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Crisi d’impresa e ritorno al valore. Composizione e ristrutturazione del debito. Ristrutturazione e processo*

Stefania Pacchi, Ordinario di diritto commerciale Università di Siena - Cattedra d’eccellenza Universidad Carlos III, Madrid

12 Dicembre 2025

*Lo scritto riprende i contenuti dell’intervento svolto dall’A. al Convegno “Il diritto dell’insolvenza spiegato ai bambini: un diritto postmoderno e la sua lavagna”, organizzato da Ass. PACI, il 21 - 22 novembre 2025 presso Molino Stucky Hilton Hotel - Venezia.
L’A. svolge una riflessione sul diritto della crisi e sulla ricerca da parte sua di una nuova misura tra autonomia, controllo e responsabilità. La crisi viene trasformata in occasione di rigenerazione del valore. Composizione, ristrutturazione e processo garantiscono una sostenibilità non solo economica, ma anche giuridica e relazionale. Il valore si salva solo se è condiviso e verificato, attraverso responsabilità diffuse. La crisi diventa così uno spazio in cui il diritto può riscrivere, ogni volta, il senso del valore.
Riproduzione riservata
1 . Premessa
Il titolo del convegno — “Il diritto dell’insolvenza spiegato ai bambini: un diritto postmoderno e la sua lavagna” — è, di per sé, un piccolo manifesto. 
Dietro l’ironia apparente si cela un invito a spogliarci di ogni pretesa di tecnicismo autoreferenziale, per tornare a guardare il diritto della crisi con occhi semplici, curiosi, persino ingenui: quelli di chi vuole capire, prima ancora che classificare. 
“Spiegato ai bambini” significa, in fondo, ricondurre la complessità all’essenziale. Vuol dire chiedersi che cosa resti del diritto dell’insolvenza, una volta cancellate — come da una lavagna — tutte le incrostazioni dogmatiche, le procedure, le prassi stratificate. 
Cosa resta, se non l’idea di fondo che ogni crisi, economica o personale, è un momento di transizione in cui si misura la possibilità del ritorno al valore, della fiducia, della ricostruzione? 
La lavagna, allora, non è solo uno strumento didattico: è una metafora epistemologica. 
Essa esprime l’idea di un diritto reversibile, che accetta la possibilità dell’errore, della correzione, della riscrittura. Un diritto che non pretende di esaurire la complessità in un unico schema, ma che sperimenta, traccia, cancella, riprova. 
La lavagna registra e, allo stesso tempo, libera: custodisce il segno, ma invita al superamento; è stabile e instabile, come il diritto postmoderno. 
Il riferimento al diritto postmoderno aggiunge, infatti, un altro livello di lettura: il nostro è un diritto che non crede più in modelli unici o verità sistematiche. 
È un diritto frammentato, relazionale, aperto, che non cerca l’unità nella struttura, ma nel senso. Un diritto che accoglie l’incompiutezza come valore, e che trova nella crisi non la negazione, ma la manifestazione più radicale della propria incompiutezza. 
È in questo spirito che affronto il tema della nostra sessione: “Crisi d’impresa e ritorno al valore. Composizione e ristrutturazione del debito. Ristrutturazione e processo”. 
Perché forse, per “spiegare” davvero il diritto dell’insolvenza — anche ai bambini — bisogna tornare a raccontare le parole chiave di questo diritto: crisi, valore, debito, fiducia, tempo. 
Dietro ciascuna di esse si nasconde una storia di perdita e di rinascita, di limite e di possibilità. 
Ecco, allora, la mia prospettiva: provare a leggere la crisi non come dissoluzione, ma come occasione di rigenerazione del valore; la composizione e la ristrutturazione del debito non come meri strumenti tecnici, ma come narrazioni del valore che si ricompone; il processo non come giudizio di colpa, ma come spazio di verifica del senso. 
Perché, in fondo, la lavagna del diritto dell’insolvenza serve proprio a questo: a riscrivere, ogni volta, il modo in cui il diritto e l’impresa tentano di ritrovare sé stessi.
2 . Dalla crisi come dissoluzione alla crisi come rigenerazione
Negli ultimi vent’anni, il diritto della crisi d’impresa ha vissuto una metamorfosi profonda: da diritto della dissoluzione a diritto della rigenerazione del valore. 
Quello che un tempo era il “diritto del fallimento” — centrato sull’insolvenza e sulla liquidazione — si è progressivamente trasformato in un diritto della continuità, fondato sull’idea che la crisi non segna la fine dell’impresa, ma può essere l’occasione per la sua rinascita. 
La crisi, allora, non è più il fallimento di un equilibrio, ma il luogo di un nuovo equilibrio. 
Essa è, in fondo, un momento di verità: un banco di prova per verificare se l’impresa — e con essa il sistema economico e giuridico che la circonda — siano in grado di ritrovare senso e valore attraverso la negoziazione, la ristrutturazione e, quando necessario, il giudizio. 
In questa prospettiva, parlare oggi di “ritorno al valore” significa misurarsi con un cambiamento culturale e giuridico che attraversa tutto il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza: dal piano attestato al concordato in continuità, dall’accordo di ristrutturazione al piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione, fino al ruolo del processo come spazio di verifica e di legittimazione del valore stesso. 
La rigenerazione non è mai solo economica: è giuridica, relazionale, istituzionale. Un’impresa che si rigenera non “ritorna” a ciò che era, ma diventa qualcosa che prima non esisteva: una nuova identità, una nuova promessa, un nuovo patto con i suoi interlocutori.
3 . Il “ritorno al valore” come categoria sistemica
Il valore è diventato il centro di gravità del diritto della crisi. Non solo valore economico, ma valore giuridico e relazionale: ciò che resta dell’impresa anche quando la sua liquidità è compromessa; ciò che il diritto deve preservare affinché la crisi non degeneri in distruzione. 
Nel nuovo sistema, il valore assume tre dimensioni: 
1. Economica, come capacità dell’impresa di generare flussi sostenibili e di mantenere una funzione produttiva; 
2. Giuridica, come misura di equilibrio tra i diversi interessi coinvolti (imprenditore, creditori, lavoratori, collettività); 
3. Etica e sociale, come testimonianza di una fiducia che l’ordinamento intende ricostruire nel mercato e nelle relazioni d’impresa. 
A queste tre dimensioni si aggiunge una quarta, implicita ma decisiva: la dimensione informativa. Il valore, infatti, è tale solo se è conoscibile e verificabile. Nel diritto della crisi, la qualità dell’informazione è ormai parte del valore stesso: l’opacità lo deteriora, la trasparenza lo crea. 
Il “ritorno al valore” è, allora, un ritorno alla centralità della relazione: il valore non risiede nella somma dei beni, ma nella qualità del rapporto fiduciario che lega debitore e creditori, amministratori e stakeholders, diritto ed economia. 
Ma il valore, nel diritto, non si limita a essere stimato: deve essere misurato e, al tempo stesso, qualificato. Il diritto incontra qui una tensione strutturale: ciò che l’economia quantifica, il diritto interpreta; ciò che il piano rappresenta come proiezione numerica, il giudice valuta come plausibilità narrativa. Il valore giuridico, in questo senso, non è la copia del valore economico, ma la sua traduzione istituzionale. 
È proprio in questo spazio di traduzione — dove il linguaggio dei numeri incontra il linguaggio delle relazioni — che prende forma la necessità di strumenti capaci di trasformare il valore stimato in valore negoziato, e il valore negoziato in valore realizzabile. Tale passaggio segna il punto di raccordo naturale con la dialettica tra composizione e ristrutturazione del debito, che rappresentano, appunto, i due momenti attraverso cui il valore viene prima costruito e poi reso sostenibile.
4 . Composizione e ristrutturazione del debito: due momenti di un unico processo
Nel linguaggio del diritto della crisi, “composizione del debito” e “ristrutturazione del debito” non sono termini sinonimi, ma fasi complementari di un medesimo processo di ritorno al valore. 
  • La composizione del debito rappresenta il momento negoziale: la ricerca di un accordo, il tentativo di riallineare le aspettative, di trasformare il conflitto in convergenza. È il piano della relazione e della fiducia.
  • La ristrutturazione del debito, invece, è il momento strutturale: quello in cui l’accordo si traduce in una nuova architettura dei rapporti obbligatori, in una sostenibilità finanziaria e industriale. È il piano dell’ordine e della fattibilità.
In questa prospettiva, la composizione è il come, la ristrutturazione è il cosa. La prima si fonda sulla disponibilità degli attori; la seconda sul calcolo della sostenibilità. Ma entrambe ruotano attorno al medesimo asse: la conservazione del valore attraverso la ricostruzione dell’equilibrio.
Il diritto diventa un dispositivo di mediazione: un insieme di regole che non impongono, ma accompagnano; che non sanzionano, ma rendono possibile un nuovo patto tra debitore e creditori.
Il piano attestato ex art. 56 CCII, l’accordo di ristrutturazione dei debiti (con i suoi sfaccettati modelli), il piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione e il concordato in continuità rappresentano — ciascuno con diversa intensità di controllo — modelli di composizione e ristrutturazione graduata del debito e dell’impresa.
Accanto alla dimensione negoziale e a quella strutturale si inserisce, oggi, una dimensione istituzionale policentrica, composta da attestatori, esperti, giudici, revisori, creditori pubblici qualificati, organismi di composizione: una costellazione di attori che, con diversi gradi di autonomia e responsabilità, concorrono alla produzione del valore giuridico.
5 . La dimensione negoziale del valore
La composizione del debito è, prima di tutto, un atto di fiducia. Essa presuppone che l’impresa sia ancora un soggetto “negoziabile”, capace di proporre un piano e di ispirare credito. 
È qui che il ruolo dell’attestatore, dei consulenti, dei professionisti indipendenti diventa decisivo: perché il valore negoziato diventi valore giuridico, esso deve essere verificabile. 
Il sistema attuale ha introdotto una vera e propria tecnologia della fiducia: l’attestazione, la trasparenza informativa, la disclosure ai creditori non sono meri adempimenti formali, ma strumenti di legittimazione del valore. 
Solo un valore attestato può diventare valore condiviso; solo un valore condiviso può diventare valore salvato. 
In questa luce, il diritto della crisi si avvicina al diritto dei contratti complessi: il debito diventa il luogo in cui si ricostruisce il consenso, in cui il passato — fatto di inadempimenti — viene riconvertito in futuro sostenibile. 
La ristrutturazione del debito è dunque un atto creativo: essa produce nuovo valore giuridico, non si limita a distribuirne uno preesistente. Essa riorganizza identità, responsabilità, aspettative. Restituisce al mercato un soggetto trasformato.
6 . Dalla ristrutturazione del debito alla ristrutturazione dell’impresa
Ma il debito è solo una delle forme della crisi. Ristrutturare il debito, senza ristrutturare l’impresa, significa intervenire sulla superficie e non sulla causa.
Il Codice della crisi — anche attraverso le norme sulla continuità aziendale — ha voluto ricongiungere questi due livelli: la sostenibilità finanziaria e quella industriale. 
La ristrutturazione del debito è efficace solo se accompagnata da una ristrutturazione dei processi produttivi, dei costi, dei rapporti di lavoro, delle strategie. È, in fondo, un atto di governance: una ridefinizione dell’identità stessa dell’impresa. 
Ripensare l’impresa significa ripensarne l’identità profonda: il suo modello di creazione del valore, la sua cultura organizzativa, il modo in cui interpreta il proprio ruolo nel mercato e nella comunità. La crisi espone le fragilità, ma apre anche spazi impensati di innovazione.
Ed è proprio quando l’impresa si ripensa e si ricostruisce — sul piano operativo, culturale e identitario — che emerge la necessità di un luogo in cui questa trasformazione possa essere misurata, verificata e resa giuridicamente affidabile. 
La ristrutturazione, infatti, non si compie nel solo spazio dell’autonomia: richiede un momento di riconoscimento istituzionale, di controllo proporzionato, di legittimazione esterna. È qui che entra in gioco il processo, come sede in cui il valore rigenerato deve essere presentato, valutato e, se meritevole, certificato.
7 . Il processo come misura e garanzia del valore
Se il valore nasce nella negoziazione, il processo è il luogo della sua verifica e legittimazione. Non si tratta più di un processo punitivo, ma di un processo di garanzia: garanzia che il valore negoziato sia reale, che la sostenibilità dichiarata sia plausibile, che gli equilibri raggiunti siano giusti. 
La trasformazione del processo concorsuale riflette questa nuova funzione. Il giudice non è più custode di un ordine statico, ma arbitro di un equilibrio dinamico tra autonomia e controllo. Egli valuta non la “colpa” dell’imprenditore, ma la ragionevolezza del piano; non la correttezza astratta, ma la coerenza sistemica tra mezzi e fini. 
Il processo diventa così uno spazio di traduzione: traduzione del valore economico in valore giuridico; traduzione del consenso negoziale in affidabilità istituzionale. La giurisdizione non sostituisce il mercato, ma lo completa: lo rende visibile, verificabile, giuridicamente affidabile. 
In questa dialettica si manifesta una tensione strutturale: da un lato la spinta verso la privatizzazione della crisi, con strumenti negoziati e procedure volontarie; dall’altro la necessità della legittimazione pubblica, soprattutto quando la crisi tocca interessi collettivi o valori indisponibili. 
La presenza del giudice, pertanto, non è un peso, ma una forma di tutela sistemica del valore. 
Il processo concorsuale si propone così come un vero laboratorio del valore giuridico: un luogo in cui l’economia incontra il diritto e nel quale il diritto misura, attraverso criteri di equità e proporzionalità, la legittimità delle soluzioni negoziali. 
Ogni laboratorio, per funzionare, richiede non solo strumenti adeguati, ma anche il tempo giusto. La verifica del valore non è un atto astratto: è un atto situato, che trae significato dal momento in cui avviene. Anche le soluzioni più equilibrate rischiano di perdere efficacia se intervenute troppo tardi o, al contrario, prematuramente. 
Per questo la dimensione processuale, pur essendo luogo di garanzia, non può ignorare la variabile temporale: è chiamata a misurare non solo il cosa e il come, ma anche il quando delle scelte compiute dall’impresa e dai suoi interlocutori.
8 . Il tempo della crisi e il valore della tempestività
Così, ogni riflessione sul valore deve misurarsi con la dimensione del tempo. Tutte le soluzioni della crisi devono confrontarsi con l’orologio: con la capacità di anticipare, prevenire, reagire prima che il valore evapori. 
La crisi è un fenomeno dinamico, e la tutela del valore dipende dalla tempestività della reazione. La degenerazione verso l’insolvenza irreversibile non è quasi mai un fatto improvviso: è quasi sempre il risultato di un ritardo. Ritardo nell’accorgersi, nel decidere, nel comunicare, nel negoziare. 
Per questo, la gestione del tempo è parte integrante della gestione del valore. L’obbligo degli amministratori di dotarsi di assetti adeguati ex art. 2086 c.c. non è un adempimento tecnico, ma un presidio temporale: consente all’impresa di vedere prima, capire prima, intervenire prima. La prevenzione non è un orpello, ma una forma di tutela del valore. 
La tempestività è un dovere fiduciario: verso i creditori, verso i lavoratori, verso il mercato. Ed è anche un dovere narrativo: un’impresa che interviene tardi perde credibilità; un’impresa che interviene per tempo può ancora raccontare una storia di recupero. 
Il “ritorno al valore”, allora, significa anche ritorno al tempo utile: alla scelta responsabile di riconoscere la crisi quando essa è ancora reversibile. Il diritto della crisi contemporaneo è un diritto che premia la tempestività e che costruisce strumenti — dalla composizione negoziata alle misure protettive — che funzionano solo se attivati nel momento giusto. 
La gestione del tempo, dunque, non è soltanto un profilo operativo, ma anticipa già una visione più ampia: quella di un diritto che, per essere efficace, deve saper misurare e modulare le proprie risposte in funzione della qualità del valore che intende proteggere. È questo passaggio — dal tempo della crisi al tempo del diritto — che introduce naturalmente la riflessione conclusiva sul senso sistemico del "ritorno al valore".
9 . Conclusioni: verso un diritto del valore sostenibile
Il diritto della crisi contemporaneo è un diritto in cerca di misura: misura tra autonomia e controllo, tra economia e diritto, tra libertà e responsabilità. La composizione e la ristrutturazione del debito rappresentano i due volti di questa ricerca: il momento negoziale del valore e il momento strutturale della sua sostenibilità. Il processo, a sua volta, ne è la garanzia. 
Ma il vero “ritorno al valore” non è semplicemente un ritorno all’efficienza economica: è un ritorno alla giuridicità del valore. Un valore, per essere salvato, deve essere giusto; per essere giusto, deve essere verificato; per essere verificato, deve essere condiviso. La sostenibilità economica, da sola, non basta: occorre una sostenibilità giuridica e relazionale. 
In questo senso, il diritto della crisi d’impresa — nella sua forma più evoluta — non è un diritto della fine, ma un diritto della seconda possibilità. Misura la dignità dell’impresa non nel successo immediato, ma nella capacità di ricomporre, negoziare, ristrutturare. È un diritto che riconosce che il valore non è ciò che si conserva: è ciò che si rigenera. 
Il ritorno al valore, dunque, non è soltanto un percorso di risanamento, ma un percorso di significazione: un modo per restituire senso alle relazioni economiche e sociali. È un invito a leggere la crisi non come un fallimento, ma come una domanda: che cosa può ancora valere? Che cosa merita di essere salvato? 
Ma la riflessione non può arrestarsi qui. Un diritto del valore sostenibile deve assumere una prospettiva di lungo periodo, capace di guardare oltre la singola procedura, oltre il singolo risanamento, oltre la singola impresa. 
Deve farsi diritto dell’ecosistema, diritto delle interdipendenze, diritto delle vulnerabilità condivise. Perché ogni crisi d’impresa è, in realtà, anche crisi di un ambiente economico, di una filiera, di un territorio, di un sistema di fiducia. 
Per questo, il ritorno al valore è anche ritorno alla responsabilità: responsabilità degli amministratori nel presidiare il tempo della crisi; responsabilità dei professionisti nel custodire l’integrità dell’informazione; responsabilità del giudice nel garantire l’equilibrio tra autonomia e tutela; responsabilità dei creditori nel partecipare, in modo informato e leale, al processo di ricostruzione. 
Infine, il ritorno al valore è ritorno alla misura: non nel senso della riduzione, ma nel senso della proporzione. È la capacità del diritto di riconoscere la complessità senza smarrirsi nella complessità; di lasciare spazio alla negoziazione senza abdicare al controllo; di affidarsi al mercato senza rinunciare al giudizio; di sostenere l’impresa senza negare il limite. 
La risposta — sempre provvisoria, sempre riscrivibile — è la lavagna del nostro diritto: un luogo in cui il valore può tornare, ma solo se sappiamo, insieme, riscriverlo. 
E forse, proprio questa è la lezione più profonda della crisi: che il valore non è mai dato una volta per tutte, ma è il risultato fragile e potente di una continua pratica di cura, di ascolto, di responsabilità. Un valore che il diritto custodisce non imponendo forme, ma creando spazi; non giudicando colpe, ma verificando senso; non punendo la fragilità, ma accompagnando la trasformazione.

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