Con la revisione di opposti principi[18], per cui l’adesione del lavoratore a un fondo lo priverebbe per sempre della possibilità di agire per ottenere il pagamento del trattamento di fine rapporto, “salvo il diritto al risarcimento del danno da azionare (…) nei confronti del datore di lavoro che abbia trascurato di versare in tutto o in parte il contributo volontario”[19], le due sentenze hanno riconosciuto come, a seguito del mancato “conferimento” al fondo di quote del trattamento di fine rapporto, il dipendente possa chiedere l’ammissione del suo diritto allo stato passivo. Infatti, il cosiddetto “conferimento” (art. 8, comma primo, del decreto legislativo n. 252 del 2005) è espressione normativa atecnica[20], con la “conseguente necessità di accertare la natura e la funzione del mezzo di volta in volta utilizzato ai fini dell’adesione”[21]. Lungi dal fare univoco riferimento a un solo negozio, l’art. 8, primo comma, del decreto n. 252 del 2005 rimanda all’esercizio dell’autonomia privata[22]. La soluzione è inevitabile, a prescindere dalla volontà del legislatore storico, poiché, se non si concludesse in questo senso, non si saprebbe come configurare l’esclusivo istituto che, a torto, si volesse ritenere oggetto del preteso rinvio dell’art. 8, primo comma, n. 252 del 2005. In quanto non esiste un autonomo concetto di “conferimento” al fondo, esso e i prestatori di opere possono fare ricorso a impostazioni diverse, con la conseguente necessità di una interpretazione della loro manifestazione di volontà e di una successiva qualificazione.
Essa “segue all’interpretazione in quanto (…) tende a classificare il contratto, e cioè ad accertare in quale schema causale – giuridico (…) debba essere inquadrato”[23], poiché “con l’interpretazione si mira a ricostruire il senso di quanto le parti vorrebbero ottenere con la loro manifestazione di volontà, per vedere se e in che limiti ciò che è stato voluto trovi riconoscimento”[24]. Quindi, la qualificazione presuppone l’interpretazione. Tale conclusione è avvalorata dalla diversa impostazione per la quale l’ermeneutica includerebbe la “determinazione della fattispecie contrattuale, determinazione in senso ampio, che comprende la sua qualifica giuridica o meglio la costruzione del materiale di fatto dal quale l’interprete deve desumere gli intenti perseguiti”[25].
Nel caso dell’art. 8, primo comma, del decreto n. 252 del 2005, il trasferimento a opera dell’impresa e a beneficio del fondo delle quote di trattamento di fine rapporto può derivare da almeno due soluzioni negoziali, la delegazione e la cessione del credito futuro, e poco importa la maggiore frequenza della prima[26], nella prassi. Del resto, il dubbio sulla demarcazione fra i due modelli è frequente anche in ipotesi diverse, per esempio a proposito del contributo individuale a una associazione sindacale[27], per la presenza di più istituti votati a obbiettivi operativi non troppo dissimili, almeno nelle linee generali[28], con una sostanziale libertà di scelta degli stipulanti[29]. Perciò, l’esegesi del singolo atto deve stabilire se “il ‘conferimento’ del trattamento di fine rapporto si sia (…) tradotto in una vera e propria cessione, ovvero in una delegazione di pagamento ai sensi dell’art. 1270 c.c., poiché, in caso di fallimento, il contratto di mandato (quale è la delegazione di pagamento) si scioglie”[30], mentre non subisce la stessa sorte la cessione del credito, per il suo avvenuto trasferimento al momento della maturazione del trattamento di fine rapporto, di volta in volta.
È convincente tale ricostruzione dell’art. 8, primo comma, del decreto n. 252 del 2005, poiché la norma guarda al risultato economico dell’operazione, vale a dire al versamento delle quote di trattamento di fine rapporto, non alla soluzione negoziale, né si può ravvisare nell’intero decreto un ostacolo al ricorso alla delegazione, come adombrato da una parte della giurisprudenza[31]. E a maggiore ragione l’affermazione fa sorgere perplessità se si considera come tale istituto sia quello più frequente nell’interpretazione degli atti di adesione ai fondi, mentre è rara la cessione del credito[32]. Ne deriva la necessità di una indagine ermeneutica e, quindi, in fatto.