Per quanto concerne il piano delle imposte indirette, conviene da subito inquadrare il tema e rammentare che la tassazione degli atti giudiziari trova la sua fonte nell’art. 37 TUR, che testualmente si esprime qualificando come tassabili gli “atti dell’autorità giudiziaria in materia di controversie civili” che “definiscono anche parzialmente il giudizio”: appare evidente che il Legislatore ha ravvisato quale manifestazione di capacità impositiva il fatto che per effetto di un provvedimento giurisdizionale una lite sia definita.
Da un lato, la norma in commento postula l’esistenza di un atto dell’autorità giudiziaria, concetto cui possono essere ricondotte le sentenze, le ordinanze e i decreti di cui alla Parte prima, Titolo sesto, Sezione terza, del Codice di Procedura Civile, che estrinseca norme adattabili ed applicabili alla generalità degli schemi processuali.
Dall’altro, assume l’esistenza di una controversia in materia civile, ciò implicando una lite fra le parti; infatti queste, non formulando un accordo privatamente, incardinano un procedimento giudiziale per addivenire (i) prima, alla composizione della controversia e, (ii) poi, quale formale atto conclusivo, all’emanazione di un provvedimento dotato della decisorietà.
In altri termini, è un procedimento giudiziale che, per l’assoggettabilità ad imposta di registro del suo atto conclusivo, deve inquadrarsi nella giurisdizione civile (
[5]) ed essere volto a chiudersi con una decisione dichiarativa, costitutiva, modificativa, estintiva o ancora di condanna ad un dare o ad un
facere.
Nella prospettiva del Legislatore tributario (e quindi per gli effetti dell’imposta di registro), l’atto deve avere ad oggetto la “definizione” di “controversie”: deve trattarsi, quindi, di un atto recante contenuto decisorio e non meramente ordinatorio (
[6]), per l’effetto rimanendo esclusa da tassazione, a mero titolo esemplificativo, tutta una gamma di provvedimenti, quali (i) quelli con cui venga dichiarata l’estinzione di un processo (
[7]), (ii) il sequestro giudiziario o conservativo (
[8]), (iii) il provvedimento che afferma l’incompetenza territoriale (
[9]), (iv) i provvedimenti di convalida di sfratto per morosità, posto che tali atti costituiscono provvedimenti intesi ad “anticipare” (e non a definire) l’incardinamento della lite (
[10]).
Allo stesso modo, non sono includibili nella fattispecie
de qua i provvedimenti di ripartizione di somme tra i creditori, laddove non vi siano contestuali controversie sottoposte all’autorità giudiziaria (
[11]).
Insomma, la mancanza di un atto diretto a definire controversie sarebbe tale da escludere la ricorrenza delle fattispecie da assoggettare ad imposizione ai fini dell’art. 37 TUR; pertanto, non meraviglia che uno dei motivi di impugnazione riportati nella pronuncia in commento reclamava la mancanza, nel decreto impugnato, della definizione anche solo parziale
di “alcuna controversia civile” (
[12]).
Quindi, ciò chiarito, la domanda che ci si pone è la seguente, ossia se il decreto di omologa nel concordato “definisce” delle controversie (in altre parole, a quale finalità adempia rispetto alla natura della procedura).
A tal proposito, non si può non considerare che il concordato fallimentare è connotato da una natura non solo negoziale, ma addirittura contrattuale, come precisato anche di recente dalle Sezioni Unite, che hanno ritenuto tale procedura quale esplicazione del
“fondamentale principio dell'autonomia privata, nella quale anche il concordato fallimentare si iscrive per i suoi pacifici profili contrattualistici, dei quali, anzi, l'approvazione della proposta è l'essenziale manifestazione” (Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 28 giugno 2018, n. 17186) (
[13]).
Ciò non di meno, la procedura concordataria si connota per i rilevanti profili pubblicistici e per una insita natura contenziosa che consentono di rilevare, seppur con contorni talvolta sfumati, i caratteri richiesti dalla fattispecie impositiva.
A tale proposito merita indagare – seppur per sommi capi – le principali fasi processuali del concordato fallimentare (
[14]).
Va ricordato che l’esito concordatario, pur condiviso dalla maggioranza dei creditori legittimati ad esprimere il proprio voto, non è ancora idoneo ex se a provocare effetti sostanziali e processuali, se prima non riceve l’omologazione del Tribunale, deputato a ponderarne la conformità alla Legge.
Spirato il termine per le votazioni, il curatore espone una relazione sul loro esito al Giudice delegato, il quale, in caso di approvazione, ordina al primo di fornirne comunicazione al fallito, ai creditori dissenzienti e al proponente, cosicché quest’ultimo presenti l’omologazione del concordato, mediante ricorso. Ancora, il Giudice dispone con decreto un termine, non inferiore ai quindici e non superiore ai trenta giorni, per la proposizione di eventuali opposizioni da parte di qualsiasi altro interessato.
A questo punto, la procedura può svilupparsi attraverso due distinti “canali”: il primo è integrato se, nel termine fissato dal Giudice, non sono proposte opposizioni, il secondo ricorre laddove le opposizioni siano mosse dai creditori dissenzienti o da altri interessati.
In quest’ultimo caso (cioè in presenza di opposizioni), l’omologazione del concordato assume un ampio e profondo controllo da parte dell’autorità giudiziaria, legittimata ad assumere i mezzi istruttori richiesti dalle parti, o a disporli d’ufficio, nonché ancora legittimata a risolvere in contraddittorio fra le stesse il contrasto circa la legittimità formale e sostanziale della proposta (
[15]).
Esaurita questa fase, il Tribunale emette decreto, il quale acquista efficacia nel momento in cui non viene impugnato o le impugnazioni esperite si sono esaurite. Avverso tale provvedimento è ammesso, ai sensi dell’art. 131 L. fall., reclamo dinanzi alla Corte d'Appello.
Alla definitività del decreto di omologazione, che ne provoca gli effetti sostanziali e processuali, segue la presentazione del rendiconto da parte del curatore e la chiusura del fallimento, che il Tribunale deve dichiarare con apposito decreto.
Nel primo caso (cioè in mancanza di opposizioni), il Tribunale, una volta verificata la validità della procedura e l’esito della votazione, omologa il concordato mediante decreto motivato non soggetto a gravame (ex art. 129, co. 4°, L. fall.). In questa ultima circostanza, l’ambito e l’intensità dei poteri del Giudice delegato risultano ictu oculi più “sfumati” in quanto volti prevalentemente alla verifica (a) dei requisiti soggettivi ed oggettivi del concordato e (b) del raggiungimento delle maggioranze prescritte. Purtuttavia, il controllo non appare mai limitato ad una mera verifica per così dire “notarile” dei requisiti formali del procedimento, come ricordato dalla sentenza delle Sezioni Unite, già citata, che ha precisato che la stessa valutazione delle maggioranze richiede di verificare, tra l’altro, l’esistenza di conflitti d’interesse, in quanto l’affermazione della volontà dei creditori, plasmata nella regola maggioritaria, deve essere opportunamente mediata tramite “la garanzia di un giudizio imparziale di compatibilità in concreto di tale volontà con l’interesse comune”.
Giova poi osservare che, in ogni caso, la deliberazione dei creditori rappresenta un atto necessario, ma non sufficiente per giungere all’omologazione, essendo la stessa ricompresa in un più complesso procedimento governato dalle regole processuali tipiche della giurisdizione contenziosa: tra queste, in particolare, spicca il principio del contraddittorio. Infatti, la garanzia costituzionale del contraddittorio trova sede nel giudizio di omologazione del concordato fallimentare indipendentemente dall’esercizio o meno di opposizioni, perché il decreto, ancorché reso senza alcuna opposizione, acquista autorità di giudicato quale causa di chiusura del fallimento.
Va inoltre sottolineato che al giudizio camerale partecipano – ancorché non siano state proposte opposizioni – le parti della procedura concorsuale che, in assenza di creditori dissenzienti in sede di votazione, in mancanza di opposizioni o di altri controinteressati intervenuti nel giudizio di omologazione, sono il proponente, il curatore (
[16]) e il fallito.
In definitiva, il decreto di omologazione, quale atto dell’autorità giudiziaria, acquisita la sua definitività, pare rivestire i requisiti necessari per essere ricompreso tra gli atti di cui all’art. 37 TUR, sebbene in assenza di opposizioni la natura di atto di definizione di controversie civili appaia più “evanescente” (
[17]).
E’ peraltro appena il caso di rilevare che le considerazioni fin qui offerte non paiono destinate a mutare in maniera significativa, in ragione della futura introduzione del “Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza” (D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14)
Infatti, ferme restando le note diversità tra l’odierna Legge fallimentare ed il nuovo Codice, tanto “generali” (quali ovvia espressione della ratio riformatrice), quanto “specifiche” (si pensi, a mero titolo esemplificativo, alla “sostituzione” del fallimento con la liquidazione giudiziale), la disciplina dettata dal Codice (in specie, dagli artt. 244 e ss.) pare modellarsi comunque su quella oggi recata dagli artt. 128 e ss., L. fall.; ciò, vuoi per i profili sostanziali, vuoi anche per quelli più eminentemente processualistici.
In particolare, la “scansione” delle fasi del procedimento del concordato nella liquidazione giudiziale palesano una sostanziale analogia con quelle del concordato fallimentare (su tutte, l’approvazione e l’omologazione).