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Saggio

Considerazioni intorno al plusvalore da continuità e alla “distribuzione” del patrimonio (tra regole di priorità assoluta e regole di priorità relativa)*

Giorgio Lener, Ordinario di Istituzioni di diritto privato nell’Università di Roma “Tor Vergata”

25 Febbraio 2022

*Il saggio è destinato agli Scritti per il centenario della nascita di Renato Scognamiglio.
L'Autore riflette funditus sul surplus distribuibile correlato alla continuità aziendale nel differente quadro tracciato dalla absolute priority rule e dalla relative priority rule.
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1.1 . Il favor per la continuità
La conservazione dell’impresa in senso oggettivo è il pacifico Leitmotiv delle riforme del diritto concorsuale succedutesi a partire dal 2005, di cui costituisce, ora, “suggello” e completamento (perché d’ordine squisitamente stragiudiziale) il recentissimo procedimento di composizione negoziata della crisi, di cui al d.l. n. 118/2021[1]. Dalla novella si trae indiretta conferma che le norme inderogabili, tipiche della disciplina concorsuale, si giustificano allorché garantiscano la tenuta del sistema o una maggiore efficienza in termini di risultati per le parti coinvolte, mentre la libera contrattazione dovrebbe prevalere là dove il superamento dei conflitti, e della crisi d’impresa (qui in rilievo), appaiano perseguibili mediante soluzioni diversificate e modulate in base alle differenti esigenze dei “contraenti” (che, nella crisi d’impresa, si identificano negli “stakeholders”). La “via” concordataria, infatti, non è la soluzione più efficiente in tutte le possibili situazioni; e come il legislatore appresta varie “forme” societarie per lo svolgimento dell’attività d’impresa, così non è ragionevole che una singola procedura concorsuale “preventiva” possa rispondere a tutte le possibili manifestazioni della crisi. L’utilità sociale degli strumenti di composizione di detta crisi risiede, dunque, nella loro modularità e adattabilità ai diversi contesti e gradi della stessa.
Nel caso della crisi d’impresa “concorsualizzata”, il favor per la continuità – intorno a cui ruota la recente direttiva (UE) 2019/1023 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019[2] – pone al centro della scena il tema dell’allocazione del (plus)valore della continuità. In questo contesto, le regole di priorità sono regole di distribuzione del patrimonio dell’impresa in crisi, in primo luogo tra creditori (concorsuali); tuttavia, la rilevanza di esse è notevole anche nel rapporto tra creditori e soci (c.d. “residual claimants”, quanto alla ipotetica restituzione dell’apporto di capitale di rischio), come si avrà modo di esaminare nel prosieguo.
La citata direttiva 1023 dètta, all’art. 11, la definizione di regole di priorità assoluta e di priorità relativa, quali regole alternative: nella specie, la regola di priorità relativa (nel prosieguo, “RPR”) prescrive che «le classi di voto dissenzienti di creditori interessati ricevano un trattamento almeno tanto favorevole quanto quello delle altre classi dello stesso rango e più favorevole di quello delle classi inferiori»[3]; la regola di priorità assoluta (nel prosieguo, “APR”), che «i diritti dei creditori interessati di una classe di voto dissenziente siano pienamente soddisfatti con mezzi uguali o equivalenti se è previsto che una classe inferiore riceva pagamenti o mantenga interessi in base al piano di ristrutturazione»[4]. Va, però, subito sottolineato che quelle regole trovano applicazione soltanto in caso di c.d. «ristrutturazione trasversale dei debiti» (nota anche come «cross class cram down»), vale a dire qualora il «piano» non sia stato approvato dalla totalità delle classi[5]. In particolare, fermo il rispetto (anche) delle prescrizioni dell’art. 10, par. 2 e 3, è dato conseguire l’omologazione, necessaria in caso di ristrutturazione trasversale, ove il piano sia approvato dalla maggioranza delle classi, una delle quali di creditori garantiti o di rango superiore ai chirografari, oppure, in mancanza, da almeno una delle classi, purché c.d. “in the money”, vale a dire «una delle classi di voto di parti interessate o, se previsto dal diritto nazionale, di parti che subiscono un pregiudizio, diversa da una classe di detentori di strumenti di capitale o altra classe che, in base a una valutazione del debitore in regime di continuità aziendale, non riceverebbe alcun pagamento né manterrebbe alcun interesse o, se previsto dal diritto nazionale, si possa ragionevolmente presumere che non riceva alcun pagamento né mantenga alcun interesse se fosse applicato il normale grado di priorità di liquidazione a norma del diritto nazionale»[6].
Nell’ordinamento interno non si dubita che sia vigente l’APR, e si ritiene di averne conferma, in ambito concorsuale, nel principio del rispetto (o “non alterazione”) dell’ordine delle cause di prelazione (così all’art. 160, secondo comma, ultima proposizione, l.f.)[7]. Si osserverà più appresso, tuttavia, per un verso, che l’applicazione della regola di priorità assoluta – secondo l’impostazione della direttiva 1023 (che, in questo, trae evidente ispirazione dal modello nordamericano[8]) – implicherebbe, nella generalità delle ipotesi di continuità concordataria[9], l’estromissione dei soci dal capitale [10], ciò che non avviene nella prassi, e, per l’altro, che il nostro sistema già conosce una singolare regola di priorità relativa, all’art. 182-ter, comma 1, l.f.
Oggi, la direttiva 1023 – peraltro, adottando la RPR quale “default rule” – impone una “scelta di campo”, se non rigida (consentendo, l’art. 11, par. 2, secondo comma, il ricorso a “formule” flessibili), per certo coerente nello svolgimento applicativo delle regole di priorità (in termini più espliciti, se si adottasse l’APR “pura”, in apparente coerenza con la situazione attuale, i soci non potrebbero, di regola, “mantenere interessi”), richiedendo di superare definitivamente la “barriera” tra creditori e soci, in caso di crisi, in ragione del “comun denominatore” costituito dal c.d. “patrimonio responsabile”[11] [12].
1.2 . Valore di liquidazione giudiziale e «miglior soddisfacimento» nella direttiva 2019/1023
La regola di priorità richiede, come ovvio, di identificare il “patrimonio” al quale va applicata. Il “filtro” di ammissibilità – previsto sia all’art. 160, secondo comma, prima proposizione, l.f., con riguardo alla degradazione dei crediti privilegiati per incapienza e alla relazione giurata di trattamento non deteriore rispetto all’alternativa della liquidazione giudiziale, sia all’art. 186-bis, secondo comma, lett. b), con riguardo all’attestazione del «miglior soddisfacimento» dei creditori – ha portato, nella prassi applicativa, ad una scomposizione astratta del patrimonio in un “prima” (il patrimonio secondo il valore di liquidazione giudiziale) e in un “dopo” (il c.d. “surplus da continuità” o “plusvalore da continuità”), rispetto all’attuazione del piano di risanamento. In una direzione non dissimile – ravvisandosi, in tutte le procedure concorsuali indistintamente, dalla larga maggioranza della dottrina e dalla giurisprudenza unanime, l’attuazione della responsabilità patrimoniale ex art. 2740 c.c. –, di quella scomposizione si è ravvisata manifestazione già nella distinzione, contenuta nel codice civile, tra “beni presenti” e “beni futuri”, disputandosi della libera allocabilità, o non, di questi ultimi, in caso di concordato in continuità. La direttiva 1023 non sembra recepire quella scomposizione astratta, riferendosi unicamente al «piano di ristrutturazione», e al relativo valore, in via unitaria; ed è quel valore che, quale che sia la regola di priorità prescelta, va allocato tra creditori e soci. Per il vero, la direttiva 1023 si riferisce anche al valore di liquidazione giudiziale, ma limitatamente alla verifica del miglior soddisfacimento dei creditori, sempre invocabile dal singolo creditore dissenziente, anche in caso di unanimità delle classi, inteso in un’accezione diversa da quella – secondo la “vulgata” interpretativa domestica[13] – quale «verifica che stabilisce che nessun creditore dissenziente uscirà dal piano di ristrutturazione svantaggiato rispetto a come uscirebbe in caso di liquidazione se fosse applicato il normale grado di priorità di liquidazione a norma del diritto nazionale, sia essa una liquidazione per settori o una vendita dell’impresa in regime di continuità aziendale, oppure nel caso del migliore scenario alternativo possibile se il piano di ristrutturazione non fosse omologato» (così l’art. 2, par. 1, n. 6)). Dunque, trattamento non deteriore, e non già trattamento migliore, rispetto allo “scenario” di raffronto[14].
1.3 . Il “surplus” da continuità
Va ancora aggiunto che, a ritenere la scomposizione in parola (tra valore di liquidazione e plusvalore da continuità) compatibile con l’impianto della direttiva 1023, occorre stabilire cos’abbia ad intendersi per “surplus da continuità”, difettando una definizione normativa (solo a mo’ di esempio, nel novellato Chapter 11 dello US Bankruptcy Code è stata introdotta, al §1191d, la definizione di «disposable income», a seguito dello Small Business Reform Act del 2019[15]). Tuttavia, sulla scorta delle pronunce giurisprudenziali sembra possibile dare risposta nel senso della differenza, alla data di apertura del concorso, tra il valore di liquidazione giudiziale del patrimonio e il valore dell’azienda in continuità, quali stimati nel piano; con due precisazioni, peraltro. Per un verso, il valore di liquidazione giudiziale dovrebbe determinarsi avuto riguardo all’azienda quale universitas, e non ai singoli beni di cui si compone: è ben vero che la direttiva 1023 menziona i due criteri come alternativi[16], ma la scelta preferenziale dell’art. 105, primo comma, l.f. induce ad optare per una considerazione unitaria e non atomistica (pur se la richiamata disposizione indica un criterio di scelta nella concreta attività liquidatoria rimessa al curatore). Ragionare di “tertium comparationis” rispetto al valore della continuità non deve indurre, viceversa, ad assumere a parametro, necessariamente, il valore in esercizio provvisorio (fermo restando che sarebbe, comunque, un valore conservativo, per la finalità transeunte propria della prosecuzione dell’attività); ciò perché l’esercizio provvisorio è evenienza scarsamente ricorrente nella prassi, sì che non può divenire criterio di applicazione generale[17]. Per altro verso, il valore dell’azienda in continuità è quello determinato nel piano di concordato presentato, vale a dire quello stimato dal debitore: in base ad esso sarà formulata la proposta e assunto il vincolo proprio della promessa concordataria, irrilevanti essendo eventuali differenze tra la stima e il valore riscontrato nel concreto (peraltro, possibile “frutto” di investimenti futuri, non previsti nel piano, oltre che di risultati più satisfattivi, nell’invarianza degli investimenti previsti), sempre che non venga leso il canone del «miglior soddisfacimento» (nell’accezione della direttiva 1023).
Il cenno al «disposable income» dello SBRA nordamericano, poc’anzi compiuto in parallelo al “plusvalore da continuità” interno, consente di sottolineare come, nella patria dell’APR[18], si registrano, da ultimo – con riguardo alle (per gli statunitensi) imprese di dimensioni assai modeste –, segnali innovativi rispetto alla tradizione. Tuttavia, la RPR di cui si discuteva da tempo, ben prima dello SBRA, costituiva una sorta di affinamento dell’APR, dunque, nella perdurante vigenza della regola di priorità assoluta: così, l’American Bankruptcy Institute, nel 2014, aveva proposto, per quel che qui rileva, una revisione del Chapter 11 sia nella direzione – già nota alla prassi[19] – di consentire ai soci di permanere nel capitale, previo apporto di nuove risorse[20] sia nella direzione del c.d. “SME equity retention plan”, con un’opzione di riacquisto delle partecipazioni[21]. Lo SBRA, da ultimo, ha previsto, per le imprese con esposizione debitoria sino a 2,725 milioni di dollari (soglia innalzata a 7,5 milioni di dollari in ragione della pandemia), che i soci possano conservare le partecipazioni, nonostante il dissenso di una o più classi di creditori non privilegiati, purché il piano sia “fair and equitable”, ed è tale il piano che, pur consentendo ai soci di restare proprietari dell’impresa, assegni ai creditori il «projected disposable income» per 3/5 anni. Segnali innovativi e tanto più significativi perché provengono dall’ordinamento nordamericano, che resta, però, nelle sue linee generali, contraddistinto dall’APR, tanto da farsi parola in dottrina, in relazione alle ipotesi di “aggiustamento” di quella di regola di priorità, di «US RPR» per distinguerla dalla «EU RPR» della direttiva 1023, profondamente diversa, come emerge dalla semplice definizione sopra riportata[22].
1.4 . Il consenso della totalità delle classi
Come si cennava, la regola-base dell’unanimità, nella direttiva 1023, non comporta l’applicazione di alcuna regola di priorità, né assoluta né relativa. Ciò è chiarissimo nella differente sedes materiae, l’art. 9, par. 6, per la prima; l’art. 11 per le seconde, nell’ambito della c.d. «ristrutturazione trasversale dei debiti», per tale intendendosi la ristrutturazione in forza di un piano omologato dall’autorità giudiziaria nonostante il dissenso di una o più classi di creditori.
La distribuzione del patrimonio, pertanto, in caso di unanime consenso delle classi, può avvenire secondo le previsioni del piano e della proposta, nel dominio dell’autonomia privata e senza temperamenti di sorta dovuti al rispetto della par condicio, o di quel che ne residua in una procedura concorsuale. D’altronde, ai sensi dell’art. 10, par. 1, direttiva 1023, l’omologazione è necessaria solo in caso di ristrutturazione trasversale (o di erogazione di nuovi finanziamenti oppure ancora di riduzione della forza-lavoro di oltre il 25%), e solo nell’evenienza dell’omologazione occorre che «i creditori con una sufficiente comunanza di interessi nella stessa classe ricevano pari trattamento, proporzionalmente al credito rispettivo». Vero è che, “calata” la disciplina comunitaria nel contesto del concordato preventivo del diritto interno (assumendo che su di esso il legislatore nazionale delegato intenda incidere, per attuare la direttiva 1023), l’omologazione è sempre prevista, sì che l’appartenenza alla medesima classe dovrebbe comportare l’attribuzione del medesimo trattamento del credito; ma, posto ciò con riguardo al regime interno alla classe, nel rapporto tra classi non c’è regola di priorità da rispettare. In altri termini, la disciplina si approssima notevolmente a quella propria, nel nostro ordinamento, degli accordi di ristrutturazione ad efficacia estesa, senza che vi sia necessariamente il quorum del 75% (o del 60%, se vi si acceda all’esito della composizione negoziata ex d.l. n. 118/2021), dal momento che il legislatore UE ha rimesso al legislatore nazionale la scelta del quorum, indicando nel 75% la “soglia” massima di consenso. Consenso, va aggiunto, che solo in caso di approvazione unanime, implica, con certezza, l’approvazione da parte della maggioranza dei creditori, siccome la maggioranza interna a ciascuna classe si determina in base al valore dei crediti (con la possibilità di “arricchirla” con la maggioranza per “teste”). All’opposto, nella ristrutturazione trasversale di cui all’art. 11, il valore dei crediti “evapora” – ferma la rilevanza per il calcolo all’interno della classe, come appena rammentato –, perché ciò che viene in considerazione è, unicamente, l’approvazione da parte della maggioranza delle classi (quale che sia l’entità dei crediti che esse esprimono) o, addirittura, l’approvazione da parte di una sola classe (che è assai improbabile possa rappresentare la maggioranza dei crediti). Resta pur sempre, vuoi in caso di unanimità vuoi in caso di ristrutturazione trasversale, la legittimazione del singolo creditore dissenziente (appartenente alla classe favorevole o alla classe dissenziente) a contestare la violazione del «miglior soddisfacimento».
1.5 . L’art. 182-ter l.f. e la regola di priorità relativa “all’italiana”
In ultimo, va osservato che l’ingresso della RPR nel nostro ordinamento non costituirebbe una novità assoluta, ciò che vale a segnalare come il “gioco” delle regole di priorità nell’attuale disciplina del concordato preventivo in continuità abbia dato vita, anche in ragione della prassi applicativa, ad un singolare ibrido, con una sorta di temperamento de facto dell’APR a beneficio dei soci, per un verso, e con una RPR “all’italiana” quanto ai crediti erariali e contributivi, per l’altro.
In vero, nei concordati in continuità – come si osserverà nel prosieguo – si controverte se il surplus sia liberamente distribuibile, ma non viene di regola messa in discussione, nella prassi giudiziale, la permanenza dei soci nel capitale sociale. Anche per chi professa fedeltà piena all’APR ciò che rileva è che, nel c.d. “arco di piano” (3/5 anni, a seconda dei casi), il plusvalore vada a beneficio dei creditori. I soci restano, per così dire, “quiescenti” sino al compimento di quell’“arco” temporale e sempre che sia soddisfatta la promessa concordataria (o, quanto meno, sia insoddisfatta in misura non rilevante, tale da non schiudere l’adito alla risoluzione). Peraltro, una volta soddisfatta la promessa, in ipotesi – proseguendo nell’esemplificazione secondo la linea dell’apparente rigore nell’applicare l’APR – con l’integrale attribuzione ai creditori del surplus stimato nel piano, l’eventuale supero, rispetto a quel surplus, frutto dell’effettivo andamento dell’attività, migliore rispetto alle stime, sarebbe liberamente allocabile (dunque, verrebbe attribuito ai soci, ad esempio sotto forma di utili). Negli ultimi anni, peraltro, si assiste, talora, ad una correzione di rotta, là dove il piano preveda l’emissione di strumenti finanziari partecipativi (c.d. di equity) e la proposta ne contempli la dazione ai creditori quale corrispettivo, in tutto o – più spesso – in parte, dei crediti concorsuali[23]. La sostanziale datio in solutum (formalmente, si ha compensazione tra quei crediti e il debito da sottoscrizione dello strumento) estingue il credito concorsuale, “trasformandolo”, attraverso lo strumento di partecipazione al rischio d’impresa, in un nuovo credito, suscettibile di soddisfacimento, ove del caso, oltre l’“arco di piano” e, soprattutto, (anche, ma non necessariamente solo) sino alla concorrenza del 100% del valore nominale[24]. In questi casi, allora, la conservazione dello “status” di socio si accompagna all’integrale soddisfacimento dei creditori sociali, se pur soltanto sulla carta (trattandosi di strumenti finanziari partecipativi di equity) e indipendentemente dal tempo del previsto soddisfacimento, perché l’estinzione del credito si ha per effetto della predetta compensazione.
La RPR “all’italiana” si ha nell’art. 182-ter, comma 1, l.f., perché vi si stabilisce che, «[s]e il credito tributario o contributivo è assistito da privilegio, la percentuale, i tempi di pagamento e le eventuali garanzie non possono essere inferiori o meno vantaggiosi rispetto a quelli offerti ai creditori che hanno un grado di privilegio inferiore». Dunque, non solo il credito privilegiato di rango superiore non va soddisfatto integralmente, prima di poter soddisfare il credito di rango inferiore, il che significa non applicare l’APR; ma è sufficiente che sia soddisfatto nella stessa misura del creditore privilegiato di grado inferiore (ipotesi di “corto respiro” per l’Erario, ma assai più agevolmente configurabile per gli enti previdenziali, avuto riguardo alla rispettiva posizione nella “scala” dei privilegi), il che significa non applicare neppure la RPR della direttiva 1023 e riservare a quei creditori un trattamento deteriore rispetto a quanto stabilito dal legislatore UE[25]. Qui si innesta la circolare 34/E del 29 dicembre 2020 dell’Agenzia delle Entrate, adottata a seguito della novella sul potere sostitutivo del giudice fallimentare, in caso di mancata adesione alla proposta del debitore in crisi, di cui alla legge 248/2020. Al par. 3.5, in particolare, si osserva che i «flussi di cassa generati dalla continuità aziendale – per quanto non vadano computati, ai fini del raffronto con l’alternativa liquidatoria, nel calcolo della consistenza del patrimonio aziendale esistente alla data di presentazione della domanda di concordato preventivo – […] non sono qualificabili come “finanza esterna” in senso tecnico, in quanto ricavi riconducibili comunque al patrimonio del debitore e, pertanto, destinati al soddisfacimento dei creditori secondo le regole del concorso, quanto meno nel senso di non alterare l’ordine delle cause di prelazione». Di primo acchito, sembra riecheggiare l’interpretazione, rigorosa e non condivisibile, dei flussi da continuità quali “beni futuri” ex art. 2740 c.c., mentre condivisibile è non ravvisare in essi “finanza esterna”. Tuttavia, il “tiro” viene subito corretto, riconducendo le riflessioni – e non potrebbe essere diversamente, trattandosi di una circolare dell’Erario – nell’alveo normativo dell’art. 182-ter l.f., per cui i flussi della continuità vanno distribuiti secondo la RPR “all’italiana”, il che, come cennato, pone i creditori pubblici in una posizione peggiore rispetto a quanto previsto dall’art. 11, direttiva 1023[26].
2.1 . La distribuzione vincolata del “surplus”
A diritto interno vigente, l’allocazione del surplus (o plusvalore) da continuità – frutto della sottrazione astratta, dal valore dell’unitario patrimonio (in continuità), del valore del patrimonio cristallizzato alla data di apertura del concorso, passibile di liquidazione giudiziale – è oggetto di interpretazioni oscillanti nella giurisprudenza, tra: (i) una tesi restrittiva, nel senso della distribuzione vincolata secondo l’ordine delle cause legittime di prelazione, pacificamente, almeno in giurisprudenza, interpretato come espressione dell’APR; (ii) una tesi estensiva, secondo cui vi sarebbe piena libertà di disporne (senza, dunque, rispettare quell’ordine). Contro una terza “lettura”, di una distribuzione vincolata, sì, ma secondo la RPR, si è espressamente pronunciata, di recente, la Suprema Corte, rispondendo al quesito se l’art. 160, secondo comma, l.f. «imponga l’integrale pagamento del credito di rango superiore prima di soddisfare quello di grado inferiore o se, piuttosto, sia ammessa la falcidia del credito di grado poziore e il pagamento parziale del credito di rango più basso, a condizione che al primo sia assicurato un trattamento più favorevole rispetto a quello riservato al secondo». E ciò perché, a diversamente opinare, «si ammetterebbe che, sulla medesima massa attiva, creditori di rango inferiore (quali sono quelli in chirografo) siano soddisfatti prima che lo siano, per l’intero, i creditori di rango poziore. E un tale risultato urterebbe, come è evidente, non solo col principio per cui il piano concordatario deve assicurare la soddisfazione dei creditori privilegiati in misura almeno pari a quella cui gli stessi potrebbero aspirare, in ragione della loro collocazione preferenziale, in caso di liquidazione, ma anche con la regola che vieta di alterare l’ordine delle cause legittime di prelazione»[27].
La tesi restrittiva fa leva sulla ravvisata attuazione, nell’esecuzione collettivo-concorsuale, del principio di responsabilità patrimoniale, dettato dall’art. 2740 c.c. (pur) con evidente riferimento all’esecuzione individuale, a cui fa da corollario l’art. 2741 c.c., che ha riguardo all’“atteggiarsi” della responsabilità patrimoniale in ipotesi di pluralità di creditori concorrenti, affermando – è ben noto – il principio della par condicio, salve le cause legittime di prelazione.
Nell’assunto, pertanto, che la disciplina stricto sensu concorsuale sia applicazione, a quell’ambito, del principio della responsabilità patrimoniale, la tesi in parola ritiene il plusvalore da continuità non liberamente distribuibile, perché il patrimonio assoggettato ad esecuzione si compone, ex art. 2740 c.c., di «tutti i beni, presenti e futuri», là dove il plusvalore da continuità è considerato “bene futuro”, su cui i creditori hanno titolo a soddisfarsi. Per limitarsi ad alcune delle più recenti decisioni, la Corte d’Appello di Venezia, pochi mesi or sono, ha escluso che i flussi provenienti dalla prosecuzione dell’attività d’impresa possano qualificarsi “nuova finanza” e che siano “neutri” rispetto al patrimonio della società in concordato, in quanto «ne costituiscono, invece, componenti attive»[28] [29]. Riecheggia, qui, una sentenza della Cassazione del 2012, la n. 9373, sulla finanza esterna (con decisione che, sebbene relativa al concordato liquidatorio, ha portata generale), ove, per l’appunto, si è considerata liberamente distribuibile la sola risorsa “neutrale”, vale a dire quella risorsa che non confluisca nel patrimonio del debitore e, dunque, non si confonda in esso (perché, ove vi confluisse, diverrebbe risorsa interna, all’opposto non liberamente distribuibile)[30]. A maggior ragione, allora, non potrebbe ravvisarsi neutralità in caso di plusvalore da continuità, che, per sua stessa natura, si genera all’interno del patrimonio del debitore, e mai all’esterno (fermo restando che discorrere di “finanza esterna” con riguardo ad una risorsa per definizione interna ha scarsamente senso, se non al fine di richiamarsi al regime, proprio della prima, di libera allocazione[31]). Ciò può desumersi da Cass. n. 16348/2018 e n. 34539/2019, in tema di soddisfacimento dei creditori postergati[32], e, soprattutto, da Cass. n. 12864/2019, che riprende la tesi della neutralità di Cass. n. 9373/2012, ma con specifico riguardo ad una proposta di concordato con assuntore, il cui apporto, tra l’altro, «si sarebbe concretizzato nella messa a disposizione del ricavabile dal futuro esercizio dell’attività d’impresa […]»[33]. Ma ciò che non persuade è nello “snodo” di fondo, vale a dire nel ritenere che non rilevi la genesi della risorsa (a seconda dei casi, al di fuori del patrimonio del debitore oppure esclusivamente per effetto della prosecuzione dell’attività d’impresa attraverso la continuità concordataria, in una direzione altrimenti non percorribile, anche là dove vi fossero i presupposti per disporre l’esercizio provvisorio), ma solo il dato formale dell’appartenenza di essa al patrimonio del debitore medesimo[34] [35].
In verità, la già citata sentenza con cui la Suprema Corte ha preso definitiva posizione[36] sulla riconduzione dell’affitto, anche precedente il deposito del ricorso, all’alveo della continuità concordataria[37] contiene un “passaggio” in contro-tendenza rispetto a quanto sin qui esposto e, dunque, meritevole di segnalazione, là dove, con riguardo all’attestazione ex art. 186-bis l.f., si afferma che spetta all’attestatore «compiere una duplice verifica, rispettivamente sul piano e sulla proposta: che la continuità aziendale generi valore rispetto alla liquidazione, e che, secondo la proposta concretamente presentata dal debitore, almeno parte di tale valore venga messo a disposizione dei creditori»[38]. Può anche darsi che l’attenzione fosse rivolta piuttosto a ciò che deve intendersi per «miglior soddisfacimento» (vale a dire soddisfacimento in misura maggiore rispetto a quanto ricavabile dalla liquidazione fallimentare) che non alla libera allocabilità, in parte, del plusvalore da continuità. Ma, quale che sia l’eventuale “retro-pensiero”, resta la chiara affermazione secondo cui il debitore, nel caso di concordato in continuità, può trattenere parte del maggior valore creato dalla prosecuzione dell’esercizio dell’attività d’impresa.
2.2 . La distribuzione vincolata del “surplus”
Quanto precede disegna idealmente un “ponte” verso l’orientamento favorevole alla libera distribuzione del surplus, argomentato da una serie di indici normativi. Nell’ordine (numerico, della legge fallimentare): in primo luogo, si richiama l’effetto di cristallizzazione del patrimonio ex artt. 45 e 55 l.f., oggetto di relatio all’art. 169 l.f.[39]. Qui si innesta, in effetti, il problema del(l’eventuale) vincolo, con riguardo ai beni futuri, costituito dall’art. 2740 c.c., perché non v’è dubbio che solo la prosecuzione dell’attività d’impresa consente (in astratto) la preservazione (e, preferibilmente, la creazione) di valore[40]: l’alternativa della liquidazione giudiziale cristallizzerebbe, per l’appunto, non solo il passivo, ma anche l’attivo alla data di apertura del concorso, sì che non vi sarebbe altro valore da mettere a disposizione dei creditori[41] [42]. In secondo luogo, l’interpretazione “liberale” viene argomentata dall’art. 186-bis l.f., che, nel «miglior soddisfacimento» dei creditori, ravvisa un requisito di ammissibilità della proposta, oggetto di attestazione ad hoc. Risultato promesso e, dunque, giuridicamente vincolante, che, però, segna la “soglia” oltre la quale il plusvalore della continuità è liberamente allocabile da parte del debitore, anche a beneficio di sé medesimo: non rileva, a questi fini (della teorica libera allocazione, rilevando, invece, ai fini della relativa misura), cos’abbia ad intendersi per «miglior soddisfacimento», se un quid pluris rispetto alla liquidazione fallimentare (così il richiamato spunto in Cass. 29742/2918) ovvero in un trattamento non deteriore rispetto all’alternativa fallimentare, criterio ora “scolpito” nell’art. 2, par. 1, n. 6), direttiva 1023.
Ciò che conta è il (valore del) patrimonio da assumere a termine di raffronto; ed è quello da liquidazione fallimentare, perché unico scenario oggettivo e, proprio per questo, “coercibile” ad iniziativa di terzi (ogni altro scenario dipendendo da variabili soggettive, quale, ad es., una diversa proposta, salvo non si tratti di proposte concorrenti ex art. 163 l.f., ma sarà questione del caso concreto)[43]. Sì che – seguendo l’impostazione in esame – la maggiore consistenza del patrimonio per effetto della prosecuzione dell’attività d’impresa, che ecceda il soddisfacimento promesso nella proposta, non deve distribuirsi ai creditori. Per richiamare – a riprova della delicatezza delle questioni in esame – una recente decisione pur sempre della Corte d’Appello di Venezia, ma di segno esattamente opposto a quella poc’anzi citata, molto limpide sono le considerazioni svolte in poche pagine, nelle quali vengono condensati tutti gli argomenti spendibili a favore della libera distribuzione del plusvalore da continuità: muovendo dall’art. 186-bis l.f., si osserva che tale disposizione, «nel consentire la prosecuzione dell’attività all’impresa in crisi, risulta porsi in linea con la previsione dell’art. 2740, comma 2, c.c., nel momento in cui consente al debitore in crisi di soddisfare i propri creditori, mantenendo il proprio patrimonio, sempre che ciò valga a configurare il miglior soddisfacimento dei creditori»[44]; con l’interessante conclusione – che diverge da Cass. 29742/2018, peraltro citata in motivazione[45] – che il plusvalore liberamente distribuibile è quello che eccede il valore di liquidazione fallimentare, «comprensivo anche del surplus di un eventuale prevedibile esercizio provvisorio da parte del curatore fallimentare» [46] [47].
2.3 . La regola di priorità assoluta e l’art. 2740 c.c.
L’uno e l’altro orientamento, restrittivo ed estensivo, hanno, però, un tratto in comune, l’assenza di sostanziali dubbi riguardo alla regola di priorità applicabile, diversa essendo solo la massa patrimoniale a cui applicarla: ed è la regola di priorità assoluta, interpretata nel senso del necessario esaurimento del credito di grado superiore prima di poter distribuire risorse al credito di grado inferiore. In vero, per quanto la locuzione «ordine delle cause legittime di prelazione», di cui all’art. 160, comma 2, l.f., non sia limpida[48], non sembra potersene inferire che, ferma la graduazione gerarchica dei crediti, essa lascerebbe spazio ad un’interpretazione favorevole alla RPR, in ragione dell’assenza di un’esplicita prescrizione di legge circa il necessario integrale soddisfacimento del grado superiore, salva, per l’appunto, la prescrizione in punto di rapporto tra gradi[49]. E certamente non può soccorrere la fattispecie dell’art. 182-ter l.f., dall’ambito applicativo affatto peculiare e, soprattutto, dal dettato letterale inequivoco in punto di RPR (“all’italiana”, come si è osservato). In senso negativo, piuttosto, va considerato che, a fronte del principio di uguaglianza formale, di cui è espressione il criterio della par condicio codificato dall’art. 2741 c.c., la scelta politica del legislatore in ordine all’attribuzione al credito della qualità privilegiata, e alla graduazione dei privilegi, «risponde ad una finalità riequilibratrice in un’ottica di eguaglianza sostanziale»[50]. Quella finalità rischierebbe di essere frustrata, nel rapporto tra crediti inter se considerati (senza, dunque, che vengano ad emersione ulteriori valori di comparazione), se non vi fosse l’integrale soddisfacimento del credito di rango superiore. D’altronde, la stessa unicità della graduatoria dei privilegi mobiliari, tra generali e speciali, di cui agli artt. 2777 e 2778 c.c., «porta alla conseguenza che un privilegio generale prioritario, se non trovi soddisfazione su altri beni mobili, estende la sua collocazione satisfattiva sui beni gravati da privilegi speciali successivi, potendoli lasciare in tutto o in parte incapienti»[51]; a riprova della rilevanza della graduatoria anche in termini di integralità del soddisfacimento. Altro è a dirsi qualora sia lo stesso legislatore ad adottare una diversa scelta, in termini di parziale soddisfacimento del credito maggiormente meritevole, motivata in base all’esigenza di un bilanciamento di interessi tra tutela del credito e tutela della continuità d’impresa[52]; ma, per l’appunto, è il portato dell’eventuale adozione della regola di priorità relativa[53].
Se, dunque, “ordine delle cause legittime di prelazione” sta ad indicare non solo priorità di soddisfacimento del grado superiore, ma anche integrale soddisfacimento di esso, ciò che non persuade è l’applicazione dell’art. 2740 c.c. al concordato in continuità, già nella “trama” disegnata dall’art. 186-bis l.f., e ancor di più in quella risultante dalla direttiva 1023.
Non è dubbio che la garanzia del credito (“leggendo” la fattispecie dell’art. 2740 c.c. dalla prospettiva del creditore) ha rilevanza costituzionale, perché l’effettività del diritto soggettivo è assicurata dall’effettività della relativa tutela ex art. 24 Cost.[54]. Debito e responsabilità (credito e garanzia) costituiscono un binomio inscindibile, senza che sia dato – ai presenti fini e per ovvie ragioni di brevità dell’esposizione – riprendere le assai elevate discussioni dottrinali intorno al modello tedesco dell’obbligazione, unitario sì, ma con la scomposizione nei due “momenti” dello “Schuld” e dell’“Haftung”[55]. Sebbene il tema della “collocazione” della responsabilità al di fuori o all’interno del rapporto obbligatorio non trovi riscontro pratico nei repertori di giurisprudenza[56], esso, ai presenti fini, induce un’utile suggestione, consentendo di porre in evidenza come la disciplina del concordato in continuità attiene alla conformazione dell’obbligazione, vale a dire ad una sorta di revisione dello “Schuld” in funzione del risanamento e della conseguente prosecuzione dell’attività d’impresa; solo in via residuale è attuazione della responsabilità, e cioè dell’“Haftung”[57]. D’altronde, l’art. 2740 c.c. è norma che regola la responsabilità nei confronti del singolo creditore (peraltro assumendo, implicitamente, la possibilità del pieno soddisfacimento della relativa pretesa)[58]; così come l’art. 2741 c.c., che pur codifica il principio della par condicio, salve le cause legittime di prelazione, disciplina una fattispecie di “«cripto-concorso», com’è stato suggestivamente osservato di recente, in quanto rimanda all’alveo naturale dell’esecuzione del codice del rito civile, nella quale il concorso non concerne la totalità dei creditori[59].
Il valore del risanamento dell’impresa in crisi attraverso soluzioni negoziate, alla base della “stagione” delle riforme del diritto concorsuale a partire dal 2005, rende ragione dell’insufficienza di una “lettura” del concordato in continuità nella sola prospettiva dell’attuazione della responsabilità patrimoniale (recte, della garanzia patrimoniale)[60]. La “conformazione remissoria” del debito è funzionale a quel valore (dunque, alla preservazione e, auspicabilmente, alla creazione di ricchezza); e il soddisfacimento della quota del debito residua è mera, e ovvia, conseguenza della “conformazione”, che riveste rilevanza centrale già nella disciplina dell’art. 186-bis l.f. (se pur con riguardo alla continuità nella prospettiva del «miglior soddisfacimento» dei creditori). In un contesto segnato dal passaggio da un’economia industriale ad un’economia finanziaria, nella quale la consistenza economica di un’impresa dipende, in misura sensibile, da beni immateriali, che andrebbero perduti o che verrebbero grandemente svalutati in una direzione liquidatoria, anziché conservativa, del patrimonio[61], si è ora inserita la direttiva 1023, che pone al centro della scena un fascio di interessi che non si esaurisce nella tutela del credito, consentendo di ribadire che l’attuazione della garanzia patrimoniale ex art. 2740 c.c. non è il tratto esclusivamente qualificante il concordato in continuità. Ciò emerge con evidenza all’art. 4, là dove, con manifesta inversione enfatica (tra preservazione dell’attività e tutela dei posti di lavoro), si afferma che l’accesso ad un quadro di ristrutturazione preventiva deve consentire al debitore «la ristrutturazione, al fine di impedire l’insolvenza e di assicurare la […] sostenibilità economica, […], così da tutelare i posti di lavoro e preservare l’attività imprenditoriale»[62].
Nel sistema delineato dalla direttiva 1023 – lo si è cennato in precedenza – il «miglior soddisfacimento» dei creditori, da valore-fine, rispetto al valore-mezzo della continuità nel “tessuto” dell’art. 186-bis l.f., diviene uno dei valori da perseguire con la prosecuzione dell’attività d’impresa. Peraltro, un valore a rigore non tutelabile ex officio, dal momento che l’art. 10, par. 2, comma 2, direttiva 1023 ne prevede il controllo giudiziale «solo se il piano di ristrutturazione è stato contestato per tale motivo», ferma la legittimazione del singolo creditore anche in caso di consenso unanime delle classi; così come è detta contestazione a schiudere l’adito alla «decisione [giudiziaria o amministrativa] sulla valutazione dell’impresa del debitore» ai sensi del successivo art. 14, par. 1, lett. a). La chiara esigenza alla base di tali disposizioni è la celerità dei «quadri di ristrutturazione preventiva», nella consapevolezza che il tempo è variabile determinante ai fini del risanamento[63]. In questa direzione – vale a dire se quella celerità sia, comunque, assicurata dalla scansione temporale (effettiva, oltre che di legge, parrebbe doveroso aggiungere) del procedimento – potrebbe anche ragionarsi in ordine all’ammissibilità del controllo officioso (ma in fase di omologazione, e non come requisito di ammissione): è quanto parrebbe potersi desumere sia dall’art. 26, primo comma, StaRUG, per l’ipotesi di cross class cram down, sia dall’art. l. 626-31, comma 4, Code de commerce, per l’ipotesi di contestazione individuale, poi richiamata, anche per il cross class cram down, dal successivo art. 626-32, primo comma[64].
Anche a seguire – come pare necessario – l’impostazione letterale della direttiva 1023 in ordine al controllo ex officio, il «miglior soddisfacimento» resta valore-cardine: in quanto valore patrimoniale, però, disponibile da parte del titolare, onerato della contestazione-impugnazione della proposta che lo regola, in ipotesi in modo incongruo[65]. E la centralità del(la tutela individuale del) credito è dimostrata dalla circostanza che quel “nucleo” minimo protetto (il soddisfacimento in misura non deteriore rispetto alle alternative), disponibile, sì, dall’interessato, ma incomprimibile da parte del debitore, ha rilevanza costituzionale, una volta acquisita l’estensione al diritto di credito della tutela della proprietà ex art. 42 Cost.[66], corroborata dalla giurisprudenza della CEDU ai sensi del Protocollo 1 dell’art. 1 della Convenzione (fonte, come noto, interposta ex art. 117, comma 1, Cost.) e rafforzata, sempre nella direzione della rilevanza costituzionale, dall’art. 17 del Trattato di Nizza, tale per cui nessuno può essere privato di un diritto (“espropriato”) se non verso integrale riparazione del pregiudizio sofferto[67]. Trova, dunque, conferma che far parola di attuazione della responsabilità patrimoniale ex art. 2740 c.c. nel concordato in continuità equivale a cogliere solo una porzione – sebbene rilevante – degli interessi realizzati attraverso quella procedura[68].
Comunque, permanendo nel “solco” principale, così da ritenere che la disciplina del concordato in continuità sia anche attuazione della responsabilità patrimoniale ex art. 2740 c.c. (è, d’altronde, indiscutibile che la pretesa creditoria riceva soddisfazione nella procedura concorsuale, se pur secondo modalità diverse da quelle proprie dell’esecuzione coattiva regolata dal codice del rito civile), è il richiamo al concetto di “bene futuro” a non persuadere, nell’asserita estensione al plusvalore da continuità. Già le primissime – assai autorevoli – voci dottrinali avevano rilevato che, nell’impianto dell’art. 2740 c.c., il bene era “futuro” con riguardo alla data di insorgenza dell’obbligazione, ma presente rispetto alla data di avvio dell’esecuzione[69]. D’altronde, se è vero che sono pignorabili i crediti futuri, per cui si può ragionare di bene futuro anche rispetto al tempo dell’avvio dell’esecuzione, è altrettanto vero che il titolo deve preesistere all’azione esecutiva (donde la distinzione tra credito “futuro” e credito “eventuale”[70]), e non è il caso, almeno in tesi generale, del plusvalore da continuità[71]. Che l’art. 42, comma 2, l.f. estenda la responsabilità patrimoniale del fallito anche a beni futuri, il cui titolo non preesista al fallimento, trova giustificazione proprio nella procedura liquidatoria, senza che occorra invocare l’assenza di relatio a tale disposizione nell’art. 169 l.f.[72].
In ultima battuta, come si cennava poc’anzi, ove si ritenesse applicabile l’art. 2740 c.c. e si considerasse il plusvalore da continuità quale “bene futuro”, i sostenitori della libera allocazione del plusvalore ritengono che altra prospettiva venga in soccorso, vale a dire l’identificazione, nell’art. 186-bis l.f., di una fattispecie legislativa di limitazione della responsabilità, ai sensi del secondo comma dell’art. 2740 c.c., per l’appunto confinata a quanto occorrente al «miglior soddisfacimento» dei creditori[73].
2.4 . Possibili conclusioni a diritto vigente
Da quanto esposto in precedenza sembra più persuasivo desumere che il surplus da continuità è liberamente distribuibile, il che è funzionale alla continuità, tra l’altro – ma non è circostanza determinante –consentendo di elaborare un piano di risanamento senza necessità di ricorrere alla finanza esterna per il soddisfacimento dei creditori chirografari[74]. Fermo restando – lo si è già osservato – che le risorse generate dalla continuità non sono finanza esterna, alla quale si tende a far riferimento (anche, e soprattutto, in giurisprudenza) più come suggestione, nella direzione della libera distribuzione, che come inquadramento teorico persuasivo (e, infatti, non lo è).
Uno spunto normativo (di diritto positivo, sebbene non vigente) nel senso della libera allocazione del plusvalore (dunque, anche ad esclusivo beneficio dei soci) può trarsi dall’art. 84, secondo comma, CCI, là dove si prevede che, «[i]n caso di continuità diretta il piano prevede che l’attività d’impresa è funzionale ad assicurare il ripristino dell’equilibrio economico finanziario nell’interesse prioritario dei creditori, oltre che dell’imprenditore e dei soci», là dove il riferimento all’interesse di questi ultimi implica che “mantengano interessi” all’esito del risanamento: forse, più che implicita (se non inconsapevole[75]) epifania della RPR, vi si può leggere una traccia dell’APR “all’italiana”, riguardo alla permanenza dei soci nel capitale sociale. Ulteriore spunto è stato ravvisato nell’art. 285, quinto comma, CCI, in quanto consentire ai soci, nel caso di concordato di gruppo, di opporsi all’omologazione in ragione del pregiudizio arrecato alla redditività e al valore della partecipazione sociale dalle operazioni previste nel piano, si giustifica solo se essi avrebbero comunque conservato le partecipazioni, pur nella situazione di crisi (e di patrimonio netto, nella generalità delle ipotesi, negativo)[76]. D’altronde, come ben noto, già l’art. 3, legge n. 193/1903 consentiva al debitore – in presenza di ulteriori presupposti che qui non occorre richiamare – di offrire ai creditori chirografari il pagamento del 40%, con il “corredo” di serie garanzie, reali o personali; e così anche, per quanto ora interessa, il previgente art. 160, comma 2, n. 1), l.f.[77]. Ciò che consentiva di desumerne che, assolto l’onere concordatario, il debitore avrebbe beneficiato dei risultati dell’eventuale prosecuzione dell’attività d’impresa[78]. 
Tuttavia, ciò che non persuade è che, posto il soddisfacimento minimo (da liquidazione giudiziale), la falcidia subita dai creditori, senz’altro essenziale ai fini del risanamento, non si accompagni alla fruizione dei benefici del risanamento medesimo, anzi, li esponga – in ipotesi di offerta di soddisfacimento non deteriore – alla maggiore alea insita nel soddisfacimento (anche) tramite i flussi della continuità, e non tramite i (probabilmente più certi) ricavi della liquidazione fallimentare[79]; d’altronde, proprio la direttiva 1023, con il Considerando 48, sottolinea la necessità che la «riduzione dei diritti […] sia proporzionata ai benefici della ristrutturazione […]». Sul possibile recupero normativo di questo profilo iniquo – se non, quanto alla libera distribuzione del plusvalore, addirittura contra ius[80] – si ritornerà subito appresso.
3.1 . Le regole di priorità e il “destino” dei soci originari nella direttiva 1023
Si è riferito, all’inizio di queste considerazioni, che la direttiva 1023 indica nella RPR la regola di “default” per la distribuzione del patrimonio tra (classi di) creditori dell’impresa in crisi, in ipotesi di ristrutturazione trasversale[81]. Si è anche, a più riprese, accennato che la regola di priorità, che il legislatore nazionale andrà ad adottare, presiede anche alla decisione in ordine al “destino” dei soci. Infatti, nelle ipotesi abitualmente ricorrenti, il patrimonio netto è negativo all’apertura del concorso, il che val quanto dire che, in caso di liquidazione giudiziale (ovviamente retta dalla regola di priorità assoluta), l’intero attivo andrebbe a beneficio dei creditori (divenuti, per effetto della crisi, sostanziali proprietari dell’impresa[82]) e nulla potrebbe spettare ai soci; d’altronde, una volta compiuta la ripartizione finale dell’attivo, il curatore deve chiedere la cancellazione della società dal registro delle imprese, ai sensi dell’art. 118, comma 2, l.f. In sintesi, la “residual claim” del socio, per l’apporto del capitale, è pari a zero.
All’opposto, in ipotesi di concordato in continuità, la sospensione dell’obbligo di ricapitalizzazione ex art. 182-sexies l.f. sino all’omologazione, e la “conformazione remissoria” dei debiti che essa comporta, fanno sì che il patrimonio netto ritorni in “territorio” positivo e che non si proceda, nei fatti, all’azzeramento del capitale sociale: ciò conferma, nuovamente, come la “visuale” dell’attuazione della garanzia patrimoniale, avendo riguardo alla porzione di debito soddisfatta nel concorso, e non alla porzione di debito “conformata”, coglie solo in parte il proprium della continuità concordataria. Sennonché, qui viene in rilievo la regola di priorità, perché, qualora si adottasse l’APR “pura” e il patrimonio netto fosse negativo, l’insufficienza dell’attivo per il soddisfacimento integrale dei creditori dovrebbe portare alla “cancellazione” dei soci (salvo, s’intende, che tutte le classi approvino), secondo l’“ortodossia” dell’art. 11, par. 2, direttiva 1023: vi si legge, infatti, come già riportato, che «gli Stati membri possono prevedere che i diritti dei creditori interessati di una classe di voto dissenziente siano pienamente soddisfatti con mezzi uguali o equivalenti se è previsto che una classe inferiore riceva pagamenti o mantenga interessi in base al piano di ristrutturazione». Dunque, non possono essere “mantenuti interessi”, se i creditori di una classe, contraria all’approvazione del piano, non abbiano ricevuto integrale soddisfazione, il che accade di regola, qualunque classe di creditori, per definizione, essendo sovraordinata ai soci, “residual claimants”, siano o non classati[83]. Ciò non comporta, è evidente, che la continuità sia preclusa, ma che l’impresa prosegua, tuttavia con capitale “in mano” ai creditori (senza, quindi, che abbia a mutare il soggetto di diritto titolare dell’impresa). Si è già osservato in precedenza, peraltro, che, a diritto vigente, in disparte l’applicazione dell’art. 2740 c.c., vi è chi ha ravvisato nell’art. 186-bis l.f., e nell’individuazione del «miglior soddisfacimento» dei creditori quale “soglia” da raggiungere nel concordato in continuità, l’implicita introduzione di un “temperamento” della regola di priorità assoluta, che porterebbe con sé la conservazione delle partecipazioni nel “portafoglio” dei soci[84]. E, infatti, quest’ultimo tema non viene, pressoché mai, affrontato nella prassi giudiziale[85].
Funzionale all’intervento sul capitale sociale dell’impresa in crisi, che va ben al di là dei limiti disegnati dall’art. 185, comma 6, l.f. (e, in prospettiva, dall’art. 118, comma 6, CCI), è l’art. 32 direttiva 1023, che modifica l’art. 84 della direttiva 2017/1132, «relativa ad alcuni aspetti di diritto societario», aggiungendo il par. 4, di modo da consentire deroghe – «nella misura e per il periodo in cui tali deroghe sono necessarie per l’istituzione dei quadri di ristrutturazione preventiva di cui alla direttiva (UE) 2019/1023» – sia alla competenza assembleare per le operazioni sul capitale sociale sia alla spettanza ai soci del diritto d’opzione in caso di aumento del capitale sociale.
3.2 . La (difficile) scelta tra regola di priorità assoluta e regola di priorità relativa
Nel sistema delineato dalla direttiva 1023, la permanenza dei soci nel capitale della società risanata può aversi sia per effetto dell’adozione della RPR sia per effetto dell’adozione dell’APR “temperata”, prevista dall’art. 11, par. 2, comma 2, direttiva 1023. Gli Stati membri che optino per l’APR, infatti, possono «mantenere o introdurre disposizioni [in] deroga […], qualora queste siano necessarie per conseguire gli obiettivi del piano di ristrutturazione e se il piano di ristrutturazione non pregiudica ingiustamente i diritti o gli interessi delle parti interessate». È la “via” seguita, in ordine temporale, dai legislatori olandese, tedesco e francese:
 i. l’art. 384, comma 4, lett. b), CERP (sostanziale attuazione della direttiva 1023, pur se non v’è stata notifica in tal senso all’UE; e lo stesso – a quanto consta, ad oggi – è a dirsi per la StaRUG tedesca di cui subito appresso) prevede che non è possibile derogare al «ranking in the case of recourse against the debtor’s assets […] to the detriment of the class that did not approve unless there are reasonable grounds for such deviation and the creditors or shareholders concerned are not harmed in their interests as a result»[86];
ii. l’art. 28, comma 2, StaRUG – muovendo dalla regola, dettata all’art. 26, comma 1, n. 2, per cui alla classe contraria dev’essere offerta «a fair share in the economic value to be received by the affected parties under the plan (plan value)» – dispone, in estrema e incompleta sintesi, che si ha quella «fair share» e, quindi, si può derogare all’APR di cui all’art. 27, qualora sia indispensabile il contributo personale del socio alla prosecuzione dell’attività d’impresa, ai fini del conseguimento del «plan value» (i.e. il valore della continuità, come stimato nel piano), “tradotta” nell’assunzione dell’obbligazione di cooperare (e di trasferire ai creditori i «valori economici» prodottisi in caso di anticipata cessazione di quella cooperazione) [87] [88];
iii. infine, l’art. l. 626.32, comma 2, Code de commerce, stabilisce che «le tribunal peut décider de déroger au 3° du I [89], lorsque ces dérogations sont nécessaires afin d’atteindre les objectifs du plan et si le plan ne porte pas une atteinte excessive aux droits ou intérêts de parties affectées. Les créances des fournisseurs de biens ou de services du débiteur, les détenteurs de capital et les créances nées de la responsabilité délictuelle du débiteur, notamment, peuvent bénéficier d’un traitement particulier»[90].
Sia nella disciplina tedesca sia in quella transalpina, dunque, vi è l’espressa menzione dei soci, più puntuale nella prima (i francesi limitandosi a far parola della possibilità di riservare loro un «trattamento particolare»). Tuttavia, pur con questo “accorgimento tipizzante” (la deroga), permane l’esigenza di valutare, caso per caso, se la cooperazione dei soci sia «indispensable» oppure se non vi sia una «atteinte excessive» a diritti e interessi delle parti incise dal piano; il che, specie in un ordinamento, quale il nostro, contraddistinto da un elevato tasso di litigiosità, potrebbe rendere difficilmente prevedibili le decisioni sull’ammissibilità del “temperamento” dell’APR, a cagione del criterio elastico (l’«ingiusto pregiudizio») da applicarsi, rischiando, in ultima analisi, di ingenerare un contro-intuitivo effetto, nella direzione di disincentivare (o, se si vuole, di non incentivare) i soci a cooperare fattivamente al risanamento e, prim’ancora, ad adoperarsi per l’emersione tempestiva della crisi.
La scelta tra le due regole di priorità non è agevole e la via del “temperamento” dell’APR appare preferibile, così seguendo l’indicazione del legislatore UE, che, al Considerando 56, ha, per l’appunto, riguardo alla «deroga […] alla regola della priorità assoluta, se ad esempio si consideri giusto che i detentori di strumenti di capitale mantengano determinati interessi ai sensi del piano […]». Mette conto considerare che il legislatore della direttiva 1023, nella premessa per cui le PMI «rappresentano il 99% di tutte le imprese nell’Unione» (Considerando 17), osserva che i soci delle PMI, almeno di regola, «non sono meri investitori, bensì proprietari dell’impresa [a cui] contribuiscono […] in altri modi, ad esempio con competenze in materia di gestione […]» (Considerando 58), fornendo «assistenza alla ristrutturazione in forma non monetaria, attingendo ad esempio alla loro esperienza, reputazione o contatti commerciali» (Considerando 59)[91]. Peraltro, va sottolineato che, secondo il Considerando 57, «[a]gli Stati membri che escludono dal voto i detentori di strumenti di capitale non dovrebbe essere richiesto di applicare la regola della priorità assoluta nelle relazioni tra creditori e detentori di strumenti di capitale»; con un’indicazione, quindi, che rafforza la scelta della RPR in tale ipotesi.
Ciò posto, e limitandosi ad una sintesi, l’APR ha il pregio della linearità, perché destina l’intero patrimonio (attuale) al soddisfacimento dei creditori, così – si aggiunge – da scongiurare accessi strumentali alla procedura di risanamento, al solo fine di liberarsi dal “fardello” debitorio, o, ancora, il rischio dell’incremento del costo del credito, per le minori garanzie di recuperabilità che lo assisterebbero, ma anche – da altra prospettiva – così da dare certezza ai creditori, sin dal sorgere del loro titolo, di un prospettico posizionamento gerarchico, rigido, nella futura ed eventuale graduazione tra essi[92]: in breve, è criterio di semplice applicazione, proprio per la sua rigidità, che, al contempo, tuttavia, ne segna il limite. L’APR, infatti, non agevola (anzi, disincentiva) il coinvolgimento attivo dei soci e le soluzioni della crisi su base consensuale, ciò che, all’opposto, costituisce il “fil rouge” della direttiva 1023; anzi, induce comportamenti non cooperativi da parte delle classi di creditori di rango più elevato[93]. E va immediatamente aggiunto – pur se può, di primo acchito, sembrare paradossale – che, se la RPR (non diversamente dall’APR, beninteso) è disciplinata dalla direttiva 1023 per l’ipotesi di ristrutturazione trasversale, essa è criterio di allocazione del patrimonio che presuppone, nella sostanza, un consenso, per quanto possibile, generalizzato[94]. Se, infatti, come osservato in precedenza, il singolo dispone di un potere incomprimibile di contestazione della proposta per violazione del «miglior soddisfacimento» (senza – va rammentato – che possa rilevarsi ex officio detta violazione), è fondamentale che il piano basato sulla RPR sia massimamente condiviso, perché, altrimenti, è destinato a cadere sotto il “fuoco nemico” delle contestazioni individuali (e a poco gioverà la pur intelligente previsione dell’art. 16, par. 4, comma 2, direttiva, giusta la quale «[g]li Stati membri possono prevedere che, se un piano è omologato […], sia concesso un risarcimento a qualsiasi parte che abbia subito perdite monetarie e la cui impugnazione sia stata accolta», così evitando la “caducazione” del piano per effetto di quell’accoglimento). Viceversa, la RPR – specie avuto riguardo a quel “tessuto” imprenditoriale dell’UE, a cui si faceva poc’anzi riferimento – si lascia apprezzare perché, in relazione al surplus da continuità, non disincentiva i soci-proprietari-gestori dal far emergere precocemente la crisi e, di più, dal continuare ad investire le proprie risorse, non solo pecuniarie, ma di lavoro personale, di relazioni con la clientela, in una sola parola, il proprio know-how in senso lato, nella prosecuzione dell’attività d’impresa (ciò di cui si ha conferma – lo si è poc’anzi osservato – sia nel Considerando 58 sia nel Considerando 59 della direttiva 1023).
3.3 . La possibile attuazione della direttiva 1023: regola di priorità assoluta e valore di liquidazione; regola di priorità relativa e “surplus”
Un’ipotesi di attuazione della regola di priorità nel diritto interno potrebbe andare – lo si è cennato poc’anzi – nella direzione del “temperamento” dell’APR. Sebbene la direttiva 1023 abbia riguardo ad un solo valore, com’è ovvio, quello della continuità (mentre il valore di liquidazione viene in gioco solo in caso di contestazione e, comunque, anche per chi ammette il controllo ex officio, solo in sede di omologazione), si potrebbe tener ferma la distinzione domestica, astratta e tradizionale, tra valore di liquidazione del patrimonio e valore di continuità (e, per effetto della differenza tra quelle due grandezze, “plusvalore da continuità”), proprio per quell’ampia flessibilità che, con riguardo alla regola di distribuzione del patrimonio, è lasciata agli Stati membri in sede di attuazione.
In particolare, sul valore di liquidazione si potrebbe applicare l’APR, mentre sul plusvalore da continuità la RPR. Per tal via, la tutela minima del credito (nella misura del soddisfacimento che si avrebbe in caso di liquidazione giudiziale), nuova “stella polare” della concorsualità, sarebbe ragionevolmente assicurata [95], fugando i rischi di giungere alla fine del procedimento e “crollare” in vista del “traguardo”. A questo scopo, però, mentre la dir. 1023 stabilisce che il rispetto della regola di priorità (non la valutazione del patrimonio) vada esaminato dall’autorità giudiziaria in sede di omologazione, si potrebbe prevedere – senza elevarlo a requisito di ammissibilità, perché la dir. 1023 non prevede “filtri” all’ingresso – che la proposta contenga l’offerta di soddisfacimento dei crediti secondo il valore di liquidazione giudiziale (dunque, secondo l’APR) e di allocazione del plusvalore da continuità secondo la RPR.
Quanto al valore di liquidazione, mette conto aggiungere che l’art. 2, par. 1, n. 6), direttiva 1023 prevede che sia il valore ritraibile da una «liquidazione per settori o [da] una vendita dell’impresa in regime di continuità aziendale»: dunque, liquidazione atomistica ovvero liquidazione dell’azienda, che, a sua volta, potrebbe venire in considerazione in una dimensione statica ovvero dinamica (se pur meramente conservativa e transitoria), in ipotesi di esercizio provvisorio. Ora, non persuade inferire dal concreto contesto, di un concordato in continuità, che lo “scenario” alternativo debba necessariamente essere quello dell’esercizio provvisorio, perché i presupposti sono profondamente diversi (il che è comprovato dai dati empirici, che mostrano quanto infrequente sia la scelta, da parte dei Tribunali, di disporlo). Come si è osservato in precedenza, si può, forse, argomentare dall’art. 105, comma 1, l.f. (vale a dire dalla preferenza della vendita del complesso dei beni quale “universitas”, pur senza esercizio provvisorio, in luogo dell’alienazione disaggregata) che il valore di riferimento dovrebb’essere, di regola, quello di un complesso unitario di beni e rapporti giuridici (con l’aggiunta dei potenziali esiti delle varie azioni esperibili); ma non, giocoforza, di un complesso aziendale in esercizio, salvo potersi procedere, volta a volta, nel piano, ad argomentate e difformi valutazioni, anche con riguardo alla possibile disgregazione di quel complesso in caso di liquidazione giudiziale (il che aprirebbe ad un’ipotesi di valutazione atomistica dei singoli beni di cui si componeva).
In sintesi[96], i creditori riceverebbero dalla continuità concordataria lo stesso soddisfacimento che avrebbero in caso di liquidazione giudiziale e, per il tramite della partecipazione (maggiore rispetto all’interesse mantenuto dai soci, come si osserverà più avanti) ai risultati della prosecuzione dell’attività d’impresa, vedrebbero “remunerato” sia il sacrificio sofferto sub specie di “conformazione remissoria” dei crediti concorsuali sia l’esposizione all’alea del soddisfacimento legato, in misura verosimilmente preponderante, a quei risultati. A loro volta i soci, va ribadito, beneficiando del plusvalore, non sarebbero disincentivati dal far emergere tempestivamente la crisi e, una volta, emersa, dal contribuire fattivamente alla soluzione di essa. Non vi sarebbe più ragione di discorrere di libera fruizione dei flussi futuri e di “arco di piano”[97], in quanto il surplus – per come stimato nel piano – verrebbe interamente allocato secondo la RPR (i.e. secondo la concreta declinazione di essa per come tradottasi nella proposta), irrilevanti essendo sottostime o sovrastime del valore della continuità, unicamente rilevando il vincolo assunto nella promessa[98].
3.4 . Il “surplus” e il “mantenimento di interessi” da parte dei soci originari
Posto che la classe dissenziente deve ricevere un trattamento (almeno pari a quello delle altre classi dello stesso rango e) «più favorevole» rispetto alla classe di rango inferiore, la comparazione con la “classe” dei soci chiama in gioco grandezze disomogenee, in quanto i soci non ricevono alcun soddisfacimento, ma – riproducendo il linguaggio della direttiva 1023 – «mantengono interessi» (o, meglio, possono mantenere interessi, se previsto dal piano). Non è possibile, in altre parole, raffrontare percentuali di soddisfacimento rispetto al valore nominale del credito, come avviene nel rapporto tra (classi di) creditori.
Assumendo, per semplicità, che i soci conservino la partecipazione qual era al momento dell’apertura della crisi[99], è arduo identificare il “tertium comparationis” per stabilire la misura del sacrificio che essi subiscono; e questo anche qualora – ipotesi a dir poco infrequente – residuasse un valore patrimoniale nonostante la crisi (ciò che implicherebbe, peraltro, applicando l’APR sul valore di liquidazione, che tutti i creditori sarebbero integralmente soddisfatti). A maggior ragione se i creditori subissero – come pressoché sempre subiscono – la falcidia delle rispettive pretese, ciò che implica che il valore della partecipazione sarebbe zero: solo il “congelamento” dell’obbligo di ricapitalizzare, ex art. 186-bis l.f., in una con l’effetto sul patrimonio netto della conformazione dei crediti conseguente all’omologazione, lascerebbe inalterata la partecipazione[100].
La soluzione più semplice sarebbe di instaurare un raffronto tra valori assoluti (monetari), vale a dire tra il quantum (non la percentuale) promesso alla classe dissenziente e il quantum “in portafoglio” ai soci in termini di valore (come desumibile dal piano) della partecipazione in conseguenza del risanamento[101]: si potrebbe, per tal via, pervenire a comparare il trattamento complessivo riservato, nel piano, all’una e agli altri. Tuttavia, quanto alla classe dissenziente, il valore assoluto lascerebbe nell’ombra l’entità del sacrificio, che si potrebbe determinare solo raffrontando quel valore assoluto offerto con l’entità del credito concorsuale (se del caso, residua, qualora si tratti di classe a cui spetterebbe una quota del valore di liquidazione, secondo la regola di priorità assoluta).
Dall’altro versante e come testé cennato, la ricerca del criterio per stabilire quale sacrificio subisca il socio trova un ostacolo, insormontabile nella quasi totalità delle ipotesi, nel valore negativo del patrimonio netto alla data di deposito della domanda (sì che, ove si procedesse alla liquidazione giudiziale, nulla resterebbe ai soci). Il confronto tra valore economico della partecipazione post risanamento e valore di essa antea lascerebbe emergere, pressoché sempre, il conseguimento, da parte dei soci, di un beneficio percentualmente massimo; di conseguenza, i soci “manterrebbero interessi” in misura per definizione maggiore rispetto alla classe di creditori dissenziente. Sarebbe, quindi, improprio prendere in esame i soli conferimenti eseguiti (defalcando riduzioni del capitale esuberante, nonché utili distribuiti, e aggiungendo utili non distribuiti accantonati a riserva), perché si terrebbero fuori dal conteggio – al fine di identificare un valore positivo con cui instaurare il raffronto – esclusivamente le perdite (peraltro, quanto più consistenti fossero stati gli apporti, tanto maggiore, percentualmente, sarebbe la quota del plusvalore allocabile ai soci; il che genererebbe un risultato iniquo, perché ometterebbe di attribuire rilevanza ad esiti gestionali fortemente negativi[102]).
Né si potrebbe giudicare determinante, ai fini della comparazione in parola, il contributo dei soci-gestori nelle PMI, la cui rilevanza è, di regola, centrale nella creazione del plusvalore da continuità, sul presupposto della “conformazione remissoria” dei debiti. In questa direzione, però, il vantaggio sarebbe evidente, i.e. poter instaurare un raffronto – e determinare la misura (percentuale) del sacrificio per i soci – tra la quota del plusvalore che verrebbe allocata ad essi, sub specie di valore della partecipazione all’esito del risanamento, e l’intero plusvalore: in particolare, si potrebbe raffrontare quella misura percentuale con la percentuale di soddisfacimento della classe dissenziente. Si assumerebbe, però, che il plusvalore è esclusivamente conseguenza del “contributo” dei soci al risanamento, là dove potrebb’essere la risultante del contributo di svariati “stakeholders”.
Registrate le difficoltà sopra esposte, si può forse trovare una chiave di lettura nella struttura dell’APR “temperata” che si è proposta e, alla luce di essa, recuperare il raffronto tra valori assoluti (pur nella consapevolezza del limite, vale a dire non poter prendere in considerazione, per la classe dissenziente, la percentuale del credito che verrebbe soddisfatta sul plusvalore da continuità, dipendendo dalla consistenza numerica dei creditori che la compongono)[103]. Posta la necessità di offrire una indefettibile “base” pari al valore di liquidazione secondo l’APR (così da contenere le ipotesi di contestazione ad impulso del singolo in sede di omologazione), i creditori della classe dissenziente riceverebbero, comunque, un quid pluris rispetto al «miglior soddisfacimento» ex art. 2, par. 1, n. 6), direttiva 1023, in quanto parteciperebbero alla distribuzione del surplus, di cui, inoltre, detta classe fruirebbe in misura maggiore rispetto ai soci nel loro insieme[104] [105].
3.5 . Regole di priorità e continuità c.d. “indiretta”
I richiami già compiuti al ruolo dei soci nel risanamento nelle PMI (si vedano, nuovamente, il Considerando 58 e il Considerando 59, direttiva 1023), concernono, all’evidenza, la continuità diretta; e, d’altronde, la direttiva 1023, all’art. 2, par. 1, n. 1), alla continuità diretta si riferisce, salvo prevedere che il diritto nazionale può includere nel concetto di “ristrutturazione” anche «la vendita dell’impresa in regime di continuità aziendale», vale a dire la continuità indiretta della prassi interna. Che quest’ultima, sul piano concettuale, sia una fattispecie di carattere liquidatorio è indubbio, come indubbio è che la collocazione, sul piano della disciplina, nel versante della continuità assolve alla condivisibile esigenza di evitare l’imposizione del soddisfacimento dei chirografari nella misura minima del 20% (oltre ad abbassare il quorum preclusivo delle proposte concorrenti ex art. 163, comma 5, l.f.). Condivisibile esigenza, perché pur sempre si preserva l’azienda in esercizio, non potendosi trascurare che, sino a quando il debitore resta nel possesso dei suoi beni, rimane il “dominus” della scelta sulle modalità di risanamento (anche squisitamente liquidatorie), salve proposte concorrenti e salvo, ovviamente, il voto contrario dei creditori, col dischiudersi dell’alternativa della liquidazione giudiziale, anche, se del caso, in esercizio provvisorio.
Nella generalità delle ipotesi, l’apporto dei soci al risanamento, in caso di continuità indiretta, non è configurabile; e già questo parrebbe sufficiente a limitare l’applicazione dell’“APR temperata” alla sola continuità diretta, pur nella consapevolezza che la vendita dell’azienda in esercizio potrebbe consentire di conseguire un prezzo maggiore di quello ritraibile dalla vendita in sede di liquidazione giudiziale ed esercizio provvisorio dell’impresa. Si potrebbe obiettare che, realizzandosi comunque un plusvalore, esso vada distribuito secondo la RPR, ferma l’APR sul valore di liquidazione; ciò che non persuade, tuttavia, è che si verrebbe ad instaurare un raffronto tra un valore stimato e un valore effettivo, entrambi di liquidazione, sì che arduo è sostenere che il secondo è esclusivo “portato” della continuità[106]. In altre parole, è la diversità dello “scenario” concorsuale di riferimento, liquidazione giudiziale, da un lato, concordato in continuità indiretta, dall’altro, a rendere ragione della diversità della misura del soddisfacimento. Questo sebbene vada riconosciuto che, nel concordato in continuità indiretta (con scarto non lieve rispetto alla liquidazione giudiziale con esercizio provvisorio), l’attività d’impresa è svolta dal debitore sino alla vendita, ciò che potrebbe concorrere a preservare il valore dell’azienda o, se si vuole, a contenerne la riduzione, rispetto all’alternativa della liquidazione giudiziale. Ma la dimostrazione della creazione di un plusvalore, necessariamente rigorosa per evitare abusi, è tutt’altro che agevole. Meno complicata sarebbe nelle ipotesi in cui vi sia un tangibile apporto del debitore, o di soggetti ad esso correlati, tale da determinare un incremento dell’attivo, in termini di maggiore valorizzazione di assets della società in concordato: qui, in effetti, si potrebbe valutare l’allocazione del plusvalore – perché realmente creato, e dimostrabile – secondo la RPR[107].
Quale che sia la scelta che il legislatore interno intenderà assumere al riguardo, l’attuazione delle previsioni della direttiva 1023 concernenti la distribuzione del valore in un piano di risanamento – ove nella direzione di introdurre, almeno in parte, la novità della regola di priorità relativa – potrebbe costituire un ulteriore incentivo (il riferimento “comparativo”, all’evidenza, è alla composizione negoziata ex d.l. n. 118/2021), specie per le PMI, ad affrontare tempestivamente la crisi o l’insolvenza, nel convincimento, oramai generalizzato, che la prosecuzione dell’attività d’impresa, risanata, arrechi beneficio alla totalità degli “stakeholders”.

Note:

[1] 
Per tutti, essendovi già amplissima bibliografia, M. Fabiani - I. Pagni, La transizione dal codice della crisi alla composizione negoziata (e viceversa), in dirittodellacrisi.it; L. Panzani, Il D.L. “Pagni” ovvero la lezione (positiva) del Covid, in id.; da ultimo, per brevi, ma efficaci considerazioni sui rapporti col Codice della Crisi e dell’Insolvenza, v. G. Fauceglia, Qualche riflessione, “in solitudine”, sulla composizione negoziata per la soluzione della crisi d’impresa, in ilcaso.it.
[2] 
Direttiva «riguardante i quadri di ristrutturazione preventiva, l’esdebitazione e le interdizioni, e le misure volte ad aumentare l’efficacia delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione, e che modifica la direttiva (UE) 2017/1132 (direttiva sulla ristrutturazione e sull’insolvenza)», da attuarsi, a seguito della proroga richiesta dallo Stato italiano, entro il 17 luglio 2022.
[3] 
Osserva G. Ballerini, Le ricadute di diritto italiano della regola di non discriminazione nella Direttiva Restructuring, in Giur. comm., 2021, p. 972 e s., che la disposizione richiamata contiene due diversi precetti (entrambi attinenti alla distribuzione dell’intero valore di ristrutturazione, sebbene con rilevanza effettiva solo quanto al surplus da continuità), l’uno, di non discriminazione (tra creditori del medesimo rango), l’altro, di priorità relativa, senza che il primo “risuoni” anche al par. 2, comma 1, allorché viene sancita e definita, come regola alternativa alla priorità relativa, la regola di priorità assoluta (ciò perché «l’applicazione della regola di non discriminazione in un sistema governato dalla APR appare un ragionevole corollario»).
[4] 
Dalla semplice definizione emerge che la RPR, rispetto all’APR, è limite elastico all’autonomia negoziale nella “costruzione” del piano.
[5] 
V. infra, par. 1.4, quanto all’ipotesi del consenso unanime delle classi. La dir. 1023, peraltro, indica come «piano» ciò che da noi si qualifica «proposta» (sulla distinzione tra piano e proposta nel diritto interno v. M. Fabiani, Per la chiarezza delle idee su proposta, piano e domanda di concordato preventivo e riflessi sulla fattibilità, in Fallimento, 2011, p. 172). Nel prosieguo, rispettando la scelta linguistica della direttiva, si farà parola (anche) di “piano”.
[6] 
Si veda il Cons. 54 della dir. 1023, più chiaro, sul punto, dell’art. 11, par. 1, lett. b), ii). Il legislatore nazionale, peraltro, può anche prescrivere, per quest’ipotesi subordinata, un numero di classi superiore ad una.
[7] 
Per tutti, M. Fabiani, Appunti sulla responsabilità patrimoniale “dinamica” e sulla de-concorsualizzazione del concordato preventivo, in Fallimento, soluzioni negoziate della crisi e disciplina bancaria diretto da S. Ambrosini, Bologna, 2017, p. 51; D. Vattermoli, La posizione dei soci nelle ristrutturazioni. Dal principio di neutralità organizzativa alla residual owner doctrine?, in, Riv. soc., 2018, p. 864 e ss. (anche per il confronto col sistema nordamericano, in cui l’APR viene in considerazione nel caso di dissenso di una classe di creditori e non quale requisito di ammissibilità della proposta, come nel sistema interno); in precedenza, Id., Crediti subordinati e concorso tra creditori, Milano, 2012, p. 353 e ss., spec. p. 411 e ss.
[8] 
Ex coeteris, v. N. Tollenaar, The European Commission’s Proposal for a Directive on Preventive Restructuring Proceedings, in Insolvency Intelligence, 30, 2017, p. 65 e s. (consultabile anche sul sito www.ssrn.com).
[9] 
Per ora il riferimento è alla sola continuità diretta.
[10] 
Per tutti, D. Vattermoli, La posizione dei soci nelle ristrutturazioni, cit., p. 866; L. Stanghellini, Verso uno statuto dei diritti dei soci di società in crisi, in RdS, 2020, p. 295 e ss., spec. p. 301, p. 304 e ss.
[11] 
Osserva G. Ferri jr., Il ruolo dei soci nella ristrutturazione finanziaria dell’impresa alla luce di una recente proposta di direttiva europea, in Dir. fall., 2018, p. 533 e ss. (quindi, in Crisi e insolvenza. Scritti in ricordo di Michele Sandulli, Torino, 2019, p. 330 e ss.), che «la struttura formale del tradizionale diritto concorsuale, riproducendo quella del rapporto obbligatorio, si volge a disciplinare, nel caso di una procedura concorsuale aperta a carico di una società, pressoché unicamente la posizione della società debitrice e quella dei creditori sociali, disinteressandosi dei soci, o, meglio, per dire così, non accorgendosi nemmeno della loro presenza» (e, ancora: «al pari […] dei creditori, i soci vantano una pretesa, seppure residuale, sul patrimonio della società (vale a dire sul valore dell’impresa): pretesa che tuttavia trova il proprio titolo non già in un diritto di credito, ma nella partecipazione sociale […]»). Ma v., già, Id., Soci e creditori nella struttura finanziaria della società in crisi, in Diritto societario e crisi d’impresa a cura di U. Tombari, Torino, 2014, p. 95 e s., ove la segnalazione della «tensione concettuale […] tra la struttura formale della disciplina concorsuale e la struttura finanziaria della società; la prima, […] volta a regolare […] il rapporto obbligatorio, basata sulla contrapposizione tra debitore e creditori; la seconda, che invece si caratterizza non soltanto, in una prospettiva oggettiva, alla luce dell’etero-destinazione del patrimonio netto, del fatto cioè che l’eccedenza delle attività sulle passività non spetta al titolare del patrimonio, e cioè alla società, bensì ai suoi soci, ma anche, e conseguentemente, in una dimensione soggettiva, in ragione dell’emersione della figura del socio […]», che occupa una posizione intermedia tra società e creditori sociali (corsivo dell’A.). L. Stanghellini, op. cit.
[12] 
L. Stanghellini, op. cit., p. 318, ritiene «urgente una definizione di quali sono i diritti dei soci di società in crisi», a maggior ragione «in un contesto, quale quello creato dal CCI, di anticipazione del momento di emersione della crisi», per chiosare che «il vuoto del CCI sul punto è sconfortante» (conclusione a cui giunge dopo aver proceduto ad un’articolata delineazione di ipotesi ricostruttive, a p. 309 e ss., p. 312 e ss., p. 316 e ss., dei diritti dei soci di società in crisi [sebbene ancora in bonis], in ristrutturazione oppure insolventi).
[13] 
V. Cass., 19 novembre 2018, n. 29742, in Foro it., 2019, I, c. 145, con nota di M. Fabiani. Quanto alla rilevanza della continuità nell’art. 186-bis l.f., ritenuta valore-mezzo, appunto perché funzionale al “miglior soddisfacimento” dei creditori, v. Cass. 19 febbraio 2016, n. 3324, in Fallimento, 2016, p. 791, ove l’affermazione che «il criterio della “migliore soddisfazione dei creditori […] individua […] una sorta di clausola generale applicabile in via analogica a tutte le tipologie di concordato (ivi compreso quello meramente liquidatorio, mediante cessione dei beni aziendali […]) […]».
[14] 
V. anche appresso, nt. 16.
[15] 
Per «disposable income», si intende «the income that is received by the debtor and that is not reasonably necessary to be expended: (1) for (A) the maintenance or support of the debtor or a dependent of the debtor; or (B) a domestic support obligation that first becomes payable after the date of the filing of the petition; or (2) for the payment of expenditures necessary for the continuation, preservation, or operation of the business of the debtor» (concetto, peraltro, che non coincide con quanto appresso indicato quale “surplus [o plusvalore] da continuità”).
[16] 
All’art. 2, par. 1, n. 6), dir. 1023, facendosi parola, lo si è riportato, di «liquidazione per settori o [di] vendita dell’impresa in regime di continuità aziendale»; per il vero, altresì facendosi parola, in alternativa, «del miglior scenario alternativo possibile se il piano di ristrutturazione non fosse omologato» (ad «alternative concretamente praticabili», quale tertium comparationis ai fini della «convenienza», si riferiva l’art. 182-ter, comma 5, l.f., con previsione sostituita, dal d.l. n. 125/2020, col riferimento alla «liquidazione giudiziale»; non diversamente, da ultimo, il d.l. n. 118/2021, all’art. 20, comma 1, lett. e), nel disporre, sostituendo l’art. 182-septies l.f., l’anticipata entrata in vigore degli accordi di ristrutturazione ad efficacia estesa, come disciplinati dal Codice della Crisi, aveva modificato il termine di raffronto, prevedendo, in luogo della «liquidazione giudiziale» – di cui all’art. 61, comma 2, lett. d) –, le «alternative concretamente praticabili»; la l. 147/2021, di conversione del d.l. 118/2021, ha reintrodotto l’«alternativa liquidatoria»). Sul punto, I. Donati, Crisi d’impresa e diritto di proprietà. Dalla responsabilità patrimoniale all’assenza di pregiudizio, in Riv. soc., 2020, p. 190, sottolinea che l’eventuale scenario di continuazione dell’impresa dovrebbe apparire «probabile in concreto». Critici, in relazione alle alternative delineate dalla dir. 1023, J.M. Seymour - S.L. Schwarcz, Corporate Restructuring under Relative and Absolute Priority Default Rules: A Comparative Assessment, in Duke Law School Public Law & Legal Theory Series No. 2019-84, p. 43 (consultabile anche sul sito www.ssrn.com), ad avviso dei quali «[i]t is ambiguous whether the “thresholds” referenced are the piecemeal-liquidation versus liquidation as going-concern tests, to liquidation as against the “next-best-alternative” test, or to all three options. Nor is it clear whether Member States’ choices are constrained by the nature of their pre-existing liquidation or other insolvency procedures».
[17] 
Caso per caso si potrà stabilire se il Tribunale avrebbe disposto l’esercizio provvisorio, senza, però, che dalla continuità concordataria si desuma, indefettibilmente, la risposta affermativa; andranno, invece, senz’altro “conteggiate” le possibilità di successo di eventuali azioni risarcitorie, revocatorie, etc.: così, da ultimo, Trib. Verona, 22 gennaio 2021, in unijuris.it).
[18] 
Per tutti, v. G. Rossi, Il fallimento nel diritto americano, Padova, 1956 p. 177 e ss., tra l’altro con riferimento ai casi storici Northern Pacific Co. v. Boyd (228 U.S. 482 (1913), p. 188 e s.), anche con riguardo a ciò che, al tempo, s’intendeva per «relative priority doctrine» – in contrapposizione alla «absolute priority doctrine», la cui prima epifania si è, per l’appunto avuta col “Boyd case” – vale a dire «partecipazione generale di tutti gli obbligazionisti, i creditori e gli azionisti, con sacrifici a carico di tutti, anche se in grado diverso») e Case et al. v. Los Angeles Lumber Products Co. (308 U.S. 106 (1939), p. 208).
[19] 
Ma, per la variazione rispetto alla prassi, v. nota seguente. 
[20] 
V. ABI Commission to Study the Reform of Chapter 11. Full Report and Final Recommendations, 2014, https://abiworld.app.box.com/s/vvircv5xv83aavl4dp4h, p. 224 e ss., riguardo alla c.d. «New Value Corollary», meglio nota come «New Value Exception»: muovendosi dall’assunto per cui «the absolute priority rule requires that senior classes of claims or interests be paid in full prior to junior classes receiving any distributions under the chapter 11 plan. Consequently, prepetition equity security holders generally cannot retain or receive new equity in the reorganized debtor unless all creditors are paid in full under the plan», ci si interroga «whether prepetition equity security holders can purchase equity from, or contribute new value to retain equity in, the reorganized debtor» (il riferimento giurisprudenziale è a Bank of America National Trust and Savings Assn. v. 203 North LaSalle Street Partnership (526 U.S. 434 (1999)). L’approdo è nel senso di ritenere che «[…] chapter 11 reorganizations would benefit from further clarity on the new value corollary. It agreed that codifying the new value corollary as an expressed exception to the absolute priority rule and identifying the key elements of the exception would enhance the confirmation process in many cases. Accordingly, the Commission recommended a statutory new value corollary that required (i) new money or money’s worth; (ii) in an amount proportionate to the equity received or retained by prepetition equity security holders; and (iii) that would be subject to a “reasonable” market test. The Commission declined to define an appropriate market test; rather, it believed that courts should make this determination based on the facts, the evidence presented, and what would be reasonable in the particular case before the court». Sulla New Value Exception, v. D. Vattermoli, Concordato con continuità aziendale. Absolute priority rule e new value exception, in Riv. dir. comm., 2014, p. 347 e ss., spec. p. 352 e ss.; Id., La posizione dei soci nelle ristrutturazioni, cit., p. 870 e s.
[21] 
Fattispecie in cui – nel presupposto, che discende dall’applicazione dell’APR, che «[…] many SMEs are family-owned businesses or businesses in which the founders are still actively involved. For this reason, many SMEs find the common result of plan confirmation extinguishing prepetition equity interests in their entirety unsatisfactory or completely unworkable» – nelle imprese di “taglia” small/medium, i soci originari manterrebbero il 100% delle partecipazioni, mentre ai creditori insoddisfatti verrebbe assegnate azioni privilegiate con diritto all’85% degli utili. Alla scadenza di un quadriennio, i soci originari possono “subire” la conversione in azioni ordinarie, nella misura dell’85%, delle azioni privilegiate oppure soddisfare integralmente i creditori (azionisti privilegiati), così determinando anche la “vanificazione” delle azioni privilegiate assegnate loro. V. ABI Commission to Study the Reform of Chapter 11, cit., p. 296 e ss. Non dissimile, sebbene con qualche “distinguo”, la recente proposta di D. Baird, Priority Matters: Absolute Priority, Relative Priority, and The Costs of Bankruptcy, in University of Pennsylvania Law Review, 2017, p. 785 e ss., spec. p. 796 e ss., riguardo al problema centrale della valutazione dell’impresa: «Absolute priority requires knowing the value of the firm at the outset, but relative priority does not. Consider what would happen in our example if it were not clear how much the project would yield if it proved successful. Under absolute priority, the judge cannot confirm a plan that wipes out the junior investor unless she believes the firm is worth less than what the senior investor is owed. Absolute priority requires keeping the junior investor in the picture if the firm is worth more than the stake of the senior investor. To implement the absolute priority rule, the judge must decide whether the firm is worth more than the senior investor is owed and, if it is, how much more. Absolute priority, by its nature, requires assessing the value of the firm against the amount owed the senior investor. Under relative priority such knowledge is not required. There is no need to value the equity given to the senior investor. The call option given to the junior investors has only two components—the strike price and the exercise date. Neither requires knowing anything about the value of the firm. When implementing relative priority, the judge needs to know only how much the senior lender is owed and the ultimate date on which accounts need to be settled. (These are the strike price and the exercise date of the option, respectively)» (l’articolo è consultabile anche al link https://chicagounbound.uchicago.edu/cgi/viewcontent.cgi?article=12667&context=journal_articles). Da ultimo, sulla proposta dell’ABI, v. M. Comporto, L’adozione della relative priority rule per la riforma del Chapter 11 statunitense: il redemption option value come valore da garantire ai residual owners, in ildirittodegliaffari.it (2021); F. Viola, Rapporti tra creditori e tra soci e creditori nella distribuzione del patrimonio di società in concordato preventivo, tra priorità assoluta e priorità relativa, in Orizzonti del Diritto Commerciale, 2020, p. 874 e ss. Cfr., altresì, B. Massella Ducci Teri, Il dibattito statunitense sulla attualità della procedura di Chapter 11, in Riv. dir. comm., 2010, p. 597 e ss., e, a p. 615, nt. 50, l’interessante indicazione in ordine ad «[u]no studio del 1989 dei dati relativi a 27 casi [che] ha dimostrato come, nel 78% di essi, il piano prevedesse deviazioni rispetto all’absolute priority rule, e [che] in 18 casi, gli azionisti avessero ricevuto parte del valore dell’impresa riorganizzata nella distribuzione, nonostante i creditori non fossero stati soddisfatti per intero» (e, ivi, il relativo riferimento bibliografico a J.R. Franks - W.N. Torous, An Empirical Investigation of U.S. Firms in Reorganization, 44 J. Fin. 747).
[22] 
Così, tra gli altri, R.J. de Weijs - A. Jonkers - M. Malakotipour, The Imminent Distortion of European Insolvency Law: How the European Union Erodes the Basic Fabric of Private Law by Allowing ‘Relative Priority’ (RPR), in Amsterdam Law School Research Paper No. 2019-10, Centre for the Study of European Contract Law Working Paper No. 2019-05 (consultabile anche sul sito www.ssrn.com), p. 9 e ss., spec. 11 e ss. (da noi, v., tra gli altri, G. Ballerini, La distribuzione del (plus)valore ricavabile dal piano di ristrutturazione nella direttiva (UE) 2019/1023 e l'alternativa fra absolute priority rule e relative priority rule, in Riv. dir. comm., 2021, p. 367 e ss., spec. p. 380 e ss.), ad avviso dei quali il cambiamento di prospettiva, intervenuto, ad uno stadio già avanzato dei lavori di elaborazione della proposta di direttiva, con la scelta della RPR in luogo dell’APR (sino a quel momento regola di base), «could be based on a misunderstanding» (subito appresso attenuato con un «possibly»). Gli A. individuano, alla nt. 37, in L. Stanghellini - R. Mokal - C.G. Paulus - I. Tirado, Best practices in European restructuring. Contractualised Distress Resolution in the Shadow of the Law, Milano, 2018 (consultabile anche sul sito www.codire.eu) la “fonte” di quel revirement, posto che, ovviamente, le censure sono rivolte al legislatore UE.
[23] 
Se ne veda un recente esempio in Trib. Roma, 25 giugno 2019, n. 2980, in fallimentiesocieta.it.
[24] 
A tale ultimo riguardo, dal Considerando 55 della dir. 1023 parrebbe potersi desumere che per «pagamento integrale» sia dato intendere il soddisfacimento del credito indipendentemente dal tempo, là dove si legge che «[g]li Stati membri dovrebbero avere la facoltà di applicare il concetto di pagamento integrale, anche in ordine alla tempistica del pagamento, a condizione che la somma capitale del credito e, nel caso dei creditori garantiti, il valore della garanzia reale siano protetti». Tuttavia, l’art. 9, par. 2, attribuisce diritto di voto sul piano alle parti interessate, vale a dire, ai sensi dell’art. 2, par. 1, n. 2), a coloro «sui cui rispettivi crediti o interessi incide direttamente il piano di ristrutturazione»; e il tempo sicuramente incide (v., in ultimo, Cass., 18 giugno 2020, n. 11882, in Fallimento, 2020, p. 1071).
[27] 
Cass., 8 giugno 2020, n. 10884, cit., con evidente lettura, nella locuzione «ordine delle cause legittime di prelazione», della regola di priorità assoluta.
[28] 
App. Venezia, 5 luglio 2021, n. 1892, in dirittodellacrisi.it. Il piano prevedeva la continuità (formalmente) indiretta dell’attività attraverso l’affitto dell’azienda ad una NewCo costituita dalla debitrice e l’“iniezione” di nuova finanza da parte della controllante di quest’ultima attraverso l’apporto alla società in concordato di un immobile (area adibita a parcheggio) con funzione pertinenziale rispetto all’immobile già esistente (cinema multisala), il cui valore – in sede di alienazione – si sarebbe, pertanto, incrementato. In sintesi, il plusvalore da continuità, ad avviso della ricorrente liberamente distribuibile, sarebbe stato costituito dai canoni di affitto, dagli utili derivanti dalla gestione della NewCo affittuaria, dal corrispettivo della vendita del parcheggio e dal maggior corrispettivo (rispetto all’alienazione senza quell’area pertinenziale) del cinema multisala. Dalla motivazione si evince che l’attività d’impresa sarebbe proseguita, ad iniziativa della NewCo (e, quindi, indirettamente, della società in concordato), pur dopo la vendita dell’immobile adibito a sala cinematografica, sì che, in disparte il quesito se il maggior prezzo di vendita fosse da considerare surplus da continuità (ma è ragionevole rispondere affermativamente, perché non si trattava semplicemente di un maggior prezzo per il diverso “contesto” concorsuale di alienazione, concordato preventivo in luogo di fallimento, con impatto meno “svilente” sul valore commerciale [su cui v. infra, par. 3.5]), non pare decisiva la circostanza che l’attività fosse svolta tramite una controllata neocostituita anziché direttamente. Sull’ascrivibilità dell’affitto alla continuità indiretta, sancita da Cass., 29742/2018, cit., è tornata, da ultimo, la Suprema Corte, con un’ordinanza interlocutoria, 4 giugno 2021, n. 15690, in Leggi d’Italia, giusta la quale occorre valutare «entro quali limiti l’affitto dell’azienda risulti attualmente compatibile con la disciplina del concordato preventivo con continuità aziendale […]»; la quaestio iuris, tuttavia, di là dalla specifica controversia, dovrebbe ritenersi sopita dalla prossima entrata in vigore del Codice della crisi, con l’art. 84, comma 2.
[29] 
Tra i primi a fornire uno spunto nella direzione della finanza esterna, Trib. Monza 22 dicembre 2011, in www.ilcaso.it, che, con riferimento all’attività di assemblaggio di semilavorati, da svolgersi nella continuità in concordato, aveva rilevato «sussiste[re] una quota del realizzo che non risulta destinata ai creditori privilegiati poiché, al di fuori della forma concordataria, liberamente accettata dai creditori ed altrimenti non realizzabile, non sarebbe mai sorta» (su risorse esterne e flussi di cassa futuri v. anche Trib. Milano, 5 dicembre 2018, in Fallimento, 2019, p. 1087, con nota di A. Guiotto; cfr., altresì, App. Torino, 31 agosto 2018, in id., 2019, p. 380, con nota di M. Terenghi).
[30] 
Cass., 8 giugno 2012, n. 9373, in Foro it., 2012, I, c. 2671, con nota di M. Fabiani, secondo la quale l’art. 160, comma 2, l.f. «deve essere interpretato nel senso che l’apporto del terzo si sottrae al divieto di alterazione della graduazione dei crediti privilegiati solo allorché risulti neutrale rispetto allo stato patrimoniale della società» (poco sopra leggendosi che si dà tale ipotesi qualora «l’intervento non comporti alcuna variazione dello stato patrimoniale del debitore, né all’attivo – giacché in tal caso i creditori non potrebbero essere privati dei diritti che, in base alla legge, essi vantano sul patrimonio del debitore – e neppure al passivo, con la creazione di poste passive per il rimborso del finanziamento, sia pure postergato e con esclusione del voto»).
[31] 
In tal senso, Trib. Avezzano, 13 febbraio 2020, in ilcaso.it, secondo cui, «nel concordato in continuità, il maggior valore derivante dall’attuazione del piano concordatario, rispetto a quello dell’attivo esistente al momento della domanda di concordato, costituisce un surplus concordatario che può essere liberamente distribuibile dal debitore alla stregua di quella che viene comunemente definita quale finanza esterna» (corsivo aggiunto). Prim’ancora, App. Venezia, 19 luglio 2019, n. 3042, in fallimentiesocieta.it. Sulla suggestione della finanza esterna in relazione ai risultati della continuità, si veda l’attenta disamina in Trib. Milano, 15 dicembre 2016, in ilcaso.it.
[32] 
Cass., 21 giugno 2018, n. 16348, in Fallimento, 2019, p. 45, con nota di G.M. D’Aiello; Cass., 27 dicembre 2019, n. 34539, in id., 2020, p. 1425, con nota di M. Cataldo.
[33] 
Cass., 14 maggio 2019, n. 12864, in Leggi d’Italia, che, peraltro, sul punto ha cassato la sentenza d’appello (che aveva revocato il fallimento), accogliendo il ricorso della curatela, per aver giudicato ininfluente la verifica della neutralità, o non, dell’apporto del terzo, secondo l’insegnamento di Cass. 9373/2012.
[34] 
Non diversamente, App. Milano, 14 gennaio 2021, in ilcaso.it, ancora con riguardo ad una fattispecie di continuità indiretta (affitto d’azienda e successiva alienazione), in cui si discuteva di libera distribuzione dei canoni e – parrebbe – addirittura dell’intero prezzo di vendita (tenuto conto che si era sostenuto, nell’attestazione, che, in caso di fallimento, si sarebbe disgregata l’azienda, residuando solo una liquidazione atomistica), ha ritenuto di aderire al «concetto classico di neutralità», uniformandosi a Cass. 9373/2012, cit., e a Cass. 10884/2020, cit. (che alla prima, inter alia, si richiama). Decisione, per il vero, assunta nella dichiarata consapevolezza che «non vi è uniformità di vedute, in dottrina e nella stessa giurisprudenza […] sul concetto tradizionale – oppure dinamico –, ampio o ormai non più assoluto, dell’art. 2740 c.c. e sulla sua perdurante (o meno) imperatività, sulla differenza fra il patrimonio inteso come quello che viene fotografato con la presentazione/pubblicazione della domanda di concordato e quello che in realtà costituisce un valore diverso, cioè il cd. valore di risanamento, sulla derogabilità delle norme civilist[ich]e laddove si discute di concordato in continuità aziendale, sul significato da attribuire al concetto di funzionalità al “miglior soddisfacimento dei creditori” di cui all’art. 186-bis L.F. e via discorrendo». Peraltro, anche al riguardo pare che la “lettura” fosse insensibile alle “forme” di continuità, almeno in primo grado, dandosi conto che, ad avviso del Tribunale (di Busto Arsizio), «il surplus di valore realizzabile dalla liquidazione aziendale in sede concordataria, o la maggiore utilità ricavabile dalla prosecuzione, diretta o indiretta, dell’attività aziendale – rispetto a quanto, in tesi, realizzabile in sede fallimentare – non poteva essere considerato “nuova finanza” o “finanza esterna” e quindi non avrebbe potuto essere liberamente utilizzato in sede concordataria senza il rispetto, o in alterazione, delle cause legittime di prelazione ex art. 2741 c.c.» (corsivo aggiunto).
[35] 
D’altronde, il generale favor per la continuità dovrebbe portare a valorizzare qualunque apporto di risorsa “esterna”, nel senso di risorsa nuova rispetto al patrimonio del debitore in crisi, quale (sarebbe) cristallizzato all’apertura del concorso, persino qualora risorsa apportata a titolo di capitale, non sembrando rilevante, in senso contrario, la circostanza che essa “passi attraverso” il rafforzamento del socio ovvero l’ingresso di terzi nel capitale sociale, se questa è la “condizione” per iniettare nuova finanza.
[36] 
Almeno, così sembrava, sino all’ordinanza interlocutoria n. 15690/2021, cit.
[37] 
Cass. 29742/2018, cit., il cui principio di diritto così recita: «[i]l concordato con continuità aziendale disciplinato dall’art. 186-bis l.f. è configurabile anche quando l’azienda sia già stata affittata o sia destinata ad esserlo, rivelandosi affatto indifferente la circostanza che, al momento dell’ammissione alla suddetta procedura concorsuale o del deposito della relativa domanda, l’azienda sia esercitata dal debitore o, come nell’ipotesi dell’affitto della stessa, da un terzo, in quanto il contratto d'affitto – recante, o meno, l’obbligo dell’affittuario di procedere, poi, all’acquisto dell’azienda (rispettivamente, affitto cd. ponte oppure cd. puro) – può costituire uno strumento per giungere alla cessione o al conferimento dell’azienda senza il rischio della perdita dei suoi valori intrinseci, primo tra tutti l’avviamento, che un suo arresto, anche momentaneo, rischierebbe di produrre in modo irreversibile».
[38] 
Corsivo aggiunto. Per quanto qui d’interesse, la sentenza in parola trae manifesta ispirazione da L. Stanghellini, Il concordato con continuità aziendale, in Fallimento, 2013, p. 1222 e ss., spec. p. 1227.
[39] 
Così, da ultimo, Trib. Avezzano 13 febbraio 2020, cit., anche con riferimento all’art. 184 l.f., che, «nel rendere obbligatorio il concordato per tutti creditori anteriori alla pubblicazione nel registro delle imprese, attribuisce all’omologazione del concordato preventivo effetto esdebitatorio rispetto alla parte di credito stralciata (circa l’efficacia remissorio-liberatoria totale ed esdebitatoria del concordato preventivo cfr. Cass. n. 3957 del 18/03/2003 e anche Cass., n. 27489 del 22/12/2006) e pone nel nulla le cause di prelazione anteriormente ottenute». Sembrano, a tale ultimo riguardo, risuonare le considerazioni di G. D’Attorre, La distribuzione del patrimonio del debitore tra absolute priority rule e relative priority rule, in Fallimento, 2020, p. 1078 e s., ad avviso del quale «[s]e, per effetto dell’omologazione, la pretesa di tutti i creditori originari viene sostituita con la nuova e diversa obbligazione concordataria assunta dal debitore con la proposta, ne consegue che anche il diritto di prelazione dei creditori privilegiati cessa di svolgere una propria funzione con l’apertura della procedura. […] Poiché il privilegio ha natura accessoria rispetto al credito cui accede, anch’esso si estingue per effetto della novazione e sostituzione dell’obbligazione originaria […]». Tuttavia, sembra potersi osservare che il tempo della valutazione della legittimità della proposta, a legislazione vigente (la dir. 1023 non prevedendo alcun “filtro” all’accesso), è quello dell’ammissione e non quello del conseguimento dell’effetto remissorio, a seguito dell’omologazione.
[40] 
In astratto, perché, altrimenti, non vi sarebbe ragione di dar corso alla continuità, tant’è che l’art. 186-bis, u. comma, l.f., nel regolare l’evenienza che «l’esercizio dell’attività d’impresa cessa o risulta manifestamente dannoso per i creditori», è posto a presidio dell’erroneità della previsione, in relazione ai risultati concreti, della prosecuzione dell’attività d’impresa.
[41] 
Infatti, in una recentissima pronuncia (Trib. Como, 1° dicembre 2021, consultabile sul sito ilcaso.it) si osserva – con il “conforto” di Cass. 29742/2018, cit. – che «la legge non richiede che l’intero maggior valore creato dalla continuità aziendale (cd. surplus) sia messo a disposizione dei creditori sociali secondo l’ordine delle cause legittime di prelazione ai sensi degli artt. 2740-2741 c.c. Non si rinviene una norma in tal senso né all’interno dell’art. 186-bis l.f. né dell’art. 182-ter l.f. né aliunde nella legge fallimentare. Il Collegio non ignora l’orientamento più restrittivo, […] secondo cui i flussi generati dall’attività di impresa in continuità abbiano natura endogena e siano quindi da considerare parte del patrimonio dell’impresa da assoggettare al vincolo dell’art. 2740 c.c. Tuttavia, come affermato dalla giurisprudenza di merito maggioritaria, è vero il contrario: il concordato in continuità aziendale ex art. 186-bis l.f. comporta una deroga al principio di responsabilità generale ed illimitata del patrimonio del debitore ex art. 2740 c.c. ed al principio di graduazione dei crediti (in tal senso cfr. Trib. Rovigo, 27 luglio 2018; Trib. Firenze, 2 novembre 2016; Trib. Torino, 5 giugno 2014). […] Il Collegio ritiene, concordando con il prevalente orientamento di merito, che nel concordato preventivo con continuità aziendale, l’utile generato dalla prosecuzione dell’attività d’impresa ha natura esogena, non facendo parte del patrimonio dell’impresa come stimato all’apertura della procedura, e dunque il surplus concordatario non soggiace al divieto di alterazione delle cause di prelazione e alla regola del concorso. Ne consegue che il citato surplus costituisce un beneficio aggiuntivo che può essere liberamente distribuito tra i creditori chirografari anche qualora i creditori privilegiati non abbiano tenuto l’integrale soddisfazione; non consentire tale possibilità argomentando con l’inammissibilità della proposta che preveda la violazione dell’ordine delle cause di prelazione significherebbe, infatti, imporre ai creditori una soluzione per loro pregiudizievole, evidentemente contraria al principio della migliore soddisfazione che, nel concordato con continuità aziendale, deve considerarsi un criterio interpretativo di carattere generale (Corte Appello Venezia, 19 luglio 2019; Trib. Milano, 5 dicembre 2018; Trib. Prato, 7 ottobre 2015; Trib. Torino, 7 novembre 2013)».
[42] 
M. Fabiani, Appunti sulla responsabilità patrimoniale “dinamica”, cit., p. 48, che pur ritiene il concordato un mezzo di attuazione della garanzia patrimoniale, osserva, alla p. 52, trattarsi di «una garanzia patrimoniale racchiusa in un patrimonio segregato rappresentato dai soli valori di liquidazione», con la chiosa per cui «[l]a de-strutturazione/de-concorsualizzazione del concordato […] si riflette su una distribuzione sempre più asimmetrica delle risorse purché, nel complesso, la ricchezza generata vada a beneficio di tutti. Al fondo, è come se si dicesse che se tutti stanno meglio rispetto ad un confronto con la dissoluzione dell’impresa, non importa che alcuni sitano meglio di altri», in una direzione manifestamente ottimo-paretiana.
[43] 
Cfr. M. Fabiani, La rimodulazione del dogma della responsabilità patrimoniale e la de-concorsualizzazione del concordato preventivo, in ilcaso.it, p. 6 e s., che rileva come «[l]’equilibrio fra l’art. 2740 c.c. e l’art. 186-bis l.f. si raggiunge quando si avverte che il patrimonio destinato ai creditori può essere solo quello che è liquidabile senza la volontà collaborativa del debitore. In tale prospettiva, anche le risorse generate dalla continuità debbono andare al servizio dei creditori, interamente, sino a che la misura di quelle ricorse è ricavabile altrimenti».
[44] 
App. Venezia, 19 luglio 2019, cit., particolarmente significativa nell’aver posto – e risolto, in base all’art. 186-bis l.f., sia pur assai celermente – lo spinoso tema del soddisfacimento non integrale dei creditori e della permanenza dei soci nel capitale sociale, pur facendosi applicazione – merita aggiungersi – dell’APR (ed è quest’ultimo aspetto, vale a dire la portata della regola di priorità assoluta, a non essere stato oggetto di approfondimento nel contesto di una pronuncia, che, peraltro, si segnala per una ricchezza argomentativa fuori dal comune, e così, inter alia, anche per aver identificato il “patrimonio” rilevante, ai fini del “miglior soddisfacimento” da offrire ai creditori, in «quello esistente al momento in cui viene presentata la domanda di concordato, quale patrimonio attuale della società suscettibile di essere ceduto o aggredito esecutivamente»; su tale profilo v. già le puntuali considerazioni di Trib. Milano 5 novembre 2016, in DeJure, secondo cui la regola del rispetto dell’ordine delle cause di prelazione deve «essere intesa, nel concordato in continuità, come operativamente limitata, nel tempo, alla data della presentazione della domanda di concordato e, nella “dimensione applicativa”, al patrimonio della concordataria esistente a quella data»).
[45] 
In dichiarata coerenza con Cass. 29742/2018, cit., si pone, invece, altra, assai recente, decisione pur sempre della Corte lagunare (App. Venezia, 28 settembre 2020, in Leggi d’Italia), in cui si afferma che è «priva di un adeguato riscontro normativo attualmente applicabile la tesi di partenza del Tribunale e cioè quella per cui nel caso di continuità aziendale la proposta di concordato deve necessariamente prevedere la diretta destinazione a favore dei creditori dei flussi reddituali rinvenienti dalla continuazione dell’attività d’impresa, nella fattispecie, quella della locazione degli immobili costituenti il patrimonio […]» della debitrice.
[46] 
Conclusione interessante perché, a diritto vigente (e, tuttavia, dando al lettore la sensazione di una rilevante suggestione della dir. 1023, pubblicata il mese precedente la decisione in esame), considera il «miglior soddisfacimento» di cui all’art. 186-bis l.f. come trattamento non deteriore rispetto all’alternativa della liquidazione fallimentare, proprio come l’art. 2, par. 1, n. 6), dir. 1023. Quanto all’esigenza – non condivisibile, se affermata, come sembra, in linea generale (così anche Trib. Avezzano 13 febbraio 2020, cit.) – di determinare il valore di liquidazione del patrimonio anche con riguardo all’esercizio provvisorio, v. appresso, par. 3.3.
[47] 
Quanto ai contrasti sulla “sorte” del plusvalore, anche presso il medesimo organo giudicante e in un arco temporale limitato, emblematico della complessità della questione è il confronto tra le pronunce di Trib. Milano 5 novembre 2016, cit., e Trib. Milano 15 dicembre 2016, cit., quest’ultima nettissima nell’escludere che il plusvalore da continuità sia liberamente allocabile, là dove afferma che «[l]a prosecuzione dell’attività d’impresa in sede concordataria non può comportare il venir meno della garanzia patrimoniale del debitore, che risponde dei suoi debiti con tutti i beni, presenti e futuri (art. 2740 c.c.), non creando la prosecuzione dell’attività d’impresa un patrimonio separato riservato in favore di alcune categorie di creditori (anteriori o posteriori alla domanda di concordato). Né pare consentito azzerare in sede concordataria il rispetto delle cause legittime di prelazione (art. 2741 c.c.), che è un corollario della responsabilità patrimoniale, principio che viene meno solo a seguito delle attività liquidatorie in sede di esecuzione forzata o, comunque, per effetto di vendite coattive (purgative)». Assai interessante, però (non nella riconduzione all’art. 2265 c.c., all’evidenza forzata), l’ulteriore rilievo secondo cui non «potrebbe farsi carico al singolo creditore o ad una classe di creditori (vieppiù privilegiati o ipotecari) […] il solo rischio della procedura di continuità […] senza attribuzione anche a costui delle potenzialità derivanti dalla prosecuzione (il surplus concordatario), perché ciò comporterebbe l’imposizione a questo particolare e privilegiato creditore di un patto leonino a suo discapito»: vi si ritornerà in conclusione del presente paragrafo.
[48] 
Ma è ben più limpida la prima parte del comma 2, là dove si ha riguardo al soddisfacimento integrale dei crediti privilegiati, sia pur per regolarne la possibile degradazione al rango chirografario, ma nel rispetto della collocazione preferenziale in caso di liquidazione giudiziale.
[49] 
Per un interessante spunto, v. G. Terranova, I concordati in un’economia finanziaria, in Dir. fall., 2020, p. 17 e s., secondo cui la disposizione dell’art. 160, comma 2, ultima proposizione, l.f., «è ambigua: certamente proibisce di attribuire ai creditori chirografari qualcosa in più – in termini di percentuale – rispetto a quanto tocca ai creditori privilegiati, o di far conseguire ai creditori postergati qualcosa in più dei creditori ordinari. Detto questo, però, si presta a due letture diverse: a) ci si può fermare a quanto or ora si è detto, sulla base di un’interpretazione letterale del testo della legge; oppure b) si può sviluppare il precetto, facendogli dire che i creditori postergati non possono ricevere neppure un euro, se i creditori chirografari non vengono integralmente soddisfatti […]».
[50] 
A. Patti, I privilegi, in Tratt. Cicu-Messineo, Milano, 2003, p. 31.
[51] 
Così Cass. 24 luglio 1989, n. 3486, in Giust. civ., 1990, I, p. 118, con nota di G. Lo Cascio, che, tra le altre norme di chiusura del sistema dei privilegi, menziona l’art. 2777, comma 3, c.c. (secondo cui «[i] privilegi che le leggi speciali dichiarano preferiti ad ogni altro credito sono sempre posposti al privilegio per le spese di giustizia ed ai privilegi indicati nell’articolo 2751-bis», crediti, all’evidenza, da soddisfare integralmente, non potendosi diversamente interpretare la locuzione di legge). D’altronde, sebbene principio affermato nel rapporto tra privilegiati e chirografari, può riproporsi, in questa sede, il dictum di Cass. 10884/2020, cit., ad avviso della quale, a diversamente opinare (in punto di soddisfacimento solo parziale del creditore di rango superiore), «si ammetterebbe che, sulla medesima massa attiva, creditori di rango inferiore (quali sono quelli in chirografo) siano soddisfatti prima che lo siano, per l'intero, i creditori di rango poziore. E un tale risultato urterebbe, come è evidente, non solo col principio per cui il piano concordatario deve assicurare la soddisfazione dei creditori privilegiati in misura almeno pari a quella cui gli stessi potrebbero aspirare, in ragione della loro collocazione preferenziale, in caso di liquidazione, ma anche con la regola che vieta di alterare l’ordine delle cause legittime di prelazione». 
[52] 
Nel Considerando 3 della dir. 1023 si legge che «[n]ei quadri di ristrutturazione i diritti di tutte le parti coinvolte, compresi i lavoratori, dovrebbero essere tutelati in modo equilibrato».
[53] 
Ed è scelta di politica del diritto, come osserva L. Stanghellini, Verso uno statuto dei diritti dei soci di società in crisi, cit., p. 307.
[54] 
Così Corte Cost. 15 luglio 1992, n. 329, in Foro it., 1993, I, c. 2785. Al riguardo, v. F. Roselli, Responsabilità patrimoniale. I mezzi di conservazione, in Tratt. Bessone, IX, Torino 2005, p. 7 e ss.; G. Doria, Il patrimonio ‘finalizzato’, in Riv dir. civ., 2007, I, p. 503 e s. Di «principio fondamentale» già aveva fatto parola il Guardasigilli, nella Relazione al Libro VI del codice civile, al n. 1124; R. Nicolò (- V. Andrioli - G. Gorla), Tutela dei diritti. Art. 2740-2899, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1958, p. 11 e s., aveva osservato che «[l]a responsabilità patrimoniale del debitore è […] un elemento essenziale dell’obbligazione e non già nel senso che sia di questa un elemento costitutivo ma bensì nel senso che essa è lo strumento idoneo (e quindi non eliminabile) a far conseguire al creditore, nel caso in cui manchi la spontanea attuazione del contenuto dell’obbligo, il bene dovuto».
[55] 
Per un’esposizione di sintesi v. F. Macario, Responsabilità e garanzia patrimoniale: nozioni introduttive, in Diritto Civile diretto da N. Lipari e P. Rescigno, Milano, 2009, IV, II, p. 160 e ss., spec. p. 163 e ss. 
[56] 
Così F. Roselli, op. cit., p. 4, e nt. 12 per i riferimenti del caso.
[57] 
V. F. d’Alessandro, La crisi delle procedure concorsuali e le linee della riforma: profili generali, in Giust. civ., 2006, II, p. 334.
[58] 
Il che – è ovvio – non significa, ex se, che non possa trovare attuazione nell’ambito delle procedure concorsuali (per tutti, v. A. Nigro, La disciplina delle crisi patrimoniali delle imprese, in Tratt. Bessone, XXV, Torino, 2012, p. 147 e ss.). V., però, G. Ferri jr., Autonomia delle masse e trasferimenti di risorse nel concordato preventivo di gruppo, in Corr. giur., 2020, p. 289, secondo cui la norma dell’art. 2740 c.c., «proprio in quanto relativa al momento, esecutivo, della responsabilità patrimoniale, risulta, e per ciò solo, estranea ad una vicenda, quale quella del concordato, in cui a venire in considerazione è piuttosto la ristrutturazione, a maggioranza dei debiti», per l’appunto richiamandosi a F. d’Alessandro, cit. alla nota precedente (oltre che, successivamente, a G. D’Attorre, Concordato preventivo e responsabilità patrimoniale del debitore, in Riv. dir. comm., 2014, II, p. 376 e ss.; e v., anche, A. Rossi, Le proposte “indecenti” nel concordato preventivo, in Giur. comm., 2015, p. 343 e s., che sottolinea come «l’art. 2740 c.c., seppure norma cardine del sistema delle obbligazioni, fatica a trovare un suo ambito di applicazione nel sistema del concordato preventivo, che costituisce per sé un’ipotesi legale di procedimento funzionale alla falcidia del debito, mentre l’art. cit. di preoccupa di non limitare la responsabilità del debitore, sì che non si rende neppure necessario ricondurre la disciplina del concordato ai “casi stabiliti dalla legge” consentiti dal suo comma 2 per sterilizzare la portata del comma 1»). In senso diametralmente opposto, anche a voler assumere il favor legislativo per le ristrutturazioni aziendali, D. Galletti, I proventi della continuità, come qualsiasi surplus concordatario, non sono liberamente distribuibili, in ilfallimentarista.it, 2020, in quanto «l’interesse tutelato al vertice della gerarchia è indiscutibilmente quello dei creditori, non quello “oggettivo” dell’impresa; dunque quel supposto “favor” andrà ricostruito in un contesto sistematico che è (e non può non essere) consapevole di quella gerarchia di valori: e non si vede proprio come possa ipotizzarsi che un generico “favor” legislativo, posto a tutela di un interesse sempre sottoordinato a quello dei creditori, possa implicare deroghe inespresse a norme (addirittura, espressive di principi generali dell’ordinamento) poste a tutela dell’interesse sovraordinato al primo. In sostanza voler ricondurre semplicemente alla riserva di cui al comma 2° dell’art. 2740 c.c., sulla base degli argomenti sopra citati, una supposta “deroga” all’art. 2740 c.c. nel nostro settore è come dire: “quel principio generale, non è mica generale”. E ciò nemmeno basterebbe per legittimare la conclusione della deroga implicita» (corsivo dell’A.).
[59] 
V. L. Nivarra, Sovraindebitamento e responsabilità patrimoniale, in Eur. dir. priv., 2020, p. 314 e ss.; ma v., anche per considerazioni di raffronto col diritto delle procedure concorsuali, P. Schlesinger, L’eguale diritto dei creditori di essere soddisfatti sui beni del debitore, in Riv. dir. proc., 1991, p. 323 e ss.
[60] 
G. Ferri jr., Il ruolo dei soci nella ristrutturazione, cit., p. 565 e s., che ritiene doversi mettere «in discussione alcune convinzioni di fondo che caratterizzano la tradizionale ricostruzione tanto del diritto concorsuale, quanto di quello societario, quanto, infine, dei rapporti tra l’uno e l’altro. Si allude, in primo luogo, all’impostazione volta a riconoscere a tutte le procedure concorsuali, anche quelle di ristrutturazione finanziaria, una funzione in buona sostanza esecutiva, vale a dire di strumento di attuazione della garanzia patrimoniale, che in realtà caratterizza unicamente le procedure di liquidazione: ed alla conseguente tendenza a circoscrivere al patrimonio del debitore, e dunque della società debitrice, l’operatività di siffatte procedure»; da ultimo, diffusamente, I. Donati, Le ricapitalizzazioni forzose, Milano, 2020, p. 227 e ss., spec. p. 280 e ss.; v. anche L. Stanghellini, La crisi di impresa fra diritto ed economia. Le procedure di insolvenza, Bologna, 2007, p. 60, ad avviso del quale vi è un «difficile equilibrio fra attuazione della responsabilità patrimoniale e massimizzazione dell’oggetto su cui essa si attua: paradossalmente, un’attuazione rigorosa degli artt. 2740 e 2741 c.c. rischia di distruggere quello che si vorrebbe distribuire fra i creditori. Ne risulta una soluzione di compromesso: quella di consentire al debitore, se coopera, di salvare qualcosa dal naufragio anche quando i creditori non siano stati soddisfatti, al fine di far sì che la quota che questi ricevono sia quella massima possibile».
[61] 
V. G. Terranova, op. cit., p. 12, per la conseguente considerazione secondo cui il concordato è divenuto «uno strumento di generale applicazione per superare la crisi con il minor danno per i creditori» e, da ultimo, se pur in riferimento al d.l. 118/2021, V. Minervini, La “composizione negoziata” nella prospettiva del recepimento della direttiva “Insolvency”. Prime riflessioni, in ilcaso.it, p. 15, sul primato della “business rescue culture”.
[62] 
Sulla dir. 1023, ex plurimis, P. Vella, L’impatto della Direttiva UE 2019/1023 sull’ordinamento concorsuale interno, in Fallimento, 2020, p. 747 e ss.; Ead., I quadri di ristrutturazione preventiva nella Direttiva UE 1023/2019 e nel diritto nazionale, in id., 2020, p. 1033 e ss.
[63] 
Specie se si originano controversie sulla valutazione: proprio per attenuare il relativo rischio si sono avanzate proposte di “aggiustamento” dell’APR negli USA: v. D. Baird, op. cit., passim, spec. p. 792 e ss.; J.M. Seymour - S.L. Schwarcz, op. cit., p. 15 e ss.; per una sintesi, F. Viola, op. cit., p. 864 e ss.
[64] 
V. appresso, nel testo, par. 3.2.
[65] 
Cfr. I. Donati, Crisi d’impresa e diritto di proprietà, cit., p. 198 e s., testo e nt. 73, per la distinzione tra diritto (incomprimibile) del singolo a contestare la violazione del «miglior soddisfacimento» e diritto della maggioranza della classe a decidere in ordine alla distribuzione del surplus. Va anche aggiunto che l’art. 16, par. 4, comma 2, dir. 1023, faculta il legislatore nazionale a prevedere che, «se un piano è omologato a norma del primo comma, lettera b), sia concesso un risarcimento a qualsiasi parte che abbia subito perdite monetarie e la cui impugnazione sia stata accolta». In altri termini, si può evitare la revoca dell’omologazione, in sede di reclamo, corrispondendo in denaro il differenziale tra soddisfacimento proposto ed eventuale maggior valore da liquidazione giudiziale; sarebbe preferibile – ove si ritenesse di cogliere quest’opportunità – anticipare la “conversione” monetaria del pregiudizio alla fase dell’omologazione (in questa prospettiva sarebbe preferibile attenersi alla lettera della dir. 1023 ed evitare il controllo officioso sul «miglior soddisfacimento»).
[66] 
Cfr. F. d’Alessandro, Interesse pubblico alla conservazione dell’impresa e diritti privati sul patrimonio dell’imprenditore, in Giur. comm., 1984, I, p. 58.
[67] 
V. I Donati, Crisi d’impresa e diritto di proprietà, cit., p. 176 e ss. (anche, alle p. 180 e ss., con riferimento all’infrequente, ma sistematicamente rilevante, ipotesi del residuo valore della partecipazione sociale, in caso di crisi).
[68] 
In una prospettiva diversa, per così dire sostanziale, merita segnalazione quanto osservato da G. Ballerini, Le ricadute di diritto italiano, cit., p. 982, secondo cui «l’impressione è che, al di là delle categorie giuridiche e dei nomina delle varie procedure, ciò che sembra rilevare sono le conseguenze di una data procedura per i soggetti interessati […] quali siano le tutele opportune nel caso in cui un soggetto (il creditore, principalmente) sia costretto ad accettare un sacrificio della propria pretesa (ad es., la falcidia o la dilazione) contro la sua volontà».
[69] 
R. Nicolò, op. cit., p. 10 e s., ove l’affermazione secondo cui “bene futuro” è «espressione cronologica [che] si riferisce al momento in cui si è assunta l’obbligazione e vuole soprattutto scolpire il concetto, che può a prima vista sembrare ovvio, per cui possono essere colpiti dall’azione esecutiva del creditore anche i beni entrati nella sfera patrimoniale dopo l’assunzione del vincolo, ancorché su di essi il primo non avesse ragione di fare affidamento Per converso l’espressione “beni presenti” [è] riferita al momento dell’assunzione dell’obbligazione […]»; in tempi recenti, C. M. Bianca, Diritto civile. La responsabilità, V, Milano, 1994, p. 415 (il riferimento, voluto, è alla prima edizione); adde V. Roppo, La responsabilità patrimoniale del debitore, in Tratt. Rescigno, XIX, 1, Torino, 1997, p. 506 e s.; D. Di Sabato, I privilegi, in Tratt. dir. civ. del Consiglio Nazionale del Notariato, diretto da P. Perlingieri, Napoli, 2008, III, 17, p. 11 e s.
[70] 
V. G. Sicchiero, La responsabilità patrimoniale, in Tratt. dir. civ. diretto da Sacco, Le obbligazioni, 2, 2011, p. 81 e ss. (da p. 75 e ss. un’efficace sintesi sul dibattito dottrinale in tema di “beni presenti” e “beni futuri” nella disposizione dell’art. 2740 c.c.).
[71] 
Con riguardo al concordato in continuità, v., da ultimo, Trib. Avezzano, 13 febbraio 2020, cit. In dottrina, per tutti, M. Fabiani, Appunti sulla responsabilità patrimoniale “dinamica”, cit., p. 51, il quale osserva che «quando le risorse sono esaurite, la garanzia patrimoniale non c’è più: ci sarebbe sui beni futuri (art. 2740 c.c., art. 42 l.f.), ma solo su quelli realizzabili nella liquidazione, non su quelli futuri salvo che siano ‘contendibili’ ed offerti ‘spontaneamente’».
[72] 
Valorizza, invece, l’assenza di relatio, A. Rossi, op. cit., p. 344. Ad avviso di D. Galletti, op. cit., la disposizione dell’art. 42 l.f. trova giustificazione nella sola sede fallimentare, perché unicamente in essa si realizzano spossessamento e sostituzione del debitore.
[73] 
Cfr. L. Panzani, Sorte della partecipazione dei vecchi soci in caso di ristrutturazione di società insolventi, in Soc., 2014, p. 92 e ss., secondo cui «[…] la disciplina dettata dall’art. 186-bis non costituisce una deroga ulteriore al disposto dell’art. 2740, ma una conferma del principio già affermato in generale della disciplina del concordato […]. La deroga al disposto dell’art. 2740 è infatti insita nello stesso meccanismo esdebitatorio proprio del concordato per cui i creditori, a fronte della percentuale promessa dei beni ceduti, rinunciano al maggior credito. […] Il concordato preventivo costituisce in sé una deroga al principio dettato dall’art. 2740 c.c., rappresentando lo stesso meccanismo della falcidia un’eccezione al generale disposto della norma»; G. D’Attorre, Le utilità conseguite con l’esecuzione del concordato in continuità spettano solo ai creditori o anche al debitore?, in Fallimento, 2017, p. 321 e s., ritiene più corretto ravvisare una limitazione del debito («[…] “estinto” (o divenuto inesigibile) per effetto del concordato approvato (a maggioranza), omologato, eseguito e non risolto […]», anziché della responsabilità, riconoscendo, peraltro, trattarsi di «una limitazione del debito “sopravvenuta” (per effetto della decisione a maggioranza) e non originaria […]». Ma v. D. Vattermoli, La posizione dei soci nelle ristrutturazioni, cit., p. 871 e s., testo e nt. 45, il quale osserva che «[l]’art. 186-bis, comma 1, l.f., nel disegnare il perimetro del concordato in continuità aziendale diretta, non dice affatto, a ben vedere, che i soci possono mantenere, senza alcuna controprestazione, le quote di partecipazione della società risanata per effetto della falcidia concordataria, con conseguente – anzi, consustanziale – deroga all’art. 2740 c.c.». In effetti, la distinzione di “piani”, tra società-debitrice e soci, consente di leggere, nell’art. 186-bis l.f., la “soglia” all’attribuzione ai creditori sociali del plusvalore, ma non, ex se, il fondamento della permanenza dei soci nel capitale sociale; tuttavia, l’assegnazione ai creditori delle partecipazioni nella società risanata equivarrebbe ad attribuire a costoro, per il medio della partecipazione sociale, il surplus (e, per converso, la disposizione in esame non adombra che i soci originari, per evitare quell’effetto negativo, dovrebbero riacquistare le partecipazioni della società risanata); ciò salvo che non si ritenga che la disposizione in esame si limiti a fissare il requisito di ammissibilità (il «miglior soddisfacimento»), “convivendo” con l’art. 2740 c.c. (il che implicherebbe che tutto il plusvalore, sino all’integrale soddisfacimento dei creditori, anche tenuto conto del tempo a ciò occorrente, andrebbe destinato ad essi; coi soci che resterebbero “quiescenti” ben oltre l’“arco di piano”, ipotesi scarsamente verosimile). Cfr. D. Galletti, op. cit., ad avviso del quale «l’asserto [secondo cui l’art. 186-bis l.f. conterrebbe una deroga all’art. 2740 c.c.] si basa su una premessa fallace: cioè che l’applicazione dell’art. 2740 c.c. presupponga comunque e sempre la vendita dei beni vincolati alla garanzia». Per la derogabilità dell’art. 2740 c.c.
[74] 
Così App. Venezia, 19 luglio 2019, n. 3042, cit.
[75] 
V. L. Stanghellini, Verso uno statuto dei diritti dei soci di società in crisi, cit., p. 318.
[76] 
R. Sacchi, Sui trasferimenti di risorse nell’ambito del concordato di gruppo nel CCII, in La riforma delle procedure concorsuali. In ricordo di Vincenzo Buonocore, Milano, 2021, p. 292 e ss., spec. p. 296; F. Viola, op. cit., p. 881, nt. 119.
[77] 
V. M. Fabiani, op. ult. cit., p. 47, che osserva, al riguardo, come «[l]a tutela dei creditori era salvaguardata anche quando l’impresa proseguiva l’attività economica in un ambiente di conservazione della stessa compagine sociale».
[78] 
A diritto vigente, infine, una indiretta conferma potrebbe, forse, trarsi anche dalla disciplina delle proposte concorrenti, ex art. 163, comma 5, l.f., là dove si prevede che, in caso di offerta di soddisfacimento dei chirografari nella misura del 30%, non vi è spazio per proposte di terzi: preclusione da cui si potrebbe desumere che non c’è alcun vincolo a mettere a disposizione dei creditori le maggiori – rispetto alla proposta avanzata ex art. 186-bis l.f. – risorse della continuità (se non vi fosse un valore astrattamente contendibile, d’altronde, non vi sarebbe ragione di ipotizzare la formulazione di offerte concorrenti).
[79] 
Uno spunto in tal senso in Trib. Milano, 15 dicembre 2016, cit.
[80] 
Per chi ritiene il concordato “strumento” di attuazione della garanzia patrimoniale, e l’applicazione dell’art. 2740 c.c. estesa anche al plusvalore della continuità: così, da ultimo, D. Galletti, op. cit., ove, indipendentemente dall’impostazione in ordine alla destinazione del surplus, la condivisibile considerazione per cui il concordato con continuità aziendale presenta un «rischio aggiuntivo: il rischio cioè che l’esigenza di soddisfare i creditori successivi, c.d. creditori della continuità, eroda l’attivo disponibile (non quello disponibile oggi, ma al momento della liquidazione), a causa dei flussi economici negativi che la continuità potrebbe generare in caso di insuccesso (beninteso, senza che ciò contemporaneamente salvaguardi attivi immateriali realizzabili di valore superiore); per questo si richiede l’adozione di un piano economico e finanziario specifico, e l’attestazione speciale […]» (ancora, più avanti, rimarcandosi che, a fronte di quel rischio aggiuntivo, i creditori verrebbero “espropriati” «di qualsiasi aspettativa di incremento della ricchezza, ancorata all’esercizio di quel rischio»).
[81] 
Oltre a fissare il principio di non discriminazione tra classi dello stesso rango, non senz’aver menzionato il Considerando 56, in base al quale «[g]li Stati membri dovrebbero poter derogare alla regola della priorità assoluta, se ad esempio si consideri giusto che i detentori di strumenti di capitale mantengano determinati interessi ai sensi del piano, nonostante che una classe di rango superiore sia obbligata ad accettare una falcidia dei suoi crediti, o che i fornitori essenziali cui si applica la disposizione sulla sospensione delle azioni esecutive individuali siano pagati prima di classi di creditori di rango superiore». Sì che, a fortiori, è consentito desumerne che una classe di creditori chirografari, se “strategica” (ad instar dell’art. 182-quinquies, comma 5, l.f.), possa essere soddisfatta prima, e in misura maggiore (ma già il tempo – è noto – è misura del soddisfacimento), di altra classe di creditori chirografari, in sé (i.e. in relazione alla qualità del credito), dunque, del medesimo rango.
[82] 
L. Stanghellini, op. ult. cit., p. 301, quanto ai rapporti tra diritto societario e diritto delle procedure concorsuali, osserva che «la conquista del campo del diritto societario è avvenuta in situazioni in cui, data la gravità dei sacrifici subiti dai creditori, la posizione “proprietaria” dei soci era divenuta politicamente indifendibile: […] non è credibile affermare che esista un plusvalore latente che spetta ai soci».
[83] 
Se, viceversa, sia dato configurare il caso quasi scolastico, dell’esistenza di una “residual claim” in capo ai soci, nonostante la crisi, e, dunque, di un valore che ad essi dovrebb’essere riconosciuto, una volta soddisfatti integralmente i creditori, i soci dovrebbero ricevere tutela e dovrebbero potersi opporre all’omologazione, qualora il piano ne prevedesse l’estromissione dal capitale. In altri termini, verrebbe in considerazione, anche con riguardo a costoro, quel “nucleo minimo” di tutela della “pretesa” di cui si è dato conto in relazione al «miglior soddisfacimento» dei creditori. Sul «significativo affievolimento dello status socii», v. I. Donati, Le ricapitalizzazioni forzose, cit., p. 168 e ss. (anche con riferimento alla possibile attribuzione di una “utilità” equivalente, che renderebbe i soci, in ipotesi “espulsi” dalla compagine sociale, formalmente creditori della società in crisi); Id., Crisi d’impresa e diritto di proprietà, cit., p. 197 e ss., per l’incostituzionalità della disciplina attuale, di cui all’art. 180, comma 4, l.f. (e di quella futura, dell’art. 112 CCI).
[84] 
E il crescente ricorso all’emissione di strumenti finanziari partecipativi, di cui si è brevemente dato conto in precedenza, sembra rispondere all’esigenza, più che di giustificare il “mantenimento degli interessi” in capo ai soci, di sottrarre l’impresa debitrice alla “tagliola” dell’art. 2740, comma 1, c.c., riguardo alla (asserita) necessaria distribuzione tra i creditori sociali delle risorse da continuità, quali “beni futuri” (in astratto, il socio potrebbe conservare la partecipazione, in uno stato di quiescenza quanto ai diritti inerenti ad essa, sino all’integrale soddisfacimento di detti creditori).
[85] 
Ne costituisce eccezione, ad es., come osservato in precedenza, App. Venezia, 19 luglio 2019, cit., che all’art. 186-bis l.f. si richiama, sia pur brevemente.
[86] 
Il testo ufficiale può consultarsi all’indirizzo appresso indicato: https://www.eerstekamer.nl/behandeling/20200511/motie_van_de_leden_van_dam_en_van/document3/f=/vl8mfp3eray6.pdf, mentre una traduzione non ufficiale in inglese è consultabile su https://www.dvdw.nl/media/1693/35_249-whoa-nr-a-voorstel-van-wet-unofficial-translation-of-cerp-bill.pdf. Al riguardo, v. R.J. van Galen, The act on the confirmation of out-of-court Restructuring plans, consultabile su https://www.nautadutilh.com/en/information-centre/news/the-act-on-the-confirmation-of-out-of-court-restructuring-plans-whoa.
[87] 
Per l’esattezza, ciò può avvenire «if the debtor or a person holding an equity interest in the debtor retains an interest in the assets of the business contrary to section 27 (1) no. 2 where: 1. the cooperation of the debtor or the person holding an equity interest in the debtor in continuing the business is indispensable due to special circumstances related to the debtor or such person personally in order to realise the plan value and the debtor or the person holding an equity interest in the debtor undertakes to cooperate as required and to transfer the economic values in the event that the debtor or such person ceases to cooperate before the expiry of five years, or any shorter period set for implementation of the plan, for reasons for which the debtor or such person is responsible; or 2. the interference with creditors’ rights is minor, in particular because rights are not reduced and their maturity is not postponed by more than 18 months». L’art. 27, rubricato «Absolute Priority», stabilisce, al comma 1, n. 2, che «[A class will be deemed to have received a fair share in the plan value if:] neither an affected creditor who, without a plan, would have a subordinated claim to satisfaction compared to the creditors of that class in insolvency proceedings, nor the debtor or any person holding an equity interest in the debtor receives an economic value that is not fully compensated by a contribution to the debtor’s assets» (il successivo n. 3 contiene il principio di non discriminazione, secondo cui «no affected creditor who would have an equal-ranking claim to satisfaction compared to the creditors of that class in insolvency proceedings is treated more favourably than these creditors»).
[88] 
Il testo ufficiale può consultarsi all’indirizzo appresso indicato: https://www.gesetze-im-internet.de/starug/index.html, mentre una traduzione non ufficiale in inglese è consultabile su https://www.allenovery.com/de-de/global/news-and-insights/publications/starug-finaler-gesetzestext-und-zusammenfassung. Al riguardo, v. C.G. Paulus, The new German preventive restructuring framework, in Orizzonti del Diritto Commerciale, 2021, p. 9 e ss.
[89] 
Secondo cui «Les créances des créanciers affectés d’une classe qui a voté contre le plan sont intégralement désintéressées par des moyens identiques ou équivalents lorsqu’une classe de rang inférieur a droit à un paiement ou conserve un intéressement dans le cadre du plan».
[91] 
Ed è di grande rilevanza aver previsto l’apporto di competenze, etc., e non l’apporto esclusivamente monetario.
[92] 
V., da ultimo, un’efficace sintesi in G. Ballerini, La distribuzione del (plus)valore, cit., p. 397 e ss.; sul rischio di aumento del costo del credito, D. Galletti, op. cit., osserva che «il creditore che abbia finanziato il debitore sulla base dell’aspettativa di concorrere altresì sui beni “futuri”, pur sapendo che l’iniziativa del debitore in ordine al concordato preventivo può privarlo di tale aspettativa, non potrebbe fare altro che pretendere forme di garanzia “specifica” […], se ha la forza contrattuale per ottenerle, od altrimenti sconterebbe subito nel tasso quel rischio». Per le ragioni di preferenza della RPR, in punto di flessibilità (e, dunque, anche di conservazione della partecipazione dei soci, il cui ruolo è sovente decisivo, ai fini del risanamento, nelle PMI), v., per tutti, I. Donati, Le ristrutturazioni forzose, cit., p. 280 e ss.; L. Stanghellini, op. ult. cit., p. 305 e ss.
[93] 
V. B. Massella Ducci Teri, op. cit., p. 601 e ss.; L. Stanghellini - R. Mokal - C.G. Paulus - I. Tirado, op. cit., p. 46. Per le ragioni di contrarietà alla RPR “pura”, di cui alla dir. 1023, v., tra gli altri, G. Ballerini, op. ult. cit., p. 385 e ss.; J.M. Seymour - S.L. Schwarcz, op. cit., p. 41 e ss.; R.J. de Weijs - A. Jonkers - M. Malakotipour, op. cit., p. 13 e ss., con la secca chiosa per cui la scelta della dir. 1023 in termini di RPR «[…] upends the basic fabric of private law».
[94] 
Per uno spunto, indipendentemente dalla dir. 1023 (e, dunque, con riguardo al diritto vigente), v. G. Terranova, op. cit., p. 20, secondo cui «è il debitore a dover valutare se concedere qualcosa anche a chi non ne avrebbe diritto, per ottenere quel consenso politico e sociale, che è sempre indispensabile per fare certe operazioni. In fondo, quando mette sul piatto della bilancia delle risorse aggiuntive (rispetto a quanto i creditori avrebbero ottenuto da una procedura liquidatoria) non fa altro che disporre del suo, e, se ottiene per questa strada il necessario consenso, non si vede per quale motivo gli si dovrebbe impedire di salvarsi».
[95] 
Ragionevolmente, perché sarebbe sempre ammissibile, in ipotesi, l’opposizione all’omologazione per violazione del canone del «miglior soddisfacimento»; ma, nel concreto, sarebbe altamente improbabile, ancor più se si prevedesse che il rispetto di quel canone debba formare oggetto di attestazione (già oggi, in vero, nell’attestazione viene determinato il valore di liquidazione giudiziale, così dandosi evidenza ai creditori della convenienza della continuità aziendale).
[96] 
È la tesi che si è esposta nella giornata conclusiva degli incontri organizzati dalla Scuola Superiore della Magistratura nelle date 10-12 novembre 2021, sul tema «La disciplina del concordato preventivo» (e, quindi, ripreso al XXVIII convegno dell’A.A.S.D.C. «“Ce lo chiede l’Europa”. Dal recupero dell’impresa in difficoltà agli scenari post pandemia: 15 anni di riforme», tenutosi ad Alba il 20 novembre 2021).
[97] 
Che, poi, il valore dell’impresa in continuità possa determinarsi assumendo che, in conclusione del quinto anno (durata “tradizionale” di un piano concordatario), si abbia il cosiddetto “terminal value”, che di quel valore è una componente, è evenienza che potrà anche riscontrarsi in numerose concrete fattispecie, ma che non è affatto rilevante.
[98] 
Se, viceversa, si applicasse la RPR “pura”, e tenendo a mente che il rispetto del canone del «miglior soddisfacimento» può essere sindacato solo su contestazione del singolo creditore, si potrebbe anche ipotizzare una distribuzione del patrimonio che non rispetti quel canone e non formi oggetto di contestazione (così, ad es., per una classe di fornitori, che ritenga di accettare un maggior sacrificio – deve, tuttavia, assumersi, nel concreto, non un sacrificio particolarmente consistente rispetto al valore di liquidazione giudiziale – a fronte della prospettiva della prosecuzione dei rapporti contrattuali, secondo quel parametro adottato anche dal legislatore del CCI, all’art. 84, comma 3, ultima proposizione; ma lo stesso potrebbe ipotizzarsi anche per i crediti dei lavoratori, sempre che si scelga di includerli nell’ambito dei “quadri di ristrutturazione” di diritto interno).
[99] 
E assumendo di riferirsi alle PMI, a cui ha riguardo la dir. 1023 nell’identificare, in esse, il 99% delle imprese dell’UE (v. Considerando 17): potrebbe, in vero, diversificarsi il regime avuto riguardo alle dimensioni dell’impresa. In merito, osserva L. Stanghellini, Verso uno statuto dei diritti dei soci di società in crisi, cit., p. 307, che «[u]na lettura di compromesso è quella che distingue fra piccole (o piccole e medie) imprese e grandi imprese, dando rilevanza al contributo non monetario che i soci delle prime (con l’approvazione dei creditori, anche se non di tutte le classi) si propongono eventualmente di fornire alla società ristrutturata».
[100] 
Cfr. D. Vattermoli, La posizione dei soci nelle ristrutturazioni, cit., p. 866, ad avviso del quale, «se il valore delle partecipazioni è, per ipotesi data, pari a zero, è evidente che quelle attualmente in circolazione (che solo per economicità e sulla base di una vera e propria fictio sono formalmente identiche alle prime) – che, si badi, acquistano valore solo per effetto, proprio, della falcidia concordataria – non possono esser destinate ai soci originari, salvo corresponsione, da parte di questi ultimi, di una somma a titolo di prezzo, da indicare nella stessa proposta concordataria (e, quindi, sottoposto al vaglio dei creditori votanti)» (corsivo dell’A.). 
[101] 
Così, parrebbe, S. Madaus, Is the Relative Priority Rule right for your jurisdiction?(2020), consultabile sul sito www.ssrn.com, p. 5 (caso n. 7), stando all’esemplificazione proposta; tuttavia, subito appresso (p. 6) si osserva, proprio in ragione dell’abituale azzeramento del valore allorché si apre formalmente la crisi, che nessuna regola di priorità, neppure la RPR, potrebbe consentire di “mantenere interessi” (e l’esemplificazione, con il caso n. 9, si sposta da valori assoluti a valori percentuali, sebbene non emerga il termine di raffronto per i soci).
[102] 
All’opposto, deve anche riconoscersi che la valorizzazione degli “apporti netti”, venendo, per così dire, a premiare, in caso di crisi, il socio che abbia consistentemente sostenuto l’impresa nel corso del tempo, potrebbe costituire un incentivo a “supportare” l’impresa.
[103] 
Poiché è probabile che si ignori ex ante (i.e. al tempo della predisposizione del piano e della conseguente proposta) quale classe sarà dissenziente (sebbene possa ipotizzarsi una verifica preliminare – specie se si tratti di PMI – della condivisione, o non, di uno schema di piano e di proposta), si potrebbe immaginare, in via prudenziale, di allocare il plusvalore da continuità secondo percentuali progressivamente discendenti rispettando l’ordine gerarchico delle classi, coi soci, ovviamente, all’ultimo “gradino” (tenendo, tuttavia, presente, da un canto, che il quantum allocato alla classe superiore, qualora determini il raggiungimento del 100%, non potrebbe costituire una preclusione riguardo alla quota del plusvalore da allocare alla classe inferiore, per l’ovvio limite, non valicabile, dell’integrale soddisfacimento, previsto all’art. 11, par. 1, lett. d), dir. 1023; dall’altro – e sempre assumendo che dissentano tutte le classi, fuorché una, di cui, per definizione, non può conoscersi la collocazione –, che il soddisfacimento complessivo della classe di grado superiore dovrebb’essere maggiore del soddisfacimento complessivo della classe di grado inferiore).
[104] 
Per tal via potrebbe ritenersi stabilmente rispettata la previsione attuativa dell’art. 11, par., comma 2, dir. 1023, nel senso di una presunta funzionalità all’esecuzione del piano, per un verso, e dell’assenza di “ingiusto” pregiudizio per i creditori, dall’altro; ciò che consentirebbe di “governare” i rischi di una valutazione caso per caso (quale, viceversa, si ha nei sistemi francese, olandese e tedesco: v. supra, par. 3.2).
[105] 
Questione complementare, che, in quanto tale, può solo lambirsi, è se i soci vadano organizzati in una o più classi, ciò che la dir. 1023 consente, senza imporlo. Il punto è se essi siano «parti interessate» dal piano (rammentando che la formazione di classi è imposta dalla dir. 1023 quanto meno per creditori garantiti e non garantiti, e che, però, in caso di PMI, il legislatore nazionale potrebbe anche consentire la “mono-classe”: v. art. 9, par. 4, comma 3): l’art. 2, par. 1, n. 2, indica, tra le parti interessate, «se applicabile ai sensi del diritto nazionale, i detentori di strumenti di capitale, sui cui rispettivi […] interessi incide direttamente il piano di ristrutturazione». Parrebbe, viceversa, forzato ritenerli “interessati” anche qualora non venisse modificata la struttura finanziaria della società, sol perché il vincolo discendente dalla proposta concordataria, una volta omologata, comporta la destinazione delle risorse rivenienti dalla continuità all’adempimento della proposta medesima. Ben diversa è la questione dell’attribuzione ai soci del diritto di voto, in caso di “classamento”, rimessa alla libera decisione del legislatore nazionale (v. art. 9, par. 3, lett. a), dir. 1023), come libera – si è osservato – è la scelta di allocarli, o non, in una classe: al riguardo, giova ancora richiamare il Considerando 57, giusta il quale «[a]gli Stati membri che escludono dal voto i detentori di strumenti di capitale non dovrebbe essere richiesto di applicare la regola della priorità assoluta nelle relazioni tra creditori e detentori di strumenti di capitale». Sebbene non si tratti di prescrizione vincolante, è dato argomentarne che la scelta di non riconoscere ai soci il voto, coerente con la necessità di evitare condotte ostative (che, comunque, potrebbero ravvisarsi anche in una fase diversa del processo deliberativo, come emerge dall’art. 12, par. 1, dir. 1023), andrebbe associata, in via preferenziale, all’adozione della RPR, che, dunque, si lascia prediligere anche da tale versante, oltre che per le ragioni, pur non univoche, già in precedenza esposte.
[106] 
Cfr. F. Viola, op. cit., p. 856 e s., testo e nt. 49.
[107] 
Il pensiero torna, in direzione opposta rispetto al decisum, ad App. Venezia, 5 luglio 2021, n. 1892, cit. e all’apporto, da parte della controllante della debitrice, di un’area parcheggio che avrebbe incrementato il valore della sala cinema, di proprietà di quest’ultima, oggetto di affitto ad una NewCo (controllata dalla debitrice medesima), che avrebbe proseguito la gestione pur dopo la programmata vendita a terzi.

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