Delineato così lo sfondo sistematico sul quale si colloca l’istituto, si può procedere a collocare sul proscenio della trattazione la prima e più evidente novità introdotta dal Codice della crisi, costituita dalla “estensione” (soggettiva) della platea dei creditori suscettibili di subire la “estensione” (oggettiva) degli effetti dell’accordo; ed esaminare le ragioni che hanno indotto il legislatore a generalizzare l’istituto e i presupposti in presenza dei quali l’accordo, ove funzionale alla continuità aziendale, potrà coinvolgere non soltanto banche ed intermediari finanziari, ma tutti i creditori interessati che risultino riconducibili, per posizioni giuridiche ed interessi economici, ad una categoria omogenea.
Non senza ricordare, preliminarmente, che i medesimi presupposti sostanziali e procedurali richiesti in generale dalla prima parte dell’art. 61 CCI, affinché si possa pervenire alla estensione dell’efficacia dell’accordo, trovano applicazione anche all’accordo a carattere liquidatorio con banche e intermediari finanziari, di cui all’ultimo comma della norma, che può dunque considerarsi – questo sì – una mera “sottospecie” dell’accordo di ristrutturazione ad efficacia estesa[14]. Del resto, è evidente che banche e intermediari finanziari saranno comunque presenti, e con un ruolo determinante, nella grande maggioranza degli accordi di ristrutturazione ad efficacia estesa, sicché, se la nuova disciplina potrà coinvolgere, in quanto con continuità aziendale, anche altre categorie di creditori omogenei, l’ipotesi di un accordo esclusivamente con questi ultimi rimane confinata ad una dimensione quasi scolastica[15].
Sotto quest’ultimo versante la nuova disciplina viene piuttosto incontro alla esigenza, avvertita e manifestata dal ceto bancario, di coinvolgere nella sistemazione negoziale della crisi anche un’adeguata percentuale di creditori “commerciali”, condividendo con questi ultimi ristrutturazioni del debito che rappresentano comunque un sacrificio minore rispetto alla deriva liquidatoria e prevenendo condotte opportunistiche che si annidano nella struttura stessa degli accordi in esame che, come noto, presuppongono l’attestazione della loro idoneità ad assicurare il pagamento puntuale e integrale dei creditori estranei. In questa logica ben si comprende che la generalizzazione del meccanismo “coattivo” sia riservata agli accordi diretti a conservare quella continuità aziendale alla quale i creditori “commerciali” risultano maggiormente interessati e alla quale possono sovente concorrere in misura non secondaria.
Il superamento dei limiti soggettivi operato dalla riforma risulta dunque innanzi tutto funzionale, sia pur indirettamente, ad agevolare il raggiungimento delle percentuali richieste per l’omologazione dell’accordo, inducendo i creditori “commerciali” a uscire dalla tradizionale “apatia opportunistica” e ad aderire a un accordo i cui effetti potrebbero essere comunque loro estesi obtorto collo; e, al contempo, superando le remore degli stessi creditori bancari e finanziari rispetto a soluzioni negoziali che vedrebbero altrimenti gravare su questi ultimi in misura esclusiva (o largamente preponderante) gli oneri della ristrutturazione.
L’istituto in esame, prima ancora che come un meccanismo per estendere coattivamente gli effetti dell’accordo, va dunque riguardato come un efficace strumento per dilatare la platea degli aderenti allo stesso, prima all’interno e poi all’esterno delle relative categorie di appartenenza, così da conseguire l’obiettivo, rispettivamente, della maggioranza dei tre quarti dei crediti omogenei e del sessanta (o, nell’accordo agevolato, del trenta) per cento dell’intera esposizione debitoria. E ciò è tanto più vero nel nuovo contesto sistematico prefigurato dal Codice della crisi che consacra a livello normativo il dovere di debitore e creditori di comportarsi secondo buona fede e correttezza sin dalla fase delle trattative che precede gli accordi e le procedure di regolazione della crisi, imponendo al primo, tra l’altro, di illustrare la propria situazione in modo completo, veritiero e trasparente, fornendo ai creditori tutte le informazioni necessarie ed appropriate allo strumento di regolazione della crisi o dell’insolvenza prescelto e ai secondi di collaborare lealmente con il debitore e con gli organi nominati dall’autorità giudiziaria nelle procedure di regolazione della crisi (art. 4 CCI).
Alla luce di queste premesse generali si può meglio cogliere la portata della duplice e coessenziale condizione preliminare richiesta dalla legge ai fini della estensione degli effetti rappresentata, sul fronte sostanziale, dalla omogeneità di posizione dei creditori, che consente di sussumerli in categorie omogenee, e, sul versante processuale, dall’esigenza che “tutti i creditori appartenenti alla categoria siano stati informati dell’avvio delle trattative, siano stati messi in condizione di parteciparvi in buona fede e abbiano ricevuto complete e aggiornate informazioni sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria del debitore nonché sull’accordo e sui suoi effetti”.
Le due condizioni sono tra loro evidentemente interrelate: il dovere di informazione “transitiva” del debitore deve avere infatti per oggetto innanzi tutto l’illustrazione della prospettiva della creazione di categorie omogenee, nonché delle ragioni che, giustificando la riconduzione del creditore ad una di esse, legittimerebbero, ove non intendesse aderire all’accordo, la richiesta di una estensione coattiva degli effetti della ristrutturazione che vengano condivisi dalla maggioranza rafforzata del settantacinque per cento dei crediti omogenei. Si tratta di un onere che connota in termini peculiari questa variante di accordi di ristrutturazione e che ha come prima finalità quella di consentire ai creditori un’adeguata e tempestiva valutazione “riflessiva” in ordine alla opportunità di aderire all’accordo, contribuendo a negoziarne se possibile le condizioni[16].
In questa prospettiva, il legislatore non si accontenta di un coinvolgimento iniziale dei creditori, giacché le “informazioni sull’accordo e sui suoi effetti” possono considerarsi “complete e aggiornate” solo in quanto i creditori siano tenuti costantemente informati dell’evolversi delle trattative finalizzate alla definizione dell’accordo e del perimetro della categoria. Del resto, le categorie non devono necessariamente essere formate sin dall’apertura delle trattative, ben potendo essere impostate in una fase successiva, quando emerga l’esigenza di prospettare la possibile estensione degli effetti proprio al fine di “forzare” l’adesione di determinati creditori[17].
Al riguardo va peraltro sottolineato che sia la costruzione delle categorie, sia il coinvolgimento nei termini ora indicati dei creditori alle stesse appartenenti, vengono a rivestire una maggiore delicatezza rispetto al sottoinsieme dei creditori bancari e finanziari, per la spiccata eterogeneità che rende meno agevolmente comparabili le posizioni e potrebbe determinare maggiori rischi di disallineamenti e dunque di arbitrarietà dei criteri costitutivi delle categorie[18].
Al fine di prevenire tali rischi, i requisiti ora richiamati dovranno essere compiutamente documentati dal debitore e vagliati con particolare attenzione in sede di omologazione da parte dell’autorità giudiziaria[19]. All’esito di tale scrutinio, rimarrà pertanto preclusa l’irradiazione degli effetti estensivi nei riguardi di quei creditori la cui posizione non consenta di sussumerli nella categoria o che non risultino essere stati adeguatamente coinvolti ed informati, salvo poi verificare se la mancata estensione a tali creditori degli effetti negoziali sia suscettibile di riverberarsi sulla complessiva fattibilità del piano al punto da risultare ostativa all’omologazione dell’intero accordo[20].
Ulteriori requisiti ai fini dell’estensione dell’efficacia dell’accordo ai creditori in posizione omogenea sono rappresentati, come già ricordato, dal carattere non liquidatorio dell’accordo, dall’adesione allo stesso di una percentuale di crediti rappresentante il settantacinque per cento di tutti i creditori appartenenti alla categoria e dall’accertamento che i creditori della medesima categoria non aderenti ai quali vengono estesi gli effetti dell’accordo possano risultare soddisfatti in base all’accordo stesso “in misura non inferiore rispetto alla liquidazione giudiziale”.
Rispetto a quest’ultimo requisito, si è già avuto modo di sottolineare come la formulazione normativa non postuli la dimostrazione della effettiva convenienza, per i non aderenti, dell’estensione degli effetti dell’accordo da altri sottoscritto. Non si richiede, in altre parole, che l’accordo si configuri alla stregua di un contratto in favore di terzo, ma semplicemente come un contratto “non a sfavore” dei terzi destinati a subire, in conseguenza del provvedimento di omologazione, l’estensione dei suoi effetti. E si deve sottolineare come la nuova formulazione richieda che la comparazione sia operata rispetto alle possibilità di soddisfazione che i creditori non aderenti ricaverebbero, non più in tutte le “alternative concretamente praticabili” (come invece ora richiesto dall’art. 182-septies L. fall.), ma unicamente in ipotesi di deriva liquidatoria. Non va dunque considerato l’eventuale approdo alternativo del concordato con continuità (e, tanto meno, del negletto concordato a carattere liquidatorio), dovendosi soltanto escludere il carattere svantaggioso rispetto alla liquidazione giudiziale: una condizione al contempo necessaria e sufficiente che, com’è stato osservato, potrebbe risolversi “nel solo vantaggio di evitare i maggiori costi transattivi (in termini di spese e durata della procedura) che normalmente si accompagnano a una regolazione giudiziale dell’insolvenza”[21].
Più singolare, si deve osservare in via incidentale, risulta la trasposizione del medesimo requisito nell’ambito degli accordi di ristrutturazione di gruppo, operata dall’art. 285, co. 4 CCI, ai sensi del quale il tribunale può procedere alla loro omologazione “qualora ritenga, sulla base di una valutazione complessiva del piano o dei piani collegati, che i creditori possano essere soddisfatti in misura non inferiore a quanto ricaverebbero dalla liquidazione giudiziale della singola società". Al riguardo si è già puntualmente – e autorevolmente – sottolineato che questa previsione, se si giustifica in relazione alla domanda di accesso ad un concordato di gruppo, per il quale è pure prevista, non ha “alcun senso invece, altrettanto certamente, con riguardo alla domanda di accesso al procedimento di omologazione di accordi di ristrutturazione (…) perché negli accordi di ristrutturazione non possono mai, in assoluto, trovare posto né il criterio del ‘migliore soddisfacimento dei creditori’, né quello della ‘maggiore convenienza’ rispetto all’alternativa liquidatoria”, essendo il grado di soddisfacimento dei creditori “già fissato ex ante (per i creditori aderenti all’accordo, dall’accordo medesimo; per i creditori non aderenti, dalla legge, che impone un soddisfacimento integrale e alla scadenza dei medesimi)”[22]. Tale giudizio, che non può che essere condiviso, induce a interrogarsi se non sia prospettabile una interpretazione restrittiva del dato normativo che, in una logica adeguatrice volta a preservarlo da censure di incostituzionalità per assoluta irragionevolezza, riferisca il requisito in esame alle sole ipotesi in cui il piano sotteso agli accordi in questione contempli quelle “operazioni contrattuali e riorganizzative, inclusi i trasferimenti di risorse infragruppo”, che il secondo comma dello stesso art. 285 CCI ora legittima, integrando e precisando in questi termini la condizione ivi prevista della appurata coerenza di dette operazioni con l’obiettivo del “miglior soddisfacimento dei creditori di tutte le imprese del gruppo”, ivi inclusa dunque quella chiamata ad operare tale trasferimento di risorse a favore delle altre entità sottoposte alla attività di direzione e coordinamento o della stessa capogruppo.
Resta fermo che, tanto nella dimensione atomistica della singola impresa, quanto negli accordi di gruppo, la doverosa valutazione comparativa del trattamento derivante in capo ai non aderenti, a seguito dell’estensione, rispetto a quello che riceverebbero (nell’attuale regime, in tutte le alternative astrattamente praticabili, e nel Codice della crisi) in caso di liquidazione giudiziale, per quanto operata in termini prognostici, viene ad introdurre un vincolo all’autonomia negoziale nel raggruppamento dei creditori tanto opportuno, quanto inedito per l’istituto in esame. Ciò vale in particolare per le regole di graduazione dei crediti in ragione dell’eventuale causa di prelazione, che normalmente non trovano cittadinanza negli accordi di ristrutturazione[23]: così, mentre il titolare di un credito privilegiato potrebbe naturalmente aderire a un accordo che determini una minore (o più ritardata) soddisfazione rispetto a creditori non privilegiati, deve ritenersi senz’altro preclusa l’estensione di un analogo effetto ad altri creditori privilegiati, ancorché in posizione omogenea rispetto al primo, se non nelle ipotesi (ancora una volta dal sapore scolastico) in cui tale trattamento risulti non peggiorativo rispetto alla soddisfazione prefigurabile all’esito di una liquidazione giudiziale.
Sulla sussistenza dell’insieme delle condizioni richieste ai fini dell’estensione dell’efficacia dell’accordo, e sin qui esaminate, i creditori potranno interloquire dialetticamente sia durante le trattative, sia dopo la sottoscrizione dell’accordo: la legge impone infatti al debitore di notificare l’accordo – unitamente alla domanda di omologazione e ai documenti allegati – ai creditori nei confronti dei quali chiede di estendere gli effetti dell’accordo, legittimando questi ultimi a proporre opposizione ai sensi dell’articolo 48, co. 4 CCI entro il termine di trenta giorni dalla data di tale “comunicazione” (id est, della notifica)[24].