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Saggio

I principi generali del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza*

Giacomo D’Attorre, Ordinario di diritto commerciale nell'Università del Molise

8 Settembre 2022

*Il saggio è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
*Lo scritto è destinato, con eventuali variazioni, allo Speciale di Diritto della crisi, di prossima pubblicazione, dal titolo “Studi sull’avvio del Codice della crisi” a cura di Laura De Simone, Massimo Fabiani e Salvo Leuzzi.
L’Autore esamina la natura e la funzione dei principi generali formulati in modo espresso dal Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, valutandone anche il loro rapporto con i principi generali inespressi, con le clausole generali e con le norme di dettaglio. A seguire, analizza il contenuto di un principio generale espresso (buona fede e correttezza) e di un principio generale inespresso (sostenibilità e responsabilità sociale dell’impresa in crisi).
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1 . Premessa
Il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza contiene un intero capo dedicato ai “Principi generali” (artt. 3-11 CCII). Si tratta di una novità nel campo del diritto della crisi e dell’insolvenza, dove non vi è tradizione di un’enunciazione espressa dei principi generali e dove la loro enucleazione era stata, finora, lasciata all’opera degli interpreti.
In sede di prima lettura del testo normativo appare, quindi, necessaria, prima ancora dell’esame del contenuto dei singoli principi oggetto di formulazione legislativa, una riflessione sulla natura e sulla funzione degli stessi, nonché, su un piano più ampio, sull’effetto di una “legislazione per principii” nel sistema del diritto della crisi e dell’insolvenza.
2 . Funzione dei principi generali
Il dibattito sui principi generali si è tradizionalmente sviluppato intorno alla definizione, alla natura, alla fonte ed alla funzione degli stessi[1]. Accantonando in questa sede i primi tre aspetti, è invece, qui utile ricordare le possibili funzioni che si attribuiscono ai principi[2]: interpretativa, ossia orientata a guidare l’interpretazione di norme particolari; integrativa, in quanto finalizzata a colmare lacune dell’ordinamento; normativa, perché diretta a fissare norme, dirette o indirette, di disciplina della condotta. 
L’individuazione della funzione dei principi espressi introdotti dal CCII è, quindi, il primo passo che si richiede nel tentativo di valutarne l’impatto sul diritto della crisi e dell’insolvenza.
I principi generali, ed a maggior ragione quelli formulati espressamente e definiti tali dallo stesso legislatore, svolgono anzitutto una funzione interpretativa. In particolare, la posizione dei principi in apertura di un testo normativo è volta anche ad indicare agli interpreti una linea interpretativa “preferita”[3], svolgendo una funzione ordinante[4] e rappresentando indici di valori condivisi. La tecnica legislativa dell’impiego dei principi assolve, infatti, una sua peculiare funzione, nella misura in cui rende vincolante per l’interprete il richiamo alle finalità dichiarate dal legislatore, orientando lo sviluppo del percorso interpretativo secondo traiettorie coerenti agli obiettivi ed ai valori di cui sono, o dovrebbero essere, espressione i principi formulati[5]. Compito precipuo dei principi generali è quello — tra l’altro — di fornire una scala valoriale salda, di tracciare le coordinate di un “pensiero forte” che governi — secondo un criterio gerarchico — il rapporto tra i molteplici valori e interessi che convivono e confliggono nella crisi d’impresa[6]. In ragione di ciò, i principi sono diretti a guidare l’interpretazione delle norme di dettaglio contenute nel CCII o anche in altri testi normativi. 
Questo riferimento agli altri testi normativi evoca il tema del possibile rilievo dei principi generali formulati espressamente dal CCII con riferimento alle procedure che trovano altrove la propria disciplina, ossia l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza e le liquidazioni coatte amministrative. In riferimento a queste procedure estranee al CCII la funzione interpretativa ed ordinante dei principi generali formulati nel CCII non può essere negata a priori, ma calibrata con prudenza e attenzione, perché non pienamente convergenti sono i valori e gli interessi tutelati nelle procedure estranee al CCII rispetto a quelli di cui sono espressione i principi generali del CCII.
Altra funzione dei principi generali è, come detto, quella integrativa, che consente il ricorso all’analogia iuris per colmare le lacune (art. 12, comma 2, disp. gen. c.c.), possibile allorchè per una data fattispecie non sia prevista alcuna conseguenza giuridica da alcuna norma appartenente al sistema e, quindi, ogni qualvolta un caso concreto non possa essere risolto sulla base delle norme preesistenti nel sistema stesso[7]. La funzione integrativa dei principi generali posti dal CCII non è preclusa dalla loro natura meramente settoriale, che sembrerebbe differenziarli dai “principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato” cui l’art. 12 disp. att. c.c. fa riferimento[8], perché nel sistema attuale è ormai irrealistico pensare di individuare principi generali validi per l’intero ordinamento, dovendo “acconciarsi a concepire anche i principi generali in chiave settoriale”[9]. E di principi generali che consentano di colmare le lacune vi è certo necessità nel CCII, dove lo stratificarsi di diversi interventi normativi ha inevitabilmente lasciato alcuni spazi bianchi, da riempire con l’analogia iuris, oltre che con quello dell’analogia legis. Si pensi, per fare un esempio, alla disciplina del concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio, che si compone solo di (poche) norme proprie e di (poche) norme relate e dove va attribuito significato e valore normativo a questo ampio campo di silenzio.
I principi generali contenuti nel CCII svolgono anche una funzione normativa, costituendo regole di comportamento che i soggetti destinatari sono tenuti ad osservare[10]. Ciò vale sia per quei principi caratterizzati da un grado di analiticità tale da presentare una struttura più vicina a quella delle norme di dettaglio (vedi, ad esempio, l’art. 5 CCII sulla trasparenza ed efficienza delle nomine e l’art. 6 sulla prededuzione), sia anche per quelli che presentano le usuali caratteristiche della genericità e indeterminatezza (art. 4 CCII sui doveri delle parti). Anche per questi ultimi si deve rifuggire dalla facile tentazione di relegarli nel campo delle declamazioni teoriche, che consentono di sindacare le condotte delle parti solo sul piano etico, perché si è in presenza di norme direttamente applicabili alla fattispecie, la cui violazione determina conseguenze apprezzabili sul piano giuridico (vedi infra par. 4)[11]. Questo è un primo risultato da tenere fermo e la cui utilità ermeneutica risulterà nel prosieguo.
3 . Principi generali espressi e principi generali inespressi
Altro aspetto da indagare preliminarmente attiene all’impatto derivante dalla introduzione in via legislativa dei principi generali sui preesistenti principi riconosciuti finora come operanti nel settore del diritto della crisi e dell’insolvenza[12].
Tradizionale è la distinzione tra principi espressi, enunciati in specifiche disposizioni normative, e principi “inespressi”, costruiti in via interpretativa a partire dalle norme di dettaglio. Si tratta di una ripartizione che in larga parte (ma non in modo pieno) corrisponde alle due diverse tecniche di approccio ai principi: la tecnica “deduttiva”, che partendo dalle disposizioni generali contenute nei testi normativi, si interroga sulle potenzialità applicative ed interpretative del principio sui singoli settori dell’ordinamento; la tecnica “induttiva”, che desume i principi attraverso un procedimento di generalizzazione da norme particolari del sistema [13].
È da chiedersi, allora, se l’enunciazione legislativa in specifiche disposizioni di principi generali “espressi” debba o possa condurre all’accantonamento di tutti gli altri principi generali “inespressi”. La domanda si traduce nel verificare se l’elencazione dei principi generali contenuta nel Capo II del Codice costituisca un “numero chiuso”, tale da negare diritto di cittadinanza ad ogni altro principio non formulato in modo espresso, oppure se, accanto ai principi generali espressi, possa continuare a riconoscersi la presenza anche di principi inespressi.
La risposta da preferire è la seconda. Quale che sia la natura ad essi attribuita, l’ordinamento non può fare a meno, a priori, della possibilità di enucleare in via interpretativa principi inespressi, che colmano le lacune, orientano l’interpretazione e danno ordine al sistema[14].
D’altra parte, proprio nella specifica materia del diritto della crisi e dell’insolvenza, non sarebbe sostenibile affermare – ad esempio – che il mancato inserimento della par condicio creditorum tra i principi generali espressi possa condurre ad un suo superamento, nella misura in cui l’esame delle norme particolari del CCII consenta comunque, attraverso successive generalizzazioni di dette norme, di confermare la perdurante esistenza dello stesso, pur con tutti i limiti e le deroghe.
Accanto ai principi generali espressi previsti dal Capo II del CCII, continueranno, quindi, ad esistere i principi generali inespressi, che di volta in volta saranno tratti dalle norme particolari contenute nello stesso. Tra le due “tipologie” di principi, espressi ed inespressi, la differenza si arresterà a livello di procedimento formativo, senza che da questo possano trarsi ulteriori elementi distintivi in punto di funzione, che rimarrà la stessa per ambedue (ruolo interpretativo, integrativo e normativo). Anche sotto il profilo della “sanzione” per il caso di violazione del principio non sembra che possano identificarsi differenze tra le due tipologie, perché le eventuali distinzioni in punto di sanzione non saranno conseguenza della natura espressa o implicita del principio, ma del contenuto e della funzione dello stesso.
4 . Principi generali, clausole generali e norme di dettaglio
Ai principi generali si affiancano le clausole generali, e ciò anche nel diritto della crisi d’impresa e dell’insolvenza[15]. 
Al riguardo si pone, anzitutto, un tema di “regolamento di confini”. La distinzione tra principi e clausole generali non è, infatti, netta[16] e la linea di demarcazione è stata talora individuata nella fattispecie, di cui sarebbero prive le clausole generali[17], tal altra nella indeterminatezza che caratterizzerebbe le clausole generali[18], altre volte ancora in una posizione di sovraordinazione dei principi rispetto alle clausole[19].
Quale che sia l’elemento differenziale, su cui non ci si può soffermare in questa sede, non pare dubitabile che, nella misura in cui si ritengano differenziate rispetto ai principi generali, le clausole generali continueranno ad operare accanto ai principi generali espressi, così come accade per i principi generali inespressi. 
La compresenza nel sistema del diritto della crisi di principi generali e di clausole generali[20], dai rispettivi ambiti applicativi talvolta non compiutamente definiti, conduce peraltro alla possibilità di un potenziale conflitto tra gli stessi [21], che non sempre è risolto con la prevalenza del principio . Sotto altro profilo, la compresenza di principi e clausole generali determina che i primi possono contribuire ad individuare il significato da attribuire al sintagma indeterminato in cui si sostanzia la clausola generale[22]. Il ruolo interpretativo dei principi viene così ad operare non solo nei confronti delle norme di dettaglio, ma anche nei confronti delle clausole generali.
Altro aspetto di riflessione, distinto ma connesso, attiene al rapporto tra principi espressi e norme di dettaglio ed alle reciproche interferenze ermeneutiche [23]. Come acutamente notato, infatti, anche i principi legislativi espressi sono a loro volta soggetti ad interpretazione [24]. E questa interpretazione avverrà sulla base di un confronto sia con altri principi generali, sia con le norme di dettaglio, che sono influenzate ed influenzano allo stesso tempo l’esegesi dei principi. Non ci si deve limitare, quindi, al confronto tra principi generali per indagarne il contenuto ermeneutico, perché, come detto, anche le norme di dettaglio concorrono nel definire compiutamente il contenuto ed il significato dei principi stessi. Si viene così a creare una sorta di “circolarità interpretativa”, nella quale i principi generali espressi orientano l’interpretazione delle norme di dettaglio e, allo stesso tempo, queste ultime concorrono alla corretta ermeneutica del contenuto dei primi. Si tratta di una considerazione da non sottovalutare quando nel prosieguo si procederà all’esame puntuale del contenuto di alcuni dei singoli principi generali.
Svolte queste premesse di metodo, si può procedere all’esame del contenuto dei principi generali del CCII. Un’analisi puntuale dei singoli principi generali, che pretenda di dipanarne per ciascuno ambito di applicazione, contenuto applicativo, problematiche interpretative ed operative, eccederebbe, come ovvio, i limitati confini di questo scritto. Pertanto, si limiterà l’esame a due principi generali, l’uno espresso e l’altro inespresso, selezionati sia per il loro carattere innovativo rispetto al previgente sistema, sia per l’importanza delle loro possibili implicazioni sistematiche, anche in ordine alla definizione dell’assetto di interessi nel diritto della crisi e dell’insolvenza. 
5 . Un esempio di principio espresso: buona fede e correttezza
Il primo principio generale di cui intendo occuparmi è quello di buona fede e correttezza, posto in modo espresso dall’art. 4, comma 1, CCII, in forza del quale “nella composizione negoziata, nel corso delle trattative e dei procedimenti per l’accesso agli strumenti di regolazione, debitore e creditori devono comportarsi secondo buona fede e correttezza”[25]. 
Fermo restando che, nella misura in cui la distinzione tra principi e clausole generali sia possibile, questa previsione sembra collocarsi sul confine tra principi e clausole generali[26], la disposizione è significativa, perché, come anche confermato dalla rubrica (“doveri delle parti”), individua dei doveri, in primis quello di buona fede e correttezza, a carico non solo del debitore, ma anche dei creditori. Si tratta di un principio che, richiamando quanto sopra esposto, assolve certamente una funzione interpretativa, ma allo stesso tempo svolge anche una funzione normativa, fissando norme dirette di condotta a carico delle parti. 
Proprio in relazione a questa funzione normativa, è necessario prima delinearne l’ambito applicativo, poi definire il contenuto degli obblighi imposti alle parti, quindi identificare i soggetti “protetti” dal dovere e, infine, individuare le forme di tutela avverso le condotte lesive dello stesso.
Per quanto riguarda l’ambito applicativo, la norma fa riferimento solo alla composizione negoziata ed alle trattative ed ai procedimenti per l’accesso agli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza, così apparentemente limitandolo alla fase che precede l’apertura degli strumenti di regolazione. Si tratta, però, di una limitazione irragionevole, considerando che il dovere di buona fede e correttezza deve operare anche nelle fasi di svolgimento e di esecuzione degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza, dove l’esistenza di una “comunità” di creditori impone atteggiamenti collaborativi a tutte le parti[27]. D’altra parte, già nel sistema previgente il principio di buona fede e correttezza era stato richiamato da attenta dottrina per fondare un obbligo di cooperazione reciproca in capo ai creditori nelle votazioni concordatarie, con specifico riferimento al problema del controllo di correttezza sul “sacrificio” imposto ai creditori di minoranza o sulla partecipazione di tutti i creditori al “plusvalore” del piano concordatario[28].
Per quanto riguarda il contenuto degli obblighi imposti alle pari, è noto che, secondo l’orientamento prevalente, la buona fede determina un impegno di protezione, che impone a ciascun contraente di tenere quei comportamenti che, a prescindere da specifici obblighi contrattuali, o dal dovere extracontrattuale del neminem laedere, siano idonei a preservare gli interessi della controparte senza rappresentare un sacrificio apprezzabile per il soggetto agente. Nell’ambito della composizione negoziata e degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza questo dovere di cooperazione permette di conferire rilievo giuridico all’interesse di tutte le parti coinvolte, consentendo una valutazione complessiva e sincronica di tutti questi interessi al fine di valutare l’effettiva legittimità e modalità di esercizio dei diritti. Pur nella estrema variabilità delle regole dell’agire nelle quali può concretamente declinarsi il dovere di buona fede[29], esso impone un comportamento leale ad opera delle parti, inteso come comportamento che, senza risolversi in un sacrificio apprezzabile per la parte agente, tenga conto anche degli interessi delle altre parti. Non è certo possibile in questa sede approfondire il tema, né procedere ad una catalogazione delle possibili condotte conformi o difformi rispetto al dovere di buona fede e correttezza. A mo’ di esempio, lato creditore, e specificamente con riferimento ai creditori bancari o finanziari cui la previsione è principalmente rivolta[30], si può certamente sostenere che questo dovere non si traduce in un obbligo di accettare acriticamente ogni proposta di soluzione che sia stata eventualmente prospettata dall’esperto nella composizione negoziata o dal debitore, ma che impone un dovere di serena valutazione, di motivazione e di tempestiva comunicazione delle scelte assunte, come peraltro espressamente previsto con riferimento alla composizione negoziata (art. 16, comma 6, CCII).
Per quanto riguarda l’identificazione dei soggetti destinatari della protezione assicurata dal dovere di buona fede, si potrebbero identificare, a seconda dei casi, nel debitore, negli altri creditori che concorrono sul medesimo patrimonio responsabile o anche nei terzi coinvolti nella crisi d’impresa (es., lavoratori, clienti, fornitori). La distinzione tra le varie categorie di soggetti “protetti” non è così netta nell’ambito del diritto della crisi e dell’insolvenza, perché le scelte del debitore e dei creditori nella fase della negoziazione, svolgimento ed esecuzione della composizione o degli strumenti impattano necessariamente su una platea vasta e variegata di soggetti, i quali a vario titolo sono interessati alla crisi del debitore e che, pertanto, sono tutti destinatari dell’obbligo di cooperazione imposto al debitore ed ai creditori, pur non essendo formalmente “controparte” di questi. 
Per quanto riguarda l’individuazione delle forme di tutela avverso le condotte lesive della buona fede, le stesse possono anzitutto essere rappresentate dal risarcimento del danno. In questa prospettiva, eventuali condotte ostruzionistiche dei creditori nelle fasi delle trattative o anche nelle votazioni concordatarie potrebbero aprire la strada a profili risarcitori, se considerate lesive dalla buona fede[31]. 
Non può trascurarsi, tuttavia, di considerare che nel sistema del diritto civile le conseguenze della violazione della buona fede non sono individuate solo nel risarcimento del danno, ma anche talvolta nel diniego di effetti dell’atto con il quale si realizza la violazione, e comunque variamente modulate per garantire una effettiva tutela al soggetto danneggiato in relazione alla condotta illegittima[32]. Questa possibilità di modulare la reazione in relazione alle circostanze del caso concreto può essere ribadita anche con riferimento al dovere di buona fede e correttezza nel diritto della crisi e dell’insolvenza[33]. Così, ad esempio, un creditore privilegiato che, in presenza di una proposta di concordato preventivo o di concordato di liquidazione che preveda l’integrale e immediato pagamento in danaro anche dei creditori chirografari, rinunci al diritto di prelazione per esercitare il diritto di voto, incorre in violazione del principio di buona fede e correttezza; di conseguenza, la sanzione deve essere rappresentata proprio dalla privazione di quella utilità che lo stesso vuole “abusivamente” ottenere senza sacrificio (perché il trattamento dei creditori privilegiati e chirografari è lo stesso), ossia l’ammissione al voto. Si tratta solo di uno dei possibili esempi di una reazione alla violazione del dovere di buona fede e correttezza che va oltre il mero profilo risarcitorio.
6 . … e un esempio di principio inespresso: sostenibilità, responsabilità sociale e solidarietà
Il principio generale “inespresso” del quale può ormai affermarsi la vigenza (nei limiti che vedremo) nel nostro sistema del diritto della crisi e dell’insolvenza è quello della sostenibilità ambientale e sociale (o, con formula che in larga parte ne condivide il contenuto, della responsabilità sociale dell’impresa). 
Già in precedenti occasioni[34] si è avuto modo di sottolineare che i temi della sostenibilità e della responsabilità sociale dell’impresa, divenuti centrali nel dibattito non solo scientifico sul diritto dell’impresa e del diritto societario[35] e oggetto di un progressivo riconoscimento in ambito normativo, non possono rimanere ancora estranei al diritto della crisi e dell’insolvenza. Se la normativa della crisi e dell’insolvenza è oggi nient’altro che la disciplina di una fase, sia pure delicata, della vita imprenditoriale del debitore e se il quadro di valori operante per l’impresa in condizioni di normale esercizio e solvibile non può essere arbitrariamente alterato quando entra in crisi o diviene insolvente[36], è inevitabile che la spinta ad una maggiore responsabilità delle imprese nella riduzione degli impatti negativi della loro attività sul contesto ambientale e sociale si riflette anche nella disciplina della crisi e dell’insolvenza. Sostenibilità e responsabilità sociale sono temi che attengono all’attività dell’impresa tout court, non solo dell’impresa societaria, e quindi coinvolgono anche l’impresa in crisi o insolvente.
Il discorso assume, ovviamente, declinazioni diverse e non pienamente omogenee nei diversi strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza, perché diverso in ciascuno è l’assetto di interessi che le norme di dettaglio pongono e dalle quali si deve partire per la possibile evocazione di questo principio generale inespresso. 
Partendo dalla liquidazione giudiziale, e rinviando ai precedenti scritti per un’argomentazione più completa, si possono rinvenire una pluralità di norme (i parametri di scelta dell’affittuario; presupposti e limiti per l’esercizio dell’impresa; le norme in tema di contratti pubblici, di contratti di lavoro e di contratti preliminari di immobili ad uso abitativo destinati ad abitazione principale; la disciplina della concorrenza; la disciplina del golden power) [37] che, seppure con modalità ed effetti diversi, se visti in modo unitario possono assumere un rilievo sistematico, concorrendo a definire un principio generale del sistema, operante già nell’attuale tessuto normativo. 
Il principio generale si radica nel riconoscimento che l’interesse dei creditori, obiettivo primario della procedura di liquidazione giudiziale, deve contemperarsi con altri interessi di pari rilevanza costituzionale. La concomitante presenza di plurimi interessi rilevanti impone la ricerca di un punto di equilibrio che non risolve i conflitti nella meccanica affermazione dell’uno e nella negazione dell’altro, ma nella doverosa ponderazione, attuata secondo criteri di ragionevolezza e proporzionalità. Trattandosi di interessi e di diritti che fanno tutti parte di un tessuto normativo in cui devono convivere e nel quale ciascuno può limitare la portata dell’altro, il contemperamento tra gli stessi deve essere attuato in base ad un giudizio di bilanciamento, secondo una tecnica interpretativa da tempo utilizzata dalla nostra Corte Costituzionale[38].
In questa valutazione sistematica e integrata dei vari interessi, la circostanza che il terreno di confronto sia una procedura concorsuale, avente l’obiettivo primario di preservare il “nucleo essenziale” dell’interesse dei creditori, impone l’individuazione di un possibile criterio di bilanciamento. Programmaticamente, questa regola di contemperamento, per quanto dinamica e da scrutinare in concreto, pur considerando la tutela degli interessi dei creditori, e quindi lo scopo della loro migliore soddisfazione possibile, deve tracciare il limite di un principio di rispetto degli altri interessi di carattere generale. Detto con una formula diversa ma dal contenuto speculare, occorre misurare il limite del minore pregiudizio che sia inevitabile somministrare ai creditori per tutelare gli altri interessi. Il punto di equilibrio va rinvenuto nell’esigenza di assicurare il più ampio soddisfacimento dei creditori che sia consentito nel rispetto degli altri interessi e diritti rilevanti, il che non significa trasformare l’interesse dei creditori in “tiranno” nei confronti delle altre posizioni giuridiche tutelate[39], ma avere consapevolezza che lo stesso può essere limitato solo nello stretto limite necessario per non arrecare un irragionevole pregiudizio agli altri interessi. Il sacrificio dell’interesse dei creditori deve servire ed essere indispensabile per la migliore realizzazione di un altro interesse rilevante, pena l’irragionevolezza della limitazione[40].
La possibilità di un limite alla massimizzazione dell’attivo da destinare ai creditori per garantire la tutela di interessi-altri trova un fondamento costituzionale nell’art. 41 Cost., che, nel riconoscere che “l’iniziativa economica privata è libera” (comma 1), dispone che essa “non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all'ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”, nonché nel principio di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost.[41]. Altre conferme dell’esistenza di un principio che impone il bilanciamento tra interessi dei creditori e interessi-altri nella procedura di fallimento/liquidazione giudiziale si traggono dalla Direttiva (Ue) 2019/1023 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 2019 sulla ristrutturazione e sull’insolvenza (consideranda 2, 3 e 10; art. 4)[42]. 
Per garantire la coerenza dell’approdo raggiunto con i vincoli costituzionali ed eurounitari posti in relazione alle possibili limitazioni al soddisfacimento del diritto di credito, in quanto ricompreso nel concetto di proprietà[43], è necessario però individuare il contenuto minimo garantito del diritto dei creditori che non può essere intaccato dal perseguimento di interessi-altri. Pur nella inevitabile variabilità in concreto delle possibili soluzioni che possono derivare dalla ponderazione di interessi diversi secondo il canone della ragionevolezza, è possibile tracciare una linea di riferimento. Se la procedura di liquidazione giudiziale è funzionale al soddisfacimento dei creditori, essa deve complessivamente offrire ai creditori una soddisfazione almeno pari a quella che si avrebbe al di fuori ed in mancanza della stessa, perché, nel caso contrario, la procedura non sarebbe nell’interesse, ma contro l’interesse dei creditori. La liquidazione giudiziale può consentire la tutela anche di interessi collettivi diversi da quelli dei creditori, ma in ogni caso non può essere piegata fino ad attribuire ai creditori un soddisfacimento inferiore rispetto a quello che otterrebbero nel caso di liquidazione o esecuzione individuale, al di fuori del concorso collettivo. Il contenuto minimo garantito del diritto dei creditori, che non può essere sacrificato dal perseguimento di interessi diversi, si misura con il livello del presumibile soddisfacimento che i creditori collettivamente avrebbero potuto conseguire in mancanza della procedura.
Più complesso è il discorso per quanto riguarda il concordato preventivo, dove vi è un dato centrale che fa argine rispetto all’ingresso di considerazioni attinenti alla sostenibilità sociale e ambientale dell’impresa in concordato. Si tratta della regola che sottopone l’omologazione della proposta al previo consenso (a maggioranza) espresso dai creditori mediante il voto. Se i creditori non esprimono, secondo le regole dettate dal legislatore, il proprio voto favorevole alla proposta di concordato, all’esito evidentemente di una delibazione positiva circa la convenienza per essi della proposta, il procedimento si interrompe in via definitiva, senza la possibilità che la stessa autorità giudiziaria possa sostituirsi alla volontà collettiva dei creditori (salvo la deroga prevista per il cram down dell’amministrazione finanziaria).
Il principio di maggioranza che regge il concordato preventivo contribuisce a confermare la centralità dell’interesse dei creditori nella procedura, ma non può comunque negarsi che nel tessuto normativo sia presenti norme che attribuiscono rilievo anche ad interessi diversi rispetto a quello dei creditori. Si pensi all’art. 84, comma 2, CCII, secondo cui “la continuità aziendale tutela l’interesse dei creditori e preserva, nella misura possibile, i posti di lavoro, CCII”, oppure all’obbligo, ove sia prevista la prosecuzione dell’attività d’impresa in forma diretta, di indicare nel piano anche “i costi necessari per assicurare il rispetto della normativa in materia di sicurezza sul lavoro e di tutela dell’ambiente” (art. 87, comma 1, lett. f, CCII), così come “le modalità di informazione e consultazione dei rappresentanti dei lavoratori nonché gli effetti della ristrutturazione sui rapporti di lavoro, sulla loro organizzazione o sulle modalità di svolgimento delle prestazioni” (art. 87, comma 1, lett. o, CCII)[44]. Se, quindi, la considerazione degli impatti sociali e ambientali della continuità aziendale non è estranea al sistema concordatario, la riflessione dovrà svilupparsi in ordine alle conseguenze dell’eventuale violazione di questo principio di sostenibilità ambientale e sociale, che non può e non deve rimanere mera declamazione teorica.
Si può considerare la sostenibilità sociale e ambientale un principio generale inespresso, costruito in via interpretativa attraverso un procedimento di generalizzazione da norme di dettaglio, contenute tanto nella disciplina concorsuale, quanto in testi normativi diversi, oppure lo si può considerare come espressione del principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost.[45] o come riflesso doveroso della comunità che viene a formarsi attorno alla crisi d’impresa[46], In ogni caso, pur consapevole della complessità della questione e della difficoltà di addivenire ad un cambio di paradigma negli interpreti e negli operatori caso, paiono ormai maturi tempi per riconoscere a questo principio generale del diritto della crisi e dell’insolvenza[47], ovviamente con diverse declinazioni nei vari strumenti di regolazione, sia una funzione interpretativa, quale indice di valori che guidano nell’esegesi, sia anche una funzione normativa diretta, esprimendo un criterio giuridicamente rilevante ed un canone vincolante di comportamento a cui le parti, compresi gli organi delle procedure, si devono attenere nell’esercizio delle proprie funzioni e dei propri poteri.

Note:

[1] 
Non è questa la sede, ovviamente, per dare conto del dibattito in argomento. Segnalo soltanto, tra i contributi più significativi o recenti e tra quelli che se ne sono occupati specificamente nel campo del diritto commerciale, N. Bobbio, Princìpi generali del diritto, in Noviss. Dig. it., XIII, 1966, 888; A. Falzea, Relazione introduttiva, in I principi generali del diritto, Atti del Convegno linceo del 27-29 maggio 1991, Roma, 1992, 17 (e anche in Riv. dir. civ., 1991, 462 ss.); L. Mengoni, I principi generali del diritto e la scienza giuridica, in I principi generali del diritto, cit., 319; P. Rescigno, Sui principi generali del diritto, in Riv. trim. dir. Proc. civ., 1992, 380 ss.; M. Libertini, Clausole generali, norme di principio, norme a contenuto indeterminato. Una proposta di distinzione, in Riv. crit. dir. priv., 2011, 345 ss.; Id., Ancora a proposito di principi e clausole generali, a partire dall’esperienza del diritto commerciale, in Rivista Odc, 2/2018; F. Denozza, Norme, principi e clausole generali nel diritto commerciale: un’analisi funzionale, ivi, 379 ss.; G. Terranova, I principi e il diritto commerciale, in Riv. dir. comm, 2015, 183 ss.; N. Lipari, Intorno ai «principi generali del diritto», in Riv. dir. civ., 2016, 28; G. D’Amico (a cura di), Principi e clausole generali nell’evoluzione dell’ordinamento giuridico, Milano, 2017; P. Femia, Principi e clausole generali. Tre livelli di indistinzione, Napoli, 2021.
[2] 
Vedi, per limitarsi ai soli autori che ne hanno trattato con riferimento al diritto della crisi e dell’insolvenza, G. D’Attorre, I principi generali nel diritto della crisi d’impresa”, in NGCC, 2019, 1084; S. Ambrosini, I principi generali, in C. D’Arrigo, L. De Simone, F. Di Marzio, S. Leuzzi (a cura di), Commento al codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, Milano, 2019, 29; R. Rordorf, I doveri dei soggetti coinvolti nella regolazione della crisi nell’ambito dei principi generali del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Il Fall., 2021, 591.
[3] 
N. Lipari, Intorno, cit., 35.
[4] 
Cfr., tra gli altri, B. Pastore, Interpreti e fonti nell’esperienza giuridica contemporanea, Padova, 2014, 41: “All’interno di un ambito segnato dal pluralismo delle fonti, vengono in evidenza i principi, con la loro funzione ordinante e unificante. Essi rappresentano una bussola, affidata agli interpreti, per navigare in un arcipelago giuridico soggetto a fibrillazioni e a continui mutamenti» e R. Rordorf, I doveri, cit., 590: “la scelta di formulare una serie di principi generali, oltre che di definizioni, a mo’ di introduzione alla varie disposizioni con cui il nuovo codice mira a regolare i diversi aspetti della materia concorsuale evidenzia bene la volontà del legislatore di collocare tali disposizioni in un quadro organico”.
[5] 
Sul nesso valori-principi-regole vedi G. Zagrebelsky, Diritto per valori, principi o regole (a proposito della dottrina dei principi di Ronald Dworkin), in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico, 31, 2002, 877.
[6] 
G. D’Attorre, La formulazione legislativa dei principi generali nel codice delle crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Banca, borsa, tit. cred., 2019, I, 470.
[7] 
Così, testualmente, R. Guastini, Lacune del diritto, in Dig. disc. Priv, X, Torino, 1993.
[8] 
Nel sistema previgente, sul rapporto tra principi del diritto concorsuale e principi generali dell’ordinamento, vedi V. Andrioli, Fallimento (dir. priv.), in Enc. dir., XVI, 1967, 266 e R. Provinciali, Manuale di diritto fallimentare, 4ª ed., Milano, 1969, I, 44 ss. 
[9] 
R. Rordorf, I doveri, cit., 590.
[10] 
Per un’efficace sintesi delle tesi sulla distinzione tra regole e principi vedi G. Pino, Principi e argomentazione giuridica, in Ars Interpretandi. Annuario di ermeneutica giuridica, 2009, 131 ss.; Id., Diritti e interpretazione. Il ragionamento giuridico nello Stato costituzionale, Bologna, 2010, 51 ss.
[11] 
In questo senso vedi già M. Fabiani, Il Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza tra definizioni, principi generali e qualche omissione, in Foro it., 2019, 166.
[12] 
Sul punto riprendo considerazioni già svolte in precedenti scritti: G. D’Attorre, La formulazione legislativa, cit., 461; Id., I principi generali, cit., 1084 ss.
[13] 
Su questa distinzione, vedi, tra gli altri, N. Bobbio, Princìpi generali, cit., 892.
[14] 
G. D’Attorre, La formulazione legislativa, cit., 467.
[15] 
Sul rapporto tra principi generali e clausole generali, vedi P. Femia, Principi e clausole generali, cit., 17 ss.; con specifico riferimento al diritto della crisi e dell’insolvenza, vedi G. D’Attorre, I principi generali, cit., 1086 ss.; R. Brogi, Clausole generali e diritto concorsuale, in Il Fall., 2022, 883.
[16] 
Per un compiuto esame del rapporto tra principi e clausole generali, vedi M. Libertini, Clausole generali, cit., 346 ss.; sulla distinzione tra clausole generali e principi generali nel diritto delle società, vedi G.C.M. Rivolta, Diritto delle società. Profili generali, in Trattato di Diritto commerciale, fondato da V. Buonocore, diretto da R. Costi, 2015, 215 ss.
[17] 
L. Mengoni, Spunti per una teoria delle clausole generali, in Riv. crit. dir. priv., 1986, 10-11.
[18] 
Vedi, ad esempio, V. Velluzzi, Le clausole generali. Semantica e politica del diritto, Milano, 2010.
[19] 
S. Rodotà, Il tempo delle clausole generali, in Riv. crit. dir. priv., 1987, 709 ss., secondo cui «le clausole generali non sono principi, anzi sono destinate ad operare nell’ambito segnato dai principi».
[20] 
Sulle quali vedi, di recente, l’attento lavoro di R. Brogi, Clausole generali e diritto concorsuale, cit., 877.
[21] 
Cfr. G. Terranova, I principi, cit., 215 ss., il quale si interroga sulla possibilità che una clausola generale prevalga, in alcuni casi, su un principio di diritto, e pone l’esempio del potenziale conflitto, nel sistema revocatorio, tra il principio della par condicio creditorum e la clausola generale della fraus creditorum.
[22] 
In questo senso R. Brogi, Clausole generali e diritto concorsuale, cit., 883, sia pure con riferimento ai principi di rango costituzionale.
[23] 
Sui problemi che si pongono nelle discipline caratterizzate dalla compresenza di norme generali e di norme di dettaglio, vedi M. Libertini, Clausole generali, cit., 346.
[24] 
Vedi N. Lipari, Intorno, cit., 35, in nota: “Lo dimostra la sorte che hanno avuto i tentativi, talora compiuti dal nostro legislatore, di indicare, in apertura di un testo normativo, le ‘finalità della legge’, quasi a voler suggerire all’interprete una possibile chiave interpretativa. L’esperienza ha dimostrato l’assoluta inutilità di simili atteggiamenti se non altro in forza dell’elementare considerazione che anche enunciati legislativi che si propongono esclusivamente di indirizzare l’interpretazione sono a loro volta soggetti al procedimento interpretativo”. Osserva G. Terranova, I principi, cit., 197-198, che anche per i principi enunciati da una legge “si tratta di stabilire la portata e l’ambito di applicazione del precetto...Se si ha già il principio, dal quale prendere le mosse, occorre stabilire fino dove ci si può spingere nell’applicarlo”.
[25] 
In argomento vedi già, tra gli altri, R. Rordorf, I doveri, cit., 594 ss.; G. D’Attorre, I principi generali, cit., 1089 ss.; R. Brogi, Clausole generali e diritto concorsuale, cit., 885 ss.
[26] 
G. D’Attorre, La formulazione legislativa, cit., 469.
[27] 
Con riferimento alla previgente formulazione dell’art. 4 CCII, vedi sul punto R. Rordorf, I doveri, cit., 595.
[28] 
G. Guerrera, Il “nuovo” concordato fallimentare, in questa Banca, borsa, tit. cred., 2006, 542 s.; F. Di Marzio, Il diritto negoziale della crisi d’impresa, Milano, 2011, 178-179.
[29] 
Per tutti vedi R. Rordorf, I doveri, cit., 595.
[30] 
R. Rordorf, I doveri, cit., 598; V. Mazzoletti, Ruolo e responsabilità delle banche nelle fasi di allerta e composizione della crisi, in Il Fall., 2020, 301 ss.
[31] 
M. Fabiani, Il Codice, cit., 166; G. D’Attorre, I principi generali, cit., 1090; R. Rordorf, I doveri, cit., 598.
[32] 
Cfr., per una tipizzazione, A. D’Angelo, La buona fede, in Il contratto in generale, in Trattato Bessone, IV, Torino, 2004, 143 ss.
[33] 
In questo senso vedi già M. Fabiani, Il Codice, cit., 166.
[34] 
G. D’Attorre, La responsabilità sociale dell’impresa insolvente, in Riv. dir. civ., 2021, 60 ss.; Id., Manuale di diritto della crisi e dell’insolvenza, Torino, 2021, 237; Id., Sostenibilità e responsabilità sociale dell’impresa, in www.dirittodellacrisi.it, 13 aprile 2021.
[35] 
La letteratura in argomento è sterminata. A solo titolo di esempio, in Italia, vedi, con diversità di impostazioni e risultati, V. Buonocore, Impresa (Diritto privato), in Enciclopedia del diritto. Annali I, Milano, 2007, 765; U. Tombari, “Potere” e “interessi” nella grande impresa azionaria, Milano, 2019, 36 ss.; M. Cian, Dottrina sociale della Chiesa, sviluppo e finanza sostenibili: contributi recenti, in Riv. soc., 2020, 53 ss.; A. Bassi, La CSR doctrine di fronte ai creditori, stakeholders di prima istanza, in Giur. comm., 2022, I, 175 ss.; F. D’Alessandro, Il mantello di San Martino, la benevolenza del birraio e la Ford modello T, senza dimenticare Robin Hood (Divagazioni semi-serie sulla c.d. responsabilità sociale dell’impresa e dintorni, in Riv. dir. civ., 2022, 409 ss.
[36] 
L. Stanghellini, Le crisi d’impresa fra dritto ed economia, Bologna, 2007, 50 ss. 
[37] 
Per una più compiuta e analitica argomentazione, vedi G. D’Attorre, La responsabilità sociale, cit., 73 ss.
[38] 
Vedi, ad esempio, Corte Cost., 28 novembre 2012, 264; Corte Cost., 9 maggio 2013, n. 85; In dottrina, vedi R. Bin, Diritti e argomenti: il bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza costituzionale, Milano, 1992; A. Morrone, l bilanciamento nello stato costituzionale. Teoria e prassi delle tecniche di giudizio nei conflitti tra diritti e interessi costituzionali, Torino, 2014; Id., Bilanciamento (giustizia costituzionale), in Enciclopedia del diritto, Annali, vol. II, tomo II, Milano, 2008, 185 ss.
[39] 
Vedi ancora Corte Cost. 9 maggio 2013, n. 85.
[40] 
È questo il cd. criterio della “massima espansione delle tutele” di tutti i diritti coinvolti, utilizzato nella giurisprudenza costituzionale (Corte Cost., 20 giugno 2013, n. 143).
[41] 
In argomento vedi, di recente, M. Fabiani, Il valore della solidarietà nell’approccio e nella gestione della crisi d’impresa, in Il Fall, 2022, 5 ss.
[42] 
Per la cd. “visione sociale” dell’impresa in crisi che caratterizzerebbe la Direttiva, vedi P. Vella, L’impatto della direttiva (UE) 2019/1023 sull’ordinamento concorsuale interno, in corso di pubblicazione in Il Fall.; S. Pacchi, La ristrutturazione dell’impresa come strumento per la continuità nella direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 2019/1023, in Dir. fall., 2019, I, 1278.
[43] 
G.B. Portale, Dalla “Pietra del Vituperio” al “bail-in”, in Riv. dir. comm., 2017, 21 ss.; I. Donati, Crisi d’impresa e diritto di proprietà. Dalla responsabilità patrimoniale all’assenza di pregiudizio, in Riv. soc, 2020, 164 ss.
[44] 
Sul punto vedi F. Aprile, Note sparse in tema di interesse dei creditori e tutela dei posti di lavoro nel concordato preventivo in continuità, in Dirittodellacrisi.it, 28 luglio 2022.
[45] 
In argomento vedi, tra i molti, le colte e dense pagine di F.D. Busnelli, Il principio di solidarietà e ‘l’attesa della povera gente’, oggi, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2013, 413 ss.
[46] 
In questo senso vedi lo studio approfondito e acuto di M. Fabiani, Il valore della solidarietà, cit., 7 ss.
[47] 
Vedi E. Ricciardiello, Sustainability and going concern, in Riv. Soc., 2022, 53 ss, che considera la Corporate responsibility quale deterrente contro condotte azzardate degli amministratori nella fase di pre-crisi o di crisi.

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