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Saggio

Brevi note sulla liquidazione giudiziale omisso medio*

Federico Pani, Giudice delegato presso il Tribunale di Arezzo

2 Gennaio 2024

*Il saggio è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
Il presente contributo affronta la tematica della ammissibilità della liquidazione giudiziale c.d. omisso medio. In particolare, viene ripercorso il dibattito, dottrinale e giurisprudenziale, sviluppatosi sotto il vigore della legge fallimentare, il cui percorso è culminato della pronuncia a Sezioni Unite n. 4696 del 14 febbraio 2022. In seguito, vengono descritti e sottoposti ad analisi critica gli orientamenti sviluppatisi sul tema presso la giurisprudenza di merito in seguito all’entrata in vigore del Codice della crisi. 
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1 . Cenni introduttivi
Il c.d. fallimento omisso medio ha rappresentato a lungo uno degli argomenti più divisivi nel contesto del diritto concorsuale, vedendo contrapposti non soltanto la dottrina maggioritaria e la giurisprudenza, ma anche la magistratura stessa, avendo la Corte di cassazione (quasi) unanimemente assunto un indirizzo non condiviso da un numero cospicuo di pronunce dei giudici di merito. In tempi più recenti lo scontro dottrina-giurisprudenza sembra per il vero essersi sopito. L’improvviso silenzio calato sul tema non sembra tanto dipendere dalla (pur molto importante) pronuncia assunta dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione nel febbraio 2022, quanto dall’entrata in vigore del D.Lgs. n. 14/2019, altrimenti noto come Codice della crisi, avvenuta nel luglio del 2022. Come chiaramente evincibile dalla relazione di accompagnamento al correttivo dell’ottobre 2020, infatti, il legislatore ha voluto prendere espressamente posizione sul tema, sposando la tesi dottrinale, contraria alla possibilità di apertura di liquidazione giudiziale senza previa risoluzione del concordo.
L’argomento, tuttavia, è ben lungi dal potersi ritenere archiviato. Come dimostrano diverse pronunce della giurisprudenza di merito successive all’avvento del Codice della crisi, infatti, è fortemente dibattuto quale sia il perimetro applicativo della nuova regola dettata dall’art. 119, comma 7, e con ciò se tuttora vi sia o meno uno spazio per il fallimento (rectius: la liquidazione giudiziale) omisso medio.
Per comprendere compiutamente i termini del dibattito recente, quindi, pare ineludibile ripercorrere brevemente le tappe che hanno preceduto l’entrata in vigore del Codice ed inquadrare (sinteticamente) il fenomeno del c.d. fallimento omisso medio.
2 . Il fallimento omisso medio: dal contrasto giurisprudenziale (e dottrinale) alla pronuncia delle Sezioni Unite
Di fallimento omisso medio si è cominciato a parlare dopo le riforme del 2006-2007 che, modificando tanto l'art. 137 quanto l'art. 186 L. fall., avevano eliminato il potere del Tribunale di dichiarare d'ufficio la risoluzione del concordato e la successiva apertura del fallimento. In particolare, la risoluzione era divenuta un mezzo processuale nell'esclusiva disponibilità dei creditori, e allo stesso modo solo i creditori (e il pubblico ministero) avevano mantenuto il diritto di chiedere la dichiarazione di fallimento dell'imprenditore insolvente. Essendo dunque tramontata la prospettiva della risoluzione del concordato (seguita dal fallimento) d'ufficio, ci si era domandati se fosse possibile addivenire alla declaratoria di fallimento senza la previa risoluzione del concordato su iniziativa degli unici soggetti legittimati. In ciò, per l’appunto, consiste il fallimento omisso medio: nella declaratoria di fallimento dell’imprenditore nell’ambito dell’esecuzione di un concordato preventivo omologato senza che prima uno dei creditori abbia (con successo e nei termini) azionato il proprio diritto di risoluzione.
I primi arresti giurisprudenziali avevano risposto all’interrogativo in modo sostanzialmente univoco, e precisamente in senso favorevole al fallimento omisso medio[1]. Tale approdo ermeneutico era indubbiamente influenzato dall’autorevole precedente della Corte costituzionale[2] che, sotto il vigore della disciplina previgente, aveva suggerito al giudice remittente un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 186 L. fall. nel senso che fosse possibile addivenire alla dichiarazione di fallimento di un imprenditore in concordato anche nel caso in cui non fosse stato previamente risolto il concordato, “ferma l’obbligatorietà del concordato per tutti i creditori anteriori al decreto di apertura”, con ciò intendendo che il fallimento si aprirebbe non “in consecuzione” ma in via autonoma, avuto riguardo ai crediti nella misura falcidiata e non in quella originaria.
Questa impostazione veniva avallata fin da subito dalla Suprema Corte con due pronunce a distanza di poco tempo l’una dall’altra[3], mentre invece la dottrina si esprimeva in gran parte in senso critico, anche rimarcando l’eccezionalità del precedente della Consulta[4]. Sull’onda del formante dottrinale, una parte della giurisprudenza di merito aveva cominciato a remare con forza nella direzione opposta rispetto all’orientamento pretorio allora maggioritario[5], trovando peraltro un importante sponda (sia pure solo in obiter dictum) da parte degli stessi giudici di Piazza Cavour[6].
È in questo scenario che, del tutto opportunamente, si sono inserite dapprima l’ordinanza interlocutoria n. 8919 del 31 marzo 2021 della prima sezione civile della Corte di cassazione e, poi, la sentenza delle Sezioni Unite n. 4696 del 14 febbraio 2022. L’ordinanza ex art. 374, comma 2, c.p.c. passa sostanzialmente in rassegna gli argomenti critici mossi avverso l’indirizzo fino a quel momento consolidatosi presso la giurisprudenza di legittimità, mostrando peraltro di condividerli. Le Sezioni Unite, tuttavia, hanno riaffermato la perfetta percorribilità del fallimento omisso medio, prendendo posizione su tutti i rilievi sollevati dall’opposto indirizzo[7].
Alla base dei due approcci si pone, indubbiamente, la diversa portata assegnata all’art. 184 L. fall. e, dunque, il diverso modo di intendere l’obbligatorietà degli effetti del concordato omologato per i creditori anteriori alla pubblicazione del ricorso nel registro delle imprese.
Invero, i sostenitori della necessità della previa risoluzione del concordato preventivo sono dell’avviso che l’omologa produca un effetto “esdebitativo”, creando quindi una cesura tra insolvenza passata (definitivamente superata dalla proposta accettata dai creditori) e insolvenza futura (coinvolgente i soli crediti successivi al deposito del ricorso e quindi riguardante i creditori per i quali gli effetti obbligatori non si sarebbero prodotti). L’omologa, insomma, regolerebbe in maniera definitiva l’insolvenza passata salvo che, per l’appunto, i creditori non chiedano ed ottengano la risoluzione del concordato, facendo venir meno l’effetto “esdebitativo” e, con esso, la coessenziale preclusione alla possibilità (id est legittimazione) di domandare il fallimento dell’imprenditore. Lo spirare del termine annuale dall'ultimo adempimento previsto dal concordato, quindi, determinerebbe un effetto decadenziale assolutamente importante giacché per i creditori passati non sarebbe più possibile rimettere in discussione l’insolvenza regolata dal concordato.
Corollario processuale di tale approccio è vedere nell’art. 186 L. fall. una norma speciale rispetto alla regola generale dettata dagli artt. 5 e 6 della stessa legge. Se, infatti, si ammette che l’insolvenza precedente al deposito del ricorso è regolata e allo stesso tempo superata dal concordato omologato, allora non si può che concludere nel senso che la legittimazione a domandare il fallimento sussiste in capo al creditore antecedente (ma anche al pubblico ministero) in tanto in quanto abbia prima fatto venire meno gli effetti obbligatori del concordato stesso.
Del tutto opposta è la chiave di lettura data dall’orientamento maggioritario della giurisprudenza, poi suggellato dalle Sezioni Unite. Questo diverso approccio, infatti, ridimensiona molto l’effetto obbligatorio del concordato il quale non coincide affatto con una sorta di “esdebitamento” dell’imprenditore, bensì, piuttosto, con la falcidia tanto quantitativa quanto temporale del diritto di credito. Detto in altri termini, ciò che i creditori accetterebbero (o si vedrebbero imposto dalla maggioranza, per i dissenzienti) sarebbe solo ed esclusivamente la ristrutturazione del proprio diritto patrimoniale sia in ordine all’ammontare concretamente esigibile (che, almeno per alcune categorie di creditori, risulta inferiore a quello oggetto dell’obbligazione), sia in relazione alle tempistiche di adempimento (più dilatate rispetto a quelle originariamente concordate); nulla di più. L’omesso esercizio dell’azione di risoluzione disciplinata dall’art. 186 L. fall. e, così come l’istanza di fallimento promossa prima ancora dello spirare del termine annuale previsto dalla stessa disposizione, avrebbe come unico effetto quello di consolidare la falcidia concordataria, ma non farebbe venire meno né l’insolvenza (non essendosi essa risolta con l’omologa del concordato), né la legittimazione ad agire del creditore (e del pubblico ministero). A tale conclusione si associa anche la conseguenza che, nel fallimento omisso medio, i creditori possano insinuare il proprio credito nella misura falcidiata, salvo che il fallimento non sia stato dichiarato prima ancora della scadenza del termine per l’adempimento[8].
Da qui il precipitato processuale dell’assenza di un rapporto da genere a specie tra gli artt. 6 e 7 della L. fall. e il successivo art. 186. Tali norme, infatti, avrebbero due oggetti distinti, regolando l’art. 186 unicamente un rimedio para-contrattualistico il cui scopo unico sarebbe quello di eliminare gli effetti dilatori e remissori, senza alcun risvolto sul fenomeno della insolvenza.
3 . L’avvento del Codice della crisi e le posizioni assunte dalla giurisprudenza di merito
Come noto, il 15 luglio 2022 è entrato in vigore il c.d. Codice della crisi (D.lgs. n. 14/2019) dopo una lunga vacatio legis e svariati interventi correttivi. Tra di essi può annoverarsi anche il D.Lgs. n. 147/2020 che ha inserito all’art. 119 (che rappresenta l’erede del vecchio art. 186 L. fall.) il settimo ed ultimo comma che così recita: “il tribunale dichiara aperta la liquidazione giudiziale solo a seguito della risoluzione del concordato, salvo che lo stato di insolvenza consegua a debiti sorti successivamente al deposito della domanda di apertura del concordato preventivo”. Com’è evidente, il legislatore, con l’intento dichiarato di “colmare un vuoto normativo che ha dato origine a dubbi interpretativi”[9], ha sposato la tesi dottrinale e superato l’orientamento che, poco più di un anno e mezzo dopo, sarà riaffermato dalle Sezioni Unite[10].
A prescindere dal carattere condivisibile o meno della regola impressa nel Codice (profilo che esula dagli scopi del presente lavoro), va salutato senz’altro con favore il fatto che il legislatore abbia approfittato del nuovo corpus normativo per fare chiarezza su un tema così delicato. Sennonché, rimane da “gestire” il passaggio di consegne dalla legge fallimentare al Codice della crisi. Si pone, in buona sostanza, una questione di natura prettamente intertemporale e che coinvolge essenzialmente tutti i concordati preventivi sorti nel contesto della legge fallimentare.
Il Codice, ovviamente, non è insensibile alla tematica de qua. L’art. 390 è sicuramente molto chiaro su un aspetto, ovvero sul fatto che, a decorrere dal 15 luglio 2022, non è più possibile avanzare una domanda volta all’apertura di un fallimento. Così recita infatti il comma 1: “i ricorsi per dichiarazione di fallimento […] depositati prima dell’entrata in vigore del presente decreto sono definiti secondo le disposizioni del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 […]”; se ne desume, a contrario, che i ricorsi depositati successivamente sono invece regolati dal Codice, per cui può aprirsi unicamente la liquidazione giudiziale. Proprio tale conclusione, tuttavia, ha destato incertezze in ordine alla disciplina applicabile alle domande volte all’apertura della liquidazione giudiziale che vedano coinvolta come legittimata passiva un’impresa che si trovi nella fase esecutiva di un concordato preventivo omologato sotto il vigore della legge fallimentare.
La tesi che, allo stato, sembra maggioritaria[11] è quella che propende per l’impossibilità di aprire una liquidazione giudiziale senza che sia stato prima risolto il concordato in corso di esecuzione, indipendentemente dal fatto che il concordato sia stato omologato sotto il vigore della legge fallimentare o, piuttosto, sotto il vigore del Codice. Questa tesi poggia su una precisa interpretazione dell'art. 390, comma 2, che così recita: “le procedure di fallimento e le altre procedure di cui al comma 1 [e quindi anche i concordati preventivi, n.d.r.], pendenti alla data di entrata in vigore del presente decreto, nonché le procedure aperte a seguito della definizione dei ricorsi e delle domande di cui al medesimo comma sono definite secondo le disposizioni del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nonché della legge 27 gennaio 2012, n. 3”. Secondo questo filone ermeneutico, un concordato preventivo omologato prima dell’entrata in vigore del Codice non può considerarsi “pendente”, giacché con l’omologa si determina la chiusura del procedimento di concordato preventivo. E dal momento che, in base al primo comma del medesimo art. 390, soltanto le istanze di fallimento depositate prima dell’entrata in vigore del Codice sono regolate dalla legge fallimentare, un’istanza volta all’apertura della liquidazione giudiziale depositata oggi, e avente ad oggetto un’impresa che sta eseguendo un concordato preventivo omologato prima dell’entrata in vigore del Codice, non può che essere trattata con le regole dettate dal nuovo corpus normativo. Da qui, per l’appunto, l’inammissibilità della liquidazione giudiziale omisso medio, giacché l’art. 119, comma 7, CCII esclude che possa aprirsi la procedura concorsuale maggiore se prima non vi sia stata la risoluzione del concordato.
Una variante originale dell’indirizzo appena sintetizzato è quella adottata dal Tribunale di Cosenza[12]. Secondo il giudice calabrese, è senz'altro vero che oggi troverebbe applicazione solo l'art. 119, comma 7, e che quindi la risoluzione sarebbe una condizione di procedibilità delle domande volte all'apertura della liquidazione giudiziale da parte di creditori assoggettati al concordato, ma tale regola varrebbe soltanto se il creditore facesse valere il suo intero credito e non già quello falcidiato. In quest'ultimo caso, dal momento che l'omologa del concordato non determina un effetto esdebitativo automatico e che quindi il debito in capo all’impresa persiste anche una volta spirato il termine per la risoluzione, sia pure nel quantum oggetto di falcidia, dovrebbe concludersi che quel debito si è determinato successivamente al deposito della domanda di apertura del concordato preventivo, di talché il creditore potrebbe comunque agire per l'apertura della liquidazione giudiziale, ma spendendo soltanto il credito nella misura falcidiata dalla proposta (come consentito proprio dal comma settimo dell’art. 119).
Una diversa tesi (sostenuta dal Tribunale di Siracusa, nella pronuncia riformata dalla sentenza della Corte d’Appello etnea poc’anzi citata), pur muovendo dall’assunto della non applicabilità dell'art. 390 (giacché il concordato omologato in corso di esecuzione non potrebbe considerarsi né una procedura "pendente", né una procedura ancora "aperta"), esclude che possa applicarsi l'art. 119 e sostiene che, piuttosto, trovino applicazione le regole generali della successione delle leggi nel tempo nei rapporti contrattuali. Consegue a ciò che un concordato in corso di esecuzione, esattamente come un contratto nella sua fase esecutiva, deve essere regolato sulla base della legge applicabile all'epoca in cui le obbligazioni sono sorte. A sostegno di tale soluzione, il Tribunale siciliano fa anche leva sul principio di legittimo affidamento, osservando come il diritto vivente formatosi sotto il vigore della legge fallimentare (e quindi al tempo in cui i concordati erano stati omologati dai creditori) deponeva nel senso dell'ammissibilità del fallimento senza previa risoluzione, di talché escludere oggi che quegli stessi creditori possano domandare la liquidazione giudiziale omisso medio equivarrebbe a "cambiare le regole in corsa" e tradire l'affidamento riposto sull'immutabilità della disciplina applicabile al rapporto para-contrattuale.
Un’ulteriore linea interpretativa è stata invece seguita dal Tribunale di Prato[13]. Il collegio giudicante, in questo caso, ha privilegiato un'interpretazione estensiva della norma transitoria dettata dall’art. 390, comma 2, ritenendo che un concordato in fase di esecuzione ma omologato prima dell'entrata in vigore del Codice rientri tra “le procedure aperte a seguito della definizione dei ricorsi e delle domande” depositate sotto il vigore della legge fallimentare, e soggiaccia, dunque, alle medesime (vecchie) regole, per come interpretate all'epoca dalla Suprema Corte. L'applicazione dell'art. 119 CCII, in quest'ottica, rimarrebbe "confinata" ai concordati preventivi proposti, aperti ed omologati nella vigenza del Codice.
4 . Considerazioni sull’ammissibilità della liquidazione giudiziale omisso medio
Come visto, il panorama giurisprudenziale si presenta ad oggi piuttosto frastagliato e non manca neppure qualche spunto argomentativo del tutto innovativo. Sotto quest’ultimo profilo, tra le pronunce passate in rassegna spicca senza ombra di dubbio il precedente cosentino che, tuttavia, non pare porsi molto in linea con l’insegnamento tradizionale. Invero, i debiti oggetto di falcidia non sorgono «successivamente» al deposito della domanda di apertura del concordato preventivo. Trattasi di debiti che trovano pacificamente la loro causa in fatti generatori anteriori alla promozione del ricorso giudiziale, ma che vengono ritoccati sia nel quantum che nel loro orizzonte temporale di adempimento per mezzo del concordato che, una volta omologato, “ristruttura” l’insolvenza. Ristrutturazione (o falcidia, che dir si voglia) che, nel caso in cui decorra il termine annuale utile per la richiesta di risoluzione, si stabilizza, di talché l’insolvenza – come riaffermato dalla pronuncia delle Sezioni Unite del febbraio 2022 – “non rileva più nella sua manifestazione d’origine ma, eventualmente, solo in quella rinveniente dalla mancata esecuzione del patto concordatario”.
D’altro canto, la ratio sottesa all’introduzione dell’ultimo comma dell’art. 119 è piuttosto chiara ed è già stata oggetto di analisi: il legislatore ha preso posizione nel dibattito dottrinale-giurisprudenziale sul fallimento omisso medio chiarendo definitivamente che, una volta spirato il termine annuale per la risoluzione del concordato, per i creditori “falcidiati” non vi è più nessuno spazio per provocare la liquidazione giudiziale dell’imprenditore. L’interpretazione data dal giudice calabrese, com’è evidente, depotenzierebbe totalmente l’intervento riformatore, lasciando le cose esattamente come erano prima.
Prima di passare alla disamina critica degli altri orientamenti, sembra opportuno soffermare maggiormente l’attenzione sull’art. 119 e, soprattutto, sul contesto entro il quale esso risulta inserito. La disposizione è collocata nella sezione VI del capo III (disciplinante il concordato preventivo) del titolo IV (disciplinante gli strumenti di regolazione della crisi); sezione che si occupa della “omologazione del concordato preventivo” ma che detta, sia pure in maniera piuttosto scarna, anche delle norme che concernono l’esecuzione del concordato successivamente all’omologazione (precisamente dall’art. 114 all’art. 120). Diverse sono le disposizioni che dettano regole innovative (o parzialmente innovative) rispetto al tessuto normativo previgente. A mero titolo esemplificativo: - l’art. 115 sancisce espressamente che il liquidatore (nel concordato liquidatorio) è legittimato ad esercitare l’azione sociale di responsabilità contro gli amministratori; legittimazione invece messa in dubbio sotto il vigore della legge fallimentare[14]; - ai sensi dell’art. 118, il commissario giudiziale è tenuto ogni sei mesi a presentare una relazione di aggiornamento nel corso dell’esecuzione e, conclusa l’esecuzione, deve depositare un rapporto riepilogativo (incombenze non previste nell’art. 185 L. fall.); - sempre ai sensi dell’art. 118, il commissario giudiziale può rilevare l’inerzia del debitore nel compimento degli atti necessari a dare esecuzione alla proposta e al piano sempre, e non solo quando è stato omologato un concordato concorrente (come invece sembrava prevedere l’art. 185 L. fall.); - la legittimazione a chiedere la risoluzione o l’annullamento del concordato preventivo è attribuita anche al commissario giudiziale (artt. 119 e 120); - infine, come più volte detto, non può dichiararsi la liquidazione giudiziale se prima non sia stato risolto il concordato (art. 119, settimo ed ultimo comma).
Orbene, sembra evidente che il Codice detta una (nuova) disciplina organica, integralmente sostitutiva di quella previgente, discostandosene sotto pochi (ma non poco significativi) profili. L’art. 119 rappresenta senza ombra di dubbio il più eclatante esempio: se da un lato il legislatore ha chiarito che i creditori concorsuali possono agire per l’apertura della liquidazione giudiziale solo se prima hanno domandato la risoluzione (così responsabilizzandoli rispetto alla gestione del proprio credito nell’ambito dell’esecuzione concordataria), dall’altro lato – allo scopo di prevenire il fenomeno dei c.d. concordati dormienti – pur non avendo riesumato la categoria della “liquidazione giudiziale d’ufficio”, ha attribuito la legittimazione a chiedere la risoluzione al commissario giudiziale, previa istanza di uno o più creditori. Pare chiaro che, con queste due modifiche rispetto all’assetto previgente, il Codice delinei un nuovo bilanciamento d’interessi, determinando un mutamento molto forte del ruolo del commissario giudiziale nella fase esecutiva del concordato (come anche riprovato dalle novità inserite nell’art. 118, sopra accennate).
Ecco, pare del tutto ragionevole affermare che tale nuovo assetto complessivo non possa essere applicato “a singhiozzo” e quindi che, se si è pronti a sostenere che il comma settimo dell’art. 119 si applica a tutti i concordati in corso di esecuzione (come sostenuto dal primo degli orientamenti descritti), allora si debba del pari essere pronti ad affermare che anche il commissario ha legittimazione ad agire, così come ad applicare tutte le altre novità apportate dal Codice; e ciò anche a concordati che potrebbero essere stati omologati un decennio fa.
L’orientamento ad oggi maggioritario non pare aver debitamente tenuto conto di tale aspetto. Si intende con ciò rimarcare il fatto che limitare il raggio visuale al solo ultimo comma dell’art. 119 per risolvere la tematica della liquidazione giudiziale omisso medio, senza però tenere conto dei risvolti sistematici che necessariamente una simile conclusione può portare con sé, non sembra costituire un’operazione ermeneutica esaustiva. Prendendo però in debita considerazione tutte le implicazioni che discendono dall’applicazione dell’art. 119, comma 7, l’approdo interpretativo al quale perviene l’orientamento in esame pare tutt’altro che persuasivo, giacché risulta platealmente distonico sul piano sistematico applicare a concordati omologati anni fa le regole per l’esecuzione dei concordati dettate dal Codice della crisi, in primis la legittimazione del commissario giudiziale a domandare la risoluzione di un concordato.
È tenendo conto dei superiori ragionamenti che ci si deve approcciare anche allo “spartiacque” dettato dall’art. 390, comma 2, e pervenire quindi all’interpretazione più ragionevole. Tale disposizione – lo si rammenta – così recita: “le procedure di fallimento e le altre procedure di cui al comma 1, pendenti alla data di entrata in vigore del presente decreto, nonché le procedure aperte a seguito della definizione dei ricorsi e delle domande di cui al medesimo comma sono definite secondo le disposizioni del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nonché della legge 27 gennaio 2012, n. 3”. Le procedure di cui al comma primo (oltre al fallimento) sono le seguenti: - concordato fallimentare; - accordi di ristrutturazione; - concordato preventivo; - liquidazione coatta amministrativa; - liquidazione del patrimonio del sovraindebitato; - piano del consumatore; - accordo di ristrutturazione dei debiti del sovraindebitato.
Ora, il comma 2 limita l’applicazione della disciplina previgente alle procedure “pendenti” alla data di entrata in vigore del decreto e alle “procedure aperte” a seguito del deposito di uno dei ricorsi del comma primo. Adottando una chiave di lettura squisitamente formale – che è quella seguita dal primo orientamento, ma anche dal Tribunale di Siracusa – si dovrebbe concludere che il concordato preventivo omologato prima dell’entrata in vigore del Codice non rientri nel novero di quelle procedure alle quali si applica la legge fallimentare. Ed infatti, la procedura di concordato si apre con il decreto di cui all’art. 162 L. fall. (usualmente dopo la fase c.d. in bianco) e – soprattutto – si chiude con l’omologazione (art. 181 L. fall.), cessando quindi con il provvedimento omologativo la pendenza del procedimento giurisdizionale.
Una simile interpretazione, tuttavia, risulta fin troppo semplicistica poiché non tiene debitamente conto del fatto che quando il legislatore ha parlato di “procedure pendenti” e “procedure aperte” lo ha fatto riferendosi a un’ampia congerie di strumenti di regolazione della crisi tra di loro assolutamente eterogenei sia come finalità che – ed è ciò che più rileva – come struttura procedimentale. In alcuni casi (concordato preventivo e concordato fallimentare) l’apertura della procedura determina essa stessa la pendenza e il procedimento si esaurisce non già con l’apertura di una procedura concorsuale (come accade per fallimento, liquidazione del patrimonio e liquidazione coatta amministrativa), ma con l’omologazione di un “accordo” (atecnicamente inteso) tra debitore e creditori sulla cui corretta esecuzione il Tribunale vigila con varie graduazioni di intervento. In altri casi (accordo di ristrutturazione, piano del consumatore e accordo di ristrutturazione dei debiti del sovraindebitato) non vi è mai neppure una formale apertura, e in un caso (l’accordo di ristrutturazione) l’omologazione esaurisce il compito del Tribunale, mentre negli altri casi (piano del consumatore e accordo di ristrutturazione dei debiti del sovraindebitato) si apre una fase esecutiva la cui vigilanza spetta al “giudice investito della procedura”. Una vera e propria apertura (che però coincide anche con la fase esecutiva della liquidazione), scissa in senso stretto dalla pendenza di un’altra procedura (quella “prefallimentare” o comunque pre-liquidatoria), c’è invece per il fallimento, per la liquidazione coatta amministrativa e per la liquidazione del patrimonio del sovraindebitato.
Tale considerazione deve indurre a ritenere che il termine “apertura” è stato utilizzato dal legislatore in senso atecnico e lato, intendendosi con esso l'inizio della fase immediatamente successiva alla chiusura del procedimento "pendente", e quindi, per il concordato preventivo, la fase successiva all'omologazione.
In buona sostanza, e in sostanziale adesione all’orientamento già sposato dal Tribunale di Prato, la portata omnicomprensiva del secondo comma dell’art. 390 sta a significare una cosa molto semplice: che tutti i concordati preventivi nati (vuoi perché è stata già depositata la domanda, vuoi perché il procedimento è già pendente, vuoi perché il concordato è già giunto all’omologa) sotto il vigore della legge fallimentare sono regolati solo ed esclusivamente da tale legge.
Ciò, come già accennato, evita che si facciano applicazioni “selettive” della disciplina oggi dettata per la fase esecutiva del concordato preventivo, la quale trova applicazione solo per i concordati preventivi nati nel contesto del Codice.
Come peraltro sottolineato dal Tribunale di Siracusa nella pronuncia già richiamata, tale inquadramento risulta anche maggiormente rispettoso del principio di affidamento. È ovviamente ben noto che nel nostro ordinamento non esiste il principio dello stare decisis, ma è un dato di fatto che la giurisprudenza largamente maggioritaria (prima ancora del suggello delle Sezioni Unite) interpretava l’art. 186 L. fall. nel senso che fosse ammissibile il fallimento omisso medio, ed è dunque ragionevole affermare che i creditori, nella convinzione che le regole del gioco non potessero mutare “in corsa”, abbiano fatto affidamento su un simile orientamento, tanto più dopo la pronuncia delle Sezioni Unite del febbraio 2022. È insomma ragionevole dire che i creditori, nell’orientare le proprie scelte e decidere quindi se “attaccare” subito il debitore resosi inadempiente rispetto alle tempistiche del concordato o, piuttosto, tollerare un ritardo nella speranza di una futura ripresa (e pur consci del consolidamento della falcidia, sovente per il vero pur nulla rilevante stante i gradi di soddisfazione cui usualmente i creditori possono aspirare in un fallimento conseguente a un concordato preventivo naufragato), abbiano riposto affidamento sull’applicazione del regime vigente nella data in cui era stato omologato il concordato preventivo.
La soluzione qui proposta, inoltre, pare essere stata avallata dalle stesse Sezioni Unite. Nell’ordito motivazionale, infatti, si legge che, anche qualora il Codice fosse già stato in vigore, comunque il settimo comma dell’art. 119 non avrebbe potuto governare la fattispecie lì decisa “visto il regime transitorio previsto nell’art.390, co. 1^ e l'assoggettamento delle procedure pendenti alla disciplina previgente”[15].
Tutto ciò posto, ci si potrebbe anche domandare se, una volta concluso nel senso che un concordato preventivo in fase esecutiva apertosi a definizione di una domanda depositata prima dell’entrata in vigore del Codice soggiace alle norme della legge fallimentare, si debba altresì coerentemente ritenere che l’imprenditore (con o senza previa risoluzione del concordato) sia soggetto a fallimento anziché a liquidazione giudiziale. Detto in altri termini, l’interpretazione qui propugnata, se portata alle estreme conseguenze, potrebbe comportare una sorta di ultrattività dei fallimenti poiché tutti i concordati preventivi introdotti ante Codice che dovessero finire per naufragare nei prossimi anni dovrebbero sfociare in procedure fallimentari anziché in liquidazioni giudiziali. Insomma, e tornando allo specifico oggetto del presente contributo, dovrebbe continuare a parlarsi di fallimenti omisso medio e giammai potrebbe invece parlarsi di liquidazioni giudiziali omisso medio.
Trattasi di una conclusione che non pare necessitata. Ed infatti, per quanto la fase esecutiva dei concordati preventivi depositati prima del Codice segua le vecchie regole, con la conseguenza che l’omessa risoluzione del concordato nei termini produce il solo effetto di stabilizzare la falcidia e non anche l’impossibilità di far valere in giudizio la persistenza dell’insolvenza e provocare così l’apertura della procedura concorsuale maggiore, affinché quest’ultima possa aprirsi è pur sempre necessaria un’autonoma domanda. Domanda che non può che essere introdotta sulla base delle regole vigenti, che sono quelle dettate dagli artt. 40 e seguenti del Codice, anche in virtù di quanto sancito dall’art. 390, comma 1, e cioè che la legge fallimentare si applica soltanto ai ricorsi per dichiarazione di fallimento depositati prima dell’entrata in vigore del Codice medesimo. Ciò, peraltro, senza che sia di alcun ostacolo il disposto di cui all’art. 119, comma 7, giacché, come già detto, la sua applicazione rimane confinata a quei concordati preventivi sorti a seguito di una domanda depositata dopo l’entrata in vigore del Codice.

Note:

[1] 
Si vedano tra le altre Trib. Venezia, 6 novembre 2015, in Ilcaso.it; Trib. Napoli Nord, 29 aprile 2016, in Ilcaso.it; Trib. Torino, 26 luglio 2016, in Ilfallimentarista.it; Trib. Treviso, 10 gennaio 2017, in Unijuris.it.
[2] 
Corte cost. 2 aprile 2004, n. 106.
[3] 
Cfr. Cass., Sez. 6, 17 luglio 2017, n. 17703 e Cass., Sez. 6, 11 dicembre 2017, n. 29632.
[4] 
S. Ambrosini, La risoluzione del concordato preventivo e la (successiva?) dichiarazione di fallimento: profili ricostruttivi del sistema, in Ilcaso.it; Id, Inadempimento del concordato preventivo: fallimento omisso medio o previa risoluzione? La parola alle Sezioni unite, in Ilcaso.it; F. Casa, "Per la contraddizion che nol consente": una critica ad una lettura anti-sistemica degli artt. 168 e 186 l. fall., in Il Fall., 2017, 8-9, pp. 975-984; A. Pezzano e M. Ratti, L'irrealizzabile esecuzione del concordato preventivo: il fallimento senza risoluzione, in Il Fall., 2018, 6, pp. 744-755. Contra, però, si veda G. D’Attorre, Concordato omologato e fallimento successivo, in Dir. fall. e soc. comm., 2016, 5, p. 1347 e seguenti.
[5] 
Tra le altre si vedano Trib. Pistoia, 20 dicembre 2017, in Ilcaso.it; Trib. Campobasso, 14 febbraio 2019, in Altalex.it; App. Firenze, 16 maggio 2019, in Ilcaso.it.
[6] 
Si allude a Cass., Sez. 1, 22 maggio 2019, n. 13850 che, nell’affrontare una fattispecie coinvolgente un accordo di ristrutturazione, aveva qualificato come non consolidati gli approdi cui erano giunte le due pronunce del 2017, suggerendo anzi la soluzione diametralmente opposta «non solo perché la domanda di concordato rappresenta concettualmente un minus rispetto al concordato omologato, ma anche in considerazione del vincolo obbligatorio creato dall'art. 184, comma 1, legge fall. (non a torto descritto come proiezione concorsuale del principio civilistico di cui all'art. 1372 cod. civ.), dell'effetto esdebitatorio dell'omologazione (cui consegue il ritorno in bonis del debitore), della specialità della disposizione di cui all'art. 186 (ivi compreso il termine di decadenza annuale) rispetto all'art. 6 della legge fall., e (non ultimo) dell'interesse concreto dei creditori alla declaratoria di fallimento nella misura originaria dei crediti, piuttosto che nella misura falcidiata, che finirebbe sostanzialmente per comportare solo un incremento dei costi per l'apertura di un'ulteriore procedura concorsuale».
[7] 
Per un’approfondita disamina della pronuncia si rimanda a F. De Santis, Le Sezioni Unite e la dichiarazione di fallimento omisso medio, in Il Fall., 2022, 4, p. 467 e seguenti.
[8] 
Si vedano Cass., Sez. 1, 17 ottobre 2018, n. 26002 e Cass., Sez. 6, 22 giugno 2020, n. 12085.
[9] 
Si veda infatti la relazione di accompagnamento, reperibile nel sito internet https://documenti.camera.it/Leg18/Dossier/Pdf/gi0123.Pdf.
[10] 
Per meglio dire, tra i primi commentatori della riforma c’è chi ha sostenuto che, anche nel nuovo assetto normativo, dopo lo spirare del termine annuale sarebbe comunque possibile domandare l’apertura della liquidazione giudiziale (si allude ad A. Barletta, La mancata risoluzione del concordato preventivo omologato non esclude la fallibilità. Considerazioni per un'interpretazione restrittiva del nuovo art. 119, comma 7°, c.c.i.i., in Banca, borsa e tit. cred, 2022, 6, p. 769 e seguenti). In base a questa tesi, in buona sostanza, il senso del settimo comma si “ridurrebbe” ad imporre ai creditori che intendano provocare l’apertura della liquidazione giudiziale entro la scadenza del termine annuale di chiedere prima (o contestualmente) la risoluzione del concordato, così da far venire meno gli effetti “falcidiativi” propri del concordato, ma non osterebbe alla proposizione di un ricorso simile anche dopo lo spirare del termine. Trattasi di una lettura, tuttavia, non convincente e almeno per il momento non affacciatasi nella giurisprudenza di merito.
[11] 
Si vedano App. Catania, 7 giugno 2023, in Ilcaso.it, e Trib. Ivrea, 18 ottobre 2023, in Dirittodellacrisi.it
[12] 
Trib. Cosenza, 5 luglio 2023, in Ilcaso.it.
[13] 
Trib. Prato, 17 gennaio 2023, in Ilcaso.it
[14] 
Cfr. Trib. Firenze, 3 ottobre 2019, in Ilcaso.it.
[15] 
Il riferimento al primo comma, in realtà, pare frutto di una svista, essendo più pertinente il richiamo al capoverso.

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