Saggio
Holding e continuità aziendale nelle procedure di regolazione della crisi dei gruppi*
Niccolò Abriani, Ordinario di diritto commerciale nell’Università di Firenze
25 Marzo 2021
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Sommario:
Sotto il primo versante va sottolineata la netta differenza che si registra, nell’ambito delle procedure concorsuali, tra liquidazione giudiziale (fallimento), da un lato, e concordato preventivo, dall’altro.
Mentre nel primo caso si può configurare una cessazione dell’attività di eterodirezione, quale corollario che consegue allo spossessamento del debitore e al subentro del curatore nella gestione del patrimonio della società capogruppo, per contro, nella procedura di concordato preventivo la legge prevede come regola generale, che “il debitore conserva l’amministrazione dei suoi beni e l'esercizio dell’impresa, sotto la vigilanza del commissario giudiziale” (art. 167, co. 1, L. fall.), richiedendo al contempo l’autorizzazione del giudice delegato, a pena di inefficacia rispetto ai creditori anteriori al concordato, per gli “gli atti eccedenti la ordinaria amministrazione”, tra i quali vengono espressamente ricompresi “i mutui, anche sotto forma cambiaria, le transazioni, i compromessi, le alienazioni di beni immobili, le concessioni di ipoteche o di pegno, le fideiussioni, le rinunzie alle liti, le ricognizioni di diritti di terzi, le cancellazioni di ipoteche, le restituzioni di pegni, le accettazioni di eredità e di donazioni e in genere” (così l’art. 167, comma 2, L. fall., che trova ora conferma nell’art. 94, comma 2, c.c.i.).
Si tratta di una mera attenuazione della capacità operativa della società in concordato – tradizionalmente sintetizzata nella formula dello “spossessamento attenuato” – che può indubbiamente determinare una interferenza sull’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento, segnatamente con riguardo alle operazioni di finanziamento e concessione di garanzie reali e personali. Sono questi profili suscettibili di incidere sulla politica finanziaria del gruppo, che tipicamente compete alla holding, ma che non implicano in alcun modo una necessaria soluzione di continuità nell’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento: attività che potrà pertanto proseguire, ed anzi, ove risulti utile per il miglior soddisfacimento dei creditori, dovrà proseguire nel corso della procedura, sia pure con il doveroso filtro dell’intervento autorizzatorio del giudice per le ricordate categorie di atti per i quali è prescritto ex lege.
Postulare l’automatica cessazione al momento dell’ingresso in procedura dell’attività di direzione e coordinamento della holding sulle controllate potrebbe invero determinare un grave squilibrio all’interno delle società del gruppo, particolarmente evidente nel momento in cui l’attività d’impresa delle società partecipate continui ed ulteriormente accentuata in presenza di soci di minoranza.
Tale approccio, infatti, condurrebbe direttamente e inevitabilmente alla creazione di un pregiudizio per i creditori delle società controllate, poiché il venir meno dell’attività di direzione e coordinamento legittimerebbe il recesso dei soci di minoranza delle società divenute estranee al gruppo (art. 2497-quater, 1° co., lett. c): pregiudizio che inevitabilmente inciderebbe sul valore delle controllate che vedrebbero insorgere la relativa sopravvenienza passiva e si verrebbe a riflettere sulla stessa capogruppo che vedrebbe corrispondentemente svalutate le proprie partecipazioni.
La cessazione della direzione e coordinamento potrebbe inoltre generare ripercussioni con riferimento al sistema dei finanziamenti infragruppo, anche in punto di disapplicazione del regime di postergazione legale ex art. 2497-quinquies c.c. (e, un domani, art. 292 c.c.i.)
In termini più generali, è senza dubbio funzionale all’interesse dei creditori delle società appartenenti al gruppo che la continuazione dell’attività si compia attraverso le modalità più efficienti, sicché ben si potrà – ed anzi, tramite il filtro autorizzatorio del giudice, si dovrà – valutare di volta in volta se una interruzione di ogni coordinamento apicale tra le società del gruppo risulti in concreto compatibile con la massimizzazione dell’attivo concordatario: valutazione che normalmente condurrà a preferire la prosecuzione dell’attività di direzione e coordinamento, anche per le considerazioni sopra svolte in punto di corollari legali della sua cessazione.
Nello scenario sopra descritto appare evidente che il mantenimento dei collegamenti e delle dinamiche infragruppo, operato mediante l’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento ad opera della holding, consente di sfruttare al meglio la fisiologica prosecuzione dell’attività delle società controllate e la loro migliore valorizzazione, sia essa realizzata tramite la continuità aziendale delle stesse oppure mediante la cessione delle partecipazioni da parte della capogruppo o ancora attraverso una liquidazione (anch’essa concordataria o in bonis) delle partecipate, comunque realizzata nell’ottica della migliore soddisfazione dei creditori, la tutela degli interessi dei quali ispira la disciplina in esame e gli interventi degli organi della procedura, nelle loro rispettive funzioni di vigilanza e autorizzatorie.
Ulteriore argomento a favore della tesi della legittima – e tendenzialmente auspicabile – continuazione dell’attività in corso di procedura è fondato sull’ammissibilità del c.d. “concordato preventivo di gruppo”, ora espressamente contemplato dal Codice della crisi e dell’insolvenza (art. 284 ss. c.c.i.), ma già riconosciuto da parte autorevole della dottrina e della giurisprudenza nella logica di una più efficiente gestione unitaria della crisi.
Il fondamento della ritenuta ammissibilità di tale atipica procedura risiede nel principio generale enunciato dall’art. 1322 c.c.: laddove l’interesse dei creditori sia maggiormente soddisfatto nella soluzione unitaria della crisi di gruppo, la procedura riflette interessi meritevoli di tutela e, come tale, è consentita e favorita dal legislatore.
In questo quadro, le novità legislative prefigurate dal Codice della crisi sono destinate a segnare una indubbia evoluzione sul piano procedurale, permettendo un consolidamento unitario delle singole procedure concordatarie (e dei relativi organi), ma si pongono in perfetta linea di continuità sul piano dei presupposti sostanziali già oggi desumibili dal sistema del diritto della crisi – e segnatamente del diritto societario della crisi – orientato a favorire la prosecuzione della direzione e coordinamento anche dopo l’avvio della procedura di concordato preventivo ove ciò risulti funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori.
Del resto, tanto nella disciplina di fonte eurocomunitaria, quanto nei principali ordinamenti contermini che hanno introdotto una disciplina sulle crisi dei gruppi, quanto infine nella stessa disciplina sull’amministrazione straordinaria è pacifico che la direzione e coordinamento è destinata non già a venire automaticamente meno, ma ad essere piuttosto reindirizzata sul piano teleologico, sostituendosi all’interesse generale di gruppo che connota le imprese policorporative in bonis l’interesse al miglior soddisfacimento dei creditori come criterio fondamentale della gestione della holding e delle altre singole componenti del gruppo (come ora reso esplicito dall’art. 4 c.c.i.).
Ed è anche a presidio di questa ridefinizione imperativa degli interessi tutelati dalla direzione e coordinamento che la legge subordina alle necessarie autorizzazioni giudiziali gli atti in cui si estrinseca la direzione e coordinamento qualora trascendano la sfera della ordinaria amministrazione o comunque rientrino nelle categorie di operazioni indicate dal secondo comma dell’art. 167 L. fall..
L’ingresso nella procedura concordataria della holding, abbia esso o meno luogo unitamente all’ingresso in procedura di società dalla prima eterodirette, non determina dunque una interruzione della direzione e coordinamento. L’avvio della procedura concordataria è destinato unicamente a condizionare sul piano operativo le modalità di esercizio della gestione unitaria del gruppo in going concern, senza però farne venire meno i presupposti.
Ciò chiarito, va soggiunto che si tratta comunque di un condizionamento procedurale transitorio, destinato a cessare successivamente alla omologazione del concordato, a seguito della quale il vincolo sarà rappresentato piuttosto dall’adempimento delle obbligazioni compendiate nella proposta concordataria e dalla doverosa attuazione, in funzione di tale adempimento, delle previsioni contenute nel relativo piano attestato.
In questa prospettiva, il piano concordatario ben può presupporre la prosecuzione dell’attività di direzione e coordinamento nella fase esecutiva quale elemento essenziale dello stesso; ed anzi tale prosecuzione dovrà essere contemplata ogni qualvolta risulti obiettivamente funzionale al rafforzamento delle prospettive di adempimento della proposta, tanto della capogruppo, quanto delle società del gruppo.
La continuazione della direzione e coordinamento potrà invero costituire in molti casi il presupposto per la conservazione del valore della holding e delle società del gruppo le partecipazioni nelle quali rappresentano i principali asset della capogruppo.
In tale scenario, la prosecuzione dell’attività di direzione e coordinamento da parte della holding può non soltanto essere contemplata nel piano concordatario della capogruppo, configurandone un presupposto essenziale, ma altresì, ove la relativa proposta risulti approvata dai creditori e il concordato omologato, assurgere a vero e proprio obbligo imposto agli organi della capogruppo nella doverosa esecuzione del piano concordatario.
Alla luce di tali premesse, la prosecuzione della attività d’impresa che costituisce l’oggetto tipico di una società holding, quale appunto la direzione e coordinamento delle controllate, vale a configurare, ove contemplato nel piano concordatario della società capogruppo, i presupposti dell’istituto del concordato con continuità aziendale, di cui all’art. 186-bis L. fall., postulando al contempo l’esigenza di una rappresentazione nel piano – oggetto di specifica attestazione ad opera dell’esperto indipendente – in ordine alla funzionalità di tale prosecuzione rispetto al miglior soddisfacimento dei creditori.
Ai fini della verifica di tale requisito occorrerà pertanto procedere a una valutazione comparativa tra uno scenario meramente liquidatorio (sia esso concordatario o fallimentare), caratterizzato dalla interruzione dell’attività di direzione e coordinamento, da un lato, e la prospettiva della continuità aziendale, considerando se e quali benefici possano derivare per i creditori sociali dalla prosecuzione di tale attività, al netto dei costi connessi alla stessa.
Il presupposto della continuità aziendale risulta particolarmente evidente qualora le società eterodirette continuino nella loro operatività sotto la direzione e coordinamento della holding, indipendentemente dalla circostanza che tale operatività sia realizzata in un contesto in bonis o nell’ambito, a loro volta, di un concordato con continuità aziendale. In questa seconda ipotesi, anche i piani concordatari delle controllate dovranno contemplare specularmente la prosecuzione della soggezione a direzione e coordinamento, così da legittimare il perdurante intervento della holding in ambito decisionale e sempre sul presupposto che la direzione unitaria abbia effetti positivi ai fini della migliore soddisfazione dei creditori.
In questi casi, il venir meno delle sinergie e dei legami connessi alla organizzazione di gruppo in situazione di crisi può comportare uno svantaggio per le sue singole componenti e per i rispettivi creditori.
Le conclusioni ora delineate trovano conferma nel Codice della crisi: e ciò non soltanto nella specifica disciplina del concordato di gruppo ivi contemplata, ma nella rivisitazione del ruolo dell’istituto concordatario. Nella nuova e peculiare prospettiva funzionale recepita dalla riforma, la via del recupero industriale riveste una indubbia priorità rispetto ad approcci che puntano al mero risanamento finanziario e, in misura ancora più marcata, rispetto ad approcci schiettamente liquidatori; ciò, sul presupposto che la ristrutturazione dell’impresa sia credibile e, al contempo, idonea a garantire il migliore soddisfacimento delle ragioni creditorie (profilo sul quale si appunta l’attestazione e lo stesso controllo di fattibilità economica ora demandato al giudice).
Del resto, nei gruppi caratterizzati da una direzione unitaria più pervasiva e costante, la pianificazione industriale, solitamente pluriennale, delle società eterodirette è modellata su – o comunque avviene in stretta considerazione delle – scelte strategiche a livello di politica, appunto, industriale di gruppo di cui la holding si fa unica interprete. In tale scenario, impedire alla capogruppo di proseguire nella sua attività “caratteristica” significa introdurre un elemento di discontinuità, particolarmente pericoloso per le controllate in quanto potrebbe minare la loro (già precaria, vista la crisi) stabilità: si pensi, solo per fare un esempio, al tema degli investimenti già “messi a terra” dalle controllate in esecuzione di un piano già approvato.
In sostanza, la pianificazione industriale pluriennale può certamente essere rettificata “in corsa”; ma una cosa è farlo in conseguenza di scostamenti o accadimenti imprevisti registrati in corso di piano (correggendo le assumptions, ritarando i budget, etc.) e altra cosa è farlo a prescindere dall’esame andamentale del piano e cioè dall’esistenza di ragioni obiettive che suggeriscano di adattarne i contenuti alle mutate circostanze. Il genere di problema al quale si fa riferimento è quello che sovente si riscontra nei casi di cambi di controllo; ma analogo problema che rischia di presentarsi ove si impedisca la prosecuzione della direzione unitaria (non già per un aggiornamento delle valutazioni di politica industriale, ma) “solo perché” la holding in crisi finanziaria accede tempestivamente a una procedura di regolazione della crisi.
Resta fermo che questo favor di principio verso la prosecuzione della direzione unitaria richieda una verifica puntuale con riferimento alla singola fattispecie concreta, nella quale la perdurante eterodirezione deve risultare effettivamente più promettente sul piano del soddisfacimento delle ragioni creditorie, pur in un contesto di parziale dismissione di quelle partecipazioni che la holding valuti come non strategiche (questo è uno dei presupposti impliciti della riflessione, perché, chiaramente, se le partecipazioni di cui si decida la dismissione fossero strategiche cadrebbe gran parte del ragionamento).
Partendo da questa seconda previsione, la liquidazione di alcune o finanche di tutte le controllate non pare in linea di principio ostativa alla prosecuzione della continuità aziendale della holding, la cui perdurante attività di direzione e coordinamento potrebbe svolgere un ruolo significativo – e significativamente virtuoso – per i creditori della capogruppo e delle stesse controllate: in tale prospettiva andranno considerati, in particolare, i vantaggi potenzialmente derivanti da una cessione unitaria degli assets dislocati nei patrimoni delle diverse società del gruppo e le economie di scala derivanti dall’avvio di procedure di vendita unitarie o coordinate.
Se nell’ipotesi sopra considerata la direzione e coordinamento è funzionale alla più efficiente liquidazione di società controllate di cui la holding conserva le partecipazioni di controllo, più articolata appare la soluzione qualora il piano concordatario della capogruppo preveda la dismissione delle partecipazioni nelle eterodirette.
Al riguardo si impone una duplice distinzione.
Innanzi tutto, occorre considerare se la dismissione abbia ad oggetto tutte o soltanto alcune delle partecipazioni detenute dalla holding.
In questo secondo caso, la sussistenza dei presupposti del concordato con continuità aziendale sembra potersi in linea di principio riconoscere, in quanto l’attività di direzione e coordinamento è pur sempre riscontrabile e destinata a proseguire, pur all’interno di un perimetro operativo selezionato.
Una ulteriore distinzione, sempre in tale ambito, è peraltro imposta dal criterio di prevalenza (secondo alcuni già immanente nell’ordinamento vigente e) che il Codice della crisi enuncia quale elemento discretivo tra concordato con continuità aziendale e concordato liquidatorio (art. 84, comma 3, c.c.i.): alla luce di tale criterio il piano dovrebbe prevedere – e l’attestatore certificare – che i creditori della holding siano o meno destinati ad essere soddisfatti in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale.
Tale criterio non risulta tuttavia meccanicamente trasponibile alla holding, dovendosi infatti adattare alla peculiarità della capogruppo il concetto di “ricavato”, che funge da parametro di riferimento per la comparazione e nel quale si deve comunque includere – come espressamente previsto dalla nuova disciplina – anche i proventi della “continuità indiretta”.
Se da un lato, nell’ambito del “ricavato”, sembra potersi ricomprendere anche quanto ricavato dalla cessione delle “rimanenze” (secondo una più lata interpretazione del “magazzino” evocato dalla norma), dall’altro lato, si potrebbe valorizzare il dato sostanziale della continuità delle imprese oggetto delle partecipate cedute per adattare alla peculiare posizione della holding il concetto di continuità indiretta, riconoscendone i presupposti qualora le controllate, le cui partecipazioni siano cedute o conferite in altra società, restino comunque “in esercizio”.
Alla luce della finalità sottesa all’istituto, si potrebbe allora sostenere che la vendita delle partecipazioni da parte della holding costituisca il pendant, a livello di impresa policorporativa di gruppo, della cessione dei rami aziendali da parte della singola società atomisticamente considerata. In entrambe le ipotesi, il dato rilevante rimarrebbe quella prosecuzione delle attività imprenditoriali che vale a preservare il plusvalore connesso alla continuità, evitandone la dispersione a detrimento dei creditori sociali.
i) Innanzi tutto, può affermarsi che l’ingresso nella procedura concordataria della società holding non determina una interruzione della direzione e coordinamento, limitandosi a condizionare sul piano operativo le modalità di esercizio della gestione unitaria del gruppo, alla luce del regime autorizzatorio previsto dalla legge (art. 94, co. 2, c.c.i., nel solco dell’art. 167, co. 2, L. fall.) e, più in generale, della riconfigurazione teleologica dell’interesse sociale durante la procedura di regolazione della crisi (e v. ora l’art. 4 c.c.i., che espressamente impone di gestire l’impresa “nell’interesse prioritario dei creditori”).
ii) Una seconda conclusione concerne la sussistenza dei presupposti per qualificare come “con continuità aziendale”, ai sensi dell’art. 186-bis L. fall., il concordato della società holding qualora la stessa conservi il controllo su tutte o su una frazione qualitativamente maggioritaria (per la loro rilevanza) delle società controllate, continuando ad esercitare l’attività di direzione e coordinamento sulle stesse, indipendentemente dalla circostanza che alcune di tali società siano destinate ad essere liquidate (salvo verificare quando sia ravvisabile una prevalenza “qualitativa” e se davvero non possa configurarsi un perdurante esercizio di impresa, in forma di direzione e coordinamento di altre società, anche su una parte “qualitativamente minoritaria” delle controllate).
iii) La soluzione risulta più articolata qualora il piano concordatario preveda la cessione della maggior parte delle società controllate. Il tal caso si tratta di verificare se, attraverso una interpretazione evolutiva della fattispecie del concordato con continuità “indiretta”, si possa pervenire al riconoscimento dei presupposti della continuità aziendale qualora le controllate le cui partecipazioni saranno oggetto di dismissione continuino ad operare, post cessione, sotto il controllo della nuova proprietà.
iv) Sembra invece da escludersi la sussistenza dei presupposti della continuità aziendale qualora il piano preveda la cessione di tutte o della maggior parte delle società controllate e queste ultime non continuino l’attività d’impresa a seguito della cessione.
Resta fermo che, nelle ipotesi sopra indicate sub ii) e (più dubitativamente) sub iii, trattandosi di concordato con continuità aziendale, il relativo piano dovrà presentare un contenuto aggiuntivo volto ad acclarare che la continuità, nonostante la sottrazione di risorse necessarie per realizzarla, risulta comunque funzionale a realizzare il miglior soddisfacimento possibile dei creditori rispetto alle alternative concretamente praticabili che prescindono dalla continuità d’impresa.
6.1. In termini generali, ci si potrebbe chiedere se la direzione e coordinamento non soltanto possa, ma piuttosto debba esser esercitata anche nella fase di ammissione alla procedura; e, conseguentemente, se non sia dovuta anche l'attuazione delle direttive della capogruppo da parte degli amministratori delle società eterodirette, con un rafforzato coordinamento tra gli enti. Se si ritiene che la crisi modifichi i doveri degli amministratori (almeno sul piano della sua tempestiva rilevazione e sistemazione), allora parrebbe coerente immaginare che, nell’ambito del gruppo e proprio in ragione delle esigenze di una gestione unitaria della crisi, non soltanto permangano, ma vengano ad assumere una maggiore intensità gli obblighi di cooperazione e di coordinamento tra gli organi della capogruppo e delle società eterodirette.
6.2. Se la continuità aziendale presuppone, dall’angolo prospettico della holding, il perdurante esercizio dell’attività di direzione e coordinamento, non sembra potersi postulare con altrettanta assertività il contrario. Si potrebbe invero ipotizzare un perdurante esercizio della direzione e coordinamento anche se lo scopo del concordato è meramente liquidatorio. Verrebbe anzi da chiedersi se, finanche in caso di liquidazione giudiziale della holding, il potere di direzione e coordinamento non venga a “trasferirsi” in capo al curatore della capogruppo e allora secondo quali regole di pubblicità e responsabilità. E se finora deve distinguersi il caso in cui siano le società eterodirette a finire in liquidazione giudiziale, non essendo evidentemente ipotizzabile che il curatore della eterodiretta sia soggetto al potere di direttiva della holding, un domani tale limite si riproporrà soltanto qualora la capogruppo sia in bonis. Per contro, il suo coinvolgimento in una procedura di liquidazione giudiziale unitaria, ai sensi dell’art. 287 CCI, potrebbe indurre a trasporre soluzioni già sperimentate nell’amministrazione straordinaria; mentre finanche in ipotesi di più procedure di liquidazione giudiziale coordinate, ci si potrebbe chiedere se nella “cooperazione” prefigurata dall’art. 288 CCI non permanga un qualche retaggio di direzione e coordinamento.
6.3. Sempre nella prospettiva della riforma, una ulteriore linea di sviluppo è relativa alla possibile configurazione della cessazione dell’attività di direzione e coordinamento quale causa di recesso, ai sensi dell’art. 2497-quater c.c.: questione rispetto alla quale sembra destinata ad assumere rilievo la sorte assegnata alla società controllata dal piano di gruppo: se ne venisse prevista la liquidazione (volontaria o giudiziale), la pretesa al rimborso del socio recedente non potrebbe infatti concorre con quella dei creditori esterni.
6.4. La struttura e le previsioni del piano sembrano infine destinate a riverberarsi anche sul requisito della prevalenza nel concordato con continuità di gruppo. Al riguardo, come noto, il Codice della crisi e dell’insolvenza impone una valutazione complessiva per i flussi derivanti dalla continuazione dell’attività e i flussi derivanti dalla liquidazione, richiedendosi che i creditori delle imprese del gruppo risultino “soddisfatti in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale diretta o indiretta, ivi compresa la cessione del magazzino” (art. 285, comma 1).
Sul punto sorgono due ordini di interrogativi. Il primo, già evocato nei paragrafi iniziali, è una valutazione parimenti complessiva si imponga anche per verificare il presupposto della presunzione di continuità legata alla conservazione della percentuale di dipendenti. In caso contrario, come si è osservato, si agevolerebbe la continuità in particolare delle holding non operative caratterizzate normalmente da un numero esiguo di dipendenti della holding. A tale conclusione sembra potersi pervenire con un adeguato margine di certezza qualora la holding opti per piani distinti non reciprocamente interferenti, applicandosi in tal caso separatamente anche la finzione di prevalenza, poiché il concordato prende in considerazione solo la singola società del gruppo; e disapplicare la finzione di prevalenza in ragione delle caratteristiche dell’impresa esercitata non pare un’operazione giustificabile, anche considerando che per le altre società del gruppo, che presentassero in ipotesi piani separati, continuerebbe ad applicarsi analogamente il requisito di prevalenza.
La risposta è più incerta in caso di opzione per un piano “unitario” o per piani “reciprocamente collegati e interferenti”; anche in tale ipotesi, ad una prima lettura, non parrebbe che la regola dettata in tema di flussi dal primo comma dell’art. 285 valga a precludere l’applicazione dell’art. 84 co. 3, quand’anche si riconoscesse alla prima disposizione un carattere di “specialità” rispetto alla seconda.
Sono queste soltanto alcune delle questioni che il tema in esame è destinato a sollevare, imponendo per la loro messa a fuoco ulteriori momenti di confronto e di comune riflessione tra studiosi, valorizzando le nuove disposizioni prefigurate dal Codice della crisi. Anche sotto tale profilo parrebbe quanto mai opportuno introdurre da subito le regole sulle procedure unificate o coordinate di gruppo, estendendo sin da questa primavera l’attribuzione della relativa competenza, per le realtà di maggiori dimensioni, alle sezioni specializzate dell'impresa, secondo la regola già in vigore dalla primavera scorsa per i procedimenti di regolazione della crisi o dell’insolvenza e le controversie che ne derivano relativi alle imprese in amministrazione straordinaria [1].
Note: