L’uno e l’altro orientamento, restrittivo ed estensivo, hanno, però, un tratto in comune, l’assenza di sostanziali dubbi riguardo alla regola di priorità applicabile, diversa essendo solo la massa patrimoniale a cui applicarla: ed è la regola di priorità assoluta, interpretata nel senso del necessario esaurimento del credito di grado superiore prima di poter distribuire risorse al credito di grado inferiore. In vero, per quanto la locuzione «ordine delle cause legittime di prelazione», di cui all’art. 160, comma 2, l.f., non sia limpida[48], non sembra potersene inferire che, ferma la graduazione gerarchica dei crediti, essa lascerebbe spazio ad un’interpretazione favorevole alla RPR, in ragione dell’assenza di un’esplicita prescrizione di legge circa il necessario integrale soddisfacimento del grado superiore, salva, per l’appunto, la prescrizione in punto di rapporto tra gradi[49]. E certamente non può soccorrere la fattispecie dell’art. 182-ter l.f., dall’ambito applicativo affatto peculiare e, soprattutto, dal dettato letterale inequivoco in punto di RPR (“all’italiana”, come si è osservato). In senso negativo, piuttosto, va considerato che, a fronte del principio di uguaglianza formale, di cui è espressione il criterio della par condicio codificato dall’art. 2741 c.c., la scelta politica del legislatore in ordine all’attribuzione al credito della qualità privilegiata, e alla graduazione dei privilegi, «risponde ad una finalità riequilibratrice in un’ottica di eguaglianza sostanziale»[50]. Quella finalità rischierebbe di essere frustrata, nel rapporto tra crediti inter se considerati (senza, dunque, che vengano ad emersione ulteriori valori di comparazione), se non vi fosse l’integrale soddisfacimento del credito di rango superiore. D’altronde, la stessa unicità della graduatoria dei privilegi mobiliari, tra generali e speciali, di cui agli artt. 2777 e 2778 c.c., «porta alla conseguenza che un privilegio generale prioritario, se non trovi soddisfazione su altri beni mobili, estende la sua collocazione satisfattiva sui beni gravati da privilegi speciali successivi, potendoli lasciare in tutto o in parte incapienti»[51]; a riprova della rilevanza della graduatoria anche in termini di integralità del soddisfacimento. Altro è a dirsi qualora sia lo stesso legislatore ad adottare una diversa scelta, in termini di parziale soddisfacimento del credito maggiormente meritevole, motivata in base all’esigenza di un bilanciamento di interessi tra tutela del credito e tutela della continuità d’impresa[52]; ma, per l’appunto, è il portato dell’eventuale adozione della regola di priorità relativa[53].
Se, dunque, “ordine delle cause legittime di prelazione” sta ad indicare non solo priorità di soddisfacimento del grado superiore, ma anche integrale soddisfacimento di esso, ciò che non persuade è l’applicazione dell’art. 2740 c.c. al concordato in continuità, già nella “trama” disegnata dall’art. 186-bis l.f., e ancor di più in quella risultante dalla direttiva 1023.
Non è dubbio che la garanzia del credito (“leggendo” la fattispecie dell’art. 2740 c.c. dalla prospettiva del creditore) ha rilevanza costituzionale, perché l’effettività del diritto soggettivo è assicurata dall’effettività della relativa tutela ex art. 24 Cost.[54]. Debito e responsabilità (credito e garanzia) costituiscono un binomio inscindibile, senza che sia dato – ai presenti fini e per ovvie ragioni di brevità dell’esposizione – riprendere le assai elevate discussioni dottrinali intorno al modello tedesco dell’obbligazione, unitario sì, ma con la scomposizione nei due “momenti” dello “Schuld” e dell’“Haftung”[55]. Sebbene il tema della “collocazione” della responsabilità al di fuori o all’interno del rapporto obbligatorio non trovi riscontro pratico nei repertori di giurisprudenza[56], esso, ai presenti fini, induce un’utile suggestione, consentendo di porre in evidenza come la disciplina del concordato in continuità attiene alla conformazione dell’obbligazione, vale a dire ad una sorta di revisione dello “Schuld” in funzione del risanamento e della conseguente prosecuzione dell’attività d’impresa; solo in via residuale è attuazione della responsabilità, e cioè dell’“Haftung”[57]. D’altronde, l’art. 2740 c.c. è norma che regola la responsabilità nei confronti del singolo creditore (peraltro assumendo, implicitamente, la possibilità del pieno soddisfacimento della relativa pretesa)[58]; così come l’art. 2741 c.c., che pur codifica il principio della par condicio, salve le cause legittime di prelazione, disciplina una fattispecie di “«cripto-concorso», com’è stato suggestivamente osservato di recente, in quanto rimanda all’alveo naturale dell’esecuzione del codice del rito civile, nella quale il concorso non concerne la totalità dei creditori[59].
Il valore del risanamento dell’impresa in crisi attraverso soluzioni negoziate, alla base della “stagione” delle riforme del diritto concorsuale a partire dal 2005, rende ragione dell’insufficienza di una “lettura” del concordato in continuità nella sola prospettiva dell’attuazione della responsabilità patrimoniale (recte, della garanzia patrimoniale)[60]. La “conformazione remissoria” del debito è funzionale a quel valore (dunque, alla preservazione e, auspicabilmente, alla creazione di ricchezza); e il soddisfacimento della quota del debito residua è mera, e ovvia, conseguenza della “conformazione”, che riveste rilevanza centrale già nella disciplina dell’art. 186-bis l.f. (se pur con riguardo alla continuità nella prospettiva del «miglior soddisfacimento» dei creditori). In un contesto segnato dal passaggio da un’economia industriale ad un’economia finanziaria, nella quale la consistenza economica di un’impresa dipende, in misura sensibile, da beni immateriali, che andrebbero perduti o che verrebbero grandemente svalutati in una direzione liquidatoria, anziché conservativa, del patrimonio[61], si è ora inserita la direttiva 1023, che pone al centro della scena un fascio di interessi che non si esaurisce nella tutela del credito, consentendo di ribadire che l’attuazione della garanzia patrimoniale ex art. 2740 c.c. non è il tratto esclusivamente qualificante il concordato in continuità. Ciò emerge con evidenza all’art. 4, là dove, con manifesta inversione enfatica (tra preservazione dell’attività e tutela dei posti di lavoro), si afferma che l’accesso ad un quadro di ristrutturazione preventiva deve consentire al debitore «la ristrutturazione, al fine di impedire l’insolvenza e di assicurare la […] sostenibilità economica, […], così da tutelare i posti di lavoro e preservare l’attività imprenditoriale»[62].
Nel sistema delineato dalla direttiva 1023 – lo si è cennato in precedenza – il «miglior soddisfacimento» dei creditori, da valore-fine, rispetto al valore-mezzo della continuità nel “tessuto” dell’art. 186-bis l.f., diviene uno dei valori da perseguire con la prosecuzione dell’attività d’impresa. Peraltro, un valore a rigore non tutelabile ex officio, dal momento che l’art. 10, par. 2, comma 2, direttiva 1023 ne prevede il controllo giudiziale «solo se il piano di ristrutturazione è stato contestato per tale motivo», ferma la legittimazione del singolo creditore anche in caso di consenso unanime delle classi; così come è detta contestazione a schiudere l’adito alla «decisione [giudiziaria o amministrativa] sulla valutazione dell’impresa del debitore» ai sensi del successivo art. 14, par. 1, lett. a). La chiara esigenza alla base di tali disposizioni è la celerità dei «quadri di ristrutturazione preventiva», nella consapevolezza che il tempo è variabile determinante ai fini del risanamento[63]. In questa direzione – vale a dire se quella celerità sia, comunque, assicurata dalla scansione temporale (effettiva, oltre che di legge, parrebbe doveroso aggiungere) del procedimento – potrebbe anche ragionarsi in ordine all’ammissibilità del controllo officioso (ma in fase di omologazione, e non come requisito di ammissione): è quanto parrebbe potersi desumere sia dall’art. 26, primo comma, StaRUG, per l’ipotesi di cross class cram down, sia dall’art. l. 626-31, comma 4, Code de commerce, per l’ipotesi di contestazione individuale, poi richiamata, anche per il cross class cram down, dal successivo art. 626-32, primo comma[64].
Anche a seguire – come pare necessario – l’impostazione letterale della direttiva 1023 in ordine al controllo ex officio, il «miglior soddisfacimento» resta valore-cardine: in quanto valore patrimoniale, però, disponibile da parte del titolare, onerato della contestazione-impugnazione della proposta che lo regola, in ipotesi in modo incongruo[65]. E la centralità del(la tutela individuale del) credito è dimostrata dalla circostanza che quel “nucleo” minimo protetto (il soddisfacimento in misura non deteriore rispetto alle alternative), disponibile, sì, dall’interessato, ma incomprimibile da parte del debitore, ha rilevanza costituzionale, una volta acquisita l’estensione al diritto di credito della tutela della proprietà ex art. 42 Cost.[66], corroborata dalla giurisprudenza della CEDU ai sensi del Protocollo 1 dell’art. 1 della Convenzione (fonte, come noto, interposta ex art. 117, comma 1, Cost.) e rafforzata, sempre nella direzione della rilevanza costituzionale, dall’art. 17 del Trattato di Nizza, tale per cui nessuno può essere privato di un diritto (“espropriato”) se non verso integrale riparazione del pregiudizio sofferto[67]. Trova, dunque, conferma che far parola di attuazione della responsabilità patrimoniale ex art. 2740 c.c. nel concordato in continuità equivale a cogliere solo una porzione – sebbene rilevante – degli interessi realizzati attraverso quella procedura[68].
Comunque, permanendo nel “solco” principale, così da ritenere che la disciplina del concordato in continuità sia anche attuazione della responsabilità patrimoniale ex art. 2740 c.c. (è, d’altronde, indiscutibile che la pretesa creditoria riceva soddisfazione nella procedura concorsuale, se pur secondo modalità diverse da quelle proprie dell’esecuzione coattiva regolata dal codice del rito civile), è il richiamo al concetto di “bene futuro” a non persuadere, nell’asserita estensione al plusvalore da continuità. Già le primissime – assai autorevoli – voci dottrinali avevano rilevato che, nell’impianto dell’art. 2740 c.c., il bene era “futuro” con riguardo alla data di insorgenza dell’obbligazione, ma presente rispetto alla data di avvio dell’esecuzione[69]. D’altronde, se è vero che sono pignorabili i crediti futuri, per cui si può ragionare di bene futuro anche rispetto al tempo dell’avvio dell’esecuzione, è altrettanto vero che il titolo deve preesistere all’azione esecutiva (donde la distinzione tra credito “futuro” e credito “eventuale”[70]), e non è il caso, almeno in tesi generale, del plusvalore da continuità[71]. Che l’art. 42, comma 2, l.f. estenda la responsabilità patrimoniale del fallito anche a beni futuri, il cui titolo non preesista al fallimento, trova giustificazione proprio nella procedura liquidatoria, senza che occorra invocare l’assenza di relatio a tale disposizione nell’art. 169 l.f.[72].
In ultima battuta, come si cennava poc’anzi, ove si ritenesse applicabile l’art. 2740 c.c. e si considerasse il plusvalore da continuità quale “bene futuro”, i sostenitori della libera allocazione del plusvalore ritengono che altra prospettiva venga in soccorso, vale a dire l’identificazione, nell’art. 186-bis l.f., di una fattispecie legislativa di limitazione della responsabilità, ai sensi del secondo comma dell’art. 2740 c.c., per l’appunto confinata a quanto occorrente al «miglior soddisfacimento» dei creditori[73].