I commentatori riconoscono che l’istituto della composizione negoziata della crisi, già introdotto nell’ordinamento con D.L. n. 118/2021 e stabilmente inserito negli artt. 12 e ss. CCII, rappresenta una delle principali novità del nostro sistema, in aderenza dei principi della direttiva insolvency.
Siccome all’istituto può accedere l’impresa che si trova in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne rendono probabile la crisi o l’insolvenza, va da sé che nell’ambito di tale percorso possa emergere lo stato di decozione di un’impresa che potrebbe meritare l’intervento del pubblico ministero.
Peraltro, tra l’interesse all’emersione immediata dello stato di insolvenza di un’impresa e l’interesse a consentire a questa un risanamento attraverso il nuovo istituto, il legislatore ha favorito questo secondo interesse escludendo (art. 12, comma 3, CCII) l’applicazione dell’art. 38 CCII alla composizione negoziata. Ciò significa, in prima battuta, che dalla mera notizia dell’introduzione di un percorso di composizione negoziata il pubblico ministero non possa trarne “notizia dell’esistenza di uno stato di insolvenza” al fine di richiedere la liquidazione giudiziale. Di conseguenza, non pare possibile ipotizzare che il pubblico ministero chieda al segretario generale della camera di commercio territorialmente competente informazioni sulla pendenza di domande di composizione negoziata della crisi, anche perché tale percorso è caratterizzato dalla “riservatezza” (v. ad es. artt. 4, comma 4, 15, comma 2, 16, comma 6 e 17, comma 4, CCII).
Ciò detto in via generale, deve ora osservarsi che l’art. 12, comma 3, CCII prosegue affermando che trova invece applicazione l’art. 38 CCII allorquando l’imprenditore, accedendo alla composizione negoziata della crisi, abbia chiesto l’adozione di misure protettive o cautelari (art. 19 CCII), ovvero l’autorizzazione a contrarre finanziamenti prededucibili, o a vendere l’azienda o suoi rami in deroga alla disciplina di cui all’art. 2560 c.c. (art. 22 CCII).
Facendo leva su tale disposizione, sia il protocollo del Tribunale di Torino che quello del Tribunale di Salerno prevedono che la cancelleria trasmetta al pubblico ministero i ricorsi per la concessione di misure protettive o cautelari ovvero per ottenere le autorizzazioni di cui sopra “al fine di consentire al P.M. di intervenire nel procedimento”.
Tali prassi, per quanto commendevoli in quanto tentano di individuare fenomeni di insolvenza che potrebbero rimanere celati, presentano alcune criticità.
In primo luogo, i protocolli immaginano trasmissioni di tutte le domande di composizione negoziata al pubblico ministero ad opera della cancelleria con ciò confondendo i doveri di segnalazione in capo al giudice civile, l’unico che qui rileva in considerazione dell’esplicito richiamo all’art. 38 CCII, con l’obbligo di comunicazione in capo alle cancellerie il cui archetipo è come detto l’art. 40, comma 3; ancora, dal punto di vista organizzativo, così come osservato precedentemente, la trasmissione in massa di tutte le domande di composizione negoziata potrebbe non avere gli effetti di efficacia dell’azione del pubblico ministero presi di mira.
Deve inoltre osservarsi che, ricevuta la comunicazione, contrariamente a quanto immaginato dai protocolli, il pubblico ministero non può affatto intervenire nel “procedimento” di composizione negoziata in quanto, per espressa disposizione dell’art. 38, comma 3, questi può intervenire in tutti “i procedimenti per l’accesso agli strumenti di regolazione della crisi”, ma tra questi non figura la composizione negoziata, come si ricava dall’art. 2 lett. m bis) che nel definire gli “strumenti di regolazione della crisi” afferma che essi possono essere preceduti dalla composizione negoziata che, infatti, viene normalmente definita come un “percorso” e non come un “procedimento”; inoltre, il codice della crisi descrive la composizione negoziata della crisi al Titolo II, mentre dedica agli “strumenti” il Titolo III.
Quando anche, a seguito del deposito di un ricorso per ottenere misure protettive o cautelari o altre autorizzazioni, il pubblico ministero ottenesse dal giudice notizia sullo stato di insolvenza della società, quindi, questi non potrebbe partecipare alla composizione negoziata, ma dovrebbe presentare una domanda di liquidazione giudiziale che, comunque, non potrebbe essere esaminata fino alla conclusione del percorso intrapreso dall’imprenditore (art. 18, comma 4, CCII), che può durare anche un anno (art. 17, comma 7, CCII).
Fatta questa precisazione, allora, ci si deve domandare quale senso e portata applicativa abbia la disposizione di cui all’art. 12, comma 3, allorquando prevede che nel caso di intervento giudiziale nella composizione negoziata, si riattivi il precetto di cui all’art. 38 CCII e, quindi, in sintesi, in quale momento il giudice deve effettuare la propria segnalazione.
Su tale aspetto è importante rilevare che non è affatto detto (e, anzi, dovrebbe essere fisiologicamente escluso) che un’impresa che acceda alla composizione negoziata si trovi in uno stato di insolvenza, nel senso pregnante che al termine attribuisce la Corte di Cassazione secondo cui l’insolvenza rilevante è solo quella “che si traduce in una situazione d'impotenza strutturale e non transitoria” (v. tra le più recenti Cass. 32280/2022; Cass. 7087/2022; Cass. 5856/2022).
Anzi, il faticoso cammino operato dalla giurisprudenza di merito dell’ultimo anno e mezzo[9] si indirizza alla conclusione per cui possono accedere alla composizione negoziata e, quindi, ottenere le misure protettive e cautelari o le altre autorizzazioni richieste, anche le imprese che siano insolventi, purché tale insolvenza non sia irreversibile, nel senso che, attraverso il percorso di composizione negoziata della crisi, risulti “ragionevolmente perseguibile il risanamento dell’impresa” (art. 12 CCII).
Se si tiene in mente chiaramente questo aspetto, allora, risulterà evidente che l’obbligo di segnalazione scatterà in capo al giudice non per il semplice fatto che una domanda di composizione negoziata è stata proposta, ma perché, una volta esaminata la domanda e sentito l’esperto, ovvero in qualunque momento successivo, il giudice si convinca che il risanamento non è possibile o, comunque, non vi siano concrete prospettive in tale direzione; quando, cioè, l’insolvenza della società risulterà irreversibile e sarà concreta l’esigenza di estrometterla dal mercato con una dichiarazione di liquidazione giudiziale.
Tale valutazione negativa potrà avvenire (i) sin da subito, in sede di richiesta di misure protettive, ovvero (ii) nel corso della composizione negoziata, in sede di proroga o di attivazione delle domande di revoca, oppure (iii) all’esito della composizione negoziata, allorquando il debitore non avrà trovato un accordo, variamente declinato con i propri creditori ai sensi dell’art. 23 CCII.
Esiste però, sul punto, un equivoco da chiarire. La disposizione di cui all’art. 17, comma 8, stabilisce che al termine dell’incarico l’esperto rediga una relazione finale che inserisce nella piattaforma telematica di gestione del percorso, comunica all’imprenditore “e, in caso di concessione delle misure protettive e cautelari …, al giudice che le ha emesse, che ne dichiara cessati gli effetti”.
In base alle prime esperienze applicative, in considerazione del tenore poco chiaro della disposizione normativa e del principio di riservatezza che, come detto, informa questo percorso, molti esperti, allorquando non erano più in essere le misure protettive e cautelari, in quanto magari scadute, non avevano ritenuto necessario depositare la propria relazione finale che viceversa è un atto indefettibile e che non può mancare in quanto descrive l’esito della composizione e consente all’ufficio l’archiviazione del relativo fascicolo.
La disposizione di cui all’art. 17, comma 8, CCII contiene, infatti, due precetti: uno indirizzato all’esperto e uno indirizzato al giudice. Al primo prescrive di depositare la propria relazione finale al giudice che ha emesso le misure protettive e cautelari. Al secondo prescrive di dichiarare cessati gli effetti della misura, se sono ancora in essere.
Per quanto non cristallina, viceversa, la norma non può essere letta nel senso per cui la comunicazione all’ufficio possa dipendere, in larga misura, da fattori casuali, soggettivi e volontari come, ad esempio, il tempo che l’esperto impiega per redigere la propria relazione o la durata della composizione negoziata, in ipotesi, maggiore della durata delle misure protettive (che non possono superare, complessivamente, i 240 giorni). Le domande di misure protettive e cautelari sono iscritte nel ruolo di volontaria giurisdizione e quando viene meno la ragione per cui quell’iscrizione è avvenuta deve esserne disposta l’archiviazione in applicazione di banali principi di corretta gestione delle pendenze nei Tribunali. Per tale ragione gli esperti devono sempre depositare la propria relazione finale ed è opportuno che i giudici inseriscano tale prescrizione chiaramente nel decreto di concessione delle misure protettive al fine di orientarne il successivo comportamento.
Se le misure protettive sono state concesse e non revocate, allora, solo all’esito della composizione negoziata sarà possibile sapere se l’impresa è suscettibile di essere risanata perché il debitore avrà individuato una soluzione idonea al superamento della propria situazione economica e finanziaria, ovvero se falliti tutti i tentativi concreti e ragionevoli prospettati, l’impresa debba considerarsi tecnicamente insolvente con conseguente obbligo di segnalazione al pubblico ministero, segnalazione che, comunque, non potrà andare di molto oltre l’anno dall’accettazione della carica dell’esperto in quanto, fruite di tutte le proroghe, il percorso deve comunque terminare decorsi 360 giorni (art. 17, comma 7, CCII).