Detto questo, occorre tornare al problema prospettato come oggetto principale di questo contributo, e domandarsi che cosa il legislatore del CCII intenda con misure idonee facendo riferimento all’imprenditore individuale e, quindi, interrogarsi su quali tipologie di assetti organizzativi, amministrativi e contabili possano essere considerate, a questi fini, a sua disposizione.
Se infatti è vero che l’apparato normativo del CCII, coordinato con l’art. 2086 c.c., pare spingere l’imprenditore verso nuovi compiti, passando da una struttura con elementi personalistici forti, e rapporti per lo più informali, al modello della c.d. impresa manageriale, capace di superare i rischi insiti nel primo modello di imprenditorialità, occorre anche ricordare che le imprese individuali presentano caratteristiche molto diverse le une dalle altre, soprattutto con riferimento al tipo di attività svolta e alla struttura interna. Ma soprattutto, occorre ricordare che l’imprenditore individuale (così come il socio della società di persone), è comunque illimitatamente responsabile per le obbligazioni contratte nell’esercizio della sua attività e, pertanto, è fisiologicamente portato ad approntare un sistema di controlli preventivi sulla situazione organizzativa ed economica, in linea teorica molto più stringenti di quelli che possono venire approntati in una realtà societaria a colorazione manageriale.
Se pensiamo a come vengono trattati, sotto il profilo della sottoposizione alla disciplina del CCII, gli imprenditori individuali, occorre partire dal tipo di attività svolta. L’imprenditore individuale, è noto, può svolgere attività commerciale o agricola: in base al nuovo CCII, l’imprenditore agricolo, non è sottoponibile a liquidazione giudiziale o a concordato preventivo, ad eccezione di quello c.d. minore, ma può usufruire di altri strumenti di composizione della crisi. Per l’imprenditore agricolo è prevista l’iscrizione in una sezione speciale del Registro delle imprese, egli non è obbligato alla tenuta del libro giornale e del libro degli inventari, e neppure è obbligato a redigere il bilancio con cui, ai sensi dell’art. 2217, comma 2, c.c., l’inventario si chiude. Stesso discorso vale per l’imprenditore che svolge la sua attività in forma “minore”, ossia quello che nella vigenza della vecchia Legge Fallimentare veniva indicato come piccolo imprenditore, in collegamento con l’art. 2083 c.c.. Anch’esso non può essere sottoposto a liquidazione giudiziale né a concordato preventivo, né (a differenza, pare, dell’imprenditore agricolo), agli accordi di ristrutturazione dei debiti (l’art. 57, comma 1, CCII parla, infatti, di “imprenditore, anche non commerciale, diverso dall’imprenditore minore, in stato di crisi o di insolvenza”).
Detto questo, con riferimento alla tipizzazione delle c.d. “misure idonee”, e facendo un parallelo con quanto disposto per le società e gli altri enti collettivi, per i quali si parla di “assetti”, esse possono essere distinte in misure organizzative, amministrative e contabili. E, se volessimo, di nuovo, parificare, per ragioni di coerenza sistematica, la posizione dell’imprenditore individuale a quella dell’imprenditore collettivo face à assetti organizzativi e misure idonee, dovremmo ritenere che anche il primo debba provvedere alla loro individuazione e realizzazione ex ante, definendo con maggiore precisione ruoli e percorsi decisionali. Ma, riflettendo su quelle che realisticamente sono le caratteristiche dell’impresa individuale (agricola, commerciale, minore o meno che sia), emergono alcune discrepanze concettuali che occorre evidenziare.
È chiaro che l’imprenditore individuale è (come del resto esprime anche l’art. 2086 comma 1 c.c.), il capo dell’impresa, ma non solo. Spesso, infatti, il profilo organizzativo dell’impresa individuale si esaurisce nell’imprenditore stesso, che organizza da solo i mezzi della produzione o della prestazione del servizio. L’organizzazione, in questo senso, diviene appunto l’insieme degli strumenti e soprattutto dei rapporti interni che l’imprenditore utilizza nell’esercizio dell’attività. È da ricordare, inoltre, che in alcuni settori, in primis in quello agricolo, il significativo mutamente della disciplina, anche in seguito alle modifiche apportate nel 2001 all’art. 2135 c.c., ha favorito la multifunzionalità dell’impresa.
Detta multifunzionalità è divenuta ormai la scelta strategica intrapresa da molte aziende agricole che, a vario livello, svolgono diverse attività, per rispondere agli effetti negativi derivanti da un sistema orientato prevalentemente alla produzione di beni materiali. Per le imprese agricole, quindi, la multifunzionalità può rappresentare una nuova modalità di organizzazione dei fattori produttivi (risorse interne), finalizzata al perseguimento di obiettivi economici, ambientali e sociali nel medio e lungo periodo. E le strutture e le politiche decisionali approntate per gestire, appunto, detta multifunzionalità, posso comunque costituire misure idonee a rilevare tempestivamente un pericolo di crisi, modificando, per esempio, quanto meno nel breve periodo, il peso di ciascuna attività all’interno dell’impresa, attraverso scelte strategiche che pesano, ancora una volta, sull’imprenditore.
Volendo approfondire meglio il tema delle pratiche a carattere multifunzionale attivate dalle imprese, esse possono essere suddivise in tre categorie: Nella prima, indicata con il termine deepening (approfondimento, intensificazione), l’azienda valorizza e differenzia il suo potenziale produttivo, orientandolo su beni agricoli con caratteristiche diverse rispetto a quelli convenzionali (es.: prodotti biologici o tipici, denominazioni d’origine e indicazioni geografiche), oppure muovendosi lungo la filiera, per avvicinarsi al consumatore finale, acquisendo funzioni a valle della fase della produzione (es.: vendita diretta). Nella seconda categoria indicata con il termine broadening (allargamento, espansione), si amplia il ventaglio delle attività che producono reddito, alcune delle quali possono essere anche indipendenti dalla produzione agricola vera e propria; si valorizza l’attività imprenditoriale espandendola (allargandola), in un contesto rurale non più soltanto strettamente agricolo (es.: turismo rurale, gestione del paesaggio, conservazione della biodiversità). Nel terzo caso, quello del regrounding (riallocazione esterna), si parla di pluriattività e di quella che nella letteratura anglosassone viene definita come economical farming. La pluriattività, che ha avuto anche un ampio sviluppo in Italia negli anni Ottanta e Novanta, rappresenta un fenomeno strutturale e vitale, frutto di una strategia attiva di adattamento del settore primario alle dinamiche più generali del sistema socio-economico.[8]
Nelle imprese commerciali la multifunzionalità risulta invece più difficilmente applicabile e, pertanto, per migliorare il profilo organizzativo, si potrebbero individuare, di volta in volta, e a seconda del caso concreto, soggetti che, in funzione delle loro qualifiche e della loro posizione all’interno dell’impresa, possano fornire una sponda organizzativa all’imprenditore, dal punto di vista del controllo del funzionamento dell’organizzazione stessa. È noto che nell’esercizio di un’impresa (soprattutto commerciale), l’imprenditore può avvalersi della collaborazione di altri soggetti legati o da un rapporto di lavoro subordinato oppure, quali ausiliari esterni o autonomi, legati da un diverso rapporto contrattuale. È questo il caso, per esempio, di un giurista specializzato in diritto dell’impresa, che venga assunto con la funzione di esperto interno all’azienda, oppure, in casi meno ambiziosi, di un institore. Concretamente, la figura dell’institore è quella del direttore generale dell’impresa o di una filiale o di un settore produttivo della stessa e, nella maggior parte dei casi, si tratta di un lavoratore subordinato con la qualifica di dirigente, posto al vertice della gerarchia del personale: se preposto all’intera impresa dipenderà solo dall’imprenditore, soltanto da lui riceverà direttive e solo a lui dovrà rendere conto del suo operato[9].
Parlando poi di misure di tipo amministrativo, non si può fare a meno di ricordare che l’amministrazione dell’impresa individuale è rimessa totalmente al soggetto imprenditore, e che, pertanto non si può esorbitare da tale dimensione. Sarà pertanto l’imprenditore che dovrà occuparsi di definire l’assetto organizzativo (costituito da presidi funzionali, regole interne e strumenti); valutare in continuo il prevedibile andamento aziendale; valutare costantemente l’equilibrio finanziario e la sostenibilità del debito.
Sotto il profilo delle misure contabili, infine, le prescrizioni del CCII non paiono in linea, in particolare con la perdurante facoltà dell’imprenditore individuale agricolo o minore o piccolo, di non tenere le scritture contabili, a meno che non si ritenga che l’obbligo di adottare misure idonee a consentire la tempestività delle iniziative necessarie per far fronte alla crisi, implichi necessariamente il venir meno della facoltà concessa di non tenere le scritture contabili. Questa possibilità sembra fondata, se si pensa che, in base a quanto previsto dall’art. 4, comma 2, lettera a) del CCII, il debitore ha il dovere di illustrare la propria situazione in modo completo, veritiero e trasparente, fornendo ai creditori tutte le informazioni necessarie ed appropriate allo strumento di regolazione della crisi o dell’insolvenza prescelto. È comunque (e conclusivamente) da tenere in conto che l’adeguatezza degli assetti organizzativi risponde a un’esigenza di ordine più ampio, e investe il modo stesso di fare impresa, anche a prescindere dall’eventualità di una crisi. L’imprenditore accorto e visionario sa benissimo che nel modo in cui egli organizza le funzioni all’interno della propria impresa sta il valore aggiunto che gli consente di ottenere una struttura maggiormente resistente alle intemperie economiche e sicuramente più resiliente. Per questo risulta particolarmente importante sviluppare una sorta di pedagogia imprenditoriale che consenta alle imprese, soprattutto a quelle di minori dimensioni e a carattere prevalentemente familiare, di approntare un sistema di organizzazione che consenta di prevenire piuttosto che di curare le fasi di crisi.
A questo particolare proposito, è interessante prendere in considerazione i recenti studi condotti sul business family management, sia nell’ambito della gestione corrente e dell’assunzione delle decisioni, sia nell’ambito della crisi di impresa, al fine di puntare l’attenzione su quelle che sono, attualmente, le strategie di resistenza alla crisi e di resilienza post crisi tipicamente messe in atto nelle imprese a gestione familiare. Ciò in quanto le imprese a base familiare, differentemente dalle loro pari a base non familiare, beneficiano della convergenza di obiettivi e d’interessi che per sua natura la famiglia proprietaria persegue (preservare il controllo familiare per le generazioni future) e traggono giovamento sia dall’atteggiamento che i membri della famiglia solitamente adottano, sia di quel complesso di risorse uniche, rare, non imitabili e non sostituibili tipiche delle family business e che in letteratura vengono identificate come il termine familiness.[10]
Preciso che, in questo caso, faccio riferimento all’accezione classica di impresa familiare, ossia quella che è condotta attraverso l’attività lavorativa costante prestata all’interno dell’impresa individuale da uno o più familiari dell’imprenditore, quella che all’art. 230 bis c.c. è definita come l’impresa in cui collaborano continuativamente il coniuge, i parenti entro il terzo grado o gli affini entro il secondo. È, nel nostro sistema economico, questa, la forma normale di esercizio dell’attività imprenditoriale nelle famiglie dei coltivatori diretti, negli esercizi di vendita al dettaglio di prodotti alimentari (e non solo), nelle botteghe artigiane, nei piccoli alberghi e nella maggior parte delle attività di ristorazione.