Il principio generale “inespresso” del quale può ormai affermarsi la vigenza (nei limiti che vedremo) nel nostro sistema del diritto della crisi e dell’insolvenza è quello della sostenibilità ambientale e sociale (o, con formula che in larga parte ne condivide il contenuto, della responsabilità sociale dell’impresa).
Già in precedenti occasioni[34] si è avuto modo di sottolineare che i temi della sostenibilità e della responsabilità sociale dell’impresa, divenuti centrali nel dibattito non solo scientifico sul diritto dell’impresa e del diritto societario[35] e oggetto di un progressivo riconoscimento in ambito normativo, non possono rimanere ancora estranei al diritto della crisi e dell’insolvenza. Se la normativa della crisi e dell’insolvenza è oggi nient’altro che la disciplina di una fase, sia pure delicata, della vita imprenditoriale del debitore e se il quadro di valori operante per l’impresa in condizioni di normale esercizio e solvibile non può essere arbitrariamente alterato quando entra in crisi o diviene insolvente[36], è inevitabile che la spinta ad una maggiore responsabilità delle imprese nella riduzione degli impatti negativi della loro attività sul contesto ambientale e sociale si riflette anche nella disciplina della crisi e dell’insolvenza. Sostenibilità e responsabilità sociale sono temi che attengono all’attività dell’impresa tout court, non solo dell’impresa societaria, e quindi coinvolgono anche l’impresa in crisi o insolvente.
Il discorso assume, ovviamente, declinazioni diverse e non pienamente omogenee nei diversi strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza, perché diverso in ciascuno è l’assetto di interessi che le norme di dettaglio pongono e dalle quali si deve partire per la possibile evocazione di questo principio generale inespresso.
Partendo dalla liquidazione giudiziale, e rinviando ai precedenti scritti per un’argomentazione più completa, si possono rinvenire una pluralità di norme (i parametri di scelta dell’affittuario; presupposti e limiti per l’esercizio dell’impresa; le norme in tema di contratti pubblici, di contratti di lavoro e di contratti preliminari di immobili ad uso abitativo destinati ad abitazione principale; la disciplina della concorrenza; la disciplina del golden power) [37] che, seppure con modalità ed effetti diversi, se visti in modo unitario possono assumere un rilievo sistematico, concorrendo a definire un principio generale del sistema, operante già nell’attuale tessuto normativo.
Il principio generale si radica nel riconoscimento che l’interesse dei creditori, obiettivo primario della procedura di liquidazione giudiziale, deve contemperarsi con altri interessi di pari rilevanza costituzionale. La concomitante presenza di plurimi interessi rilevanti impone la ricerca di un punto di equilibrio che non risolve i conflitti nella meccanica affermazione dell’uno e nella negazione dell’altro, ma nella doverosa ponderazione, attuata secondo criteri di ragionevolezza e proporzionalità. Trattandosi di interessi e di diritti che fanno tutti parte di un tessuto normativo in cui devono convivere e nel quale ciascuno può limitare la portata dell’altro, il contemperamento tra gli stessi deve essere attuato in base ad un giudizio di bilanciamento, secondo una tecnica interpretativa da tempo utilizzata dalla nostra Corte Costituzionale[38].
In questa valutazione sistematica e integrata dei vari interessi, la circostanza che il terreno di confronto sia una procedura concorsuale, avente l’obiettivo primario di preservare il “nucleo essenziale” dell’interesse dei creditori, impone l’individuazione di un possibile criterio di bilanciamento. Programmaticamente, questa regola di contemperamento, per quanto dinamica e da scrutinare in concreto, pur considerando la tutela degli interessi dei creditori, e quindi lo scopo della loro migliore soddisfazione possibile, deve tracciare il limite di un principio di rispetto degli altri interessi di carattere generale. Detto con una formula diversa ma dal contenuto speculare, occorre misurare il limite del minore pregiudizio che sia inevitabile somministrare ai creditori per tutelare gli altri interessi. Il punto di equilibrio va rinvenuto nell’esigenza di assicurare il più ampio soddisfacimento dei creditori che sia consentito nel rispetto degli altri interessi e diritti rilevanti, il che non significa trasformare l’interesse dei creditori in “tiranno” nei confronti delle altre posizioni giuridiche tutelate[39], ma avere consapevolezza che lo stesso può essere limitato solo nello stretto limite necessario per non arrecare un irragionevole pregiudizio agli altri interessi. Il sacrificio dell’interesse dei creditori deve servire ed essere indispensabile per la migliore realizzazione di un altro interesse rilevante, pena l’irragionevolezza della limitazione[40].
La possibilità di un limite alla massimizzazione dell’attivo da destinare ai creditori per garantire la tutela di interessi-altri trova un fondamento costituzionale nell’art. 41 Cost., che, nel riconoscere che “l’iniziativa economica privata è libera” (comma 1), dispone che essa “non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all'ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”, nonché nel principio di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost.[41]. Altre conferme dell’esistenza di un principio che impone il bilanciamento tra interessi dei creditori e interessi-altri nella procedura di fallimento/liquidazione giudiziale si traggono dalla Direttiva (Ue) 2019/1023 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 2019 sulla ristrutturazione e sull’insolvenza (consideranda 2, 3 e 10; art. 4)[42].
Per garantire la coerenza dell’approdo raggiunto con i vincoli costituzionali ed eurounitari posti in relazione alle possibili limitazioni al soddisfacimento del diritto di credito, in quanto ricompreso nel concetto di proprietà[43], è necessario però individuare il contenuto minimo garantito del diritto dei creditori che non può essere intaccato dal perseguimento di interessi-altri. Pur nella inevitabile variabilità in concreto delle possibili soluzioni che possono derivare dalla ponderazione di interessi diversi secondo il canone della ragionevolezza, è possibile tracciare una linea di riferimento. Se la procedura di liquidazione giudiziale è funzionale al soddisfacimento dei creditori, essa deve complessivamente offrire ai creditori una soddisfazione almeno pari a quella che si avrebbe al di fuori ed in mancanza della stessa, perché, nel caso contrario, la procedura non sarebbe nell’interesse, ma contro l’interesse dei creditori. La liquidazione giudiziale può consentire la tutela anche di interessi collettivi diversi da quelli dei creditori, ma in ogni caso non può essere piegata fino ad attribuire ai creditori un soddisfacimento inferiore rispetto a quello che otterrebbero nel caso di liquidazione o esecuzione individuale, al di fuori del concorso collettivo. Il contenuto minimo garantito del diritto dei creditori, che non può essere sacrificato dal perseguimento di interessi diversi, si misura con il livello del presumibile soddisfacimento che i creditori collettivamente avrebbero potuto conseguire in mancanza della procedura.
Più complesso è il discorso per quanto riguarda il concordato preventivo, dove vi è un dato centrale che fa argine rispetto all’ingresso di considerazioni attinenti alla sostenibilità sociale e ambientale dell’impresa in concordato. Si tratta della regola che sottopone l’omologazione della proposta al previo consenso (a maggioranza) espresso dai creditori mediante il voto. Se i creditori non esprimono, secondo le regole dettate dal legislatore, il proprio voto favorevole alla proposta di concordato, all’esito evidentemente di una delibazione positiva circa la convenienza per essi della proposta, il procedimento si interrompe in via definitiva, senza la possibilità che la stessa autorità giudiziaria possa sostituirsi alla volontà collettiva dei creditori (salvo la deroga prevista per il cram down dell’amministrazione finanziaria).
Il principio di maggioranza che regge il concordato preventivo contribuisce a confermare la centralità dell’interesse dei creditori nella procedura, ma non può comunque negarsi che nel tessuto normativo sia presenti norme che attribuiscono rilievo anche ad interessi diversi rispetto a quello dei creditori. Si pensi all’art. 84, comma 2, CCII, secondo cui “la continuità aziendale tutela l’interesse dei creditori e preserva, nella misura possibile, i posti di lavoro, CCII”, oppure all’obbligo, ove sia prevista la prosecuzione dell’attività d’impresa in forma diretta, di indicare nel piano anche “i costi necessari per assicurare il rispetto della normativa in materia di sicurezza sul lavoro e di tutela dell’ambiente” (art. 87, comma 1, lett. f, CCII), così come “le modalità di informazione e consultazione dei rappresentanti dei lavoratori nonché gli effetti della ristrutturazione sui rapporti di lavoro, sulla loro organizzazione o sulle modalità di svolgimento delle prestazioni” (art. 87, comma 1, lett. o, CCII)[44]. Se, quindi, la considerazione degli impatti sociali e ambientali della continuità aziendale non è estranea al sistema concordatario, la riflessione dovrà svilupparsi in ordine alle conseguenze dell’eventuale violazione di questo principio di sostenibilità ambientale e sociale, che non può e non deve rimanere mera declamazione teorica.
Si può considerare la sostenibilità sociale e ambientale un principio generale inespresso, costruito in via interpretativa attraverso un procedimento di generalizzazione da norme di dettaglio, contenute tanto nella disciplina concorsuale, quanto in testi normativi diversi, oppure lo si può considerare come espressione del principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost.[45] o come riflesso doveroso della comunità che viene a formarsi attorno alla crisi d’impresa[46], In ogni caso, pur consapevole della complessità della questione e della difficoltà di addivenire ad un cambio di paradigma negli interpreti e negli operatori caso, paiono ormai maturi tempi per riconoscere a questo principio generale del diritto della crisi e dell’insolvenza[47], ovviamente con diverse declinazioni nei vari strumenti di regolazione, sia una funzione interpretativa, quale indice di valori che guidano nell’esegesi, sia anche una funzione normativa diretta, esprimendo un criterio giuridicamente rilevante ed un canone vincolante di comportamento a cui le parti, compresi gli organi delle procedure, si devono attenere nell’esercizio delle proprie funzioni e dei propri poteri.