Quantunque, dal punto di vista attuativo, come vedremo infra, l’accesso alla procedura di concordato semplificato (la disamina dei cui presupposti oggettivi e soggettivi di accesso esula dal perimetro della presente trattazione: per vero, in merito, molto è già stato scritto[6]), non implica uno schema liquidatorio fisso, aprendo di contro, il dato esperienziale, a proposte e piani concordatari di questo tipo diversi dalla mera disgregazione del plesso aziendale, la giurisprudenza di merito più recente appare invece particolarmente severa e in alcuni casi restia ad ammettere ipotesi di continuità strictu sensu considerata nel perimetro della procedura in analisi.
Ciò che gli interpreti tendono ad escludere, con un certo grado di categoricità, è la possibilità di far precedere la cessione dell’azienda da una fase di gestione in continuità[7], anche al fine – se del caso – di ottenere ulteriori flussi finanziari (un incremento, talvolta apprezzabile, del cash flow) da destinare alla soddisfazione dei creditori.
La ratio di tale esclusione risiede nel fatto che l'accesso al concordato semplificato presuppone
che l'impresa sia stata giudicata non risanabile attraverso la composizione negoziata della crisi[8]. Pertanto, la permanenza della gestione in capo al debitore insolvente non è contemplata, se non per il tempo strettamente necessario a realizzare la liquidazione nel modo più proficuo per i creditori.
Le conclusioni poc’anzi descritte sono state accolte, e peraltro ben argomentate, da due recentissime pronunce di merito le quali, pur decidendo in ordine all’ammissibilità di proposte di concordato semplificato basate su presupposti fattuali differenti, ambivano al medesimo concreto risultato: l’omologazione di un piano che prevedesse un periodo di gestione diretta dell’azienda (pari a tre in un caso e a cinque nell’altro, anni) prima di addivenire alla vendita della stessa.
L’impianto argomentativo dei provvedimenti sopra citati rivela un considerevole avanzamento dell’estremo superiore del primario requisito della procedura in esame, che mira, come più volte ribadito, all’immediata dismissione dell’attività aziendale ed esclude in radice una precedente prospettiva temporale di gestione imprenditoriale continuativa.
È opinione della Corte d’appello di Firenze che un periodo di continuità diretta, ancorché finalizzato alla futura cessione dell’azienda, non sia compatibile con l’istituto del concordato semplificato. Invero, sebbene la normativa non preveda una durata massima per la fase liquidatoria, l'ambito temporale deve essere limitato al periodo necessario per liquidare i beni, massimizzandone il valore. Una gestione in continuità da parte del debitore può essere ammessa solo se limitata all'ordinaria amministrazione, al fine di non disperdere il patrimonio, e non può costituire l'aspetto saliente della proposta, né essere finalizzata a generare flussi per il pagamento dei creditori, dovendo questi provenire dalla vendita del compendio aziendale[9].
Sulla scorta di quanto precede, vedasi anche il Tribunale di Milano che ha dichiarato inammissibile un concordato semplificato che prevedeva la prosecuzione diretta dell’attività per tre anni chiarendo che la cessione dell'azienda in esercizio, pur prevista dall'art. 25-septies CCII, non è valorizzata in funzione della continuità d'impresa (ipotesi ormai preclusa dall'esito negativo della composizione negoziata della crisi), ma è funzionale alla maggior soddisfazione dei creditori, in linea con l'art. 214, comma 1, CCII. Il debitore, accedendo al concordato semplificato, è titolare di un'impresa non risanabile, per la quale si invoca la liquidazione in un contesto alternativo ma funzionalmente affine alla liquidazione giudiziale, implicando quindi una "improcrastinabile, definitiva cessione dei beni”[10].
Le pronunce sopra citate pur non obliterando in toto l’idea di concordato semplificato contemplante una proposta funzionalmente finalizzata (anche) ad evitare lo smembramento del going concern, tuttavia lo ritengono possibile solo nel novero di una cessione immediata dell’attività.
Pare che gli approdi giurisprudenziali sopra citati intendano mantenere una certa coerenza con le finalità primarie dell’istituto in commento; vista la mancanza di uno spazio di voto a disposizione del ceto, non è possibile per la platea creditoria esprimere un parere in ordine all’opportunità della conservazione in capo all’imprenditore dell’azienda; di talchè, il debitore intenzionato a ad optare per tale forma di continuità, dovrà procedere con una domanda di concordato preventivo tradizionale[11].