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Cass., Sez. 1, 28 novembre 2023, n. 32977, Pres. Cristiano, Est. Tricomi

FALLIMENTO - Società agricole - Soglie - Requisiti.

Postilla a cura di Salvo Leuzzi , Magistrato addetto al Massimario della Suprema Corte di Cassazione

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In tema di fallimento degli imprenditori agricoli, l’art. 2 del D.Lgs. n. 99/2004, nel richiedere che i ricavi derivanti dalla locazione o dall’affitto di terreni e relativi fabbricati rurali siano marginali (nell’ordine del 10%) rispetto a quelli derivanti dall’attività agricola esercitata e che la concessione in locazione o in affitto dei terreni e relativi fabbricati strumentali debba rispondere a scopi agricoli, si connota alla stregua di norma di carattere meramente fiscale, tesa a definire un regime tributario agevolato anche per l’impresa agricola esercitata in forma collettiva; la norma in parola non rileva ai fini dell’individuazione dei requisiti da valutare per accertare la fallibilità o meno di una società agricola, dal momento che la qualifica di un’attività d’impresa come commerciale o agricola va operata in base alle norme del codice civile e della legge fallimentare, non a quelle statali o comunitarie di settore. 

Massima Ufficiale
Riproduzione riservata

art. 2 D.Lgs. n. 99/2004
art. 1 L. fall. 
art. 5 L. fall.
art. 2135 c.c.

POSTILLA

Indagine storico-sistematica sull’esonero dal fallimento (e dalla liquidazione giudiziale) dell’imprenditore agricolo

di Salvo Leuzzi, Magistrato addetto al Massimario della Suprema Corte di Cassazione

2 Gennaio 2024

1.  Il caso al vaglio della Corte Suprema
La Corte d'appello di Napoli ha rigettato il reclamo ex art.18 L. fall. di una società agricola a responsabilità limitata in liquidazione nei riguardi della sentenza del Tribunale di Santa Maria C.V. che ne aveva dichiarato il fallimento.
Sulla premessa che con l’art. 2 del D.lgs. n. 99/2004 il legislatore ha affiancato alla nozione di imprenditore agricolo quella delle “società agricole”, prevedendo che non costituiscono distrazione dall’esercizio esclusivo dell’attività agricola la locazione, il comodato e l’affitto di fabbricati e terreni strumentali, sempreché i ricavi siano marginali rispetto a quelli derivanti dall’attività agricola esercitata (10% dei ricavi complessivi), la Corte di appello ha rilevato che la società agricola aveva esercitato in via non marginale, ma assolutamente prevalente, l’attività commerciale di affitto di terreni e fabbricati.
Il ricorso per cassazione della società agricola è incentrato su un unico motivo, col quale viene dedotta l’errata, falsa applicazione ed interpretazione degli artt. 2135 c.c., 2 D.Lgs. n.99/2004 e 36 del D.L. n. 179/2012, come conv. dalla L. n. 221/2012 e la mancata applicazione degli artt. 85 e 91 del d.P.R. n.917/1986 (TUIR). A parere della ricorrente, l’art. 2 del D.Lgs. n. 99/2004 non ha introdotto la nuova categoria dell’imprenditore agricolo costituito in forma societaria, connotandosi, piuttosto, come norma di carattere fiscale, sicché l’imprenditore agricolo in forma societaria può svolgere attività di locazione, comodato e affitto di fabbricati ad uso abitativo e di terreni, sempre che venga rispettato il requisito della marginalità, ossia i ricavi rivenienti da queste attività non superino il 10% dell’ammontare dei ricavi complessivi. Ne deduce che ove tale requisito venga superato, ciò costituirebbe distrazione dall’esercizio esclusivo dell’attività agricola, con la conseguenza del venir meno del regime fiscale agevolato previsto dal TUIR, ma non la perdita della qualifica di società agricola. Sostiene, poi, che l’attività di affitto di fondi rustici e la riscossione dei canoni di locazione non è attività di impresa e non è idonea ad attribuire al soggetto che la svolge la qualità di imprenditore commerciale.
Le questioni sottoposte all’attenzione della Corte di Cassazione erano così riassumibili:
i. Se l’art. 2 del D.Lgs. n. 99/2004 abbia introdotto la nuova categoria dell’imprenditore agricolo costituito in forma societaria oppure sia una norma di carattere meramente fiscale e quali siano le conseguenze, in punto di eventuale fallibilità dell’impresa, ogni qualvolta lo svolgimento dell’attività di locazione, comodato e affitto di fabbricati ad uso abitativo e di terreni non rispetti il requisito della marginalità, producendo ricavi superiori al 10% di quelli complessivi;
ii.se l’attività di affitto di fondi rustici e riscossione dei canoni di locazione integri un’attività di impresa idonea ad attribuire al soggetto che la svolge la qualità di imprenditore commerciale, come tale fallibile".

2.  L’esegesi dell’art. 2135 c.c.
Nella versione editata dalla novella ex art. 1 D.Lgs. n. 228/2001, l’art. 2135 c.c. definisce agricolo l’imprenditore che esercita, anche alternativamente, le attività di “coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse” (comma 1). 
La norma descrive occupazioni intrinsecamente agricole puntando sul concetto di cura e sviluppo di un “ciclo biologico” e dismettendo ii tradizionale e assorbente riferimento all’utilizzo di un fondo[1]. Per l’agrarietà è ora sufficiente la presa in carico di una porzione limitata, per quanto significativa, di un processo produttivo di beni di natura agricola. Non rileva più la connessione tra attività e terreno, rimpiazzata dall’esigenza che l’imprenditore provveda, direttamente o indirettamente, allo sfruttamento di forze e risorse naturali, in tal guisa governando una fase necessaria di un ciclo vegetale[2] o animale[3]. 
Il criterio della necessità del fondo è sostituito da quello della mera possibilità del suo utilizzo ai fini della produzione del bene. Rileva che il prodotto sia agricolo in quanto astrattamente ottenibile adoperando un terreno.
Se per un verso, l’imprenditoria agricola vede dilatarsi il proprio ambito di riferimento, non più circoscritto al bene terra, ma comprensivo del bosco e dell'acqua; per altro verso, l’impiego della proposizione “utilizzano o possono utilizzare il fondo” implica che la disponibilità di un terreno costituisce un’evenienza, non più elemento indefettibile, essendo ben possibile il ricorso a tecniche che prescindono dall’uso del fondo, consentendo comunque l’ottenimento di prodotti agricoli “fuori terra”. 
È stato rimosso dal testo dell’art. 2135 c.c. il vocabolo “bestiame”, interpretato restrittivamente dalla nomofilachia, che per la qualificazione agraria dell'attività zootecnica sosteneva un nesso doveroso tra l’allevamento e il fondo quale luogo deputato all’uso massivo degli animali[4]. Il lemma impiegato è adesso quello di "animali", che, per un verso, comporta l’inclusione nel perimetro della norma degli animali di “bassa corte”; per altro verso, ricomprende nell'alveo applicativo dello statuto agrario anche le tipologie di allevamento slegate dalla presenza di un fondo[5].
Vi è in questa cornice larga il superamento della concezione fondiaria dell’agricoltura[6]. L’ambito applicativo della disciplina ad hoc dell’imprenditore agricolo si è del resto estesa, in virtù di molteplici interventi legislativi, nell’arco degli ultimi trent’anni[7]. 
 
3.  I confini concettuali e operativi delle attività connesse
L’art. 2135, comma 3, c.c. tratteggia le c.d. “attività connesse” a quelle propriamente agrarie. Sono tali, in primo luogo, le forme collaterali e complementari di esercizio dell’impresa agraria, “esercitate dal medesimo imprenditore agricolo” e consistenti nella “manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione” di “prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall'allevamento di animali”, ossia degli stessi prodotti ricavati attraverso una delle attività intrinsecamente agricole descritte nei primi due commi della norma (v. Par. 2).
La versione novellata del precetto esibisce due tratti salienti.
In primo luogo, essa segna l’archiviazione del concetto di “esercizio normale” dell’agricoltura, rimuovendo ogni limite in ordine a modalità di svolgimento, tecniche e mezzi impiegati, che ben possono configurarsi di tipo industriale[8]. 
In secondo luogo, conferisce per fictio juris ad attività ontologicamente commerciali il rango di attività agrarie, sempre che a svolgerle sia lo stesso imprenditore agricolo ed esse rispettino precisi parametri enucleati dalla legge[9]. 
I requisiti che contraddistinguono la connessione sono essenzialmente due. Il primo è integrato da un collegamento “soggettivo”, palesandosi necessario che le attività in parola siano svolte da un imprenditore che eserciti un’attività agricola principale, sia essa costituita dalla coltivazione o dall’allevamento. Il secondo requisito alligna in un collegamento “oggettivo”, dovendo i prodotti oggetto di tali attività lato sensu commerciali provenire in prevalenza dallo svolgimento di un’attività intrinsecamente agraria, quindi connotarsi in quota maggioritaria come risorse dell’azienda agricola. I beni acquisiti presso terzi, adoperati nel quadro dell’attività connessa, devono rivelare, in altri termini, una misura quantitativamente sottodimensionata e marginale rispetto ai prodotti attinti dall’attività agraria tipica[10]. 
Sono connesse, peraltro, anche le attività accessorie rientranti in un secondo gruppo tipologico, ossia quelle “dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l'utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell'azienda normalmente impiegate nell'attività agricola esercitata, ivi comprese le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione ed ospitalità come definite dalla legge"[11]. I mezzi impiegati per le prestazioni di servizi devono essere gli stessi che si adoperano nell’azienda agricola ed essere occupati in prevalenza nelle attività agricole.
Anche nel caso delle imprese che colgono opportunità di business e produzione di ricchezza non circoscritte al recinto tradizionale dell'azienda agricola, la connessione fa fulcro sui due cardini della “unisoggettività” e della "prevalenza". Sotto il primo profilo, è indispensabile è indispensabile che l’azienda sia una sola o che, in altri termini, sia lo stesso imprenditore che svolge un’attività principale tipicamente agricola ad espletare anche quella complementare. Sotto il secondo aspetto, l'attività connessa deve rimanere ancillare rispetto a quella intrinsecamente agricola, giovando soltanto ad integrare il reddito prodotto da quest’ultima.
L'elenco delle attività indicate dal comma 3 dell'art. 2135 c.c. ha valenza esemplificativa, a testimoniarlo è l’uso dell'avverbio “comunque” nell’incipit della disposizione. 
 
4. La ratio dell’esenzione dal fallimento dell’imprenditore agricolo
L’art. 1 L. fall. prevede l’assoggettabilità alle disposizioni sul fallimento degli imprenditori che esercitano una attività commerciale, il che depone ab implicito per l’esenzione dell’imprenditore agricolo dalla procedura concorsuale in parola[12]. 
L’esonero ha radici profonde. È tralaticiamente collegato alla duplice superficie del rischio che contrassegna l’attività dell’imprenditore agricolo. Il rischio economico è corso in condivisione con l’imprenditore commerciale; il rischio naturale è scontato in esclusiva, in quanto connesso all’imprevedibilità dei fenomeni ambientali e biologici. Viene poi in apice una differenziazione tecnico-economica immanente tra agricoltura e industria, per cui a fronte della prevalenza in quest’ultima di iniziativa e opera dell’uomo, nella prima risalta per tradizione lo sfruttamento dell’energia genetica della terra o degli animali. 
Il progresso delle tecniche agrarie e zootecniche bolla come parzialmente anacronistiche queste giustificazioni. La coltivazione in serra sterilizza in gran parte l’impatto del fattore meteorologico. Inoltre, le realtà produttive del comparto agrario superano spesso, per dimensioni e importanza, le imprese commerciali.
La peculiarità del regime giuridico dell’imprenditore agricolo continua a rispondere probabilmente alla sola esigenza del tener conto di dinamiche caratteristiche nel rapporto tra domanda e offerta, la prima tendenzialmente costante, la seconda rigidamente ancorata ai tempi fissi dei cicli produttivi, oltre che pesantemente condizionata dalla deperibilità dei beni immessi nel mercato e dalla fisiologica dilatazione delle operazioni di riconversione[13].
 
5. Le società agricole ex D.Lgs. n. 99 del 2004
Il D.Lgs. n. 99/2004 si inserisce nel solco tracciato dal Regolamento (CE) n. 1257/1999 del Consiglio del 17 maggio 1999[14], connotandosi come strumento attuativo della L. delega n. 38 del 2003, della quale riproduce gli scopi. Questi ultimi si riassumono nell’incentivo all’aggregazione fra imprenditori in campo agricolo[15], attraverso l’innesto nel settore delle forme societarie[16]. 
La L. n. 153 del 1975, per lunghi anni bussola normativa in ambito agrario, non contemplava facoltà di esercizio congiunto dell’impresa agricola. Il ricorso agli strumenti duttili del diritto societario è conquista recente, propria del D.Lgs. n. 228/2001, che ha fissato l’opportunità anche per le società di diventare imprenditori agricoli a titolo principale, in presenza di alcuni requisiti[17]. 
Un target di effettiva diffusione delle forme societarie in agricoltura può dirsi, tuttavia, efficacemente raggiunto solo con il D.Lgs. n. 99/2004, il cui art. 1, comma 3, abrogando l’art. 12 della L. n. 153/1975, così come modificato dall’art. 10 del D.Lgs. n. 228/2011, ha riconosciuto la qualifica di imprenditore agricolo professionale (c.d. IAP) alle società che prevedono nel proprio statuto l’esercizio esclusivo delle attività agricole di cui all’art. 2135 c.c. 
La figura del c.d. IAP[18], nel surrogare la vecchia qualifica di imprenditore agricolo a titolo principale (c.d. IATP) – contenuta nella disciplina del ‘75, e contrapposta per svariati anni, in punto di benefici, al coltivatore diretto – è il tassello di un’operazione estensiva di agevolazioni tributarie (oltre che creditizie). 
La linea disegnata combacia con la tendenziale equiparazione, sul piano del regime fiscale, dell'imprenditore agricolo, anche operante in forma societaria e titolare di determinati requisiti, al coltivatore diretto, finora esclusivo detentore di una posizione favorevole proprio sul versante tributario[19]. 
La spinta alla costituzione di unità produttive di dimensioni meno asfittiche e parcellizzate è assicurata dalla chance di fruizione di una fiscalità vantaggiosa, alimentata da regimi forfettari, sia degli imponibili, sia delle imposte[20]. 
Le norme di nuovo modificano il quadro normativo dell’imprenditore agrario, stimolandolo all’utilizzo di strumenti operativi maggiormente al passo con i tempi nuovi. Così, alla base dell’intervento normativo attuato con il D.Lgs. n. 99/2004, come di quello innestato dal D.Lgs. n. 101/2005 che a stretto giro lo ha seguito, vi è un chiaro azionamento della leva fiscale in un’ottica di impulso all'imprenditoria professionale aggregata[21]. 
In un tessuto normativo in cui il fil rouge tangibile è rappresentato dall’implementazione delle dinamiche di cooperazione tra agricoltori e delle forme di esercizio in forma congiunta dell’attività agricola – nel convincimento che la dimensione ridotta delle aziende costituisca un handicap al loro sviluppo – si incastra la figura inedita della “società agricola”, il cui tratto funzionale genetico è dato dalla conservazione, fin dove possibile, dell'integrità fondiaria[22]. 
A tale tratto non risultano consustanziali, né l’archiviazione dell’esonero dal fallimento, né la declinazione dell’accennata nuova figura alla stregua di involucro organizzativo eccentrico rispetto alle forme societarie note e consolidate. 
La “società agricola” segna, piuttosto, l’importazione in campo agrario di modelli preesistenti e collaudati in ambito commerciale. È agricola, perciò, la società che si autodichiara testualmente tale nella ragione o denominazione sociale, mostrando le sembianze ordinarie di una società di persone o di capitali, ma assumendo per oggetto sociale – ecco il segno distintivo – l'esercizio esclusivo di attività agrarie[23]. 
Qualora detta società presenti taluni requisiti, essa acquisisce la qualifica di c.d. IAP[24] e profitta ex art. 2, comma 4, del D.Lgs. n. 99/2004 delle agevolazioni tributarie[25] e di quelle creditizie previste per coltivatori diretti[26]. Le imprese che orbitano nel settore hanno tutto l’interesse ad assumere configurazioni collettive e professionali, così da accedere al coacervo dei benefici. 
Rimane evidente, tuttavia, che le facilitazioni fiscali non immutano la sostanza del tipo societario e del fenomeno agricolo per il suo tramite governato[27]. I benefici non intaccano, pertanto, nemmeno la franchigia dal fallimento. Nulla cambia in punto di concorsualizzazione dei debiti e di relative procedure, sol perché un imprenditore agricolo esercita l’attività economica caratteristica, anziché a trazione individuale, attraverso un mezzo societario in tutto e per tutto identico ai tipi descritti dal codice civile. 
Del resto, la complessità organizzativa assunta dall'azienda non può rilevare in senso sovversivo, sia perché l’assunzione di una veste societaria è consentito dall'art. 2249, comma 2, c.c., sia perché le norme dettate dagli artt. 2082 e ss. c.c. disciplinano in generale l'attività d'impresa che può avere natura agricola o commerciale ed essere esercitata in forma individuale o collettiva.
 
6. I profili evolutivi del sistema e le possibili letture
La qualifica di imprenditore agricolo va ricavata dalle norme del codice civile e della legge fallimentare, non attraverso il rimando a disposizioni di settore, come quelle fiscali o quelle contributive. Queste ultime assegnano all’attività un attributo che non è mai suscettibile di generalizzata applicazione, perché risponde a finalità peculiari, spesso contingenti, di una branca dell’ordinamento. 
Se si guarda allo spettro ristretto entro cui si è inserito l’intervento riformatore, nella porzione in cui ha modificato l’art. 10 del D.Lgs. n. 228/2001, ciò vale anche per il D.Lgs. 29 marzo 2004, n. 99. Quest’ultimo non concorre, in effetti, a definire la nozione di imprenditore agricolo contenuta nell’art. 2135 c.c., veicolando una qualifica rilevante al solo fine di consentire al titolare, sia esso persona fisica o persona giuridica, di fruire di provvidenze di natura fiscale.
Il decreto non rivela una portata significativa in punto di concorsualità dell’impresa agricola insolvente anche in virtù di una considerazione di sistema. L'evoluzione dei moduli organizzativi non incide di per sé sulla sostanza dei fenomeni economici e non rovescia la disciplina dei loro modelli giuridici. La definizione di società ex art. 2247 c.c. è, del resto, neutra: essa costituisce il modulo organizzativo dell'esercizio dell'impresa in forma non individuale. La qualificazione della società, come dell'imprenditore, dipende allora da quell'unica variabile in grado di connotare l'attività economica in termini di commercialità o di agrarietà, cioè dalla natura effettiva dell'attività economica svolta.
Le “società agricole”, pur delineate concettualmente a fini d’accesso ai benefici fiscali, vedono incrementarsi la propria capacità di performance, ma non cambiano il proprio core business. Null’altro sono, allora, che società di capitali con oggetto agrario[28]. É indifferente che i soci optino per la società semplice e per un’altra società di persone o per una società di capitali. Infatti, la società in agricoltura è qualificata con riferimento all’oggetto dell’attività indipendentemente dalla forma giuridica assunta. 
L’idea del legislatore sembra quella di favorire la costruzione di società in agricoltura, non come nuovi tipi legali, ma come normali enti che ricevono qualificazione dal tipo di attività svolta e dalla professionalità con cui la esplicano.
La qualificazione idonea a condizionare il regime giuridico concorsuale di un’impresa non è, in altri termini, immediatamente correlata all’etichetta soggettiva che essa assume, quanto all’esercizio, da parte sua, di un’attività in luogo di un'altra. 
Il riferimento alla natura particolare dell'attività svolta è il parametro ineludibile ogni qualvolta ci si accosta alle società in agricoltura, che tali sono e tali rimangono per la fisionomia dell’attività che svolgono, non per la forma giuridica che per congiuntura si attribuiscono. 
Ed allora una corretta qualificazione della natura della società deve muovere dall’oggetto fissato nello Statuto, per poi appurare l’attività in concreto svolta. Le dimensioni dell’impresa e la sua struttura non possono, sotto questo profilo, influenzare la valutazione dell’interprete. Non è, infatti, il modulo organizzativo a decretare l’appartenenza allo status dell’imprenditore commerciale anziché di quello agricolo, ma lo svolgimento di un’attività ex art. 2135 c.c., quindi l’opzione per un preciso modello imprenditoriale.
 
7. Il punto su locazione d’immobili e commercialità
L’art. 2082 c.c.  si limita a definire l’imprenditore tout court come colui che “esercita professionalmente una attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi”[29]. 
Codice civile e legge fallimentare sono reticenti in punto di commercialità dell’impresa, la nozione rimane imprecisata. L’imprenditore commerciale è definito tale attraverso un’operazione interpretativa.
Una recessiva linea di pensiero ha rinchiuso la commercialità nello specchio piuttosto angusto delle attività elencate dall’art. 2195 c.c. come ex lege commerciali: produzione di beni o di servizi, intermediazione nella circolazione dei beni, trasporto, credito bancario e assicurazioni, attività ausiliarie delle precedenti. È stata perorata l’applicabilità delle disposizioni che evocano gli imprenditori commerciali alle sole imprese che svolgono le attività indicate dalla norma in parola[30].
Questa prospettiva ermeneutica fa mostra di criticità endemiche. Innanzitutto, essa non tiene il passo dei fenomeni economici, dalla cui evoluzione emerge che anche attività non riconducibili entro l’alveo dell’art. 2195 c.c. sono accompagnate da attributi identici rispetto a quelle che letteralmente vi rientrano. Inoltre, guardare al novero contemplato dalla norma in parola come ad un numerus clausus di attività genera l’esigenza di ipotizzare il tertium genus poco caratterizzato della c.d. impresa civile[31], riportando nel relativo schema realtà produttive strutturate, poco plausibilmente espungendole dal cerchio della fallibilità[32]. Più in generale, l’impresa civile, in assenza di specificazioni, vive una sorte incerta e sfuggente a livello di disciplina applicabile. Tutto ciò si spiega assai poco o non si giustifica affatto. 
Il più condivisibile indirizzo invalso ha affermato un principio di residualità dell'impresa commerciale rispetto a quella agricola. Qualsiasi impresa non esercente attività agricola è di per sé commerciale, quand’anche non lucrativa[33]. La commercialità abbraccia ogni attività d’impresa che non riveli in prevalenza un contenuto agrario ex art. 2135 c.c. e presenti, ad un tempo, le caratteristiche della professionalità e dell’economicità, intendendosi la prima come continuità o comunque abitualità dell’attività economica[34], la seconda come preordinazione dell’attività stessa alla copertura del costo dei fattori produttivi mediante i ricavi, pur a prescindere da uno scopo di lucro[35]. 
La concezione residuale dell'impresa commerciale in rapporto a quella agricola allinea attualmente sia gli studiosi che gli interpreti[36]. Le quante volte sussista un'organizzazione che, sia pure ad un livello minimale, coordini beni e/o persone nello svolgimento di un’attività rivolta all’esterno, quindi non ripiegata nel mero godimento di beni o nella soddisfazione dei bisogni di chi la esercita, si è al cospetto di un’impresa commerciale, con quel che ne consegue sul piano dello statuto applicabile.
L’intera trama delle regole sull’impresa non è ordinata, del resto, per sottotipi, ma posta in equilibrio sull’endiadi attività commerciale-attività agricola, impresa commerciale-impresa agricola[37].
La stessa autonoma esistenza di una categoria ulteriore suscettibile di inglobare gli enti che non esercitano un’attività di produzione di beni o servizi propriamente detta non trova utili motivazioni di fondo. Se lo strumento principale di esercizio delle moderne attività produttive è quello societario, non a caso trapiantato da ultimo pure nel terreno delle attività agrarie, il senso dell’imprenditorialità commerciale deve cogliersi attraverso la dicotomia fra due norme basilari: l’art. 2247 c.c. e l’art. 2248 c.c. Quest’ultima disposizione, ubicata non casualmente nel plesso delle norme sulle società, prevede che “la comunione costituita o mantenuta al solo scopo del godimento di una o più cose è regolata dalle norme del titolo VII del libro II”, in buona sostanza disciplinando per relationem secondo le norme della comunione la fattispecie di più soggetti che fruiscono di un bene, senza porsi alcun obiettivo ulteriore, ma limitandosi ad una statica attività di consumo. Per converso, l’art. 2247 c.c., nel descrivere il contratto di società, come il negozio mediante il quale “due o più persone conferiscono beni o servizi per l'esercizio in comune di un'attività economica allo scopo di dividerne gli utili”, pone all’evidenza in apice la produzione di un ricavo. Quel che rileva, in senso assorbente, ai fini della qualificazione di un’impresa come economica sembra essere l’esercizio di un’attività tesa a generare un valore nuovo.
Il corollario di questa complessiva impostazione intercetta proprio l’ipotesi di locazione professionale e organizzata di beni. Attività, questa, orientata sistematicamente a trarre utili, tanto da porre in risalto un connotato sufficiente a differenziare l'esercizio dell'impresa dal mero godimento, marcando, per ciò stesso, il tratto distintivo della commercialità. In altri termini, se un'attività locativa presenta i caratteri dell'organizzazione e della professionalità e, in più, è rivolta al mercato, essa rientra tra le attività commerciali.
D’altronde, se storicamente l’intestazione di beni immobili a enti societari, con un oggetto limitato alla locazione dei propri cespiti, si legava ad obiettivi di risparmio fiscale, sul piano della qualificazione del reddito prodotto e su quello rappresentato dall’opportunità di evitare le imposte per il trasferimento dei beni conferiti[38], il panorama d’insieme è oggi cambiato. Innanzitutto, vi sono società che cessano le proprie originarie attività, limitandosi a concedere in locazione gli immobili di proprietà, di fatto mutando il proprio oggetto sociale, che a quel punto è rappresentato dalla messa a reddito di cespiti. Inoltre, a fianco di società che si limitano a gestire gli immobili nella loro titolarità allo scopo di trarne utili anziché meri risparmi fiscali, se ne collocano altre che addirittura ingrossano la propria attività, acquisendo via via altri immobili, al fine di concederli in locazione, espandendo il proprio giro d'affari. 
La cessione dietro compenso della detenzione di immobili o di fondi agricoli s’atteggia ad attività economica di erogazione di un servizio, sub specie di messa a disposizione di un bene a favore dell’utilizzatore per il soddisfacimento dei suoi bisogni, in linea con il paradigma dell’art. 1571 c.c.[39]. Ancorché si tratti di un’attività insuscettibile di generare una diversa utilità rispetto al bene ab origine impiegato, essa si connota come attività sistematicamente remunerativa. È la continuità dell’organizzazione produttiva finalizzata alla acquisizione di un’utile, infatti, il dato pregnante, quello che segna la commercialità dell’impresa. Quand’anche l’attività locatizia non sia ex sé finalizzata ad ulteriori atti di scambio, è pur sempre diretta all’esterno e non è scevra dall’assunzione di un rischio, rappresentato dall’interazione con un terzo contraente, alla cui tenuta economico-finanziaria l’attività del cedente finisce per essere strettamente collegata a livello di risultati. 
 
8. Osservazioni conclusive sul crinale fra Legge fallimentare e Codice della crisi
Le conclusioni della Prima Sezione Civile della Suprema Corte appaiono interamente condivisibili.
Il D.Lgs. 18 maggio 2001, n. 228, ha risposto al deliberato intento di creare le condizioni per promuovere il sostegno e lo sviluppo economico e sociale dell’agricoltura, attraverso un ampliamento forte dell’ambito di applicazione dello statuto dell’imprenditore agricolo, attuato con l’introduzione del riferimento inedito al ciclo biologico. Si è sorpassata la nozione “fondiaria” dell'agricoltura, imperniata sulla centralità dell'elemento terriero, mutuando una diversa impostazione, che fa fulcro su un collegamento anche soltanto virtuale o potenziale con la terra.
L’allargamento del perimetro agrario può suscitare, di primo acchito, vibrate riserve per la perdurante assoggettabilità al fallimento del solo imprenditore commerciale. In effetti, appare ancor più sbiadita la linea del divario fra quest’ultimo e l’imprenditore agricolo. 
È sedimentata, d’altronde, l’opportunità per gli enti costituiti in forma di società commerciale di guadagnare la qualifica di imprenditori agrari ex art. 2135 c.c., sul presupposto della natura dell’attività esercitata, indipendentemente dalla complessità organizzativa esibita. Ciò ha reso crescente la misura delle attività agricole esercitate in forma collettiva e attraverso compendi aziendali imponenti. 
In questo quadro l’involucro formale dell’impresa, al pari dell’entità della sua struttura, non rileva, tuttavia, né ai fini della qualificazione giuridica dell’attività esercitata, né – coerentemente – in funzione del giudizio sulla fallibilità del soggetto che la esercita. 
L’attività agricola non è, infatti, investita normativamente da alcun limite quantitativo o dimensionale, né riferito a dato della laboriosità o della dotazione tecnica, né correlato al profilo della rilevanza economica o della somma complessiva degli investimenti impiegati.
Il baricentro, anche nel nuovo sistema, rimane la natura dell’attività espletata. Sebbene le forme societarie assorbano una cifra considerevole del comparto agrario, l’“infallibilità” dei soggetti che curano in tutto o in parte un ciclo biologico non è stata rimossa nemmeno dal Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza ed è un’“infallibilità” che prescinde dalle vesti formali indossate.
L’art. 2135 c.c. non è calibrato rigidamente sull’imprenditore individuale e l’esenzione dal fallimento (ora dalla liquidazione giudiziale) abbraccia, in mancanza di distinguo, e in una prospettiva di favore nei confronti del tipo di attività (più che del suo strumento), anche le realtà produttive aggregate.
L’attività agricola resta intrinsecamente fragile a dispetto dei contenitori operativi, perché è del pari esposta al rischio biologico e alle avversità della natura, oltre che a equilibri e scenari di mercato peculiari a tutti i livelli.
In quest’ottica, lo svolgimento effettivo e diretto, da parte di un imprenditore quale che sia, del governo di una frazione di ciclo biologico vegetale o animale, assurge necessariamente a parametro selettivo di esonero dal fallimento.
La selezione di una forma societaria in luogo di un’altra, come pure l’indicazione letterale di un’attività anziché di un’altra, non pare poter rappresentare un indice univoco della natura di un’impresa tanto da condizionarne il regime. È l’indagine sull’attività effettivamente espletata dall’imprenditore a manifestarne, infatti, la reale dimensione, individuandone per coerenza lo statuto giuridico finalisticamente più acconcio.
La giurisprudenza di legittimità ha spesso affermato, con riferimento alle società aventi ad oggetto un’attività commerciale, che le stesse sono sottoponibili al fallimento a prescindere dall’effettivo esercizio di tale attività, in quanto acquistano la qualità di imprenditore commerciale – da statuto – nel momento della loro costituzione e non dall’avvio del concreto esercizio dell’attività di impresa, al contrario di quanto avviene per l’imprenditore commerciale individuale[40]. Si tratta di un indirizzo interpretativo comprensibilmente teso ad estendere i confini esterni della fallibilità.
In realtà, peraltro, se l’angolo di visuale si appunta sulle imprese agricole, un approccio formalistico al fenomeno societario, orientato ad attribuire la qualifica in ragione della lettera dell’oggetto sociale, risulta inappagante. Qualora ad essere esercitata sia in misura prevalente un'attività commerciale anziché un’attività agricola, ad essere reciso è qualsiasi collegamento, anche potenziale, con il fattore terra, il che implica che perdano di senso sia la disciplina appartata, sia l’esenzione dal fallimento. La mera iscrizione di una realtà produttiva nel Registro delle Imprese in qualità di soggetto esercente attività agricola ai sensi dell'art. 2135 c.c., di per sé non può costituire un salvacondotto rispetto al fallimento. 
La società acquista identità nel momento in cui si costituisce, ma non può ragionevolmente conservarla per il solo fatto di mostrare un oggetto agrario in luogo di uno commerciale. Nel momento in cui l'impresa, calatasi nel mercato, non si limiti a svolgere attività agricole ex se ma eserciti anche attività connesse per le quali è richiesto il rispetto del parametro della prevalenza, ove, per converso, lo sfori si espone alla conseguenza della declaratoria di fallimento in caso di successiva insolvenza[41]. 
Nella prospettiva invalsa, la nozione di impresa commerciale è residuale, tanto da assimilare tutte le realtà professionali, organizzate e continuative che, per un verso, non svolgono nessuna delle attività annoverate dall’art. 2135 c.c. come agricole, per altro verso, sono proiettate alla produzione e allo scambio di beni e servizi. Il perno sul quale erigere il discrimen si rinviene proprio nella richiamata norma, dal momento che le ipotesi non riconducibili ad essa devono ricevere in automatico la qualifica commerciale, quand’anche si risolvano nella messa a reddito professionale e organizzata di beni immobili, secondo lo schema del contratto di locazione. 
In questa scia concettuale, il rigore logico e argomentativo del Collegio nomofilattico si mostra apprezzabile, rappresentando opportuna conferma dell’orientamento, già affacciatosi nella giurisprudenza di legittimità, a tenore del quale ai fini dell’esenzione dal fallimento di una impresa agricola, è irrilevante l’organizzazione della stessa in forma societaria, come pure la previsione statutaria in ordine al suo oggetto sociale, poiché, ai sensi dell’art. 1 del D.Lgs. n. 99/2004, anche le società di capitali possono esercitare l’impresa agricola, sicché, per dichiararle fallite, è sempre necessaria un’indagine volta a provare la natura commerciale dell’attività in concreto svolta[42]. È la specificità reale, non quella esteriore, che continua a legittimare la persistenza di un regime differenziato per l'imprenditore anche in punto di trattamento dell’insolvenza e concorsualizzazione dei debiti. L’agrarietà o la commercialità dell’attività non sono evincibili, in ultima analisi, ex artt. 2135 e 2082 c.c. dalla sola lettera dell’oggetto sociale. 
Men che meno a sancire l’una o l’altra concorrono le disposizioni speciali dettate da particolari finalità di natura fiscale, creditizia, previdenziale, e sovente emanate in attuazione di direttive unionali. Nessuna di esse può aspirare al rango di interpretazione autentica dell'art. 2135 c.c. Le regole settoriali, proprio in quanto norme speciali ai sensi dell’art. 14 delle Disposizioni sulla legge in generale, non valgono ad assegnare qualifiche suscettibili di generalizzata applicazione[43]. Ciò vale anche in relazione alla qualifica di “società agricole” ottenibile nel quadro del D.Lgs. n. 99/2004, normativa alla cui base vi è il semplice tentativo di favorire la costruzione di strutture di respiro ampio, sul presupposto dell’attribuzione di trattamenti vantaggiosi, appannaggio fino a poco tempo fa dei soli coltivatori diretti[44]. 
Il quadro concettuale e ricostruttivo che si è definito è destinato mutatis mutandis a persistere nel contesto del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, introdotto con il D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, ed entrato in vigore nel luglio del 2022.
Il panorama normativo appare nitido e agevolmente leggibile.
Nel definire all’art. 1 il proprio ambito di applicazione, il nuovo corpus normativo fa menzione dell’imprenditore agricolo, espressamente incaricandosi di disciplinare anche le sue “situazioni di crisi o insolvenza”.
Immediatamente dopo, l’imprenditore in parola è, peraltro, confinato ex lett. c dell’art. 2 – norma contenente la bussola delle definizioni – entro l’area del sovraindebitamento. In particolare, il soggetto esercente l’attività agricola è esonerato anche nel riscritto ordinamento concorsuale dall’assoggettabilità alla liquidazione giudiziale, che tiene ora luogo del fallimento. 
L’art. 12 gli conferisce, nondimeno, l’opportunità, al pari dell’imprenditore commerciale in stato di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne renda probabile la crisi o l’insolvenza, di richiedere l’accesso al nuovo istituto della composizione negoziata.
L’art. 25 quater mette, d’altronde, a disposizione dell’imprenditore agricolo i medesimi strumenti dell’imprenditore sotto-soglia, delineando in parte qua un significativo regime di equiparazione. 
Evidente che le argomentazioni sopra esposte in rapporto alla Legge fallimentare siano suscettibili di resistere sotto l’egida del Codice della crisi.

Note:
[1] “Per coltivazione del fondo, per selvicoltura e per allevamento di animali si intendono le attività dirette alla cura ed allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine” (art. 2135, comma 2, c.c.).
[2] Non occorre la coltivazione avvenga in “campo aperto”. Costituiscono attività agricola anche la serricoltura, la funghicoltura, la vivaistica, la produzione di fiori, di semi, di radici, nelle quali ricorre un collegamento solo virtuale o potenziale con la terra.
[3] L’allevamento la cura di almeno una fase biologica di un animale: nascita, crescita, riproduzione. È importante che l’imprenditore compia almeno una di queste fasi sicché non è imprenditore agricolo chi alimenta gli animali nell'imminenza della loro macellazione o li nutre per breve tempo nella prospettiva immediata di rivenderli.
[4] Cass. 23 ottobre 1998, n. 10527; Cass. 19 settembre 2000, n. 12410.
[5] Sono attività agricole l'avicoltura, la bachicoltura, la cunicoltura e l'apicoltura.
[6] M. Fabiani, L’impresa fallibile, in Fallimento, 2007, 3, 319, nota a Trib. Torino, 11 gennaio 2007, osserva che l’imprenditore agricolo “si allontana sempre più dalla terra per accostarsi al mondo del commercio globalizzato”.
[7] Tra detti provvedimenti vengono in evidenza: la L. 23 settembre 1993, n. 349; che ha ricondotto entro l’alveo dell’art. 2135 c.c. “l’attività volta all’allevamento, alla selezione e all’addestramento delle razze canine”; il D.Lgs. 30 aprile 1998, n. 173, che ha esteso la qualifica di imprenditore agricolo a coloro che “esercitano attività di allevamento di equini di qualsiasi razza, in connessione con l’azienda agricola”; la L. 27 marzo 2001, n. 122, che individua come imprenditori agricoli “i soggetti, persone fisiche o giuridiche, singoli o associati, che esercitano l’acquacoltura”; la L. 24 dicembre 2004, n. 313 che riconduce l’“apicoltura” nel contesto dell’attività agricola; il D.Lgs. 29 marzo 2004, n. 99, che che ha definito la figura dell’imprenditore agricolo professionale (IAP) in sostituzione dell’imprenditore agricolo a titolo principale, annoverando la produzione di biomasse, a determinate condizioni, nell’attività di coltivazione del fondo.
[8] Il riferimento precedente all’“esercizio normale dell’agricoltura” è stato soppiantato dall’innesto del criterio della prevalenza”, nell’esercizio dell’attività connessa, dei prodotti ottenuti dal proprio fondo, bosco o allevamento rispetto a quelli acquisiti da terzi.
[9] Esemplificativamente è attività connessa tipica l'attività agromeccanica, disciplinata dal D.Lgs. n. 99/2004.
[10] Il prodotto ottenuto dall'attività primaria diviene, in buona sostanza, suscettibile di essere ulteriormente lavorato e reso oggetto di attività di commercializzazione complessa, anche con l’ausilio di una quota ridotta di beni attinti dal mercato esterno.
[11] Il riferimento corre alle regole per lo svolgimento dell’attività agrituristica, disciplinate dalla L. quadro statale 20 febbraio 2006, n. 96, a cui hanno fatto da pendant leggi regionali emanate ad hoc.
[12] G. Minutoli, Caratteri dell’impresa agricola soggetta a fallimento, in Fallimento, 2003, 11, 1156, nota a Cass. 5 dicembre 2002, n. 17251, Cass. 2 dicembre 2002, n. 17042 e Trib. S.M. Capua Vetere 23 luglio 2002.
[13] S. Carmignani, Nuovo imprenditore agricolo e fallibilità – presupposto soggettivo del fallimento e confini dell’impresa agraria, in Fallimento, 2011, 5, 542, nota a Cass. 10 dicembre 2010, n. 24995.
[14] Regolamento sul “sostegno allo sviluppo rurale da parte del Fondo europeo agricolo di orientamento e di garanzia (FEAOG)”.
[15] L’art. 1, comma 2, lettera q), della L. delega n. 38 del 2003, evidenziava la necessità di "agevolare la costituzione e il funzionamento di efficienti organizzazioni di produttori e delle loro forme associate ...".
[16] B. Ascari, Legge delega per la modernizzazione dell'agricoltura, in Impresa, 2003, 6, 1025.
[17] Il D.Lgs. 18 maggio 2001, n. 228, con il suo art. 10, comma 1, nel modificare l'art. 12 L. 9 maggio 1975, aveva riconosciuto la compatibilità fra la forma societaria e l’attività agricola come suo oggetto esclusivo.
[18] Il D.Lgs. 29 marzo 2004, n. 99, entrato in vigore il 7 maggio 2004, all’art. 1, comma 1, definisce imprenditore agricolo professionale (IAP) “colui il quale, in possesso di conoscenze e competenze professionali ai sensi dell'art. del Regolamento (CE) n. 1257/1999 del Consiglio, del 17 maggio 1999, dedichi alle attività agricole di cui all'articolo 2135 del codice civile, direttamente o in qualità di socio di società, almeno il cinquanta per cento del proprio tempo di lavoro complessivo e che ricavi dalle attività medesime almeno il cinquanta per cento del proprio reddito globale da lavoro”. Le definizioni di IATP e IAP differiscono nei profili quantitativi dei requisiti: l’art. 12 L. n. 153 del 1975, infatti, richiedeva che lo IATP si dedicasse alle attività per almeno i 2/3 del proprio tempo di lavoro complessivo, ne ricavasse almeno i 2/3 del proprio reddito globale da lavoro, e fosse in possesso, per pratica o studio, di specifiche capacità professionali.
[19] Il comma 4 dell'art. 1 del D.Lgs. n. 99/2004 significativamente dispone che: "all'imprenditore agricolo professionale, se iscritto nella gestione previdenziale ed assistenziale, sono altresì riconosciute le agevolazioni tributarie in materia di imposizione indiretta e creditizie stabilite dalla normativa vigente a favore delle persone fisiche in possesso della qualifica di coltivatore diretto".
[20] Il punto F dell'art. 1 della L. delega n. 38 del 2003 postulava l'emanazione di una apposita disciplina tributaria tesa ad incentivare l'accorpamento delle unità aziendali, anche attraverso il ricorso alla forma cooperativa per la gestione comune di terreni o delle aziende dei produttori, con priorità per i giovani agricoltori, in particolare in ipotesi di utilizzo di risorse pubbliche.
[21] Il trend legislativo verso assetti imprenditoriali d’inclinazione societaria, in luogo di quelli minuti e parcellizzati che hanno popolato il contesto usuale, è indotta da una panoplia di incentivazioni di carattere squisitamente tributario anche attraverso interventi normativi ulteriori. L’art. 1, comma 1093, della L. 27 dicembre 2006, n. 296, esemplificativamente, consente alle società a responsabilità limitata, alle società cooperative e alle società di persone, purché in possesso della qualifica di "società agricola" di esercitare l'opzione per l'imposizione dei redditi applicando le tariffe di reddito agrario, ai sensi dell'art’32 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917.
[22] Anche la rubrica dell'art. 7 del D.Lgs. n. 99/2004 – “Conservazione dell'integrità fondiaria” è inequivoca nel valorizzare l’obiettivo.
[23] Allorché una società abbia per oggetto attività agricole e attività di altro tipo non si configura più la «società agricola». Poiché sono agricole anche le attività cosiddette “connesse” ma solo se svolte congiuntamente a quelle principali, lo svolgimento delle sole “connesse” disgiunte dalla produzione propria o la prestazione di servizi senza prevalenza di attrezzature e risorse proprie fa trasmigrare l'attività in quelle commerciali.
[24] I requisiti sono esplicitati dall’art. 1, comma 3: se è una società di persone, quando almeno un socio è imprenditore agricolo professionale (se trattasi di società in accomandita, la qualifica si riferisce agli accomandatari); - se è una cooperativa, quando almeno un quinto dei soci è Iap; - se è una società di capitali, quando almeno un amministratore è Iap. Sul piano dei requisiti, occorre anche che, nelle società di persone, almeno un socio sia in possesso della qualifica di IAP (per le s.a.s. la qualifica si riferisce ai soci accomandatari); nelle società cooperative, almeno uno degli amministratori che sia anche socio sia in possesso della qualifica di IAP; nelle società di capitali, almeno un amministratore sia in possesso della qualifica di IAP.
[25]L'art. 7 passa in rassegna le agevolazioni fiscali previste per la creazione e la conservazione del compendio unico. In primis, il "trasferimento a qualsiasi titolo di terreni agricoli a coloro che si impegnino a costituire un compendio unico e a coltivarlo o a condurlo in qualità di coltivatore diretto o di imprenditore agricolo professionale per un periodo di almeno dieci anni dal trasferimento ..." (art. 7, comma 2) è esente da qualsiasi imposta (registro, ipotecaria, catastale, bollo) e "sconta" un onorario notarile ridotto a un sesto rispetto a quello ordinario.
[26] All'imprenditore agricolo professionale, iscritto nella competente sezione previdenziale e assistenziale, sono riconosciute le agevolazioni tributarie già previste per le persone fisiche con qualifica di coltivatore diretto. Inoltre, alla società agricola di persone composta da almeno la metà dei soci coltivatori diretti viene riconosciuto il diritto di prelazione e di riscatto di cui all'art. 8 L. n. 590 del 1965 e all’art. 7 L. n. 817 del 1971.
[27] Come è stato opportunamente sottolineato “la novità non è nel riconoscimento della possibile qualifica agricola delle società a prescindere dalla forma sociale assunta quanto piuttosto nell’esplicita formulazione di tale riconoscimento in un testo legislativo, accompagnata dall’individuazione di un preciso canone di esclusività dell’oggetto che ne rimarca la specialità”: v. Albisinni, Dal cantiere agricolo alle società agricole, in Dir. Giur. Agr. Alim. e dell’Ambiente, 2005, 455.
[28] S. Carmignani, Le società agricole, in Costato-Germanò-Rook Basile (diretto da), Trattato di diritto agrario, Torino, 2011, 231 ss.
[29] Dalla definizione si ricava il corollario per cui non sono attività imprenditoriali quelle funzionali al mero godimento di beni o alla soddisfazione di propri bisogni.
[30] In quest’ordine di idee, tra gli altri, v. F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, Milano, 1957, 325 ss.; M. Casanova, Impresa e la teoria giuridica dell'impresa e gli studi di Giorgio Oppo, in Riv. dir. civ., 1987, I, 227.
[31] Sull'Impresa civile v. L. Salis, L'Imprenditore civile, in Dir. e giur., 1948, 1 ss.; G. Oppo, Note preliminari sulla commercialità dell'impresa, in Riv. dir. civ., 1967, I, 561, 4; G.C. Rivolta, La teoria giuridica dell'impresa e gli studi di Giorgio Oppo, in Riv. dir. civ., 1987, I, 227 ss.
[32] V. Buonocore, L'impresa, Torino, 2002, 462 ss.
[33] Cass. 10 ottobre 2019, n. 25478. In dottrina v. G. Bonfante - G. Cottino, L'imprenditore, Tratt. Cottino, Padova, 2001, 508.
[34] Cfr. V. Buonocore, L'impresa cit., 139.
[35] F. Galgano, Diritto commerciale. L'imprenditore. Le società, Bologna, 2005, 23.
[36] In giurisprudenza V. Cass. 20 giugno 2000, n. 8374 e Cass. 21 ottobre 2020, n. 22955. In dottrina fra i tanti R. Costi, Fondazione e impresa, in Riv. civ., 1967, I, 1 ss.; A. Cetra, L'impresa collettiva non societaria, Torino, 2003, 68 ss.; M. Mozzarelli, I presupposti, in O. Cagnasso - L. Panzani (diretto da), Crisi d'impresa e procedure concorsuali, Milano, 2016, 329; M. Sandulli Il Fallimento I presupposti soggettivi e oggettivi, in Tratt. Jorio-Sassani, Milano, 2014, 111 ss.; G. Cavalli, I presupposti del fallimento, Il fallimento, in Tratt. Cottino, Padova, 2009, 119.
[37] G. Minervini, L'imprenditore. Fattispecie e statuti, Napoli, 1970, 49; G. Cottino, Diritto commerciale, I, 1, Padova, 1993, 136.
[38] Detti beni erano, infatti, suscettibili di essere alienati attraverso la cessione delle quote sociali anziché dell'immobile.
[39] A tenore dell’art. 1571 c.c. “La locazione è il contratto col quale una parte si obbliga a far godere all'altra una cosa mobile o immobile per un dato tempo, verso un determinato corrispettivo”.
[40] Cass., Sez. 1, 26 settembre 2018, n. 23157; Cass., Sez. 1, 16 dicembre 2013, n. 28015.
[41] Cass., Sez. 1, 22 febbraio 2019, n. 5342: “Risulta soggetta a fallimento l'impresa agricola costituita in forma societaria, quando risulti accertato in sede di merito l'esercizio in concreto di attività commerciale, in misura prevalente sull'attività agricola contemplata in via esclusiva dall'oggetto sociale, nonostante la sopravvenuta cessazione dell'attività commerciale al momento del deposito della domanda di fallimento nei suoi confronti”. V. anche Cass., Sez. 1, 8 agosto 2016, n. 16614; Cass., Sez. 1, 21 gennaio 2021, n. 1049.
[42] Cass., Sez. 1, 13 luglio 2017, n. 17343.
[43] Cass., Sez. 1, 23 luglio 1997, n. 6911.
[44] G. Petteruti, Imprenditore agricolo professionale e società agricole, in Immobili e proprietà, 2005, 10, 579.  

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