Secondo le vigenti norme di diritto civile, gli accordi che l’imprenditore in crisi dovesse raggiungere con i suoi creditori obbligazionisti sono portati avanti per il tramite del rappresentante comune.
Certo è che la matrice comune a qualsivoglia diatriba, discende alla radice proprio dal fatto che la titolarità dell’obbligazione rimane in capo all’obbligazionista.
Per contro, il caso dell’emissione di un prestito obbligazionario supportato da un trust, consente di evidenziare le differenze che ne deriverebbero e i vantaggi che se ne ricaverebbero.
Come noto, il trust è strumento d’eccellenza, ogni qualvolta si tratti di istituire patrimoni destinati a scopi predeterminati, derogando al principio di responsabilità patrimoniale universale, per cui il debitore risponde delle obbligazioni con tutti i propri beni presenti e futuri (art. 2740 c.c.).
Nel trust, in particolare, il disponente trasferisce la proprietà di suoi beni al trustee, che ne acquista una titolarità vincolata dall'obbligo di realizzare gli scopi stabiliti nell'atto istitutivo. I beneficiari hanno il diritto di acquistare la proprietà del bene al momento dello scioglimento del trust, vantando, in costanza di rapporto (se previsto), il diritto a conseguire dazioni di denaro. I cespiti in trust rimangono insensibili rispetto alle pretese dei titolari di ragioni di credito sorte per scopi avulsi rispetto a quelli per i quali il patrimonio medesimo è stato istituito.
Può darsi oramai per scontata, già da decenni, la legittimità dell'istituto, essendosi pronunciate affermativamente un centinaio di sentenze
[2]. Mediante la ratifica della Convenzione dell'Aja del 1° luglio 1985, resa esecutiva in Italia con la L. n. 364 del 1989, l’Italia ha aperto la strada all’impiego dei trusts, definiti e descritti, a norma dell’art. 2 della Convenzione, alla stregua di “
rapporti giuridici istituiti da una persona, il disponente – con atto tra vivi o mortis causa –, qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell'interesse di un beneficiario o per un fine determinato”
[3]. Fisiologicamente, l’esigenza della separazione confligge con l'interesse dei creditori del soggetto che dà vita al patrimonio separato. É fondamentale, pertanto, che la separazione stessa sia adeguatamente giustificata sul piano causale, palesandosi strumentale alla realizzazione di uno scopo idoneo a supportare, a livello di meritevolezza, il sacrificio imposto al complesso di quei creditori, circoscrivendo l'aggredibilità di certi beni ai soli creditori i cui diritti nascano dall'attività posta in essere per il perseguimento del fine cui è connesso il patrimonio separato. I casi di abuso, spesso paventati, sono ampiamente fronteggiabili alla luce dei mezzi di tutela contemplati dall’ordinamento interno
[4].
Su queste premesse e tornando ai margini potenziali di ricorso al trust in relazione ad un prestito obbligazionario, due paiono le soluzioni principali adottabili.
La prima soluzione prospettabile è la più semplice e vede il trust quale strumento finalizzato a garantire il prestito, in luogo delle garanzie tipiche.
I limiti quantitativi che l’art. 2412 c.c. pone all’emissione di obbligazioni (vietando la sottoscrizione di prestiti obbligazionari per una somma che ecceda il capitale versato ed esistente secondo l’ultimo bilancio approvato) possono essere superati per le S.p.a e S.a.p.a quando, fra le altre, la sottoscrizione del prestito è garantita da ipoteca su immobili di proprietà sociale, sino a due terzi del valore di questi.
Le criticità che ne derivano sono note: l’impossibilità di accantonare i frutti prodotti dall’immobile dato in garanzia ad esclusivo beneficio degli obbligazionisti e l’inevitabile avvio della procedura esecutiva immobiliare, con vendita del cespite in sede di esecuzione forzata, in caso di mancato rimborso del prestito alla scadenza prevista; tempi lunghi ed abbattimento del valore.
La situazione sarebbe del tutto diversa qualora si facesse ricorso al trust, pensando ad un trust di scopo con nomina del guardiano identificato in una persona di fiducia degli obbligazionisti.
In tale eventualità, va da sé che il trust sarà statico sino al momento della scadenza del prestito, potendo tuttavia il trustee accantonare i frutti medio tempore prodottisi, per poi procedere in modo diverso a seconda di quanto accadrà: se il prestito verrà rimborsato dalla società, il trustee dichiarerà la cessazione del trust, retrocedendo alla società l’immobile ed i frutti; se la società sarà inadempiente, il trustee venderà l’immobile sul libero mercato (magari seguendo procedure garantiste già riportate nell’atto istitutivo) utilizzando il ricavato ed i frutti incassati per soddisfare gli obbligazionisti, retrocedendone l’eventuale eccedenza alla società.
Sulla stessa scia si pone l’operazione più sofisticata della previa creazione di una newco nella quale la società emittente conferisce l’immobile, per poi trasferire l’intera partecipazione al trustee che procederà di conseguenza.
Esiste un precedente del Tribunale di Milano del 1996
[5] che dichiarò legittima la delibera dell’assemblea di una S.p.a avente ad oggetto l’emissione di un prestito obbligazionario, garantito da un trust nel quale l’emittente aveva posto a garanzia l’intera partecipazione in una propria controllata, titolare dell’immobile oggetto della garanzia.
Nel caso trattato dal Tribunale milanese è interessante rimarcare che fra i poteri conferiti al trustee, vi era quello di vendere quote frazionate dell’immobile, laddove ritenuto opportuno.
In ogni caso questa prima ipotesi riguarda casi piuttosto intuitivi per chi conosca il trust, comprendendo subito come tale soluzione sia ancora più efficiente laddove il bene posto a garanzia del prestito, non sia un bene sociale ma un bene messo a disposizione da un terzo; ad esempio, un socio.
La seconda ipotesi è più sfidante e ci viene dalla prassi internazionale: il trustee quale unico titolare del prestito obbligazionario, che detiene nell’interesse dei beneficiari (i sottoscrittori del prestito) eliminando in radice la figura del rappresentante comune e divenendo invece il solo titolare dei diritti che spetterebbero agli obbligazionisti.
Esiste a riguardo un precedente della Corte di Cassazione del 2015
[6], che conferma la decisione di primo grado del Tribunale di Reggio Emilia
[7], dal quale trarre spunto per evidenziare la legittimità di tale soluzione per il nostro ordinamento e la sua estrema efficacia nel contesto che qui interessa.
La vicenda di cui si è occupata la Corte può così riassumersi: nel 2001 la società lussemburghese Alfa emette obbligazioni per 100 milioni, con rimborso del prestito entro il 2004, garantito della Alfa italiana, con sede a Reggio Emilia.
Si tratta di un’operazione frequente, posta in essere dalle società italiane quando, non volendo incorrere nei limiti dell’art. 2412 c.c., costituiscono ad hoc una newco in un paese che non preveda tali limiti, alla quale fanno emettere il prestito obbligazionario.
Nel concreto, quindi, la società reggiana garante è l’effettiva beneficiaria del prestito, impiegando le somme che ne derivano per far fronte ai debiti sociali.
A monte è stato istituito un trust, retto dalla legge inglese, dove sono stati conferiti al trustee, società lussemburghese, tutte le posizioni soggettive spettanti ai sottoscrittori del prestito, compreso quello di agire o resistere in giudizio a tutela degli interessi dei beneficiari del trust: gli obbligazionisti.
Il rapporto è formalizzato in un contratto trilaterale, del quale sono parti l’emittente, la garante e il trustee, e il regolamento del prestito viene interamente enunciato nell’atto istitutivo del trust.
Evidenti sono gli intenti perseguiti dalla società: evitare che obbligazionisti free riders diano corso ad azioni individuali in grado di compromettere l’operazione; assicurare all’intera classe degli obbligazionisti che i loro diritti sono efficacemente protetti.
Il trustee diviene quindi unico titolare del diritto reale sui beni in trust e può gestire il pacchetto titoli senza dover ricorrere alla complessa disciplina prevista per gli obbligazionisti (rappresentante comune, assemblea degli obbligazionisti).
La questione di specie è persino più peculiare perché le obbligazioni sono al portatore e rimangono nelle mani degli obbligazionisti (gli
absolute owners per il diritto inglese) ma ogni diritto loro spettante sorge esclusivamente in capo al trustee. Come precisa la dottrina a commento della sentenza di Cassazione citata: “
le posizioni soggettive derivanti dai titoli sono solo del trustee”
[8].
Falliscono sia l’emittente lussemburghese, sia la garante reggiana e avanti entrambi i tribunali sia il trustee, per conto di tutti i beneficiari, sia due singoli obbligazionisti free riders propongono domanda di ammissione al passivo.
Le conclusioni raggiunte da entrambi i tribunali sono le medesime con la differenza che per il caso italiano i due obbligazionisti ricorrono sino in Cassazione; quanto segue si limita alle conclusioni raggiunte dall’autorità giudiziaria italiana.
A fronte della domanda di ammissione al passivo nel fallimento reggiano, il GD ammette il trustee e respinge la domanda dei due obbligazionisti. In esito all’opposizione allo stato passivo, il Tribunale di Reggio Emilia conferma la decisione del GD e lo stesso fa la Suprema Corte.
Le conclusioni raggiunte dal giudice di legittimità, del tutto aderenti alle motivazioni del giudice reggiano, sono di estremo interesse.
Il trustee non può intendersi quale rappresentante degli obbligazionisti, essendo invece il solo creditore dell’intero prestito, con l’effetto di essere l’unico ad avere la legittimazione attiva e passiva e dunque il solo che possa far valere i diritti spettanti agli obbligazionisti.
Per contro i singoli obbligazionisti, in quanto beneficiari del trust, possono solo agire contro il trustee in caso di inadempimento dell’obbligazione fiduciaria di cui è gravato, ad esempio per aver temporeggiato in modo ingiustificato prima di chiedere il fallimento della emittente o della garante.
Precisa a riguardo la Corte che tali principi sono chiaramente enunciati nelle condizioni generali del contratto trilaterale che lega fra loro emittente, garante e trustee e risultano perfettamente conoscibili ai sottoscrittori del prestito.
Partendo da questa premessa, di significativa importanza divengono le argomentazioni in base alle quali la Corte ritiene destituite di fondamento i due dei principali motivi di impugnazione addotti dai due obbligazionisti.
Il trust istituito non viola l’art. 2419 cc, che riconosce al singolo obbligazionista il diritto di agire individualmente, a meno che la sua domanda non risulti incompatibile con le deliberazioni assembleari, in quanto si tratta di una norma priva di connotazione imperativa, potendo essere disattesa in presenza di delibera assembleare contraria all’interesse perseguito dal singolo obbligazionista.
Precisa infatti la Corte che, se risulta sufficiente una delibera assembleare a paralizzare l’azione del singolo ex art. 2419 cc, a maggior ragione questa deroga può aver fonte nel regolamento riportato nel trust del quale sono a conoscenza tutti i sottoscrittori, in quanto beneficiari del medesimo.
A seguire la Corte rigetta la paventata violazione dell’art. 15 lett. e) della Convenzione
[9] che vieta al trust di costituire un mezzo per eludere le norme poste a presidio dei diritti dei creditori in caso di insolvenza.
Chiarisce la Corte come non possa sussistere alcuna violazione della citata norma perché la piena titolarità dei diritti in capo al trustee comporta la sua esclusiva legittimazione ad agire, senza violare alcun diritto degli obbligazionisti che hanno avuto piena conoscenza di tale circostanza al momento della sottoscrizione del prestito.
L’art. 2419 cc, non avendo - come precisato - rango di norma imperativa, può risultare legittimamente derogato con un atto avente ad oggetto un diritto disponibile, espressione dell’autonomia negoziale dell’obbligazionista.
In conclusione, la società emittente-disponente del trust non ha violato i diritti degli obbligazionisti in caso di insolvenza dell’emittente (quindi non ha violato la lett. e) dell’art. 15) laddove ha previsto che la legittimazione attiva e passiva per i diritti che derivano dalla titolarità delle obbligazioni spetti esclusivamente in capo al trustee, esclusivo titolare delle suddette posizioni soggettive.
Nel commento alla sentenza di legittimità citata, si paventa persino la temerarietà delle azioni promosse dai singoli obbligazionisti.