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Flussi informativi civili e ruolo del Pubblico ministero nella composizione negoziata e nella liquidazione giudiziale

Sergio Rossetti, Giudice delegato alle procedure concorsuali nel Tribunale di Milano

14 Marzo 2023

Visualizza: Trib. Salerno e Procura della Repubblica presso il Tribunale di Salerno, 8 febbraio 2023, Protocollo

Visualizza: Tribunale di Torino e Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino, 4 gennaio 2023, Protocollo operativo

L’A., muovendo dalle esperienze di due Uffici giudiziari efficacemente concretizzata in altrettanti protocolli, si sofferma in chiave operativa sul rilevante tema dei circolarizzazione delle informazioni fra Tribunale e Procura della Repubblica nel perimetro della composizione negoziata e nel contesto della liquidazione giudiziale. 
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1 . I protocolli di Torino e Salerno sui flussi informativi
Il protocollo firmato a Torino il 4.1.2023 sui “flussi informativi tra Tribunale e Procura in seguito all’entrata in vigore del codice della crisi”, insieme a quello siglato a Salerno il 9.2.2023 avente ad oggetto il medesimo tema, al di là dell’apprezzamento per il metodo e per le soluzioni adottate che tendono a risolvere nel segno dell’efficienza alcune delle attuali criticità della consolle del PM[1] e delle comunicazioni tra Procura e Tribunale, stimolano, più che un commento sulle singole misure organizzative prospettate, un ragionamento su come e quali informazioni trasmettere al pubblico ministero.
La dizione “flussi informativi tra Tribunale e Procura” risulta un’espressione estremamente ampia che, sostanzialmente, pone sullo stesso piano le “segnalazioni” sullo stato di insolvenza che i giudici devono trasmettere alla Procura ai sensi dell’art. 38, comma 2, CCII e le “comunicazioni” o le “trasmissioni” che la Procura per legge riceve dalla cancelleria e la cui disposizione principale, ma non unica, è contenuta nell’art. 40, comma 3, CCII.
Mette conto, però, tenere distinte queste tipologie di flussi informativi che hanno presupposti e funzioni diverse e che, pertanto, potrebbe non essere corretto considerare unitariamente.
2 . Le segnalazioni al pubblico ministero dalla legge fallimentare al codice della crisi
Quanto alle “segnalazioni” in senso stretto, quelle cioè provenienti da un giudice che rilevi lo stato di insolvenza in un proprio procedimento, la storia è nota.
Prima della riforma degli anni 2006/2007 non vi era alcuna possibile segnalazione alla Procura in quanto il previgente art. 6 L. fall. consentiva al Tribunale di dichiarare d’ufficio il fallimento dell’imprenditore insolvente, mentre, se l’insolvenza fosse risultata nel corso di un “giudizio civile” in cui l’imprenditore era “parte”, il giudice ne avrebbe dovuto riferire al Tribunale competente per la dichiarazione di fallimento in base all’abrogato art. 8 L. fall. La Corte Costituzionale con la nota sentenza 240/2003 aveva escluso che il fallimento officioso entrasse in tensione con l’art. 111 Cost. e con il principio di terzietà del giudice.
Con la riforma del 2006/2007, eliminata la possibilità di dichiarare d’ufficio il fallimento, la legge aveva attribuito il dovere di raccogliere le notizie sullo stato di insolvenza trasmesse dai giudici al pubblico ministero che, nell’esercizio delle sue funzioni, avrebbe potuto di conseguenza chiedere il fallimento. La norma di cui all’art. 7 n. 2) L. fall. che sanciva il dovere di tale segnalazione in capo al giudice riteneva che ciò dovesse avvenire non solo nel caso in cui l’insolvenza fosse stata rilevata in un “giudizio civile” in cui era parte l’imprenditore (come nel precedente art. 8 L. fall.), ma solo che fosse emersa “nel corso di un procedimento civile”, con disposizione evidentemente più ampia.
I procedimenti civili in cui più facilmente potevano eseguirsi segnalazioni ex art. 7, n. 2, L. fall.  erano quelli relativi alle esecuzioni forzate, alle locazioni, alle cause di lavoro in cui è più facilmente individuabile un fenomeno di insolvenza, per ovvie ragioni.
Sul grado di effettività dell’art. 7 n. 2 L. fall., però, deve registrarsi che nella pratica degli uffici giudiziari civili la norma è stata a volte interpretata come enucleante un potere sostanzialmente discrezionale in capo al giudice che poteva o meno effettuare la segnalazione in Procura e di tale erronea interpretazione minimalista, come preciseremo, il legislatore codicistico se n’è fatto carico nel riscrivere la norma.
In altri Tribunali, comunque, la via via accresciuta consapevolezza del fatto che le segnalazioni del giudice potessero inserirsi in una più ampia logica di emersione tempestiva della crisi quale indefettibile presupposto per una gestione soddisfacente dei fenomeni di insolvenza, si erano imposte prassi che, principalmente con riferimento alle esecuzioni, tendevano a ritenere doverose tali segnalazioni.
Ad ogni modo, il punto maggiormente controverso riguardava il potere/dovere del Tribunale fallimentare di effettuare segnalazioni al Pubblico ministero: ci si domandava cioè, se tale segnalazione sull’insolvenza non pregiudicasse l’imparzialità e terzietà del giudice chiamato poi a decidere dell’insolvenza dell’impresa a seguito dell’istanza del pubblico ministero.
Come noto, la questione è stata risolta dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza n. 9409/2013 la cui massima risulta così compendiata: “quando il procedimento finalizzato alla dichiarazione di fallimento non si concluda con una decisione nel merito, il tribunale fallimentare può disporre, ai sensi dell'art. 7 legge fall., la trasmissione degli atti al P.M., affinché valuti se instare per la dichiarazione di fallimento, non sussistendo alcuna violazione del principio di terzietà del giudice, di cui all'art. 111 cost., per il solo fatto che il tribunale sia chiamato una seconda volta a decidere sul fallimento dell'imprenditore a seguito di richiesta del P.M. conseguente alla segnalazione da parte dello stesso giudice.
Ancora una volta, le regole si confondono con le prassi, a volte diverse anche negli stessi uffici. Nel vigore della precedente legge fallimentare, infatti, alcuni giudici designati per l’istruttoria prefallimentare, con il decreto di fissazione d’udienza disponevano di default che la cancelleria acquisisse dall’Agenzia Entrate Riscossione i carichi erariali pendenti. Chi adottava questa prassi[2], normalmente, segnalava al Pubblico ministero l’insolvenza della società in caso di desistenza da parte del creditore procedente allorquando la debitoria erariale fosse superiore ad un certo limite, variamente determinato secondo le sensibilità di ciascun giudice o delle prassi adottate dall’ufficio. Viceversa, altri Tribunali o altri giudici, non ritenevano di acquisire tali informazioni di default, ragione per cui la segnalazione scattava, ad esempio, solo allorquando si riscontrava una pluralità di desistenze nel corso del tempo o altri elementi ritenuti significativi[3].
Quale che fosse l’agire dei diversi giudici designati per l’istruttoria prefallimentare, deve qui rivelarsi che nel dibattito giurisprudenziale e dottrinale era rimasta piuttosto in ombra un’ipotesi che, per le ragioni che si diranno subito, risulta, invece, di estremo interesse nell’attuale assetto codicistico e nelle prassi che si vanno delinenado; ci si riferisce, in particolare, al potere del giudice designato per l’istruttoria prefallimentare di effettuare la segnalazione pendente l’istruttoria prefallimentare e non all’esito del procedimento.
Sul punto deve osservarsi che la già richiamata sentenza a Sezioni Unite (9409/2013) non esclude tale possibilità ed anzi afferma che “la sollecitazione al P.M. interviene nel corso o all'esito di una procedura fallimentare”, benché aggiunga subito dopo “(più verosimilmente in questa seconda ipotesi, non essendovi ragione di dare corso alla detta sollecitazione ove persistente la relativa pendenza)”. Deve però darsi atto, con autorevole dottrina che “diverso e più complesso è l'interrogativo se la segnalazione del tribunale debba avvenire unitamente al provvedimento che chiude il procedimento avviato dal creditore, ovvero se il giudice possa sospendere il procedimento ormai privo di un «domandante» nell'attesa della eventuale iniziativa del p.m.; dubbio che pare doversi risolvere nel primo senso posto che nel momento in cui viene meno l'iniziativa privata il procedimento non può neppure essere collocato in una fase di quiescenza”[4].
In questo scenario è intervenuto il codice della crisi che con l’art. 38, comma 2, ha stabilito che “l’autorità giudiziaria che rileva l’insolvenza nel corso di un procedimento lo segnala al pubblico ministero”.
La nuova disposizione merita queste osservazioni: da una parte, viene espunto qualunque riferimento all’attributo “civile”, sicché l’obbligo di segnalazione oggi ridonda in capo a qualunque autorità giudiziaria, sia essa civile, penale, amministrativa o contabile; dall’altra, la lettera della norma non consente più alcun fraintendimento circa l’obbligatorietà della segnalazione allorquando si riscontri uno stato di insolvenza, risultando letteralmente esclusa una qualsiasi possibile interpretazione minimalista. Infine, il nuovo contesto normativo e le acquisizioni officiose necessarie per “vestire” le domande di liquidazione giudiziale (v. art. 42 e 367 CCII), dovrebbero consentire di riscontrare una maggiore omogeneità di segnalazione delle notizie di insolvenza da parte dei giudici designati per l’istruttoria, omogeneità in passato, come detto, profondamente condizionata dai diversi atteggiamenti dei singoli giudici o Tribunali.
3 . La segnalazione al pubblico ministero delle domande di liquidazione proposte dai creditori
Con queste precisazioni, le questioni relative all’obbligo di segnalazione potrebbero risultare ripetitive rispetto all’assetto passato, se non che il codice della crisi pone chiaramente l’accento sulla qualità di parte del pubblico ministero nei procedimenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza prevedendo, per quanto qui interessa, (i) il potere del pubblico ministero di intervenire nelle procedure di insolvenza (art. 38, comma 3, CCII), nonché (ii) di proseguire il procedimento instaurato da un creditore (art. 43, comma 1).
Tale tessuto normativo ha immediatamente posto all’attenzione della prassi la necessità di rendere effettive queste disposizioni e, quindi, di individuare uno strumento tramite cui comunicare al pubblico ministero la pendenza di una domanda di liquidazione giudiziale per consentirgli di intervenire al fine di, eventualmente, insistere per la liquidazione giudiziale anche in caso di desistenza del creditore[5]. Un meccanismo cioè che affianchi l’idea, più o meno invalsa nella pratica, secondo cui si attende il decreto di archiviazione della procedura “prefallimentare” per poi darne comunicazione al pubblico ministero per sollecitare una nuova iniziativa.
I protocolli di Torino e di Salerno adottano strategie diverse per rispondere al medesimo problema.
Il protocollo di Torino afferma, nella sostanza, che siccome la domanda di liquidazione giudiziale proposta in proprio dall’imprenditore deve essere comunicata al pubblico ministero ai sensi dell’art. 40, comma 3 e siccome al pubblico ministero deve essere data la possibilità di intervenire (art. 38) e proseguire la domanda di liquidazione giudiziale da altri introdotta (art. 41), allora la cancelleria deve trasmettere in Procura anche i ricorsi per l’apertura delle domande di liquidazione giudiziale proposte dai creditori.
La prassi così impostata non mi pare del tutto corretta sotto un duplice profilo: giuridico e organizzativo.
Dal punto di vista giuridico, la prassi proposta dal protocollo torinese impone alla cancelleria un obbligo di comunicazione che (i) non è espressamente previsto dalla legge, (ii) è contraddittorio rispetto all’evoluzione normativa del codice della crisi e (iii) confonde le funzioni delle comunicazioni di cui all’art. 40, comma 3, CCII con le funzioni della segnalazione ex art. 38, comma 2, CCII.
Quanto al primo aspetto è sufficiente osservare che la cancelleria deve comunicare al pubblico ministero solo le domande proposte dal debitore ex art. 40, comma 3, CCII.
Quanto al secondo aspetto, il correttivo di cui al D.Lgs. n. 83/2022 ha abrogato la previsione, precedentemente contenuta all’art. 43, comma 2, secondo cui tutti i decreti di estinzione per rinuncia alla domanda avrebbero dovuto essere trasmessi al pubblico ministero: se anche le estinzioni per rinuncia devono essere segnalate di volta in volta dal giudice in forza dell’art. 38, comma 2, CCII non si vede perché il pubblico ministero dovrebbe ricevere tutte le istanze di liquidazione giudiziali depositate in un ufficio.
Quanto al terzo profilo, lo strumento della segnalazione è quello che ha il precipuo fine di attivare l’esercizio della domanda di liquidazione giudiziale da parte del pubblico ministero affinché l’impresa insolvente sia estromessa dal mercato. Viceversa, le comunicazioni che la cancelleria effettua al pubblico ministero in sede concorsuale (che non costituiscono una assoluta novità, v. ad es. art. 161, comma 5, L. fall.) hanno la diversa funzione di “mezzo conoscitivo dell’instaurazione del procedimento”[6], diverso da quello volto alla liquidazione giudiziale[7], affinché, per via degli interessi potenzialmente coinvolti, il pubblico ministero “vegli alla osservanza delle leggi, alla pronta e regolare amministrazione della giustizia” (art. 73 ord. giud.), peraltro, in un contesto, normativo, economico e culturale profondamente diverso rispetto a quello precedente.
Dal punto di vista organizzativo, poi, il sistema immaginato dal protocollo di Torino rischia di essere inefficace in quanto imporrebbe all’ufficio del pubblico ministero di spulciare, a seconda della grandezza dell’ufficio giudiziario, decine o centinaia di istanze di liquidazione giudiziale all’anno, al fine di cogliere quella procedura che manifesta un tale indice di serietà dell’insolvenza da giustificare il suo intervento.
Ciò detto, allora, pare più rispondente ai criteri normativi e di efficace gestione delle risorse disponibili la soluzione offerta dal protocollo di Salerno che, inserendo le informative al pubblico ministero sulle istanze proposte dai creditori nel corretto alveo della segnalazione ex art. 38, comma 2, CCII indica ai giudici designati il dovere si segnalare “soltanto i ricorsi in relazione ai quali emerge una situazione di allarme, ad esempio, per il numero dei possibili licenziamenti ovvero per il numero dei creditori coinvolti ovvero per l’importo della debitoria erariale”.
Tale soluzione da per risolto il problema che ci eravamo precedentemente posti circa la possibilità per il giudice designato dell’istruttoria di effettuare comunicazioni ex art. 38, comma  2, CCII alla procura, pendente la procedura.
La risposta, per quanto affermato dalle più volte citate Sezioni Unite del 2013 non può che essere positiva: altro è segnalare, altro è decidere; la segnalazione non è parte di un procedimento unico, ma anzi sussistono distinti poteri/doveri di segnalazione, domanda e decisione; nel caso di specie, poi, chi segnala è un giudice istruttore, mentre chi decide è il Tribunale; esiste comunque un potere generale del giudice della causa di comunicare al pubblico ministero gli affari che tratta (e che poi decide) e che presentano un pubblico interesse (art. 71, comma 2, c.p.c.), tale essendo sicuramente quello teso all’esclusione dal mercato delle imprese insolventi, nella logica tipica, per questa procedura concorsuale, della vecchia legge fallimentare.
Deve però avvisarsi del fatto che, probabilmente, affinché il pubblico ministero, ricevuta la segnalazione ex art. 38, comma 2 CCII possa ritualmente intervenire ex artt. 38, comma 3 e 43, comma 1, CCII, ciò dovrà fare prima che il creditore abbia desistito dalla propria domanda, ancorché  non sia stato ancora emesso il decreto di estinzione della procedura.
Secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, infatti, “la rinuncia all'istanza di fallimento non richiede alcuna forma di accettazione del debitore” (cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 18620 del 11/08/2010) e, in mancanza di possibili iniziative d’ufficio, è, come segnalato dalla dottrina già precedentemente citata[8], difficile immaginare che dalla data della rinuncia il procedimento possa restare in una fase di quiescenza in attesa che intervenga il pubblico ministero.
Del resto, per suggestione, anche nel settore delle esecuzioni forzate la rinuncia non deve essere accettata dal debitore e la Cassazione ha di recente affermato icasticamente che “l’estinzione del processo esecutivo si verifica per effetto della sola rinuncia dell'unico creditore, avendo il provvedimento di estinzione del giudice dell'esecuzione natura meramente dichiarativa: ne deriva che, dopo il deposito dell'atto di rinuncia, non è più ammesso l'intervento di altri creditori” (così Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 27545 del 21/11/2017).
Niente di male: il pubblico ministero potrà comunque formulare un’autonoma domanda ex art. 38, comma 1, CCII ancorché non fosse riuscito ad intervenire tempestivamente in un procedimento pendente.
4 . Segnalazione al pubblico ministero e composizione negoziata della crisi
I commentatori riconoscono che l’istituto della composizione negoziata della crisi, già introdotto nell’ordinamento con D.L. n. 118/2021 e stabilmente inserito negli artt. 12 e ss. CCII, rappresenta una delle principali novità del nostro sistema, in aderenza dei principi della direttiva insolvency.
Siccome all’istituto può accedere l’impresa che si trova in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne rendono probabile la crisi o l’insolvenza, va da sé che nell’ambito di tale percorso possa emergere lo stato di decozione di un’impresa che potrebbe meritare l’intervento del pubblico ministero.
Peraltro, tra l’interesse all’emersione immediata dello stato di insolvenza di un’impresa e l’interesse a consentire a questa un risanamento attraverso il nuovo istituto, il legislatore ha favorito questo secondo interesse escludendo (art. 12, comma 3, CCII) l’applicazione dell’art. 38  CCII alla composizione negoziata. Ciò significa, in prima battuta, che dalla mera notizia dell’introduzione di un percorso di composizione negoziata il pubblico ministero non possa trarne “notizia dell’esistenza di uno stato di insolvenza” al fine di richiedere la liquidazione giudiziale. Di conseguenza, non pare possibile ipotizzare che il pubblico ministero chieda al segretario generale della camera di commercio territorialmente competente informazioni sulla pendenza di domande di composizione negoziata della crisi, anche perché tale percorso è caratterizzato dalla “riservatezza” (v. ad es. artt. 4, comma 4, 15, comma 2, 16, comma 6 e 17, comma 4, CCII).
Ciò detto in via generale, deve ora osservarsi che l’art. 12, comma 3, CCII prosegue affermando che trova invece applicazione l’art. 38 CCII allorquando l’imprenditore, accedendo alla composizione negoziata della crisi, abbia chiesto l’adozione di misure protettive o cautelari (art. 19 CCII), ovvero l’autorizzazione a contrarre finanziamenti prededucibili, o a vendere l’azienda o suoi rami in deroga alla disciplina di cui all’art. 2560 c.c. (art. 22 CCII).
Facendo leva su tale disposizione, sia il protocollo del Tribunale di Torino che quello del Tribunale di Salerno prevedono che la cancelleria trasmetta al pubblico ministero i ricorsi per la concessione di misure protettive o cautelari ovvero per ottenere le autorizzazioni di cui sopra “al fine di consentire al P.M. di intervenire nel procedimento”.
Tali prassi, per quanto commendevoli in quanto tentano di individuare fenomeni di insolvenza che potrebbero rimanere celati, presentano alcune criticità.
In primo luogo, i protocolli immaginano trasmissioni di tutte le domande di composizione negoziata al pubblico ministero ad opera della cancelleria con ciò confondendo i doveri di segnalazione in capo al giudice civile, l’unico che qui rileva in considerazione dell’esplicito richiamo all’art. 38 CCII, con l’obbligo di comunicazione in capo alle cancellerie il cui archetipo è come detto l’art. 40, comma 3; ancora, dal punto di vista organizzativo, così come osservato precedentemente, la trasmissione in massa di tutte le domande di composizione negoziata potrebbe non avere gli effetti di efficacia dell’azione del pubblico ministero presi di mira.
Deve inoltre osservarsi che, ricevuta la comunicazione, contrariamente a quanto immaginato dai protocolli, il pubblico ministero non può affatto intervenire nel “procedimento” di composizione negoziata in quanto, per espressa disposizione dell’art. 38, comma 3, questi può intervenire in tutti “i procedimenti per l’accesso agli strumenti di regolazione della crisi”, ma tra questi non figura la composizione negoziata, come si ricava dall’art. 2 lett. m bis) che nel definire gli “strumenti di regolazione della crisi” afferma che essi possono essere preceduti dalla composizione negoziata che, infatti, viene normalmente definita come un “percorso” e non come un “procedimento”; inoltre, il codice della crisi descrive la composizione negoziata della crisi al Titolo II, mentre dedica agli “strumenti” il Titolo III.
Quando anche, a seguito del deposito di un ricorso per ottenere misure protettive o cautelari o altre autorizzazioni, il pubblico ministero ottenesse dal giudice notizia sullo stato di insolvenza della società, quindi, questi non potrebbe partecipare alla composizione negoziata, ma dovrebbe presentare una domanda di liquidazione giudiziale che, comunque, non potrebbe essere esaminata fino alla conclusione del percorso intrapreso dall’imprenditore (art. 18, comma 4, CCII), che può durare anche un anno (art. 17, comma 7, CCII).
Fatta questa precisazione, allora, ci si deve domandare quale senso e portata applicativa abbia la disposizione di cui all’art. 12, comma 3, allorquando prevede che nel caso di intervento giudiziale nella composizione negoziata, si riattivi il precetto di cui all’art. 38 CCII e, quindi, in sintesi, in quale momento il giudice deve effettuare la propria segnalazione.
Su tale aspetto è importante rilevare che non è affatto detto (e, anzi, dovrebbe essere fisiologicamente escluso) che un’impresa che acceda alla composizione negoziata si trovi in uno stato di insolvenza, nel senso pregnante che al termine attribuisce la Corte di Cassazione secondo cui l’insolvenza rilevante è solo quella “che si traduce in una situazione d'impotenza strutturale e non transitoria” (v. tra le più recenti Cass. 32280/2022; Cass. 7087/2022; Cass. 5856/2022).
Anzi, il faticoso cammino operato dalla giurisprudenza di merito dell’ultimo anno e mezzo[9] si indirizza alla conclusione per cui possono accedere alla composizione negoziata e, quindi, ottenere le misure protettive e cautelari o le altre autorizzazioni richieste, anche le imprese che siano insolventi, purché tale insolvenza non sia irreversibile, nel senso che, attraverso il percorso di composizione negoziata della crisi, risulti “ragionevolmente perseguibile il risanamento dell’impresa” (art. 12 CCII).
Se si tiene in mente chiaramente questo aspetto, allora, risulterà evidente che l’obbligo di segnalazione scatterà in capo al giudice non per il semplice fatto che una domanda di composizione negoziata è stata proposta, ma perché, una volta esaminata la domanda e sentito l’esperto, ovvero in qualunque momento successivo, il giudice si convinca che il risanamento non è possibile o, comunque, non vi siano concrete prospettive in tale direzione; quando, cioè, l’insolvenza della società risulterà irreversibile e sarà concreta l’esigenza di estrometterla dal mercato con una dichiarazione di liquidazione giudiziale.
Tale valutazione negativa potrà avvenire (i) sin da subito, in sede di richiesta di misure protettive, ovvero (ii) nel corso della composizione negoziata, in sede di proroga o di attivazione delle domande di revoca, oppure (iii) all’esito della composizione negoziata, allorquando il debitore non avrà trovato un accordo, variamente declinato con i propri creditori ai sensi dell’art. 23 CCII.
Esiste però, sul punto, un equivoco da chiarire. La disposizione di cui all’art. 17, comma 8, stabilisce che al termine dell’incarico l’esperto rediga una relazione finale che inserisce nella piattaforma telematica di gestione del percorso, comunica all’imprenditore “e, in caso di concessione delle misure protettive e cautelari …, al giudice che le ha emesse, che ne dichiara cessati gli effetti”.
In base alle prime esperienze applicative, in considerazione del tenore poco chiaro della disposizione normativa e del principio di riservatezza che, come detto, informa questo percorso, molti esperti, allorquando non erano più in essere le misure protettive e cautelari, in quanto magari scadute, non avevano ritenuto necessario depositare la propria relazione finale che viceversa è un atto indefettibile e che non può mancare in quanto descrive l’esito della composizione e consente all’ufficio l’archiviazione del relativo fascicolo.
La disposizione di cui all’art. 17, comma 8, CCII contiene, infatti, due precetti: uno indirizzato all’esperto e uno indirizzato al giudice. Al primo prescrive di depositare la propria relazione finale al giudice che ha emesso le misure protettive e cautelari. Al secondo prescrive di dichiarare cessati gli effetti della misura, se sono ancora in essere.
Per quanto non cristallina, viceversa, la norma non può essere letta nel senso per cui la comunicazione all’ufficio possa dipendere, in larga misura, da fattori casuali, soggettivi e volontari come, ad esempio, il tempo che l’esperto impiega per redigere la propria relazione o la durata della composizione negoziata, in ipotesi, maggiore della durata delle misure protettive (che non possono superare, complessivamente, i 240 giorni). Le domande di misure protettive e cautelari sono iscritte nel ruolo di volontaria giurisdizione e quando viene meno la ragione per cui quell’iscrizione è avvenuta deve esserne disposta l’archiviazione in applicazione di banali principi di corretta gestione delle pendenze nei Tribunali. Per tale ragione gli esperti devono sempre depositare la propria relazione finale ed è opportuno che i giudici inseriscano tale prescrizione chiaramente nel decreto di concessione delle misure protettive al fine di orientarne il successivo comportamento.
Se le misure protettive sono state concesse e non revocate, allora, solo all’esito della composizione negoziata sarà possibile sapere se l’impresa è suscettibile di essere risanata perché il debitore avrà individuato una soluzione idonea al superamento della propria situazione economica e finanziaria, ovvero se falliti tutti i tentativi concreti e ragionevoli prospettati, l’impresa debba considerarsi tecnicamente insolvente con conseguente obbligo di segnalazione al pubblico ministero, segnalazione che, comunque, non potrà andare di molto oltre l’anno dall’accettazione della carica dell’esperto in quanto, fruite di tutte le proroghe, il percorso deve comunque terminare decorsi 360 giorni (art. 17, comma 7, CCII).

Note:

[1] 
Come suggerito anche dalle le linee guida emesse dal CSM sulle “buone prassi nel settore delle procedure concorsuali”, p. 29.
[2] 
Prassi non esente da alcune contraddizioni di sistema in quanto accadeva a volte che la soglia di euro 30.000 di cui all’art. 15, ultimo comma, L. fall. risultasse superata, magari di poco, solo a seguito dell’acquisizione dell’informativa erariale; ciò spesso portava, in assenza di difese e della produzione delle scritture contabili, alla dichiarazione di fallimento di realtà estremamente piccole e, comunque, di alcuna rilevanza, né per l’attivo realizzabile, né per il significato penalistico di alcune condotte gestorie discutibili eventualmente poste in essere.
[3] 
Sulla disomogeneità delle prassi in materia, v. le linee guida emesse dal CSM sulle “buone prassi nel settore delle procedure concorsuali”, p. 21. 
[4] 
Così M. Fabiani in Osservazioni a App. Milano, 29-11-2007, in Foro.it, 2008, I, 621.
[5] 
Nella pratica giudiziaria, infatti, capita che imprenditori gravati da debiti tributari anche enormi, tacitino le domande, spesso, proposte per alcune migliaia di euro dai lavoratori, così procrastinando la data di emersione dell’insolvenza. 
[6] 
M. Ferro, Commento agli artt. 160, 161, 162, 163 l. fall., in M. Ferro (a cura di), La legge fallimentare. Dlgs. 12.9.2007, n. 169. Disposizioni integrative e correttive, Commentario teorico-pratico, p. 301, Padova 2008.
[7] 
E tanto al di là di alcune spigolature, come la necessità di inoltrare proprio la domanda di liquidazione giudiziale proposta dal debitore (quella meno problematica in assoluto) al pubblico ministero, conseguenti al dogma del procedimento unitario perseguito dal codice.
[8] 
M. Fabiani, cit.
[9] 
Trib. Arezzo, 16 aprile 2022, Est. Pani; Trib. Roma, 6 ottobre 2022, Pres. Est. La Malfa; Trib. Bologna, Sez IV, 8 novembre 2022, Est. Atzori; Trib. Lecco, 2 gennaio 2023, Est. Tota; Trib. Salerno, 13 febbraio 2023, Est. Serretiello.