussistere tra la causa petendi e il petitum della domanda azionata in sede ordinaria prima del fallimento e il credito da insinuarsi nello stato passivo del convenuto [13]. Secondo la maggioranza della giurisprudenza di merito e della dottrina, come dicevamo, una qualche indicazione può venire dal comma 5 dell’art. 72 L. fall., dettato in tema di rapporti pendenti nel fallimento [14]. Infatti, in virtù delle indicazioni proposte dall’orientamento prevalente, possono trasmigrare nel procedimento di verifica dello stato passivo non soltanto le istanze accessorie di restituzione di un bene o di riconoscimento di una somma di denaro, ma anche le domande demolitorie (nullità, annullamento, inefficacia, risoluzione), pregiudiziali alla genesi del credito da insinuarsi allo stato passivo; più generalmente, le domande legate da un rapporto di pregiudizialità/dipendenza rispetto al credito da farsi valere in sede di ammissione allo stato passivo [15]. A tale prospettiva, oggi tutto sommato maggioritaria, si oppone, come vedremo meglio in séguito, un orientamento che si riferisce alla giurisprudenza di legittimità maturata prima delle Novelle. Questa, infatti, evidenzia come in tali casi occorra operare la separazione delle cause, rimanendo al giudice ordinario la cognizione del titolo negoziale, che costituisce il presupposto giuridico stesso per l’ammissione del credito allo stato passivo. Ne deriverebbe, sempre secondo questa tesi, la necessaria sospensione del giudizio di verificazione ex art. 295 c.p.c. oppure l’ammissione con riserva del credito insinuato allo stato passivo [16].
Invece, secondo l’orientamento in esame [17], dovrebbero essere proseguibili in sede ordinaria, con dichiarazione espressa al giudice della cognizione, solo i giudizi iniziati prima del fallimento, in cui il creditore in bonis o non intenda (più) proporre alcuna domanda restitutoria in esecuzione del giudizio ordinario; oppure nei quali un terzo intenda ottenere alcune altre utilità non insinuabili nello stato passivo, come la liberazione di obblighi contrattuali, i quali incidono nell’attivo del patrimonio del fallito; oppure ancóra accertamenti giudiziali caratterizzati dalla c.d. “pregiudizialità negativa”, in cui la determinazione del giudice ordinario non potrebbe avere alcun effetto sullo stato passivo. Invece, la trasmigrazione della domanda di risoluzione in sede fallimentare, sempre obbligatoria, qualora s’intenda insinuare fare valere un credito nei confronti di un fallimento, dovrà avvenire attraverso il procedimento d’insinuazione allo stato passivo. Pertanto se l’azione ordinaria è stata promossa avanti a quello che sarebbe poi divenuto il Tribunale fallimentare ex art. 24 L. fall., una volta richiesta l’ammissione allo stato passivo da parte del creditore in bonis, potrebbe essere sufficiente una istanza di riunione ex artt. 273-274 c.p.c., nonostante l’azione proposta per prima sia quella spiegata davanti al giudice ordinario. Se invece l’azione da trasferire avanti al Giudice dello stato passivo sia pendente avanti ad altro tribunale, siccome tale giudice se ne potrà spogliare solo a séguito di un proprio provvedimento, in assenza della dichiarazione in giudizio dell’attore-creditore, in forza della quale egli affermi di non voler (più) insinuare quel credito allo stato passivo, sarà necessaria un’ordinanza/sentenza. Con essa il tribunale dovrà dichiarare l’improcedibilità del giudizio, fissando un termine per la prosecuzione del medesimo ex art. 307, comma 3, ult. periodo, c.p.c., a pena di estinzione della causa pendente, potendo, solo a séguito di tale provvedimento, il creditore in bonis proporre la propria domanda di ammissione al passivo del fallimento [18].
Appare però possibile anche un seconda lettura dell’art. 24 L. fall., oggi forse minoritaria in dottrina, anche se certo più articolata, sviluppatasi nella vigenza della legge fallimentare prima delle Novelle del 2005.2007 [19], secondo la quale è vero che l’accertamento dei crediti nei confronti della massa fallimentare deriva da un’applicazione diretta dell’art. 24 L. fall., ed è altrettanto vero che il riferimento al patrimonio del fallito è cruciale, ma il riferimento alle azioni “derivanti” dal fallimento, dizione peraltro già utilizzata dal legislatore fallimentare del 1942, ricomprende tutto (e solo) ciò che è nato a séguito del fallimento; solo in questo senso anche il giudizio di ammissione allo stato passivo [20]. Risulta questa la ragione per la quale questa teoria non contesta (almeno decisamente) che possano essere attribuite alla competenza del Tribunale fallimentare, secondo però il rito di cui agli artt. 93 ss. L. fall., tutte le azioni intese a fare valere diritti anche indirettamente nello stato passivo del patrimonio del fallito, come per esempio le azioni di annullamento seguite da domande di restituzione. Sono però sicuramente esclusi dall’applicazione dell’art. 24 L. fall. le azioni aventi ad oggetto quei rapporti che si trovano già nel patrimonio dell’imprenditore al tempo del fallimento, con riferimento alle quali il fallimento non determini alcuna deviazione dell’azione dal suo schema legale tipico, cosicché esse devono seguire le regole processuali applicabili ove fossero promosse dal fallito, con la sola sostituzione del curatore al precedente legittimato [21].
Eppure, anche secondo questo orientamento, come dicevamo, pur non essendo decisivo il riferimento al patrimonio del fallito per individuare quali controversie debbano essere attribuite al Giudice dello stato passivo, non contesta che possano proseguire avanti a questo giudice le azioni intraprese prima del fallimento dirette ad insinuare un credito al passivo del fallimento, purché sussista un nesso indissolubile tra il diritto al riparto e il vaglio del Giudice dello stato passivo. Ne dovrebbe derivare, a contrario, l’impossibilità di assoggettare al vaglio dello stato passivo quelle pretese che non possano incidere sui piani di riparto. D’altro canto, come noto, la stessa Corte di Cassazione ha ritenuto che non rientra nella competenza del Tribunale fallimentare la domanda del terzo, vòlta alla declaratoria di nullità di un contratto stipulato dal fallito, che abbia come scopo solo l’accertamento della libera disponibilità dei relativi diritti [22].
D’altro canto, va in questa direzione la nota considerazione, secondo la quale l’eccezione di compensazione proposta dal curatore nel giudizio di opposizione allo stato passivo vada pacificamente esaminata nell’àmbito del giudizio di verifica, a condizione che il credito del fallito non sia d’importo superiore a quello fatto valere in sede di ammissione al passivo. Infatti, sin dai primi anni del Duemila la giurisprudenza di legittimità aveva correttamente rilevato come, a fronte della domanda riconvenzionale del curatore in sede di ammissione allo stato passivo, non solo non potevano trovare applicazione gli artt. 36 e 40 c.p.c., ma soprattutto occorreva separare i due giudizi e rimettere la pretesa del curatore avanti al giudice ordinario, in quanto proposta secondo un rito diverso da quello stabilito come necessario dalla legge, che disciplina la procedura di accertamento dei crediti. Orientamento questo confermato (e chiarito) dalle Sezioni Unite nel 2004, anche nel senso che sarebbe stato necessario distinguere le azioni promosse nei confronti del fallimento da quelle proposte dal fallito prima della dichiarazione dello stato d’insolvenza. Con riferimento alle prime, queste dovevano essere dichiarate inammissibili e proseguite avanti al Giudice dello stato passivo con le forme di cui agli artt. 93 ss. L. fall.; invece, quelle avanzate o proponibili dal fallito dovevano essere proseguite o iniziate dalla curatela davanti al giudice ordinario competente, eventualmente anche ex art. 24 L. fall., il quale avrebbe pronunciato nelle forme della cognizione ordinaria [23].
Infine, alle due teoriche illustrate è anche ricollegabile la discussione sulla possibile eccezione riconvenzionale di compensazione formulata dal creditore in bonis nel giudizio promosso dal curatore. Secondo l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità prevalente, maggiormente riconducibile in questo caso al secondo degli orientamenti delineati, l’eccezione di compensazione non va esaminata secondo il rito speciale per l’accertamento del passivo previsto dagli artt. 93 ss. L. fall. Infatti, in questo modo il creditore in bonis non chiede di partecipare al concorso sostanziale che si realizza con il riparto fallimentare, ma intende più semplicemente paralizzare le domande della curatela proposte nei suoi confronti [24]. D’altro canto, l’eccezione di compensazione può essere eccepita alla curatela nel giudizio ordinario dalla medesima proposto, potendo chiedere il convenuto di accertare se vi siano i requisiti della compensazione legale. Tale indagine impone solo l’accertamento dell’esistenza di un credito nei confronti del fallito, in relazione al quale però il creditore in bonis non intende partecipare al concorso sostanziale, ma solo ottenere l’estinzione del proprio debito verso il fallito [25].
Pare allora doversi concludere, secondo questa teorica, che non potrebbero essere proposte avanti al Giudice dello stato passivo domande che non risultino idonee ad incidere sulla formazione dello stato passivo e dunque sulla par condicio creditorum, come appaiono quelle in cui gli istanti hanno un interesse attuale e concreto ad ottenere una pronuncia di merito, che consenta di liberare un soggetto terzo da un obbligo nei confronti del fallimento. Da questo punto di vista, un’azione demolitoria da parte di un terzo non dovrebbe in alcun modo essere attratta dalla competenza del Tribunale fallimentare [26].
Due considerazioni.
La prima. Solo un inopinato difetto di attenzione potrebbe farci ritenere che vi sia oggi un importante contrasto nella giurisprudenza di merito delle Corti venete, compresa la prospettazione proposta dal Tribunale delle Imprese [29]. Infatti, tutte le sentenze che si sono fino ad oggi pronuciate sulla questione si muovono nel solco indicato dalla giurisprudenza di legittimità più recente, ma consolidata, secondo la quale “fino alla conclusione della fase amministrativa di accertamento dello stato passivo davanti agli organi della procedura ai sensi degli artt. 201 ss. L. fall.” si determina una temporanea improcedibilità della domanda azionata in sede di cognizione ordinaria, rilevabile anche d’ufficio, e pure nella fase di cassazione [30], salvo poi dividersi le Corti venete sulle conseguenze che ne possono essere tratte. Appare pur vero che si potrebbe discutere a lungo sul significato da attribuire alla dizione “fino alla conclusione della fase amministrativa di accertamento dello stato passivo”, e forse ancora con maggiore profitto [31] sul rapporto tra l’art. 83, comma 3, T.U.B. e gli artt. 24 e 51 L. fall., la cui dizione è per l’appunto ripresa nel primo e secondo inciso dell’art. 83 T.U.B. Infatti, è stato correttamente sostenuto che le azioni di cognizione nel corso della l.c.a. di una banca non sarebbero ammissibili, se idonee ad incidere sul passivo della medesima, ma sarebbero pacificamente proponibili e procedibili le azioni demolitorie [32], in perfetta coerenza con quanto previsto dall’art. 52 L. fall., il quale fa espressamente rinvio alle norme sull’accertamento e sull’opposizione allo stato passivo (art. 92 ss. L. fall.). D’altro canto, si è fatto notare con attenzione che nessuno potrà dubitare che l’art. 72, comma 5, L. fall. possa trovare applicazione alla l.c.a. bancaria, il quale, come noto, almeno secondo l’interpretazione prevalente, consente la prosecuzione dell’azione di risoluzione di cognizione ordinaria dopo il fallimento del convenuto, anche se la richiesta sia restitutoria e/o risarcitoria [33]. È pur vero che con puntualità è stato osservato che nella l.c.a. il divieto si estende a tutte le azioni di cognizione, poiché non è prevista la possibilità di ritorno in bonis dell’ente sottoposto alla procedura, mentre nel fallimento ex art. 51 L. fall. esso è limitato alle azioni esecutive [34]; eppure non parrebbe del tutto giustificabile una deroga così macroscopica ai princìpi dell’ordinamento concorsuale, nel quale le azioni di accertamento sono comunque pur sempre ammissibili [35].
Oggi è pacifico, sempre con riferimento alle prospettazioni dei richiedenti l’ammissione, che essi pretendono dal Giudice dello stato passivo l’accertamento e la declaratoria delle invalidità delle “operazioni baciate”, e dunque di tutti quei negozi giuridici (collegati), in cui queste si fossero articolate (contratti di finanziamento e di acquisto/sottoscrizione di titoli), facendone derivare il diritto a vedersi restituito il prezzo pagato per l’acquisto/sottoscrizione dei titoli [42], da compensarsi con il diritto delle l.c.a. di ottenere l’importo corrisposto quale finanziamento per la sottoscrizione dei titoli medesimi [43]. Pare allora altrettanto sicuro che non può esserci discussione con riferimento alla considerazione che in questo modo i ricorrenti non intendono insinuare un credito al passivo del fallimento, né essi mirano a ottenere il riconoscimento di un diritto di partecipare al concorso (e a un piano di riparto). Ne deriva, almeno secondo la migliore dottrina fallimentare, la tesi dell’esclusione della possibilità che tale credito possa essere verificato in sede concorsuale [44], quantomeno con riguardo al fallimento e alle l.c.a. diverse da quelle bancarie.
Ne dovrebbero allora derivare le due possibili seguenti alternative.
O le pretese dei ricorrenti aventi a oggetto la nullità delle “operazioni baciate” non possono essere devolute, anche dopo l’apertura del procedimento di formazione dello stato passivo, avanti al Giudice (dello stato passivo) delle l.c.a. bancarie, con conseguente attribuzione delle medesime alle diverse Corti di merito, secondo l’opzione ricostruttiva che si preferisca accogliere [45]. Infatti, tali giudizi non hanno alcuna capacità d’incidere su un possibile piano di riparto, come insegna la seconda teorica illustrata nel paragrafo precedente.
Oppure il Giudice dello stato passivo è competente a conoscere di tali azioni demolitorie, non perché l’abbia stabilito in modo inderogabile l’art. 83, comma 3, T.U.B., ma in forza dell’interpretazione degli artt. 92 ss., che pare discendere dalla lettura (maggioritaria in dottrina) dell’art. 24 L. fall. Dal punto di vista sistematico, appare, infatti, possibile attribuire al Giudice dello stato passivo ogni questione che, a prescindere dalla possibilità della medesima d’interferire con un eventuale piano di riparto, debba essere decisa nel contraddittorio di tutti creditori, come indicano gli artt. 95, 97 e soprattutto 98, commi 3 e 4, L. fall., poiché in grado d’incidere sul patrimonio del fallito, non tanto perché gravano il passivo (come ogni insinuazione), quanto perché diminuiscono l’attivo. Se dovesse essere quest’ultima la tesi che dovesse prevalere, come si diceva, essa non sarebbe tanto il risultato di una interpretazione estensiva dell’art. 83 T.U.B., nel senso di una sua portata onnicomprensiva del divieto sancito dal comma 3, con conseguente devoluzione al Giudice dello stato passivo di tali controversie. Quanto la conferma che l’art. 24 L. fall. non si limita a fissare una competenza per materia ma, letto in relazione agli artt. 43, 52, comma 2, cui rinviano gli artt. 92 ss. L. fall., introduce un rito speciale ed esclusivo per l’accertamento dei crediti della massa fallimentare. Da questo punto di vista, esso disciplina tutte le azioni proposte dai terzi contro il fallimento, se in grado d’incidere sul patrimonio del medesimo[46] riducendone la consistenza, non solo perché aumentano il passivo, ma anche perché possono diminuire l’attivo.
Note: