Evoluzione storica
Per quanto concerne le plusvalenze e le minusvalenze, l’art. 86 T.u.i.r., al comma 5 dispone: “La cessione dei beni ai creditori in sede di concordato preventivo non costituisce realizzo delle plusvalenze e minusvalenze dei beni, comprese quelle relative alle rimanenze e al valore di avviamento”.
In un primo momento, la norma era stata interpretata solo come soluzione al problema della rilevanza fiscale della cessio bonorum, dibattuto in costanza della normativa fiscale previgente al D.P.R. n. 917/1986. L’intervento del legislatore, quindi, venne salutato come un’interpretazione chiarificatrice dell’irrilevanza fiscale della (formale) cessione dei beni ai creditori, con la conseguenza che la concreta vendita dei beni stessi a opera del liquidatore giudiziale dava invece luogo all’evidenziazione di plusvalenze e minusvalenze rilevanti fiscalmente.
Peraltro, nonostante il parere contrario dell’Amministrazione delle Finanze, gli interpreti hanno ritenuto di potere attribuire alla norma un diverso significato, nel senso cioè di conferire irrilevanza fiscale alle plusvalenze e alle minusvalenze realizzate -in corso di concordato preventivo- nel momento dell’effettiva vendita dei beni a terzi, momento in cui si concretizza il passaggio di proprietà.
In tale situazione di contrasto interpretativo è intervenuta la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 5112 del 3 aprile-4 giugno 1996. La decisione, con l’autorevolezza del collegio giudicante da cui proviene, dopo avere analizzato la portata retroattiva del comma 6 dell’art. 54 (D.P.R. n. 917/1986 nella versione vigente a tutto il 31 dicembre 2003), per effetto del disposto dell’art. 36 del D.P.R. 4 febbraio 1988, n. 42, ha affermato che la previsione della norma fiscale, relativamente al concordato preventivo con cessione dei beni, non può che riferirsi alle plusvalenze realizzate in sede di liquidazione, considerato che: “… Appare evidente che neppure quella sopra puntualizzata alla lettera (a) (plusvalenze realizzate mediante cessione a titolo oneroso) può essere realizzata dalla cessione dei beni ai creditori, dal momento che la cessione a titolo oneroso prevista dal legislatore come presupposto per la tassazione delle plusvalenze implica l’alienazione del bene e quindi un effetto che, per quanto si è detto, nel caso della cessione dei beni ai creditori non può in alcun modo determinarsi”.
Pertanto la norma, per avere significato applicativo, secondo la Suprema Corte, non può che riferirsi alle cessioni dei beni attuate su impulso del liquidatore giudiziale nelle fasi successive all’omologazione del concordato preventivo, cessioni le cui plusvalenze non risultano assoggettabili a tassazione.
Prosegue la Corte precisando che detta interpretazione scaturisce anche dal parere della Commissione dei Trenta sullo schema del T.U. (art. 127), da cui si desume “che l’obiettivo che si intendeva raggiungere con la disposizione in esame era proprio quello di ridurre l’onere fiscale delle operazioni compiute nel corso della liquidazione concordataria”.
La conseguenza di tale importante sentenza è che la liquidazione dei beni, anche tramite cessione dell’azienda, nella fase post omologa, non determina plusvalenze tassabili.
Conforme alla sentenza citata rilevano: in giurisprudenza, anche la Commissione Centrale, sez. XVIII, del 7 ottobre 1994, n. 3985; in dottrina, Leo Monacchi – Schiavo, Le imposte sui redditi nel Testo Unico, ed. Giuffrè, relativamente alla sola ipotesi di concordato preventivo con cessione dei beni; G. Falsitta, La responsabilità del curatore, ed. Giuffrè 1988.
Nell’ambito delle novità introdotte dal D.L. n. 35/2005, che, come in precedenza osservato, prevede, rispetto al regime previgente, una forma di concordato preventivo che può prescindere dalla classica “cessione dei beni ai creditori”, considerando un piano di risanamento diversamente modulato (rif. art. 160), la norma in esame va interpretata, a parere di chi scrive, in senso estensivo.
Infatti, in tutte le forme di concordato preventivo previste dal nuovo regime che presuppongono, per la realizzazione del piano, vendite di beni, di aziende ecc. anche tramite il conferimento (che, ai fini fiscali, é assimilato alla cessione); le connesse plusvalenze realizzate non dovrebbero, ai sensi della norma in esame, essere soggette a tassazione ai fini delle imposte sui redditi.
Ciò sembra trovare conforto nelle indicazioni contenute nella citata sentenza della Suprema Corte di Cassazione, che ricomprende nella portata della norma la cessione in genere dei beni aziendali, estendendola anche ai casi di cessione di beni effettuata successivamente alla chiusura del concordato, ma in esecuzione dello stesso.
Come infatti chiarito dall’Agenzia delle Entrate con ris. n. 29 dell’1 marzo 2004 (facendo riferimento anche alla sentenza della Corte di Cassazione, Sez. I civile, del 4 giugno 1996, n. 5112), la ratio di tale norma è quella di “ridurre l’onere fiscale delle operazioni compiute nel corso della liquidazione concorsuale”.
Di conseguenza, sembra desumersi che, anche a parere del Ministero, la disposizione, malgrado la sua ambigua formulazione, riguarda non solo la cessione dei beni ai creditori, ma anche il trasferimento a terzi dei beni ceduti in esecuzione della proposta (Cass. 16 ottobre 2026, n. 22168).
Le plusvalenze rileveranno civilisticamente e andranno poi riprese tra le variazioni in diminuzione in sede di presentazione della dichiarazione dei redditi.
Recenti evoluzioni interpretative
La norma, sin dalla sua entrata in vigore, ha evidenziato dubbi operativi e interpretativi, alcuni dei quali superati dalla giurisprudenza della Cassazione che peraltro ha lasciato, in particolare in ambito fiscale, ancora diversi temi irrisolti tra cui spicca quello dell’operatività o meno della disposizione (comma 5 art. 86 T.u.i.r.) anche per i concordati in continuità aziendale (sia diretta che indiretta). La risposta n. 462/2019 dell’Agenzia delle Entrate riaprendo il dibattito sulla applicabilità o meno della norma in esame al concordato preventivo in continuità, motiva la non applicazione della norma ai concordati in continuità con una ricostruzione interpretativa assolutamente non convincente e in particolare richiamando la tematica delle sopravvenienze attive[2].
Di conseguenza, a parere dell’AGE l’intenzione del legislatore sarebbe (anche per le previsioni di cui al comma 5 dell’art. 86) quella di circoscrivere la non rilevanza delle plusvalenze-minusvalenze a una ipotesi in cui “dopo il concordato non ci sia più esercizio di impresa” (Ris. AGE n. 29/2004).
E’ un’interpretazione completamente avulsa del testo normativo e anche dalle più recenti indicazioni della giurisprudenza.
La Suprema Corte di Cassazione, infatti con più di una decisione (Cass. sez. civ. I n. 5112/1996; n. 22168/2006; n. 11699/2007) ha, fin dall’origine della querelle in esame, sostenuto che la cessione dei beni ai creditori non comporta la realizzazione di plusvalenze di sorta come in precedenza osservato, posto che l’esenzione delle plusvalenze e l’indeducibilità delle minusvalenze si riferisce in generale al trasferimento a terzi di beni ceduti in esecuzione della proposta di concordato.
Significativamente una recente sentenza della Cassazione (Cass. civ. n. 13122 del 25/05/2018) è intervenuta in tema di concordato preventivo in continuità: si legge testualmente: “Detto piano poi, veniva fatto confluire in una proposta di concordato preventivo con prosecuzione dell’attività ai sensi del DL n. 35 del 2005[3]; il tribunale di Firenze, con decreto del 22/06/2005 ammetteva, in effetti, la (omissis) alla suddetta procedura”).
In particolare, quanto alla problematica oggetto della norma in esame (art. 86 comma 5 T.u.i.r.) la Cassazione ha così argomentato:
“21. L’art. 86, comma 5 Tuir, invero, dispone “La cessione dei beni ai creditori in sede di concordato preventivo non costituisce realizzo delle plusvalenze e minusvalenze dei beni, comprese quelle relative alle rimanenze e il valore di avviamento”.
E’ pacifico, in primo luogo, che la disposizione vada intesa come riferita alle cessioni a terzi atteso che, come affermato dalla Suprema Corte in più occasioni, “malgrado le ambiguità della sua formulazione, essa riguarda (non la cessione dei beni ai creditori, ma) il trasferimento a terzi dei beni ceduti” (Cass. n. 5112 del 04/06/1996; Cass. n. 22168 del 16/10/2006; Cass. n. 11701 del 21/05/2007).
Le cessioni che assumono rilievo, peraltro, sono solo quelle “effettuate in esecuzione della proposta di concordato” (v. ampiamente Cass. n. 5112 del 04/06/1996 in motivazione), sicché correttamente la CTR ha escluso che fosse suscettibile di applicazione l’art. 86, comma 5 TUIR.
La ratio della norma, del resto, va individuata nella volontà del legislatore di favorire l’adesione alla procedura concordataria, evitando la nascita di un debito d’imposta che, sebbene successivo alla procedura stessa, avrebbe dovuto gravare sulla medesima (e, dunque, pregiudicare le ragioni dei creditori), nonché, sotto altro versante, nell’esigenza di impedire che, in capo a un soggetto che ha subito lo “spossessamento” dell’intero patrimonio, possa sorgere un’obbligazione relativa alle imposte reddituali, al cui pagamento quel soggetto non potrebbe adempiere, non disponendo di alcun mezzo per effetto del predetto spossessamento”.
L’intervento del supremo collegio sembra non lasciare dubbi sulla applicabilità della detassazione delle plusvalenze realizzate dalla cessione dei beni in ambito concordato preventivo in continuità.
Giova infine rilevare che la norma fiscale in esame, fa riferimento anche alle plusvalenze relative ad alcuni elementi patrimoniali tipici dell’alienazione dell’azienda in funzionamento di cui all’art. 186 bis L. fall., come l’avviamento oltre alle rimanenze. E dunque anche il tenore letterale porta a concludere che l’operatività della stessa riguarda tutti i tipi di concordato e non solo a quello cd liquidatorio.