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Saggio

Gli strumenti di regolazione della crisi delle società e i diritti “corporativi”: che ne resta dei soci?*

Paolo Benazzo, Ordinario di Diritto commerciale presso nell’Università di Pavia

4 Dicembre 2023

*Il saggio è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
Il contributo intende svolgere alcune riflessioni in ordine alla disciplina di cui alla Sezione VI bis del Codice della Crisi e alle possibili ricadute che le nuove norme possono avere sui diritti corporativi, di natura amministrativa e patrimoniale, spettanti ai soci di società di capitali in presenza della crisi, all’interno - e in funzione - degli strumenti di regolazione della crisi volti alla ristrutturazione del debito in continuità aziendale.
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1 . Verso il (nuovo) diritto societario “in presenza della crisi”
Affrontare e decrittare la nuova, e recente, Sezione VI-bis del codice della crisi e dell’insolvenza, introdotta dall’art. 25, D.Lgs. 17 giugno 2022, n. 83, e recante la rubrica “Degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza della società”, è un esercizio obiettivamente arduo, complesso e non lieve. E ciò in ragione non soltanto della non perspicua declinazione delle norme speciali di cui agli articoli 120 bis e seguenti del codice della crisi, ma, prima di tutto, della circostanza che la sezione in parola rappresenta uno dei punti nodali nei quali le due placche, quella del diritto societario, da un canto, e quella della disciplina della crisi d’impresa, dall’altro, nell’ideale litosfera del diritto dell’impresa, si muovono e vengono a contatto l’una dell’altra. E, come avviene per le zolle terrestri, in questo movimento, possono dare luogo, nei loro margini, a fenomeni di adattamenti e deformazioni, più o meno intensi, sino a originare, nelle situazioni estreme, anche faglie e spinte telluriche.
L’obiettivo di queste brevi riflessioni non è (e non può essere) dunque quello di procedere a una compiuta e analitica disamina delle singole previsioni del codice, tra l’altro estesa all’intera panoplia delle imprese, individuali e collettive [1], quanto invece quello di provare a verificare se e in che misura questo ideale scontro di placche sia destinato a condurre a fenomeni e reazioni di ordine sismico ovvero possa essere invece indirizzato verso una combinazione sinergicamente, quanto non traumaticamente, organica, ancorché secondo canoni e paradigmi nuovi. E tutto ciò a prescindere – la puntualizzazione si impone onde chiarire ulteriormente la finalità di codesto contributo – da qualsiasi giudizio di valore in ordine alla condivisibilità, alla convenienza e alla correttezza delle scelte operate con il correttivo al codice della crisi testé menzionato [2], per richiamare viceversa l’attenzione sul fatto che la Sezione VI-bis e le altre norme disseminate nel codice della crisi che, in egual modo, entrano in contatto con il diritto dell’impresa societaria, impongono la necessità di modificare le lenti attraverso le quali muovere alla lettura della nuova disciplina legale e di coglierne, così, appieno il mutamento di paradigma, culturale prima ancora che normativo, che la stessa porta con sé.
Una disciplina che – nel dare seguito ad altre voci autorevoli [3] – deve ormai essere affrancata dalla sterile questione se con il codice della crisi sia venuto a esistenza un “diritto societario della crisi” da innestarsi o affiancarsi, a seconda della diversa apodosi arbitrariamente assunta dal singolo interprete, allo statuto ordinario dell’impresa societaria e che, per contro, deve essere declinata e applicata (la disciplina in esame) quale insieme di norme volte a regolare – nel caso di imprese organizzate in forma societaria – i rapporti sociali e i relativi assetti proprietari e organizzativi “in presenza della crisi”. Una situazione quest’ultima, a propria volta, definitivamente acquisita, non solo a livello aziendale ma anche legale, quale possibile stadio appartenente alla fisiologia dell’impresa medesima; impresa la cui sopravvenienza può (e deve) condurre quindi a una diversa angolazione e a una diversa configurazione dei diritti corporativi o, più latamente, sociali, in ragione della prevalenza e della supremazia di valori e istanze, per un verso, eccedenti la, ormai superata, sfera dei rapporti bipolari (debitore-creditori), a loro volta, staticamente fondati nell’angusto ambito della garanzia patrimoniale (di cui agli articoli 2740 e 2741 c.c.), e, per un altro verso, aventi natura di ordine generale e sovraordinato dacché destinati, nell’ambito della dinamicità dei rapporti economici, a valorizzare e preservare interessi non strettamente (ed egoisticamente) patrimoniali e dominicali.
Come è agevole cogliere da queste battute iniziali, il campo è davvero vasto: ecco perché – come si preannunciava – sarò costretto a procedere in via apodittica (ancorché con un timbro di voce non stentoreo), attraverso inevitabili opzioni selettive e senza entrare nel dettaglio delle singole disposizioni, seguendo, viceversa, un approccio e una lettura del dato normativo di ordine ‘sistemico’, nel tentativo di provare a far emergere i punti cardinali rispetto ai quali orientare la bussola e tracciare, senza – lo si ripete – alcun giudizio di natura valutativa, la possibile cartografia del nuovo mondo, che, con quale consapevolezza in capo al legislatore neppure è dato sapere, verrebbe ad emergere dalle norme in commento, là ove, coerentemente, portate alle loro estreme conseguenze. Così da dare, in prospettiva, un contributo all’eventuale, e ulteriore, riflessione che si ritenesse di avviare nella misura in cui gli approdi finali cui la mappa condurrebbe non dovessero essere ritenuti corretti, congrui o adeguati.
2 . I diritti corporativi negli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza
Un campo, o come si è poc’anzi scritto, un mondo, nuovo, nel quale – e il riferimento corre alle imprese organizzate in forma societaria e, per la precisione, secondo i modelli capitalistici – entrano in gioco, in modo dirompente, gli assetti proprietari, le quote di partecipazione sociale, i diritti corporativi (patrimoniali e amministrativi) nel duplice – e innovativo [ancorché per certi profili già affacciatosi con il previgente art. 160, comma 1, lett. a) L. fall.] – ruolo di oggetto di una possibile negoziazione con i creditori sociali in cambio delle rispettive posizioni creditorie e di strumento di soluzione della crisi, cioè a dire quali possibili componenti del piano alla base dell’istituto utilizzato per la regolazione della crisi medesima. 
Un nuovo mondo nel quale dunque la ristrutturazione dell’esposizione debitoria si realizza anche per il tramite di una riorganizzazione della struttura finanziaria dell’impresa [4]. Un mondo nel quale, come si avrà modo di evidenziare, una siffatta riorganizzazione può avvenire – con lo sguardo rivolto al codice organizzativo societario – all’insaputa dei soci, in assenza della volontà dei proprietari (del capitale), contro la volontà individuale dei medesimi proprietari e, nell’anticipare anche le conclusioni, con la degradazione della tutela dei diritti corporativi dal piano reale a quello (meramente) risarcitorio.
Un piano risarcitorio – sempre nell’anticipare le prossime riflessioni – a propria volta declinato su due livelli. 
Un primo livello, per così dire collocato, per un verso, all’esterno dell’organizzazione dell’impresa e, per un altro verso, invece all’interno dello (e rispetto allo) strumento di regolazione della crisi: e, sul punto, il riferimento immediato è all’art. 53, comma 5 bis, del codice della crisi, ove, a fronte del rigetto del reclamo avverso la sentenza di omologazione del concordato preventivo in continuità aziendale e la conferma della stessa in ragione della prevalenza dell’interesse generale dei creditori e dei lavoratori, si riconosce in capo all’opponente (anche socio quindi) un mero diritto al risarcimento del danno. 
E un secondo livello viceversa interno al codice organizzativo societario medesimo e dunque alla stessa trama dei rapporti endo-societari ove il ‘conflitto’ tra shareholder e stakeholder si sposta nell’ambito delle relazioni tra i Principal (i soci) e gli Agent (gli amministratori) e dunque tra proprietà e management: e in questo caso, come già ho avuto modo di accennare in altra sede [5], il riferimento corre all’art. 2395 c.c. e al possibile danno diretto che il socio – eventualmente ‘espropriato’ (ma il termine viene qui usato in senso a-tecnico) della propria posizione proprietaria – potrebbe avanzare nei confronti dell’amministratore che dovesse essere stato non tempestivo nell’affrontare, gestire e superare la crisi attraverso un percorso e una soluzione ad assetti corporativi integri e dunque alternativi a uno strumento di regolazione della crisi che invece dovesse aprire la via alla ristrutturazione dell’indebitamento attraverso la riorganizzazione della struttura finanziaria della società. Dando così luogo a una, per così dire, internalizzazione del conflitto nella gestione e nel destino dei diritti corporativi, patrimoniali e amministrativi, in presenza della crisi: diritti quindi, nello spostare l’angolo visuale dall’organizzazione alla posizione individuale, i quali da oggetti di uno statico approccio dominicale si trasformano, secondo un approccio dinamicamente funzionale, in componenti finanziarie, accessorie e strumentali alla conservazione del funzionamento del complesso aziendale e quindi alla sopravvivenza stessa dell’impresa.
Il tutto poi all’interno di un quadro nel quale alla tradizionale relazione antagonisticamente bipolare (debitore – creditore) si viene (oggi) a sostituire uno scenario di tipo triangolare, con al vertice (e dunque in posizione sovraordinata, sovraordinante e predominante) il valore della continuità dell’impresa a complesso aziendale integro e rispetto al quale gli altri protagonisti, creditori e soci, sono a chiamati a sopportare, subire e condividere, in via solidale e solidaristica, dei sacrifici. 
Nella direzione di questa forte “neo-istituzionalizzazione” dell’interesse sociale, oggi interesse dell’impresa, si muove il Considerando n. 2 della Direttiva Insolvency [(UE) 2019/1023)] là ove afferma che «la ristrutturazione dovrebbe consentire ai debitori in difficoltà finanziarie di continuare ad operare (…) modificando la composizione, le condizioni o la struttura delle loro attività e delle loro passività o di una qualunque altra parte della struttura del capitale (…)» (enfasi aggiunta, n.d.a.). 
Ancorché, a ben vedere, i successivi Considerando 48 e 49 abbiano cura di precisare, rispettivamente, che «l’omologazione del piano di ristrutturazione (…) serve per garantire che la riduzione dei diritti dei creditori e delle quote dei detentori di strumenti di capitale sia proporzionata ai benefici della ristrutturazione (…)» (enfasi aggiunta, n.d.a.) e che «gli Stati membri dovrebbero stabilire che l’autorità giudiziaria o amministrativa possa respingere un piano di ristrutturazione se è stato accertato che esso riduce i diritti dei creditori o detentori di strumenti di capitale dissenzienti in misura superiore a quanto questi potrebbero ragionevolmente prevedere in caso di liquidazione dell’impresa del debitore (olistica o monistica) o in misura superiore rispetto a quanto potrebbero ragionevolmente attendersi nel caso di miglior scenario alternativo possibile se il piano di ristrutturazione non fosse omologato».
In buona sostanza, dunque, la tematica centrale, di fondo, della nuova Sezione VI-bis risiede proprio in questa prospettiva: quella di tracciare le coordinate lungo le quali, in presenza della crisi dell’impresa (societaria), i diversi interessi coinvolti possano e debbano coordinarsi e atteggiarsi in funzione della superiore, e prevalente, istanza rappresentata dalla sopravvivenza e della persistenza della continuità aziendale e dell’impresa stessa. 
Quanti e quali dei diritti corporativi e quindi anche quanta parte della possibile ricchezza derivante dalla continuazione dell’impresa o funzionale alla continuazione dell’impresa possano essere, da un canto, conculcati ovvero, dall’altro canto, riservati ai soci anteriori alla crisi stessa, sono quindi gli interrogativi che si pongono e rispetto ai quali la risposta – ecco il senso di codesto intervento – non può più originare da schemi e impostazioni rivenienti dal passato ma deve invece muovere da una grammatica e da un lessico coerenti con il cambio di paradigma insito nella nuova disciplina dell’impresa (societaria) in presenza della crisi.
Non senza tuttavia poter obliare le difficoltà che nascono dalla circostanza che la sezione in esame del codice della crisi, si presenti per certi versi come non esaustiva (si pensi a importanti previsioni, quali gli articoli 116 e 285, che giacciono, al di fuori della stessa); per altri, non coordinata (basti solo citare il disallineamento tra l’art. 120 bis, comma 1, e l’art. 265, in tema di competenza decisoria, e l’art. 116, ultimo co., per quanto concerne il diritto di recesso); per altri ancora, non univocamente allineata, se solo si consideri come l’art. 116, comma 1, relativamente alla possibilità di contestare la legittimità delle operazioni straordinarie, non menziona accanto ai creditori, i soci, cui parrebbe spettare invece, stando all’art. 120 quater, comma 3, solo un diritto di contestazione in termini di mera convenienza, lasciando così intendere – ma il dubbio non può che essere sciolto se non in funzione dell’approccio che si intende assumere nel leggere il (nuovo) statuto dell’impresa societaria ‘in presenza della crisi’ – che ai soci non resterebbe che fare affidamento su una tutela di ordine eteronomo [quella di cui agli articoli 47, comma 1, lett. b) e 112, comma 1, lett. g)]. O ancora, si pensi alla diversa dizione che compare nell’art. 112, comma 3, e nell’art. 120 quater, comma 3: nell’un caso si parla infatti di «liquidazione giudiziale» e nell’altro caso di «alternativa liquidatoria», lasciando così il dubbio se, nel caso dei soci, il parametro di riferimento da utilizzare nella valutazione comparativa debba essere più ampio [6].
3 . I nuovi punti cardinali per una possibile cartografia
Proviamo dunque a procedere e andare così alla ricerca di quelle possibili ‘coordinate di sistema’ cui si faceva riferimento in esordio e seguendo le quali si possa poi prendere le mosse nella decrittazione della Sezione VI-bis, con precipua attenzione ai diritti amministrativi e ai diritti patrimoniali pertinenti alla partecipazione sociale. 
Con l’inevitabile sintesi, derivante dagli spazi e dalle finalità del presente contributo, ritengo che quattro siano i punti cardinali rilevanti ai nostri fini.
La prima chiave di volta da cui principiare l’analisi si deve rinvenire nel combinato disposto degli articoli 2086 c.c. e 3 del codice della crisi. Il primo là ove sancisce una vera e propria condizione di legittimazione all’esercizio dell’attività economica: un’attività cui l’ordinamento non concedere un diritto di cittadinanza assoluto, ma che diviene un privilegio condizionato, il cui esercizio dunque è legittimo nella misura in cui l’iniziativa economica venga organizzata e gestita in condizioni di continuo equilibrio, non solo di natura finanziaria, ma anche rispetto ai quei valori, quelle istanze, quei principi costituzionali consacrati negli articoli 9 e 41 della Carta costituzionale [7]. Il secondo, che, nel definire i parametri di adeguatezza degli assetti organizzativi, impone, quale primo ed essenziale elemento, la capacità di «(…) rilevare eventuali squilibri di carattere patrimoniale o economico finanziario rapportati alle specifiche caratteristiche dell’impresa e dell’attività imprenditoriale svolta» (enfasi aggiunta, n.d.a.). 
Il che, come già autorevole voce ha evidenziato [8], viene a segnare la rilevanza e la centralità dell’elemento organizzativo patrimoniale tra le condizioni di legittimazione all’esercizio di un’intrapresa economica. Come a dire che, in tanto l’impresa, viepiù se organizzata sotto forma di società di capitali, può svolgere un’attività economica “non in contrasto con l’utilità sociale”, in quanto abbia un patrimonio netto (non il mero capitale sociale nominale) adeguato; ma ancora, che l’adeguatezza del patrimonio diviene, a propria volta, dall’angolo di visuale del singolo socio, la ragione fondante i diritti corporativi stessi, i quali solo così possono aspirare a conservano una dignità di tutela in termini reali e, per così dire, sovra-ordinati e prevalenti rispetto a quelli dei creditori sociali e, prima ancora, dell’impresa medesima. 
In altri termini, l’impatto del combinato disposto delle due norme è tanto immediato, quanto rilevante sul piano vuoi organizzativo dell’impresa, vuoi dei rapporti interni tra owner e manager, nella misura in cui, per un verso, attesta come il fondamento (della titolarità e della conservazione) dei diritti proprietari risieda non tanto nel semplice supporto finanziario all’impresa quanto piuttosto (e solamente) nella dotazione dell’impresa, e nella sua conservazione nel tempo, di un assetto patrimoniale adeguato e, per un altro verso, impone a chi è investito della funzione gestoria il dovere di essere attento e tempestivo nel registrare eventuali squilibri così come nel portare all’attenzione dei titolari dei diritti corporativi la necessità, in presenza dei sintomi della crisi, di interventi finalizzati a ripristinare l’adeguatezza del patrimonio. Un’adeguatezza in assenza della quale, se non curata, se non presidiata, se non ripristinata, verrebbe così meno (per i soci) quel privilegio – in termini di diritti corporativi – nel partecipare all’esercizio in comune dell’attività economica e all’apprensione dei relativi utili.
È pur vero che mentre i conferimenti dei soci a capitale entrano a far parte del patrimonio della società, la partecipazione sociale e i diritti ad essa connessi continuano a far parte del patrimonio del socio [9]. Una siffatta distinzione di piani vale però – si dovrebbe oggi aggiungere alla luce dei passaggi normativi testé citati – sino a che l’impresa societaria non entri in crisi e non pretenda, a crisi conclamata, di continuare nello svolgimento dell’attività economica in assenza del necessario (e adeguato) supporto patrimoniale. Allorché infatti la crisi emerga e venga così a conclamarsi la non adeguatezza del patrimonio netto, la pretesa (dominicale) alla conservazione della quota di partecipazione sociale da assoluta non potrebbe che divenire relativa al pari di ogni altra rivendicazione di ordine economico e patrimoniale che gli altri stakeholder avanzino nei confronti della medesima impresa. E in questa sua relatività anche la posizione di titolarità del capitale sociale non potrebbe che divenire omogenea (e sul punto ci torneremo in un attimo) con gli altri diritti e perciò sacrificabile quanto contendibile al pari delle posizioni creditorie, tutte quante, insieme, chiamate a cedere il passo al cospetto della superiore (e imperativa) istanza del risanamento e del superamento della crisi con la conservazione della continuità dell’impresa.
Un’istanza – quella della continuità dell’impresa – che segna in questo modo il passaggio a un sistema dinamico incentrato non già (e non più) sui soli diritti proprietari (e dei diritti di credito) quanto invece con un baricentro spostato sull’attività d’impresa in quanto tale e sul mercato e, così, in presenza della crisi, sull’istanza volta al necessario ripristino dell’ordinato ed equilibrato ciclo produttivo nonché dei flussi finanziari necessari per riattivarlo e sostenerlo, anche rimettendo in gioco e riallocando i diritti dei detentori di strumenti di partecipazione al capitale (oltre che dei creditori).
Una continuità nella crisi d’impresa – e passiamo così al secondo punto cardinale che si evocava poc’anzi – che è oggi un valore imperativo e sovraordinato nel diritto d’impresa. Numerosi potrebbero essere i richiami alle norme che in tal senso depongono (si pensi, tra le tante, agli articoli 47; 53, comma 5 bis; 84 e 112 comma 2, del codice della crisi); basti però, ai fini delle presenti riflessioni, incentrate, per l’appunto, sulla possibile riorganizzazione della struttura corporativa, il confronto tra l’art. 160 L. fall. e il nuovo art. 120 bis del codice. Immediata è infatti la differenza che balza agli occhi: stando infatti alla prima norma, la “organizzazione corporativa” e i diritti ad essa correlati costituivano, nella visione di quel momento, un mero strumento finalizzato al soddisfacimento dei creditori; con la seconda – e oggi vigente – disposizione, in linea con il già citato Considerando n. 2 della Direttiva Insolvency, essi divengono invece, espressamente, un mezzo finalizzato alla “regolazione della crisi” dell’impresa e al buon esito della stessa. Impresa il cui destino – nel nuovo mondo del codice della crisi – è quello di sopravanzare e di sopravvivere a coloro che ne hanno consentito l’avvio e lo sviluppo sino alla crisi. Tanto è vero che sia i creditori che i soci sono chiamati a un destino diverso rispetto al passato: quello cioè di cedere il passo alla continuità dell’impresa [10]. 
E infatti, quanto ai primi, l’art. 84, comma 1, del codice afferma come il fine ultimo del concordato sia non più quello del ‘miglior soddisfacimento possibile’ quanto piuttosto, quello, più contenuto, del ‘realizzo minimo’, in misura quindi «non inferiore a quella realizzabile in caso di liquidazione giudiziale». Così come, per converso, quanto ai secondi, il riconoscimento e la conservazione dei diritti corporativi – come si avrà modo di meglio puntualizzare a breve – acquistano rilevanza solo se e nella misura in cui essi operino non già quali fini-ultimi, ma quali (necessari) fini-mezzo, ancillari all’operazione di ristrutturazione dell’indebitamento finanziario e al suo successo (cfr. i Considerando n. 57 e 96 della Direttiva Insolvency).
Terzo punto cardinale, poi, è quello rappresentato dal nuovo e articolato sistema di regole di distribuzione della ricchezza dell’impresa in crisi.
Per un verso, come da autorevoli voci da subito colto e messo in evidenza, il plesso normativo, da un’anelastica, ma certa, Absolut Priority Rule, si è aperto a una dinamica, ancorché incerta, Relative Priority Rule, incentrato così sulla combinazione [basti solo scorrere gli Articoli 61, 64 bis, 112, comma 2, lett. a)-d), e 120 quater] di diversi criteri di priorità [11].
Per un altro verso – aggiungo però, venendo così al quarto (e ultimo) pilastro – in un contesto di allocazione distributiva solidale e trasversale della ricchezza [12]. Un’allocazione, a propria volta, che viene a coprire uno spazio più ampio, là ove va ad allargarsi e a fuoriuscire dal tradizionale (ed esclusivo) piano esogeno all’organizzazione d’impresa, proprio degli stakeholder finanziari a diritti ‘fissi’, fino a includere quello endogeno, con il coinvolgimento anche degli altri finanziatori dell’impresa non fixed ma residual claimant (i soci). Sul punto basti solo leggere il Considerando n. 48, già citato, ove enuncia il principio secondo il quale «l’omologazione del piano di ristrutturazione (…) serve per garantire che la riduzione dei diritti dei creditori o delle quote dei detentori di strumenti di capitale sia proporzionata ai benefici della ristrutturazione (…)».
E non a caso, il codice della crisi si apre con una Sezione dedicata ai «Principi Generali», collocando in apice, quali criteri guida nelle negoziazioni tra i diversi attori coinvolti, i doveri di correttezza, buona fede, salvaguardia delle reciproche posizioni e condivisione dei sacrifici [13]. Ancora una volta, sia qui sufficiente fare richiamo a norme nelle quali, espressamente, da un canto, si riconosce la valenza e la rilevanza del momento di confronto negoziale, purché in un ambiente a simmetria informativa piena e garantita (si pensi agli articoli 4; 55, comma 4 e 92 comma 4 o financo all’art. 120 quater medesimo nel quale la riserva di ricchezza a favore dei soci diviene essa stessa oggetto di contesa negoziale tra soci e creditori), e, dall’altro canto, si sancisce, in ultima analisi, la necessità di passare per il tramite di una gestione solidaristica della crisi (si pensi ancora all’art. 4 e ai richiamati articoli 16 comma 4 e 21 per la composizione negoziata della crisi; si consideri, altresì, come la stessa RPR, in sostanza, imponga una negoziazione volta a delineare e a far emergere delle proposte coerenti con le attese delle diverse classi di creditori) [14].
Se le coordinate appena impostate sono corrette, ne emerge allora un quadro nel quale risulta recessiva una lettura che continui a vedere nella posizione dei soci e nei diritti ad essa connessi delle posizioni giuridiche attive assolute e incondizionate, quanto disallineate e differenti rispetto a quelle di tutti gli altri attori e soggetti che abbiano fatto credito all’impresa o che alla stessa risultino non estranei in termini di possibili effetti e riflessi che lo svolgimento dell’attività economica o l’istanza di assicurarne il superamento di situazioni di crisi possano produrre e che, insieme ai soci, si trovino ad essere anche soggetti interessati da uno strumento di regolazione della crisi.
Del resto, a voler guardare con attenzione, non si tratterebbe certo di un approdo che si pone in discontinuità rispetto alla disciplina dei rapporti societari in assenza della crisi qual è venuta a delinearsi nel corso dell’ultimo ventennio a partire dalla riforma del 2003. A tal proposito, accanto al regime delle impugnazioni delle deliberazioni assembleari ove l’esigenza di conservazione degli atti corporativi ha imposto forti e significative limitazioni alla tutela reale in favore di rimedi di natura meramente risarcitoria (cfr. l’art. 2377, comma 4, c.c.), basti qui solo citare la circostanza che, dinanzi a operazioni di natura straordinaria e al prevalente interesse sociale, la legge, per un verso, si premuri di assicurare ai soci un rapporto di concambio che sia soltanto “congruo” e, per un altro verso, addirittura consenta la possibilità di indennizzare i soci di minoranza in ragione della privazione del loro status corporativo, con meri conguagli in denaro [cfr. gli artt. 2501 ter, comma 1, n. 3) e comma 2; 2501 sexies, c.c.]. 
Ragionevole allora pare essere il passo successivo di prospettare e rinvenire un ulteriore, ma certamente non straordinario, affievolimento – altri ha parlato di “demolizione” [15] – della posizione proprietaria del socio di capitali nel passaggio da una situazione di assenza a una di presenza della crisi nell’impresa organizzata in forma di società di capitali, soprattutto se poi si consideri come, molto spesso, sia il socio stesso, nel rivestire anche la posizione di soggetto di controllo e di titolare della funzione gestoria, ad aver (colpevolmente) non tanto causato (dacché la crisi è un rischio vuoi endemico all’impresa, vuoi indotto da fattori frequentemente fuori dal controllo interno), quanto piuttosto rinviato, ritardato se non occultato, lo stato di crisi, non cogliendone, per tempo, i sintomi e non curandone poi, tempestivamente, le cause.
4 . La posizione dei soci nella (nuova) disciplina del diritto societario ‘in presenza della crisi’
Così delineato il quadro, è ora possibile procedere oltre e provare a verificare quale possa essere la posizione dei soci nella (nuova) disciplina del diritto societario in presenza della crisi in conseguenza delle scelte operate a livello legislativo e declinate nella Sezione VI-bis.
Ancora una volta, è utile prendere le mosse dalla Direttiva Insolvency e, in particolare, dal combinato disposto dei Considerando della stessa che più direttamente si esprimono in tema di titolari di quote nelle imprese societarie (segnatamente da quelli di cui ai numeri 2, 56, 57 e 96) e che trovano poi la loro sintesi nell’articolo 12 della Direttiva medesima. Articolo ove, per l’appunto, al primo e al secondo comma, rispettivamente, si dispone che «Se si escludono i detentori di strumenti di capitale dall’applicazione degli articoli da 9 a 11, gli Stati membri provvedono con altri mezzi affinché ai detentori di strumenti di capitale non sia consentito di impedire o ostacolare irragionevolmente l’adozione e l’omologazione un piano di ristrutturazione» (enfasi aggiunta, n.d.a.) e che «Gli Stati membri provvedono altresì affinché ai detentori di strumenti di capitale non sia consentito di impedire od ostacolare irragionevolmente l’attuazione dei un piano di ristrutturazione» (enfasi aggiunta, n.d.a.). 
Un combinato disposto dal quale emerge come se, da un canto, i soci conservino ancora per certi versi un os loquendi vel postulandi pur in presenza della crisi e all’interno dei processi di ristrutturazione della crisi, per un altro canto, però, agli stessi non possa tuttavia essere riservata, e non sia ex lege riservata, una posizione di privilegio assoluto e incondizionato. 
E così, nel venire al diritto nazionale, per un verso, ci troviamo dinanzi a una norma qual è quella di cui all’art. 120 bis, co, 2, del codice della crisi, la quale statuisce che «ai fini del buon esito della ristrutturazione» (e non del mero soddisfacimento dei creditori, come si notava poc’anzi, ma neppure ai fini della conservazione dei diritti corporativi) «il piano» dello strumento di regolazione della crisi «può prevedere qualsiasi modificazione dello statuto della società debitrice, ivi inclusi aumenti e riduzioni di capitale anche con limitazione ed esclusione del diritto di opzione e altre modificazioni che incidono direttamente sui diritti di partecipazione dei soci, nonché fusioni, scissioni e trasformazioni» (enfasi aggiunta, n.d.a.). Per un altro verso, tuttavia, dobbiamo anche registrare come il coinvolgimento dei soci nella ristrutturazione e la salvaguardia dei relativi diritti e delle relative posizioni ‘corporative’ non si presentino come un ‘fine assoluto’, ma divengano viceversa solo un ‘fine-mezzo’ – e come tali quindi consustanzialmente subordinati a limitazioni e condizioni, soggettive e oggettive – per promuovere, consentire e facilitare, la soluzione della crisi. 
A ben vedere, quindi, non è tanto – o forse non è più soltanto – una questione da porsi quella relativa a chi siano, oggi, con il codice della crisi, allorquando l’impresa entri in crisi (se non financo nell’insolvenza) i “soci senza diritti” [16], ovverosia se tali debbano considerarsi i creditori sociali ovvero anche, e prima ancora, i soci medesimi; quanto piuttosto, e prima ancora, occorre prendere atto della circostanza che i rispettivi interessi e i rispettivi piani, che pertengono ai due gruppi di ‘finanziatori’ e sui quali essi si devono muovere, vengono ad essere, come si preannunciava qualche capoverso fa, omogeneizzati: “gli interessi patrimoniali e corporativi dei soci vengono assorbiti e convertiti in diritti di partecipazione al procedimento di risanamento e ristrutturazione della società” [17]. Tanto che con il codice della crisi, i soci, nell’ordine, vengono ad essere: resi parte del procedimento di ristrutturazione quali soggetti interessati e dunque da tenere informati in ordine al relativo andamento (art. 120 bis, comma 2); necessariamente inseriti in classi, potendo così partecipare in maniera attiva al processo di valutazione e approvazione della proposta alla base dello strumento di regolazione della crisi (art. 120 ter, comma 2); investiti altresì del potere di promuovere proposte concorrenti (art. 120 bis, comma 5); tutelati infine attraverso lo strumento dell’opposizione all’omologazione della proposta medesima (art. 120 quater, comma 3). 
Con il che – nel muovere un ulteriore passo – occorre prendere atto del fatto che la voice dei soci viene così a traslarsi dal diritto di voto in ambito societario al diritto di voto (e di veto) endo-concorsuale: ma se così è, appare allora ragionevole soggiungere che anche gli altri diritti amministrativi, ancillari e funzionali alla salvaguardia e alla tutela della posizione corporativa e da esercitarsi nell’ambito societario, (possano e) debbano anch’essi spegnersi in favore di presidi, interventi e strumenti di natura meramente strettamente concorsuale o comunque operanti all’interno (e in funzione) degli strumenti di regolazione della crisi: sullo stesso proscenio e nel medesimo campo, dunque, nel quale si muovono e possono muoversi gli altri interlocutori, egualmente titolari di pretese patrimoniali, dell’impresa.
E, a tal proposito, una conferma testuale immediata può essere rinvenuta nel codice della crisi, ove – con riferimento al concordato con continuità aziendale e dunque uno degli strumenti di regolazione della crisi il cui piano può poggiare proprio su una riorganizzazione della struttura del capitale sociale che passi da una uscita totale dei soci anteriori alla crisi – emerge come la posizione dei soci non assuma valore primario e, anzi, degli stessi non viene fatta menzione alcuna. 
Si legge infatti nell’art. 84, al comma 1, che «la continuità aziendale tutela l’interesse dei creditori e preserva, nella misura possibile, i posti di lavoro», aggiungendosi poi ai commi successivi che «nel concordato in continuità aziendale i creditori vengono soddisfatti (in misura anche non prevalente) dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale diretta o indiretta» e che «la proposta di concordato prevede per ciascun creditore un’utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile che può consistere anche nella prosecuzione o rinnovazione di rapporti contrattuali con il debitore o con il suo avente causa».
Si legge poi nell’art. 53, co 5 bis, già citato, che in caso di accoglimento del reclamo proposto contro la sentenza di omologazione di un concordato preventivo in continuità aziendale, la corte di appello, su richiesta delle parti, possa comunque confermare la sentenza se «l’interesse generali dei creditori e dei lavoratori» – e non già quello dei soci – prevale rispetto al pregiudizio subito dal reclamante.
Con il che, a essere in discussione non è più il se i soci siano titolari di una legittima pretesa a preservare i propri diritti di proprietà e a trattenere una parte della ricchezza nascente dalla ristrutturazione dell’esposizione debitoria, quanto invece – e soltanto – la misura, il margine di solidarietà nel sacrificio delle rispettive posizioni finanziarie tra soci e creditori, assunto che l’esigenza di to keep old equity in the picture” [18] è un valore comunque e in ogni caso funzionale a favorire, o, quanto meno, a non ostacolare i processi di riorganizzazione e come tale quindi degno di tutela – a crisi emersa e non tempestivamente risolta – solo a condizione che i creditori sociali siano acconsenzienti a che l’allocazione di parte del rischio della ristrutturazione sia su di essi traslata in favore della conservazione nel capitale, e dunque nei diritti di proprietà, dei soci anteriori all’emersione della crisi.
La valutazione e la definizione di questa misura dovrà essere poi lasciata, in prima battuta, al confronto e alla dialettica negoziale diretta tra le parti, vale a dire i creditori e i soci (debitori): tanto è vero che sia l’eventuale riserva di ricchezza quanto l’entità del beneficio stesso a favore dei soci non sono condizioni di ammissibilità della proposta di concordato quanto piuttosto un ostacolo al successo dello strumento di regolazione della crisi in caso di ‘fallimento’ della negoziazione, testimoniato dall’opposizione di una classe di creditori dissenziente (art. 120 quater del codice della crisi).
Nel contempo, dacché, per un verso, l’irrompere della crisi si innesta all’interno di uno statuto dell’impresa societaria in cui l’attribuzione dei diritti corporativi, amministrativi e patrimoniali, è fondata sulla titolarità di posizioni finanziarie esposte al ‘rischio partecipativo’, e, per un altro verso, il possibile sacrificio cui i soci possono essere esposti deve comunque obbedire, secondo le coordinate ‘astrali’ di cui si è detto in precedenza, ai principi di correttezza e solidarietà, è un ulteriore dato, che trova peraltro un fondamento normativo nel codice della crisi, la circostanza che una siffatta negoziazione non sia legibus soluta e che richieda anch’essa il rispetto di determinate condizioni (sulle quali si avrà modo di tornare), essenziali nell’interesse dei creditori quanto dei soci stessi. 
Vale a dire, nell’ordine, che: (i) l’alterazione o la modificazione degli assetti proprietari sia strettamente funzionale al buon esito dell’operazione di ristrutturazione (art. 120 bis, comma 2); (ii) la riserva di ricchezza avvenga comunque nel rispetto dell’ordine di priorità delle posizioni finanziarie delle relative classi dei creditori, dovendo rimanere i soci comunque dei residual claimant (art. 120 quater); (iii) l’individuazione e la quantificazione di una siffatta ricchezza siano il frutto di una negoziazione occorsa nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede; (iv) la conservazione e il coinvolgimento dei vecchi soci siano funzionali e strumentali al successo della ristrutturazione stessa da operarsi nella (sola) forma di “continuità diretta” (art. 84, comma 2); (v) la riserva di ricchezza sia limitata al solo “plusvalore da continuità” che, a propria volta, si rifletta sul “valore effettivo della partecipazione” (art. 120 quater, comma 1 e 2), senza tradursi, per un verso, in assegnazioni o trasferimenti di somme ovvero rimborsi di finanziamenti in precedenza erogati a titolo diverso da un apporto a patrimonio, ma proiettandosi, per un altro verso, quanto alla relativa valorizzazione, sull’intero orizzonte dell’arco di piano e agli esiti finali dello stesso; (vi) in assenza, infine, di interventi e manipolazioni abusivi, in spregio alla regola della partecipazione solidaristica al risanamento della crisi e in danno tanto dei soci (si pensi alla artificiosa e strumentale formazione delle classi in funzione del gioco delle maggioranze), quanto dei creditori medesimi (si pensi a operazioni solo formalmente non in continuità diretta: e sul punto si vedano le osservazioni conclusive).
5 . Verso un possibile approdo: dalla voice ‘sociale’ alla voice ‘concorsuale’; dalla tutela reale a quella risarcitoria
Indubbiamente – nel passare alla disamina delle norme di cui alla Sezione VI-bis – l’arretramento dei soci, anteriori alla crisi, a livello di assetti proprietari e organizzativi e dunque in termini di diritti di voice quanto di partecipazione stessa al capitale, è significativo. Basti solo, nell’ordine, rilevare come, in primo luogo, la decisione di accedere a uno strumento di regolazione della crisi, unitamente a quella di declinare il contenuto e le condizioni della relativa proposta, spetti alla competenza esclusiva e inderogabile degli amministratori (art. 120 bis, comma 1), senza alcuna possibilità di coinvolgimento dei soci medesimi, anche superando, nel caso di s.r.l., quanto previsto nell’art- 2479 c.c., se non su iniziativa dell’organo amministrativo stesso e, comunque, al più, in tutte le società di capitali, solo in forma di mera autorizzazione in accordo a quanto previsto dall’art. 2364, n. 5, c.c. [19].
In secondo luogo, il potere di revoca degli amministratori ad opera dei soci (dalla iscrizione della loro decisione nel registro delle imprese e sino all’omologazione) non è più discrezionale e illimitato, potendo essere esercitato solo in presenza di una giusta causa, la quale, poi, non può essere rinvenuta nella presentazione di una domanda di accesso a uno strumento di regolazione della crisi o dell’insolvenza, purché «in presenza delle condizioni di legge» (art. 120 bis, comma 4).
In terzo luogo, poi, la decisione di accesso potrebbe aver luogo in una situazione di totale opacità informativa per i soci medesimi, rispetto ai quali gli amministratori non hanno alcun specifico e tassativo obbligo di preventivo coinvolgimento, al di là di quella che potrebbe essere un’attivazione cui gli amministratori, in via autonoma e, al più, indotta da standard di correttezza e diligenza, intendessero assumere: il terzo comma dell’art. 120 bis richiede infatti un flusso informativo ex post, imponendo che della decisione di accesso, ormai assunta, i soci siano messi a parte, così come sempre gli stessi siano destinatari di aggiornamenti periodici (ma con quale frequenza la legge nulla dice) in ordine all’andamento del processo avviato con lo strumento di regolazione della crisi.
Non da ultimo, infine, in presenza di un ruolo e di un coinvolgimento dell’autorità giudiziaria nelle vicende e negli atti societari, ben oltre i confini cui l’organizzazione societaria è soggetta in assenza della crisi: se è vero, infatti, che in quest’ultimo caso, l’intervento del giudice ha luogo in casi tassativi e circoscritti (si pensi, ad esempio, all’art. 2367; all’art. 2446, comma 2; all’art. 2482 bis, comma 4; all’art. 2409 e all’art. 2487, comma 2, c.c.), nella società a crisi conclamata, il nuovo art. 120-quinquies, comma 1, rimette al provvedimento di omologazione il potere vuoi di determinare la riduzione e l’aumento del capitale e le altre modificazioni statutarie nei termini previsti dal piano, vuoi addirittura di demandare agli amministratori l’adozione di ogni atto necessario a darvi esecuzione nonché l’implementazione delle ulteriori (e non specificate) modificazioni statutarie programmate dal piano.
Il tutto poi, in quarto luogo, con la possibilità che l’accesso allo strumento di regolazione avvenga, senza possibilità alcuna di impedimento o veto dei soci, sulla base di un piano che preveda qualsiasi modificazione dello statuto della società debitrice, ivi inclusi aumenti e riduzioni di capitale anche con limitazione o esclusione del diritto di opzione (sottoscrizione nel caso di s.r.l.) e altre modificazioni che incidono direttamente sui diritti di partecipazione dei soci, nonché operazioni straordinarie quali fusioni, scissioni e trasformazioni (art. 120 bis, comma 2).
Nel contempo, a fronte di una siffatta demolizione dei diritti corporativi, la legge espressamente attribuisce ai soci la facoltà di ‘reagire’ solo su di un piano extra-sociale e allocato all’interno della procedura avviata con lo strumento di regolazione della crisi: attraverso il diritto di avanzare proposte concorrenti (art. 120 bis, comma 5); mercé il diritto ad essere obbligatoriamente inseriti in apposita classe là ove il piano preveda modificazioni che incidono direttamente sui diritti di partecipazione dei soci e, in ogni caso, per le società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio (art. 120 ter, comma 2); sotto forma, infine, di diritto ad opporsi all’omologazione della proposta di concordato preventivo al fine di far valere il pregiudizio subito rispetto all’alternativa liquidatoria (art. 120 quater, comma 3).
Ecco perché, nelle pagine precedenti, si notava come la voice dei soci si sposti al di fuori degli assetti organizzativi dell’impresa societaria; ecco perché – si era altresì aggiunto – non può più essere data in via apodittica e per assunta la tesi che i diritti sociali, e, prima fra tutti, la (conservazione della) titolarità stessa della partecipazione al capitale sociale, siano non espropriabili o comunque non conculcabili in assoluto (in forza del richiamo agli articoli 42 della Carta Costituzionale, 1 del Protocollo Addizionale CEDU e 17 della Carta dei diritti fondamentali UE. Ecco perché, infine, si era altresì avanzata la tesi che lo strumento compensativo, a fronte dell’eventuale perdita della proprietà societaria, potesse (e forse dovesse oggi) allocarsi sul piano meramente risarcitorio e indennitario, anche, e prima di tutto, collocato anziché sul versante esterno (e reale) dei rapporti con i creditori, sull’asse dei rapporti (obbligatori e) endo-societari tra soci e organo gestorio, mercé l’applicazione, nel caso di società di capitali, dell’art. 2395 c.c. 
Tra l’altro, a ulteriore conforto di una siffatta ipotesi di lavoro, un non irrilevante argomento potrebbe essere rinvenuto nella configurazione, operata con il codice della crisi, di un apposito percorso – qual è la composizione negoziata della crisi – finalizzato al superamento della crisi, il quale, nel collocarsi proprio agli esordi della probabilità della crisi medesima, potrebbe essere percorso dall’imprenditore (società) senza spossessamento e a diritti corporativi integri, grazie alla tempestività stessa dell’avvio di un siffatto percorso. Un percorso che, tra l’altro, proprio con riguardo alla tematica in esame, potrebbe anche dare l’accesso, a sua volta, a un accordo di ristrutturazione della crisi a efficacia estesa con abbassamento della soglia (dal 75% al 60%) della maggioranza dei crediti cui è chiesta l’adesione all’accordo e quindi con possibilità di sottrarsi alla rigida osservazione dell’Absolute Priority Rule e di riservare invece in capo ai soci anteriori la plusvalenza da ristrutturazione [art. 23, comma 2, lett. b)] [20].
D’altro canto e nel contempo, parrebbe anche ragionevole rilevare come il meccanismo risarcitorio testé ipotizzato avrebbe dignità di cittadinanza nell’ipotesi vuoi di società aperte come di società chiuse, intendendo alludere con i due sintagmi al caso, rispettivamente, delle imprese nelle quali si deve registrare la presenza di soci finanziatori, meri investitori, alieni a una partecipazione diretta alla gestione, accanto a quelle in cui la coincidenza tra status di socio e amministratore è tanto immanente quanto cifra caratterizzante il modello organizzativo. Nell’un caso, infatti, l’affievolimento del diritto proprietario e la sua traslazione in una pretesa risarcitoria troverebbero la loro giustificazione nella bramosia finanziaria che muove chi investe nel capitale di rischio, interessato al mero ritorno sull’investimento effettuato (il socio egoista): un finanziatore che, a crisi conclamata, legittimamente potrebbe essere posto sul medesimo piano – quanto alla contendibilità della posizione di proprietà – con gli altri finanziatori dell’impresa (i creditori) e come essi, e con essi, da soddisfarsi partecipando, in via solidale, al sacrificio causato dalla discontinuità aziendale nel quale l’impresa sia caduta. Nell’altro caso, quello delle società chiuse, sarebbe invece la posizione di socio protagonista a giustificare la demolizione della partecipazione societaria detenuta da chi, nella veste di (co-)amministratore ben avrebbe potuto e dovuto organizzarsi, prima, e attivarsi poi, per prevenire, evitare e poi gestire e superare la crisi, assumendo i necessari provvedimenti sul piano patrimoniale, economico o finanziario, ovvero accedendo alla panoplia dei percorsi e strumenti che il codice della crisi offre per (salvaguardare e) coniugare la continuità dell’impresa con la conservazione dei diritti corporativi.
A ben vedere, però, si potrebbe (e forse si dovrebbe) muovere un passo ulteriore, proprio in coerenza con le coordinate ‘geografiche’ che si sono tracciate nelle pagine precedenti, e riconoscere come una siffatta lettura sarebbe comunque di ‘retroguardia’ nella misura in cui condotta utilizzando le sole lenti del diritto societario tradizionale. In altri termini, si dovrebbe infatti riconoscere come ad aver assunto la prevalenza sia il diritto dell’impresa e del mercato dei capitali rispetto a quello societario (e, se si vuole, del diritto privato degli enti). Quello che le norme in esame affermano, e molte altre prime di loro, è che oggi “essere soci” è oramai solo un certo modo di finanziare l’impresa, senza appartenenze, né titolarità. Un certo modo che si riduce all’essere il residual claimant di un patrimonio, fintanto che quest’ultimo sia in grado di essere produttivo e di sostenersi da sé. Se si vuole, con tutte le cautele del caso, si potrebbe dire che, come avvenuto qualche decennio fa con riguardo all’istituto della personalità giuridica, si viene (oggi) a scoprire che anche il codice organizzativo societario costituisca esclusivamente una costruzione giuridica per risolvere un problema (in questo caso non di imputazione, ma) di distribuzione del rischio.
6 . La cartografia del possibile statuto dei diritti dei soci nelle società in crisi
La cartografia che l’ideale mappa che si sta abbozzando ci lascia intravedere muove dunque nella direzione che, in presenza della crisi, abbia luogo un radicale mutamento nei paradigmi che governano la titolarità e la conformazione degli assetti proprietari e amministrativi: in primo luogo dacché, per un verso, ne affievoliscono la relativa natura e tutela, muovendo dal piano reale a quello risarcitorio; in secondo luogo, perché, per un altro verso, li trasformano da diritti societari in diritti concorsuali e ne affidano la salvaguardia agli strumenti propri degli istituti volti al superamento e alla soluzione della crisi d’impresa.
Il che – e veniamo così agli ultimi due profili con i quali si chiudono le presenti riflessioni – avrebbe immediate conseguenze sul piano dell’interpretazione e dell’applicazione delle norme, non pienamente perspicue e non opportunamente coordinate, come si annotava in esordio, contenute nella Sezione VI-bis del codice della crisi. In altri termini, proprio portando alle conseguenze ultime la rotta apparentemente tracciata dalla mappa sin qui declinata, verrebbero ad emergere alcuni, immediati, corollari applicativi. 
Segnatamente, e senza alcuna pretesa di completezza, con riguardo a due ordini di problemi. Il primo relativo al quesito se e in che misura la Sezione in parola e le misure e i rimedi in essa previsti si pongano come alternativi (sostitutivi) rispetto ai tradizionali strumenti di tutela cui il socio, dissenziente rispetto alla riorganizzazione degli assetti societari, potrebbe fare ricorso rispetto agli atti sociali a ciò funzionali, per inibirne in radice l’implementazione o quanto meno per reclamare la propria libertà e uscire dal capitale della società debitrice.
Il secondo ordine di problemi è quale sia la natura e l’entità del plusvalore da risanamento cui il socio – quello originariamente tale prima dell’epifania della crisi – potrebbe aspirare, sia pur attraverso la negoziazione (in buona fede e solidaristica) con il ceto creditorio.
Quanto al primo ordine di questioni, una domanda iniziale cui dare risposta sarebbe quella se il socio abbia ancora – in presenza della crisi e ad accesso allo strumento di regolazione della crisi avvenuto – il potere di contestare, tramite l’impugnazione ai sensi degli articoli 2377 e seguenti e dell’art. 2388, comma 4, c.c., le decisioni assunte dall’organo amministrativo, su due diversi piani [21].
Il primo è quello che si pone in diretta interferenza con l’art. 120 bis del codice sopra citato e, in particolare, alla decisione con cui l’organo amministrativo addivenga alla determinazione di accedere a uno strumento di regolazione della crisi. Il secondo attiene invece a un momento successivo e va ad impingere sulla possibilità di sindacare la validità delle deliberazioni e degli atti sociali funzionali alle operazioni straordinarie (trasformazione, fusione o scissione).
Su ambedue i piani il diritto societario – quanto meno nel caso di società per azioni – consentirebbe ai soci di impugnare le deliberazioni del consiglio di amministrazione «lesive dei loro diritti». Il diritto societario in presenza della crisi parrebbe procedere in direzione diversa: infatti, seguendo la nuova bussola, legittimo sarebbe inferire il dubbio che l’eventuale contrarietà non si debba necessariamente spostare al di fuori dell’ente societario e sul piano della mera convenienza in forma di opposizione all’omologazione ai sensi dell’art. 120 ter, comma 4. E ciò in ragione di una duplice circostanza.
Quanto infatti al primo livello cui si faceva poc’anzi cenno, è proprio la lettura sinottica delle due norme, quella del codice civile (art. 2388) e quella del codice della crisi (art. 120 bis) a escludere che la decisione di accedere allo strumento di regolazione della crisi (possa essere considerata e) sia di per sé potenzialmente lesiva dei diritti dei soci: tanto che il piano, a supporto dello strumento di regolazione della crisi può prevedere aumenti, riduzioni o altre modifiche statutarie «che incidono direttamente» – in senso peggiorativo se non finanche, erosivo – « sui diritti dei soci».
Quanto al secondo livello – quello attinente alla deliberazione delle misure esecutive, anche sotto forma di operazioni straordinarie – il codice della crisi è puntuale sul piano testuale, là ove ha cura di conservare (anche) all’interno della procedura relativa allo strumento di regolazione avviato un diritto di contestazione rispetto a siffatte operazioni straordinarie – sotto forma di censura della loro validità – in capo ai soli creditori sociali (art. 116, co 1). E, dunque, non già ai soci cui non dovrebbe essere consentito di ostacolare o impedire irragionevolmente, così recita la Direttiva Insolvency, il successo della misura destinata a perseguire il risanamento dell’impresa: irragionevolezza che, si potrebbe rilevare, non sussisterebbe nella misura in cui ai soci siano assicurati presidi alternativi.
Ancora, a fronte di quanto statuito nel più volte citato art. 120 bis, comma 2, e alla possibilità che il piano alla base dello strumento di regolazione della crisi possa prevedere interventi radicali sull’organizzazione finanziaria della società debitrice e dunque sui relativi diritti corporativi e sulla conseguente configurazione delle partecipazioni sociali, verrebbe da muovere a un ulteriore corollario: quello secondo cui, anche nelle imprese organizzate in forma di società a responsabilità limitata, allorquando la riorganizzazione che dovesse aver luogo in funzione del superiore interesse al superamento della crisi e alla conservazione della continuità aziendale, attraverso operazioni sul capitale sociale, l’art. 2482 quater, c.c., là ove statuisce che «in tutti i casi di riduzione del capitale per perdite è esclusa ogni modificazione delle quote di partecipazione e dei diritti spettanti ai soci» sia destinato a divenire una norma recessiva e come tale non applicabile nelle ipotesi di modificazioni statutarie decise dall’organo amministrativo all’interno e in funzione di un piano a fondamento di uno strumento di regolazione della crisi ().
Altro istituto volto a dare voce ai soci dissenzienti nelle società lontane dalla crisi e costituito dal diritto di recesso spettante al socio, nel caso di società per azioni, che non abbia concorso alle deliberazioni riguardanti le modificazioni dello statuto concernenti i diritti di voto o di partecipazione [art. 2437, comma 1, lett. g), c.c.], viene a porsi in ideale disallineamento con lo ‘statuto’ della società in presenza della crisi. Ancorché – e qui emerge quel difetto di puntualità e di coordinamento del dato testuale – il codice della crisi, da un canto, appaia poco attento a quanto statuito dalla norma del codice testé citata, là ove all’art. 120 bis, comma 2, si riferisce genericamente (e forse, verrebbe da dire, in via onnicomprensiva) ai diritti di partecipazione del socio, mentre l’art. 2437, alla lettera g), distingue questi ultimi dal diritto di voto [22], e, dall’altro canto, espressamente sterilizza il diritto di recesso del socio con riferimento alle sole operazioni straordinarie (si veda l’ultimo comma dell’art. 116) [23]. Al riguardo, si potrebbe infatti obiettare come al diritto di ‘uscita’, assicurato al socio dalla legge nelle ipotesi di società non in crisi, lo statuto speciale che entra in vigore al manifestarsi della crisi sostituisca invece il diritto di ‘partecipazione’ al processo di approvazione (e di omologazione) dello strumento di regolazione della crisi, segnatamente mercé l’inserimento obbligatorio del socio che subisca la modifica diretta dei propri diritti corporativi in una classe (art. 120 ter, comma 2).
D’altro canto, quand’anche si dovesse riconoscere la persistenza in capo al socio del diritto di recesso, rimarrebbe aperta un’altra questione: quella relativa al valore di liquidazione da assegnare e alla verifica se, in presenza della crisi, possano valere i medesimi criteri applicabili, secondo le norme di legge ovvero anche secondo l’eventuale disciplina declinata a livello di statuto, in assenza della crisi ovvero se non si debbano applicare criteri alternativi, anche in deroga al principio, generalmente ritenuto imperativo, di assicurare al socio uscente una soglia minima di liquidazione [24].
Più in generale, a dover essere affrontata è una questione che – si potrebbe dire – sta in monte e che è quella che attiene al diritto dei soci (di quelli che sono tali prima dell’aprirsi della crisi) a “disporre del contratto sociale” stesso, per mutuare la formula che si rinviene in una recentissima massima notarile della Commissione Società del Triveneto, la numero P.B.3 (Adozione della decisione di scioglimento durante il procedimento di accesso ad uno strumento di regolazione della crisi) dell’ottobre del 2023. Massima che, nell’interrogarsi sulla portata della disciplina di cui alla Sezione VI bis e segnatamente sulla sua incidenza in ordine all’assetto delle competenze decisionali nei codici organizzativi societari, giunge alla conclusione secondo la quale sarebbe legittima l’adozione da parte dei soci della decisione di scioglimento anticipato della società e di nomina dei liquidatori anche in pendenza del procedimento di accesso a uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza. E ciò sulla base di due assunti: quello secondo cui le norme in parola avrebbero carattere eccezionale e dovrebbero essere interpretate (e applicate) in stretta aderenza al principio enunciato dalla Direttiva Insolvency nell’art. 12, in precedenza citato, al fine di evitare che una lettura estensiva possa condurre di fatto «a una sorta di “esproprio” della società in crisi in danno dei suoi soci, che dunque ne perdono il controllo, e a vantaggio dei suoi creditori, degli stakeholders e del sistema economico in generale con il conseguente obbligo per gli amministratori di gestirla nell’esclusivo interesse di questi ultimi». Il secondo assunto, poi, è quello secondo cui «le disposizioni commento hanno quindi una portata specifica e non di sistema, non sono volte a sottrarre ai soci la loro società ma molto più banalmente a limitare il rischio di mancata esecuzione del piano per contrarietà o disinteresse di questi ultimi» (enfasi aggiunta, n.d.a.). E di qui, pertanto, l’apodosi secondo cui gli articoli 120 bis e seguenti del codice della crisi avrebbero quali condizioni di applicazione il coinvolgimento di una società operativa dotata di un organo amministrativo che abbia, a sua volta, l’obbligo di recuperare la continuità aziendale. Condizioni di cui i soci, ancorché l’impresa esercitata dalla società sia in crisi, potrebbero legittimamente disporre deliberando lo scioglimento e la messa in liquidazione della società, facendo venir meno in questo modo l’obbligo della ricerca della continuità aziendale. Tuttavia, proprio le coordinate di sistema di cui si è detto nelle pagine precedenti portano in una direzione affatto diversa: la società, intesa quale codice organizzativo, con i relativi diritti corporativi, per l’esercizio dell’attività d’impresa, in presenza della crisi, diviene oggetto e strumento a servizio dello strumento di regolazione della crisi dell’impresa (non della società). Oggetto e strumento funzionali al buon esito dell’intervento di risanamento con il fine primario e prioritario, per quanto fattivamente possibile, della persecuzione della continuità dell’impresa medesima. Continuità dell’impresa che, a sua volta, è valore imperativo predominante rispetto a tutti coloro che abbiano finanziato l’impresa e dunque anche rispetto ai soci cui, la presenza della crisi, nella misura in cui la conservazione della continuità fosse percorribile, il sistema post codice della crisi imporrebbe l’obbligo «di proseguire l’attività economica intrapresa anche contro la loro volontà» (sempre per mutuare le parole della massima in esame. 
La competenza poi a decidere se e in che misura sia percorribile un percorso di ristrutturazione finanziaria funzionale al recupero e alla conservazione della continuità aziendale è di pertinenza esclusiva dell’organo amministrativo che per ciò solo (vale a dire per una decisione di accesso a uno strumento in chiave di continuità) non può infatti essere sfiduciato e revocato e verso il quale, semmai e al più, i soci, dissenzienti o riottosi, potranno rivolgere istanze di carattere risarcitorio ovvero, come si annotava in precedenza, reagire, in via reale, solo all’interno della procedura avviata con l’accesso a uno strumento di regolazione della crisi.
A propria volta, sempre la regola del necessario classamento dei soci, trascina con sé due distinti interrogativi. Uno è quello che concerne la natura delle modificazioni che incidano sui diritti di partecipazione cui fa riferimento la norma da ultimo citata; l’opzione è infatti tra l’obbligatorietà della classe ogni qual volta vi sia un’operazione straordinaria che ‘alteri’ o ‘modifichi’ le posizioni dei soci ovvero solo quando occorra una modificazione che incida, come afferma il dettato testuale, direttamente sui diritti dei soci. Una lettura che voglia preservare la centralità dei soci dovrebbe condurre verso la prima soluzione [25]. Per vero, l’art. 120 bis, comma 2, distingue tra «modificazioni dello statuto» e «modificazioni che incidono direttamente sui diritti di partecipazione dei soci»; purtuttavia, vuoi in linea con la mappa in precedenza tracciata, vuoi anche con il dettato testuale della norma in parola, parrebbe doversi indirizzare verso la seconda opzione. E infatti le modificazioni cui si fa riferimento vengono immediatamente dopo le operazioni di «aumento e riduzione del capitale con esclusione o limitazione del diritto di opzione» e «altre modificazioni» nonché appena prima del riferimento alle «fusioni, scissioni o trasformazioni». Tutte operazioni che passano necessariamente per delle modificazioni dello statuto e che dunque possono dare conferma del fatto che l’avverbio sopra citato circoscriva l’applicazione della regola del classamento alle sole modificazioni, stabili e non mediate o di riflesso, sostanzialmente come avviene per le ipotesi di cui all’art. 2376 c.c. con le assemblee speciali di categoria. Per contro, al fine di assicurare la possibilità per i soci di accedere alla tutela costituita dal loro coinvolgimento nel processo decisionale relativo all’approvazione della proposta avanzata con lo strumento di regolazione della crisi, si dovrebbe concludere per una lettura estensiva della norma e intendere il riferimento ai diritti di partecipazione come sintagma onnicomprensivo e dunque inclusivo anche delle modifiche ai diritti di voto che viceversa l’art. 2437, comma 1, lett. g), tiene separati.
Un secondo interrogativo che nasce è poi quello di combinare gli articoli 120 bis, 102 ter e 120 quater, là ove il primo e l’ultimo fanno riferimento, rispettivamente, il primo alla categoria degli «strumenti di regolazione della crisi», il secondo ai «concordati preventivi in continuità», mentre la seconda norma si limita solo a disciplinare la formazione delle classi. La domanda è allora quella di cosa succeda nell’ipotesi di strumenti di regolazione che non prevedano una procedura di voto sotto il controllo del Tribunale, qual è l’accordo di ristrutturazione: in altri termini, se un siffatto strumento possa essere utilizzato anche allorquando l’operazione di ristrutturazione del debito possa realizzarsi soltanto per il tramite di un intervento di riorganizzazione corporativa che possa ledere direttamente i diritti dei soci. Nel caso di risposta affermativa, a prevalere sarebbe l’istanza del risanamento: i soci non potrebbero godere neppure della (nuova) forma di voce extra-sociale e dovrebbero quindi rinvenire la loro tutela solo sul piano della mera opposizione all’omologazione dello strumento (artt. 48, comma 2, e 120 quater, comma 4) e, a livello societario, solo in termini di strumento risarcitorio. Tra l’altro, una risposta negativa verrebbe a limitare fortemente l’autonomia e la competenza decisionali dell’organo amministrativo dell’impresa societaria, cui la legge affida il potere e il dovere di muoversi con lungimiranza, con anticipo e nel rispetto della condizione di legittimazione all’esercizio dell’attività economica di cui si è detto in precedenza e che trova la propria declinazione, sul piano normativo, nel combinato sinottico dell’art. 2086 c.c. e degli articoli 3 e 4 nonché 120 bis del codice della crisi.
7 . Tra il socio “riottoso” e il socio “parassitario”: quale ricchezza da contendersi con i creditori sociali?
E veniamo così al secondo ordine di problemi sopra evidenziato e relativo al plusvalore da risanamento cui il socio – quello originariamente tale prima dell’epifania della crisi – potrebbe aspirare, sia pur attraverso la negoziazione (in buona fede e solidaristica) con il ceto creditorio. 
Il nodo gordiano da sciogliere è dunque quello del confine che si deve tracciare tra la necessità di evitare il socio “riottoso”, che assuma cioè atteggiamenti ostili rispetto al risanamento dell’impresa, e di non favorire il socio “parassitario”, quello che possa invece scaricare il rischio e l’onere del risanamento medesimo sulle sole spalle degli stakeholder: dopo tutto, i punti cardinali evidenziati in principio segnano la necessità di una gestione solidaristica della crisi, nella quale tutti i finanziatori sono chiamati a farsi carico della crisi e del suo superamento. In estrema sintesi, quindi, è da definire quale sia la ricchezza che possa essere riservata ai soci e rispetto alla quale segnare l’entità del sacrificio prospettabile ai (e negoziabile con i) creditori sociali, posto che, per converso, quanto alla ricchezza da poter essere sottratta, l’art. 120 bis, comma 2, è reciso nell’affermare che siano legittimi interventi sul capitale con azzeramento e ricostituzione con anche totale esclusione di ogni diritto di opzione o sottoscrizione e senza richiedere il rispetto delle condizioni di cui, segnatamente, all’art. 2441 c.c., tra cui l’obbligatorietà del sopraprezzo.
Al riguardo, già altri [26] ha fatto notare come vi siano nel codice della crisi tre distinte nozioni di ricchezza che, nelle procedure a carattere concorsuale, e dunque al di fuori degli strumenti di regolazione della crisi di natura strettamente volontaria, debbono essere prese in considerazione e come una sola sia poi quella cui fare riferimento ai fini dell’art. 120 quater
La prima è il «valore di liquidazione» (art. 84, comma 6, del codice della crisi): si tratta di una grandezza integralmente soggetta alla regola dell’Absolute Priority Rule e come tale destinata, esclusivamente, ai creditori sociali, in linea con la natura di residual claimant spettante ai soci (cfr. gli articoli 84, comma 6, del codice della crisi e 2491, c.c.). Vi è poi il «valore eccedente» quello di liquidazione (art. 84), che è pari alla grandezza differenziale tra i flussi finanziari netti prodotti dalla gestione dell’impresa nell’arco del piano a servizio dell’indebitamento concorsuale/concordatario e il valore di liquidazione testé indicato. Una grandezza sottratta alla regola sopra citata e gestibile invece per il tramite della Relative Priority Rule in favore dei creditori sociali, ma non già dei soci. Infine, la terza ricchezza – quella da prendere in considerazione nell’ambito dell’art. 120 quater – è quella costituita dal «valore risultante dalla ristrutturazione», interamente assoggettabile alla regola da ultimo citata in favore anche (ma non solo) dei (soli) soci anteriori (e non già quelli successivi rispetto) alla presentazione della domanda, insieme ai creditori [27]. 
E difatti, mentre l’art. 84, comma 3, del codice della crisi si esprime nei seguenti termini «nel concordato in continuità aziendale i creditori vengono soddisfatti in misura anche non prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale diretta o indiretta», l’art. 120 quater, con riferimento al valore risultante dalla ristrutturazione destinabile ai soci, precisa che di esso solo una parte, e non il tutto, possa essere riservato ai soci: quella parte cioè costituita dal «valore effettivo, conseguente all’omologazione della proposta, delle loro partecipazioni e degli strumenti che attribuiscono il diritto di acquisirle, dedotto il valore eventualmente apportato ai fini della ristrutturazione in forma di conferimenti o di versamenti a fondo perduto, oppure, per le imprese minori, anche in altra forma» (enfasi aggiunta, n.d.a.). E, sulla stessa lunghezza d’onda, anche l’art. 285 del codice della crisi, al comma 5, parla di «pregiudizio arrecato alla redditività e al valore della partecipazione sociale dalle operazioni di cui ai commi 1 e 2» (enfasi aggiunta, n.d.a.) [28].
Per un verso, quindi, la quota di ricchezza non contendibile (con i e) da parte dei creditori sociali è costituita dai soli conferimenti o apporti a fondo perduto funzionalmente effettuati in esecuzione del concordato ovvero eseguiti in corso di esecuzione di concordato successivamente alla presentazione del ricorso ai sensi dell’art. 40, del codice della crisi: al di fuori di essa e dunque non ex lege riservati ai soci, rimangono quindi tutti quei contributi o finanziamenti eseguiti in tempi antecedenti o comunque senza una diretta connessione teleologica con l’intervento a sostegno della continuità aziendale e del superamento della crisi. Per un altro verso, la ricchezza riservabile ai soci non può consistere in assegnazione di somme, di riserve o traslazione di risorse [29], ma può realizzarsi solo sotto forma di conservazione (del valore) della partecipazione e dunque in termini di operazione algebrica di grandezze di ordine patrimoniale (al netto del valore apportato sempre al patrimonio dal socio), il tutto – va nuovamente puntualizzato – solo all’interno di concordati preventivi in forma di continuità diretta [30].
La norma in esame precisa che di valore ‘effettivo’ deve trattarsi: parrebbe dunque non potersi esaurire nella ricostruzione del profilo meramente nominale della partecipazione quale frazione del patrimonio netto contabile; quanto piuttosto dovrebbe realizzarsi sotto forma di grandezza che rifletta il valore reale della quota sociale. Se così è, il possibile parametro cui fare riferimento potrebbe allora essere quello tracciato dall’art. 2437 ter, comma 2, c.c. relativamente alla determinazione del valore di liquidazione della quota di partecipazione in caso di recesso del socio. Dopo tutto, la norma in esame è proprio quella che fissa la soglia – tra l’altro, inderogabile e indisponibile, secondo la giurisprudenza dominante [31] – cui fare riferimento nella determinazione del valore minimo di realizzo cui avrebbe diritto chi abbia effettuato un investimento in equity ogni qual volta abbia luogo un’ipotesi di forzosa (e forzata) estromissione dal capitale sociale. 
E in questo modo, nel caso dell’uscita a causa di una ristrutturazione dell’indebitamento, arrivare così a prendere in considerazione – sempre al netto dei conferimenti e degli apporti a fondo perduto eseguiti ai fini della ristrutturazione – il capitale economico dell’azienda della società in crisi, da declinarsi in relazione alle tre voci di riferimento declinate dalla norma testé citata: la situazione patrimoniale (non da bilancio) della società, le sue prospettive reddituali e il valore di mercato delle partecipazioni [32]. 
Voci che andranno a loro volta valutate e quantificate non già in chiave statica ma secondo un approccio dinamico, prendendo a riferimento l’intero orizzonte del piano a sostegno dell’intervento di risanamento e dunque volgendo lo sguardo ai possibili effetti conseguenti non solo immediatamente al momento dell’omologazione, ma anche alle possibili (e future) prospettive reddituali della partecipazione societaria conservata dalla proprietà anteriore alla crisi. Il tutto, dedotto poi il valore dei conferimenti a patrimonio e degli apporti a fondo perduto eseguiti dai soci a servizio dell’intervento di ristrutturazione nonché del valore dei flussi di cassa derivanti dalla continuità o dal realizzo di asset aziendali, convenzionalmente riconosciuti in via antergata ai creditori sociali rispetto ai soci medesimi [33].
Un’allocazione di ricchezza che, tuttavia, non costituisce un diritto assoluto per i soci stessi, ma che, come più volte ricordato, è solo lo strumento (mezzo e non fine ultimo) che la legge acconsente al fine di incentivare i soci a non ostacolare e ritardare l’intervento di risanamento dell’impresa e che, nella sua effettiva apprensione, può essere solo il frutto di una negoziazione con i creditori sociali. Tant’è che la quantificazione e l’allocazione sono soggette alla prova di resistenza rappresentata dall’eventuale dissenso dei creditori medesimi, secondo le due distinte – e non certo agevoli nella loro gestione concreta – ipotesi, previste nell’art. 120 quater: la prima, allorquando la classe dissenziente trovi altre classi di creditori consenzienti di rango inferiore e la seconda, allorquando la classe dissenziente sia di grado più basso, non essendovi altri creditori di rango pari o inferiore. 
Si tratta di due distinte situazioni nelle quali la prova di resistenza deve essere condotta in modo differente e certamente non semplice [34]. Nella prima, in cui, in ultima analisi, si assisterebbe a una (simulata) risalita di ricchezza nel rispetto della Absolute Prority Rule e di successiva verifica poi del rispetto della Relative Priority Rule: l’omologazione del concordato sarebbe infatti subordinata alla circostanza che il grado di soddisfacimento “in termini percentuali” proposto a ciascuna delle classi eventualmente dissenzienti sia almeno altrettanto favorevole rispetto a quello proposto, sempre in termini percentuali, alle classi del medesimo rango e più favorevole di quello proposto alle classi di rango inferiore, anche quando a tali classi venisse destinato il valore complessivamente riservato ai soci. In questo caso, dunque, fattori determinanti l’esito finale sarebbero sia il grado di soddisfazione inizialmente proposto quanto la consistenza numerica delle classi.
Nella seconda invece, l’omologazione è subordinata al valore – in questo caso “in termini assoluti” (e non più percentuali) – destinato al soddisfacimento dei creditori appartenenti alla classe dissenziente e alla circostanza che lo stesso sia superiore a quello complessivamente riservato ai soci, con una comparazione dunque operata tra la dimensione della classe rispetto al valore riservato ai soci [35].
8 . Alcune chiose conclusive
Qualche battuta finale. Indubbiamente quanto testé commentato rappresenta un sistema barocco, condizionato da elementi di incertezza, in particolare nel calcolo e nella comparazione delle diverse grandezze, non sempre omogenee, da prendere a riferimento che forse si sarebbe potuto gestire, in maniera più lineare e forse anche più efficace, rispetto all’obiettivo ultimo di assicurare quella gestione, tra finanziatori dell’impresa sociale, collaborativa e solidale del rischio della crisi e dell’allocazione dei relativi costi, attraverso un sistema di opzioni call sulle partecipazioni rimaste in capo alla old property a favore dei creditori sociali a fronte del pagamento di un corrispettivo pari al valore degli apporti eseguiti da soci ().
Si tratta altresì di un sistema che pur potrebbe anche avere, come da taluno scritto [36], un effetto incentivante ai soci a intervenire a supporto del piano concordatario, sulla base però – va aggiunto – della condizione indispensabile che i soci stessi abbiano un’informazione piena quanto tempestiva della situazione nella quale sono chiamati a intervenire. Anzi, si potrebbe aggiungere che una delle doti che si potrebbero tributare alla disciplina sin qui esaminata, potrebbe proprio essere quella di, indirettamente, spingere la proprietà – e, quindi, nelle PMI italiane, anche il management stesso – ad atteggiamenti e determinazioni virtuosi, quanto tempestivi, nella considerazione, nella previsione e nella gestione del rischio della crisi d’impresa, promuovendo così vuoi, ab origine, l’adozione di assetti organizzativi adeguati [37], vuoi, in prossimità della crisi, l’attivazione di interventi, sul patrimonio sociale, e di percorsi, quali primo fra tutti la composizione negoziata della crisi, quale strumento capace di aprire, in ingresso, una gestione della crisi anticipata quanto prodromica a una soluzione della stessa, in uscita, attraverso una panoplia diversificata di possibili esiti risolutori, alternativi a ristrutturazioni finanziarie necessariamente accompagnate da riorganizzazioni corporative.
Si tratta tuttavia, e in ogni caso, – e qui torniamo alle condizioni cui si faceva riferimento nelle pagine precedenti – di un sistema che, se non attentamente governato, si presta facilmente a possibili abusi. Abusi segnatamente dal lato del debitore società, quali, giusto per dare un qualche esempio, la possibilità di indebiti arbitraggi nella formazione delle classi e di influenza sul meccanismo delle maggioranze (o forse si dovrebbe precisare minoranze) necessarie per l’approvazione delle proposte di concordato in continuità se è vero che esso non richiede il voto favorevole né della maggioranza dei creditori (art. 109, comma 5) né della maggioranza delle classi (art. 112, comma 2).
Ovvero ancora – nel tentativo ad opera dei soci di perseguire rendite ‘parassitarie’ – posto che la riserva di ricchezza da risanamento è normativamente disciplinata, con tutti i limiti e le condizioni sopra evocati, nelle sole ipotesi di concordati preventivi in continuità diretta, si potrebbero anche ipotizzare operazioni nelle quali il fine ultimo sarebbe proprio quello di aggirare il confronto e la contesa con i creditori mercé la prospettazione di una continuità, solo formalmente, indiretta. 
A tal proposito, va rilevato come l’art. 84, comma 2, del codice, con riferimento al concordato in continuità indiretta testualmente faccia riferimento, in via del tutto generica, a «soggetto diverso dal debitore». Dal che la domanda cui occorre dare una risposta è se una siffatta alterità sia da leggersi in chiave meramente e formalmente soggettiva e dunque attraverso il prisma della semplice soggettività giuridica, nel caso di impresa societaria, dell’entità deputata a continuare l’attività di impresa, ovvero se essa (l’alterità) non sia invece da declinarsi in chiave sostanzialistica e richiedere quindi che, per così dire, l’UBO (Ultimate Beneficial Owner) dell’impresa sia realmente distinto e diverso rispetto ai soci anteriori. 
Dopo tutto, se è vero quanto si rilevava in precedenza con riguardo alla conversione cui vanno incontro – in presenza della crisi – le partecipazioni sociali le quali divengono da proprietà dominicale statica a posizioni dinamicamente pertinenti al patrimonio dell’impresa e come tali strumenti/oggetti di soluzione della crisi dell’impresa medesima, si potrebbe coerentemente argomentare che un’analoga lettura andrebbe adottata anche nell’individuare il contenuto dell’alterità soggettiva e dunque ritenere che le ipotesi di concordati in continuità indiretta possano (e debbano) riconoscersi solo in presenza di una reale soluzione di continuità negli assetti proprietari e nei relativi diritti corporativi. E dunque con compagini sociali, assetti proprietari e organizzativi, irrelati. Altrimenti opinando, sarebbe agevole per i soci creare degli schermi societari, veicolo, appositamente destinati a presentarsi come entità formalmente distinte rispetto all’old equity ma, nella sostanza, alla stessa, in ultima analisi, riconducibili. Così da scaricare integralmente il costo del risanamento sui creditori e beneficiare invece di un complesso aziendale e imprenditoriale risanato, aggirando così quel principio di sacrificio solidale partecipativo.

Note:

[1] 
Per una disamina della disciplina in parola, si vedano, tra i principali contributi: M. Perrino, “Relative priority rule” e diritti dei soci nel concordato preventivo in continuità; in Dirittodellacrisi.it, 12 dicembre 2022; A. Nigro, La nuova disciplina degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza delle società, in Ristrutturazioni Aziendali, 11 ottobre 2022; A. Rossi, I soci nella regolazione della crisi della società debitrice, in Ristrutturazioni Aziendali, 22 settembre 2022; B. Inzitari, Le mobili frontiere della responsabilità patrimoniale: distribuzione del valore tra creditori e soci nel concordato in continuità secondo la negozialità concorsuale del codice della crisi, in Dirittodellacrisi.it, 27 febbraio 2023, 35 ss.; M. Arato, Il confine dell’utilità economicamente rilevante: l’attribuzione di azioni e strumenti finanziari partecipativi, ivi, 7 ottobre 2022; R. Brogi, I soci e gli strumenti di regolazione della crisi, in Il Fall., 10/2002, 1290 ss.; L. Bottai, A. Pezzano, M. Ratti, M. Spadaro, Il concordato con attribuzione ai soci: criticità e prospettive del nuovo art. 120 quater CCII, in Dirittodellacrisi.it, 8 novembre 2022; R. Lener, Considerazioni intorno al plusvalore da continuità e alla “distribuzione” del patrimonio (tra regole di priorità assoluta e regole di priorità relativa), in Dirittodellacrisi.it, 31 gennaio 2022.
Con uno sguardo esteso al dibattito intervenuto, a livello domestico e prima del recente intervento normativo, si v.: G. Ferri jr., Il ruolo dei soci nella ristrutturazione finanziaria dell’impresa alla luce di una recente proposta di direttiva europea, in Dir. fall., 2018, I, 531 ss.; D. Vattermoli, Concordato in continuità aziendale, Absolute Priority Rule e New Value Exception, in Riv. dir. comm., 2014, I, 352 ss.; Id., La posizione dei soci nelle ristrutturazioni. Dal principio di neutralità organizzativa alla residual owner doctrine, in Riv. soc., 2018, 858 ss.; A. Santoni, Gli azionisti e i detentori di capitale nella proposta di direttiva in materia di crisi d’impresa, in Riv. dir. comm., 2018, I, 354 ss.; M.S. Spolidoro, Note critiche sulla ‘gestione di impresa’ nel nuovo art. 2086 c.c. (con una postilla sul ruolo dei soci), in Riv. Soc., 2019, 253 ss.; G. D’Attore, Ricchezza del risanamento imprenditoriale e sua destinazione, in Il Fall., 10/2017, 1015 ss.; Id., Le regole di distribuzione del valore, in Il Fall., 10/2022, 1228 ss. e Id., Le utilità conseguite con l’esecuzione del concordato in continuità spettano solo ai creditori o anche al debitore?, a commento di Trib. Firenze, 2 novembre 2016, in Il Fallimento, 2017, 313 ss., cui adde L. Stanghellini, Verso uno statuto dei diritti dei soci di società in crisi, in RDS, 2020, 295 ss. Per ulteriori riferimenti, v. anche F. Viola, Rapporti tra creditori e tra soci e creditori nella distribuzione del patrimonio di società in concordato preventivo, tra priorità assoluta e relativa, in Orizzonti del diritto commerciale, 2020, 841 ss..
[2] 
In vero quasi tutti gli autori che si sono occupati della disciplina, hanno espresso perplessità e giudizi non entusiasti; particolarmente critici al riguardo: A. Nigro, La nuova disciplina, cit., 15; M.S. Spolidoro, I soci dopo l’accesso a uno strumento di regolazione della crisi, in Riv. Soc., 2022, 1254 ss.; D. Galletti, Regole di priorità e distribuzione del plusvalore concordataria: due passi indietro ed un’occasione importante perduta, in ilfallimentarista.it, 6 aprile 2022.
[3] 
Cfr., da ultimo, M. Fabiani, Effetti dell’autonomia del diritto della crisi tra un breve catalogo dei principi e delle clausole generali e il nuovo lessico del Codice, in Dirittodellacrisi.it, 5 ottobre 2023, 5, secondo cui ad essere in gioco è “(…) non il diritto societario della crisi ma il diritto della crisi nelle società”. Sulla questione, cfr., per tutti, P. Montalenti, Diritto dell’impresa in crisi, diritto societario concorsuale, diritto societario della crisi: appunti, in Giur. comm., 2018, 62 s. Sul sintagma ‘diritto societario della crisi’ e sulle sue effettive consistenza e portanza, v.: U. Tombari, Principi e problemi di “diritto societario della crisi”, in Diritto societario e crisi di impresa, in U. Tombari, Torino, 2014, 5 ss.; G.B. Portale, Verso un “diritto societario della crisi?, ivi, 1 ss.; . R. Sacchi, Sul così detto diritto societario della crisi: una categoria concettuale o dannosa, in Nuove leggi civ. comm., 2018, 1280 ss., cui mi permetto di aggiungere P. Benazzo, Crisi d’impresa, soluzioni concordate e capitale sociale, in Riv. Soc., 2016, 241 ss. Adde altresì, anche per ulteriori riferimenti bibliografici, S. Fortunato, Codice della crisi e Codice civile: impresa, assetti organizzativi e responsabilità, in Riv. Soc., 2019, 952 ss., 957 e ivi nota 15. 
[4] 
Cfr. le lucide, come sempre, annotazioni di L. Stanghellini, Verso uno statuto, cit., 298 ss.
[5] 
Cfr. P. Benazzo, Gli assetti proprietari e la circolazione delle partecipazioni sociali nel prisma del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Riv. Soc., 2023, 8 ss. Sul tema, v. anche il lavoro monografico di F. Sudiero, La tutela risarcitoria del socio tra danno diretto e danno riflesso, Torino, 2020, passim. Adde, da ultimo, Trib. Milano, 18 novembre 2021, n. 9505, con esauriente nota non solo di commento di L. Muttini, La responsabilità diretta dell’amministratore di società verso i singoli soci e i terzi: questioni applicative nel prisma della giurisprudenza del Tribunale di Milano, in Resp. civ. e prev., 2022, 5, 1642 ss., ove anche ulteriori riferimenti bibliografici. Ritiene invece che il ricorso all’art. 2395 c.c. costituisca una “prospettiva poco realistica” F. Guerrera, L’espansione, cit., 1288 s. 
[6] 
Sul punto, v. A. Rossi, I soci, cit., 17 s. 
[7] 
Sul punto v. S. Patriarca – P. Benazzo, Diritto delle imprese e delle società, Zanichelli, 2022, 3. Questione complessa e certamente di non agevole definizione, quanto meno in codesta sede, è poi quella relativo all’interrogativo se il rispetto dei valori costituzionali sia lasciato al prudente apprezzamento dell’impresa e segnatamente dell’organo amministrativo, ovvero sia assicurato mediante l’osservanza alle previsioni normative o amministrative degli organi dello Stato o delle Regioni (nonché, a livello sovranazionale, della UE). Il nodo da sciogliere, in buna sostanza, è se si tratti di un rispetto diretto, come lo è quello della sostenibilità finanziaria, o (solo) intermediato. Sul punto, per tutti, cfr. pure: V. Minervini, Composizione negoziata, norme unionali e (nuovo) Codice della crisi, in Dirittodellacrisi.it, 30 marzo 2022; M. Fabiani, Imprese in crisi e complessità degli interessi tutelabili, in Dirittodellacrisi.it, 27 agosto 2021; G. Sconamiglio, Le trasformazioni del diritto fallimentare, in F. Amatori – M. D’Alberti (a cura di), L’impresa italiana. Il contesto, Roma, 2020, 32 ss.; U. Tombari, “Potere” e “interessi” nella grande impresa azionaria, Milano, 2019, 48 ss.
[8] 
Il riferimento è a G.B. Portale, Il codice italiano della crisi d’impresa e dell’insolvenza: tra fratture e modernizzazione del diritto societario, in Riv. soc., 2022, 1149 ss., ivi 1152 ss.
[9] 
Così G.B. Portale, Il codice italiano, cit., 1156.
[10] 
I riferimenti sul punto sono ormai innumerevoli. Per tutti, anche per i necessari e ulteriori rinvii, si v.; G. Bozza, La tutela dei creditori nel concordato in continuità, in Dirittodellacrisi.it, 27 giugno 2023, cui adde M. Greggio, Finalità e tipologie di piano concordatario: prime osservazioni al “nuovo” art. 84 del Codice della crisi, in Dirittodellacrisi.it, 25 agosto 2022.
[11] 
Così M. Perrino, “Relative priority rule”, cit., 6.
[12] 
Sul punto, rinvio a P. Benazzo, Gli assetti proprietari, cit., 18 ss. Sulla rilevanza e sulla portata dei principi di solidarietà e responsabilità sociale anche all’interno della crisi d’impresa, il rinvio d’obbligo va alle riflessioni, come sempre puntuali, di G. D’Attorre, Sostenibilità e responsabilità sociale nella crisi, in Dirittodellacrisi.it, 13 aprile 2021; Id., La responsabilità sociale dell’impresa insolvente, in Riv. dir. civ., 2021, 60 ss.; M. Fabiani, Il valore della solidarietà nell’approccio e nella gestione delle crisi d’impresa, in Fallimento, 2022, 5 s., ove si afferma che «se mai dovesse “endemizzarsi” dovremmo essere pronti a comprendere che il valore della solidarietà dove pure esso, e prima di altri, divenire endemico nelle relazioni che pertengono al diritto della crisi d’impresa». Adde: M. Fabiani, La tutela dei diritti nelle procedure concorsuali, in Trattato delle procedure concorsuali, diretto da A. Jorio, B. Sassani, IV, Milano, 2016, 671, e, da ultimo. Id., Il diritto diseguale nella concorsualità concordataria postmoderna, in Fallimento, 2022, 1485 ss., nonché, per un’analisi anch’essa puntuale del dibattito sulle funzioni delle procedure concorsuali, A. Jorio, Introduzione, in Trattato delle procedure concorsuali, cit., I, 30 ss. 
[13] 
Principi che, come di recente appuntato dalla dottrina, “(…) esprimono sì un ordine di valori ma assumono anche una carica euristica perché aiutano l’interprete a cogliere il significato delle norme e a riempire le lacune agevolando l’analogia iuris” (enfasi nel testo): così M. Fabiani, Effetti dell’autonomia, cit., 4. Sui principi generali e sui doveri di correttezza e buona fede, per tutti, cfr.: Sui principi generali e, in particolare, sui doveri di buona fede e correttezza, contenuti nella Sezione I (sotto la rubrica «Obblighi dei soggetti che partecipano alla regolazione della crisi o dell’insolvenza») del CCII, in particolare, meritano attenzione: G. D’Attorre, I principi generali del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Dirittodellacrisi.it, 2022; Id., La formulazione legislativa dei principi generali nel codice della crisi e dell’insolvenza, in Banca borsa, 2019, I, 461 ss.; R. Rordorf, I doveri dei soggetti coinvolti nella regolazione della crisi nell’ambito dei principi generali del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Fallimento, 2021, 589 ss.; M. Fabiani, Introduzione ai principi generali e alle definizioni del codice della crisi, in Fallimento,  2022, 1173 ss.; R. Boggi, Clausole generali e diritto concorsuale, in Fallimento, 2022, 877 ss.; L. Panzani, I doveri delle parti, in Dirittodellacrisi.it, Numero Speciale “Studi sull’avvio del codice della crisi”, 2022, 20 ss.; R. Rordorf, Interferenze tra diritto della crisi e dell’insolvenza e diritto dei contratti, in Dirittodellacrisi.it, 2022; Id., Il diritto esorbitante: abuso del diritto, abuso del processo, abuso del concordato, in Fall., 2021, 1199 ss.; S. Ambrosini, I “principi generali” nel codice della crisi d’impresa, in Crisi d’impresa e insolvenza, 26 gennaio 2021, ora anche in S. Ambrosini (a cura di), Crisi e insolvenza nel nuovo Codice. Commento tematico ai dd.lgs. nn. 14/2019 e 83/2022, 197 ss. In giurisprudenza, si v., tra le tante, con particolare riferimento alla composizione negoziata, Cass. 10 febbraio 2012, n. 9935; Cass. 9 settembre 2020, n. 26568; Trib. Bergamo, 8 agosto 2022; Trib. Firenze, 31 agosto 2022; Trib. Roma, 10 ottobre 2022; Trib. Milano, 14 luglio 2022, reperibili in https://onelegale.wolterskluwer.it. Da ultimo, anche R. Lener, L’obbligazione di partecipare alle trattative nella composizione negoziata, in Riv. Soc., 2022, 1169 ss.
[14] 
Sul punto, con lucidità, v. R. Ranalli, Con il codice il risanamento è con i creditori e non vi è più spazio per quelli contro di essi, in Dirittodellacrisi.it, 18 luglio 2023. 
[15] 
Così L. Stanghellini, Verso uno statuto, cit., 297 ss. 
[16] 
L. Stanghellini, Le crisi di impresa fra diritto ed economia. Le procedure di insolvenza, Bologna, 2007, 35 ss. V. Anche A. Mazzoni, La responsabilità gestoria per scorretto esercizio dell’impresa priva della prospettiva di continuità aziendale, in Amministrazione e controllo nel diritto delle società, Torino, 2010, 813 ss., in part. 822 ss. 
[17] 
Così B. Inzitari, Le mobili frontiere, cit., 33.
[18] 
L’espressione è di M. Perrino, “Relative priority rule”, cit., 10. 
[19] 
Al riguardo, per un’analisi più approfondita e di dettaglio delle disposizioni, oltre agli autori citati in nt. (1), cfr. F. Guerrera, L’espansione della regola di competenza esclusiva degli amministratori nel diritto societario della crisi fra dogmatismo del legislatore e criticità operative, in Riv. Soc., 2022, 1271 ss., cui adde lo Studio n. 42/2023/I del Consiglio Nazionale del Notariato, La decisione degli amministratori sull’accesso agli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza delle società (art. 120 bis CCII), di F. Guerrera e M. Maltoni, nonché il saggio di F. Briolini, I conflitti tra amministratori e soci in sede di accesso a uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza. Prime riflessioni, in Il Nuovo Diritto delle Società, 2023, 5 ss. V. anche, S. Ambrosini, Profili societari degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza, 338 ss., in S. Pacchi – S. Ambrosini, Diritto della crisi e dell’insolenza, terza ed., Bologna, 2023. 
[20] 
Sul punto, mi permetto di rinviare, anche per i necessari e ulteriori riferimenti, a P. Benazzo, Gli assetti proprietari, cit., 22 ss.
[21] 
Sul punto, per una più ampia e attenta disamina, cfr. F. Guerrera, L’espansione, cit., 1286 ss., che, pur condividendo in parte quanto nel testo, ritiene che residuerebbe in capo al socio l’attivazione del rimedio in parola nelle ipotesi di “difformità qualificata” della deliberazione, in quanto affetta da vizi formali e da una specifica attitudine a ledere le posizioni giuridiche del socio. 
[22] 
V.: A. Rossi, I soci, cit., 22 ss.; M. Perrino, “Relative priority rule”, cit., 34 ss.
[23] 
Tra l’altro, non senza poter fare a meno di rammentare come, mentre nelle s.p.a., le operazioni straordinarie che danno legittimazione all’esercizio del recesso dovrebbero essere solo quelle che comportano la trasformazione in altro tipo, non altrettanto è a dirsi nella s.r.l. Sull’art. 116 e sulla disciplina delle operazioni straordinarie, da ultimo, anche per ulteriori riferimenti, v. I. Pagni – M. Fabiani., Le operazioni straordinarie nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza tra l’art. 116 e gli artt. 120 bis CCII, in Riv. Soc., 2022, 1293 ss. 
[24] 
Per tutti, sul tema, da ultimo, con spunti di riflessione puntuali e con dovizia di riferimenti bibliografici, N. De Luca, Una rivoltella puntata alla tempia (a proposito di clausole della roulette russa), in Riv. dir. civ., 2022, 862 ss.  
[25] 
Sulla questione, cfr., in particolare, M. Perrino, “Relative priority rule”, cit., 34 ss.
[26] 
Cfr.: A. Guiotto, Il valore riservato ai soci nel concordato in continuità aziendale, in Dirittodellacrisi.it, 13 aprile 2023, 3 ss. Sul punto, cfr., anche per i necessari e ulteriori riferimenti, A. Pezzano, Le regole di distribuzione, in Dirittodellacrisi.it, 6 settembre 2022. 
[27] 
Quantità di ricchezza che, ove riservata ai soci, diviene peraltro rilevante solo ai fini dell’omologazione del (solo) concordato in continuità diretta, nel (solo) caso di dissenso da parte di una o più classi di creditori: il primo comma dell’art. 120 quater, nella sostanza, dispone che la contesa in ordine alla ricchezza riservata sia il frutto di una negoziazione con i creditori e impone che là ove non vi sia consenso unanime “il valore riservato ai soci sia tendenzialmente tratto, o in altre parole messo a disposizione, dalle classi (non solo consenzienti), (ma anche) di grado pari o inferiore rispetto ai dissenzienti, attingendo al valore che sarebbe stato loro altrimenti attribuito in caso di indisponibilità a concedere alcunché ai soci” (M. Perrino, “Relative priority rule”, cit., 29). La norma in parola, invece, non trova applicazione nell’accordo di ristrutturazione, anche quello a efficacia estesa, perché in questi casi la distribuzione del valore è libera; e neppure al piano di ristrutturazione omologato (art. 64 bis) dacché, sebbene sia concessa la piena disapplicazione degli articoli 2740 e 2741 c.c., esso presuppone l’approvazione ad opera di tutte le classi dei creditori e quindi non ci sono classi dissenzienti. 
[28] 
Sulla disciplina della crisi, cfr. L. Panzani, Codice della crisi e gruppi di società, in Riv. Soc., 2022, 1330 ss. 
[29] 
In questo senso, anche A. Guiotto, Il valore riservato ai soci nel concordato in continuità aziendale, in Dirittodellacrisi.it, 13 aprile 2023, 4 ss. V. anche B. Inzitari, Le mobili frontiere, cit., 39 ss.
[30] 
In ordine alla identificazione e alla quantificazione della ricchezza da ristrutturazione da riservarsi ai soci, oltre all’autore da ultimo citato e quelli citati anche nella precedente nt.(1), v., da ultimo, R. Ranalli, Con il codice il risanamento, cit., 5 ss. 
[31] 
Per i necessari riferimenti, cfr. N. De Luca, Una rivoltella puntata, cit., 5 ss; e P. Benazzo, Gli assetti proprietari, cit., 31 ss.. 
[32] 
In ordine alla ratio e ai criteri di determinazione del valore della quota di liquidazione delle azioni spettanti al socio che abbia esercitato il recesso in società per azioni non quotate, v. le interessanti considerazioni e annotazioni svolte da E. Cotta Ramusino, in La valutazione delle azioni dei soci recedenti nelle società per azioni non quotate, di prossima pubblicazione in Il Nuovo diritto delle società, che ho avuto modo di consultare su cortesia dell’autore. 
[33] 
Ancora una volta, il rinvio è a R. Ranalli, Con il codice il risanamento, cit., 5 ss.
[34] 
Sul punto, da ultimo e in modo puntuale, v. A. Guiotto, Il valore riservato, cit.,10 ss. Critico al riguardo, A. Rossi, I soci, cit., 12 ss. 
[35] 
Per tutti, v. M. Perrino, “Relative priority rule”, cit., 25 ss., oltre agli autori citati nella precedente nt (1), tra cui, in particolare, A. Rossi, I soci, cit., 27 ss.
[36] 
In questo senso, reciso è A. Guiotto, Il valore riservato, cit., 13.
[37] 
Dopo tutto, va considerato come l’art. 120 quater abbia cura di precisare che dalla ricchezza che si generi dall’intervento di ristrutturazione e alla continuità aziendale così assicurata, come tale ‘contendibile’ con i creditori sociali, il debitore (e dunque i soci) abbiano il diritto di togliere quanto da loro apportato all’impresa ai fini della ristrutturazione: questa è dunque la via maestra che i soci avrebbero per conservare le loro partecipazioni sociali, sostanzialmente ‘ricomprandosele’ al prezzo ‘congruo’ (il valore post money). Sul punto v. A. Rossi, I soci, cit., 11, ove ulteriori citazioni conformi.

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