Come premesso, la verifica della condizione circa la sussistenza della correttezza e buona fede nelle trattative che hanno caratterizzato la composizione negoziata, assume una posizione centrale perché essa caratterizza la stessa ricorribilità all’istituto del concordato semplificato (se si vuole, un po’ come quella della meritevolezza caratterizza la possibilità per il consumatore a ricorrere all’altro concordato coattivo del codice della crisi, la ristrutturazione del debito del consumatore, di cui agli artt. 67 ss).
Per questo mette conto avere ben presente in cosa debba consistere la buona fede e la correttezza nell’accezione propria dell’art. 25 sexies CCII.
Lo sforzo del decreto in commento sotto questo profilo appare veramente apprezzabile.
Invero ivi si precisa come il debitore debba intanto aver effettuato una completa disclosure circa la propria situazione di crisi, ma aggiungerei (ed è ovvio) anche in ordine alle risorse a disposizione.
Tale obbligo del resto può ricavarsi nello specifico dal dovere previsto all’art. 16, comma 4, CCII (cfr. sul punto anche infra).
Quindi, ed è questo un elemento centrale, il debitore deve aver posto “sul tavolo” (come in modo caratteristico si esprime il tribunale) una proposta seria, sebbene perfettibile. Ciò significa né più né meno che senza una proposta almeno astrattamente “fattibile”, supportata da valori idonei a sostenerla, e tale da garantire un soddisfacimento economicamente apprezzabile, il giudizio dell’esperto prima, e del tribunale poi, non potrà andare oltre, e la condizione in esame non può ritenersi presente.
Ma non deve trattarsi di una proposta compiuta, perfetta, proprio perché costituisce un punto di partenza per delle trattative.
A ben vedere comunque, l’assenza di una proposta di tal fatta esclude addirittura che ci siano delle vere trattative, che devono avere un punto di partenza qualificante, altrimenti non ha senso parlare del concetto stesso di negoziazione.
Inoltre il debitore deve dimostrare di essere disponibile a “trattare”, ad accogliere delle modifiche. Ciò è nell’in se di qualcosa che si sottopone a una “trattativa”, e quindi anche mancando questa disponibilità non può certo ritenersi che il debitore sia “in buona fede”.
Infine si richiede che il fallimento delle trattative non sia addebitabile al debitore.
Ciò assume un ben chiaro significato, del resto del tutto coerente con lo stesso concetto di buona fede e correttezza, nell’accezione ormai propria in base al codice civile, ed in particolare agli artt. 1175 e 1337 dello stesso.
Sottolinea quindi il Tribunale che in primo luogo, dunque, l’esito infausto, di fronte a premesse simili, non può che riconnettersi “in primo luogo” alla mancata collaborazione e buona fede in capo ai creditori.
Il che val quanto considerare la buona fede nelle trattative di cui all’art. 25 sexies, come una specificazione della clausola generale contenuta, in ambito concorsuale, all’art. 4 del CCII, di cui si dirà di nuovo.
Ma fin d’ora può anticiparsi come tale dovere, essenzialmente di “lealtà”, importa un obbligo di “protezione” pur non semplice da definirsi, anche in considerazione del fatto che le procedure, inclusa la composizione negoziale, riguardano una vasta categoria di soggetti, e i creditori poi sono a loro volta diversi, e possono assumere comportamenti differenziati[7] nell’ambito della composizione negoziata e delle relative trattative.
Chiaramente non si potrà far capo, senza adattamenti, al concetto di buona fede e correttezza di cui all’art. 1337 c.c., specie con riguardo ai creditori, per la semplice ragione che nel nostro caso essi hanno già a monte un titolo e un diritto di credito conseguente. Tuttavia il rifiuto o l’interruzione delle trattative, può configurare unitamente agli altri elementi suddetti l’effetto previsto dall’art. 25 sexies.
Anche sotto il profilo appena considerato, i limiti dell’obbligo di buona fede, incombenti dunque anche sui creditori, vanno allora ricercati piuttosto nell’art. 1175 c.c., relativo appunto ai rapporti fra debitore e creditore ed ai relativi comportamenti in sede di esecuzione dell’obbligazione, ed in particolare in quello che impone siffatto obbligo al creditore purché non oltre un “apprezzabile sacrificio”, che peraltro nella specie va calibrato alla luce dell’evidenza circa la sussistenza di una situazione di crisi od insolvenza.
Pertanto da un lato il debitore, che si trovi in siffatte situazione ma possa risolvere la crisi, ha il dovere (anche ai sensi dell’art. 1175 c.c.) di comportarsi secondo buona fede tentando di salvaguardare il creditore proprio attraverso le suddette trattative, e deve dunque tenere un comportamento come sopra descritto. Dall’altro il creditore deve considerare, nei limiti di un apprezzabile sacrificio, le soluzioni proposte, discutendole, proponendo acconce modifiche, giustificando le sue scelte.
Invero proprio a proposito dell’art. 1175 c.c. si individuano gli estremi della correttezza e buona fede in senso oggettivo nel dovere di “lealtà” del comportamento e nell’obbligo ancor più in particolare di salvaguardare l’utilità dell’altra parte nei limiti in cui ciò non comporti un apprezzabile sacrificio[8].
Chiaramente calando i concetti in ambiente concorsuale, o meglio ancora nell’ambito di una composizione negoziale, va osservato che se da un lato, come detto, ci si trova in presenza non di soggetti che siano qualificati solo dal coinvolgimento in una trattativa, ma rispettivamente di un debitore e dei suoi creditori, dall’altro è evidente il fatto che il legislatore abbia predisposto un apparato molto complesso e completo per consentire a tali soggetti di giungere ad un accordo, che assumerà le varie vesti previste dall’art. 23, a seguito di un iter negoziale del tutto equiparabile e finalizzato a tale esito, e dunque assai prossimo all’ipotesi presa di mira proprio dall’art. 1337 c.c.
Certamente poi anche il concetto di “apprezzabile sacrificio” va calato nella speciale realtà che ne occupa: esso va comparato non già all’alternativa fra un accordo e l’integrale soddisfacimento, ma tra quanto prospettato ragionevolmente (almeno in termini astratti) dal debitore in sede di trattativa e quanto ragionevolmente perseguibile dai creditori tramite una procedura concorsuale, tenuto conto della condizione di crisi o addirittura d’insolvenza che caratterizza il primo.
Il che ci porta a pensare che se da un punto di vista dei limiti dello sforzo richiesto ci si debba regolare sulla scorta di quanto previsto dall’art. 1175 c.c., sotto quello dei comportamenti dovuti si debba invece far capo piuttosto all’art. 1337 c.c., mentre circa le conseguenze della violazione si deve escludere qualsiasi riferimento alle norme civilistiche (che almeno in rapporto a tale ultima disposizione evocano rimedi risarcitori) per far capo, come vedremo, alle specifiche previsioni del codice della crisi.
Del resto che in tal senso vada il legislatore lo si comprende già dalla stessa previsione di misure protettive, ed in particolare di quelle incidenti sulle libertà contrattuali, così come delineate dall’art. 18, comma 5, CCII.
Se poi i limiti e i contenuti del dovere di buona fede possono rintracciati nelle anzidette norme civilistiche, tenuto conto delle speciali caratteristiche della nostra ipotesi, deve rammentarsi che lo stesso codice della crisi non manca di sottolineare la sussistenza di tali obblighi in generale a carico di entrambi, debitore e creditori.
In particolare la stessa pronuncia in commento ricorda che l’art. 4 CCII obbliga le parti coinvolte nelle trattative e nei procedimenti di regolazione della crisi a comportarsi secondo buona fede e correttezza, e che siffatti doveri trovano poi specificazione: all’art. 16, comma 4, in base al quale il debitore deve rappresentare in modo completo e trasparente la propria posizione, gestendo l’impresa senza pregiudicare l’interesse dei creditori; nell’obbligo di verificare la completezza della documentazione predisposta ai sensi dell’art. 17 CCII; nel dovere ai sensi dell’art. 21 CCII di gestire l’impresa durante le trattative in modo da evitare il pregiudizio alla sostenibilità economico-finanziaria dell’attività.