Giova anzitutto soffermarsi su alcune vexatae quaestiones a proposito della domanda di concordato “prenotativa” o “in bianco”, introdotta nel corpo dell’art. 161 L. fall. dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, conv., con modificazioni, in L. 7 agosto 2012, n. 134 [14].
Il CCII ha confermato l’opzione della legge fallimentare, secondo la quale il debitore può depositare, unitamente al ricorso, la proposta di concordato, il piano e la relazione attestatrice, oppure limitarsi a chiedere al tribunale l’assegnazione di un termine, con riserva di deposito di tali atti e documenti nel termine fissato da tribunale. L’opzione è stata estesa dal CCII alla presentazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti, ormai declinato a pieno titolo (mercé i recenti interventi del diritto vivente [15]) alla stregua di un istituto del diritto concorsuale.
L’art. 44, comma 1, lett. a), CCII dispone che il tribunale, a seguito della domanda del debitore di accedere ad una procedura di regolazione concordata, pronuncia, se richiesto, un decreto col quale fissa un termine compreso tra trenta e sessanta giorni, prorogabile su istanza del debitore in presenza di giustificati motivi ed in assenza di domande per l’apertura della liquidazione giudiziale, di non oltre sessanta giorni, entro il quale il debitore è onerato di depositare la proposta di concordato preventivo con il piano e l’attestazione.
La norma ricalca, con una non indifferente riduzione del termine massimo concedibile, la previsione di cui all’art. 161, comma 6, L. fall., a tenore del quale il giudice può fissare per il deposito della proposta e del piano un termine compreso fra sessanta e centoventi giorni, prorogabile, in presenza di giustificati motivi, di non oltre sessanta giorni [16]. Il Codice ha altresì ripreso la previsione contenuta nell’art. 161, comma 10, in base alla quale, quando già pende il processo per l’apertura della liquidazione giudiziale, il termine per la presentazione della proposta e del piano è di sessanta giorni, prorogabili, in presenza di giustificati motivi, di non oltre sessanta giorni.
Tali disposizioni marcano la distinzione fra piano, proposta e domanda, ed hanno il pregio “di differenziare ciò che attiene al processo (la domanda), ciò che attiene al contenuto negoziale (la proposta) e ciò che attiene al modo in cui si pensa di rendere realizzabile la proposta (il piano)” [17].
Il tutto è, infine, funzionale alla previsione (contenuta nell’art. 168, comma 1, L. fall., e nell’art. 54, comma 2, CCII) secondo la quale, dalla data della pubblicazione della domanda di concordato preventivo o di omologazione degli accordi di ristrutturazione nel registro delle imprese, i creditori per titolo o causa anteriore non possono, sotto pena di nullità, iniziare o proseguire azioni esecutive e cautelari sul suo patrimonio, e dalla stessa data le prescrizioni rimangono sospese e le decadenze non si verificano [18].
Il CCII non ha riproposto la norma di cui al penultimo comma dell’art. 161 L. fall., che prevede l’inammissibilità della domanda quando il debitore, nei due anni precedenti, abbia presentato altra domanda alla quale non abbia fatto seguito l’ammissione alla procedura o l’omologazione dell’accordo “sicché non si dovrebbero avere più quelle vicende nelle quali il debitore, per il timore di una pronuncia di inammissibilità motivata su questo presupposto, rinunciava alla domanda per poter proporre una nuova domanda di concordato preventivo con riserva, con l’inevitabile reazione della giurisprudenza, che in ciò ravvisava un abuso del processo” [19].
D’altro canto, la concessione del termine, non costituendo espressione di un potere discrezionale del tribunale, non implica alcuna valutazione in ordine all’ammissibilità della domanda di concordato, neppure sotto il profilo della configurabilità della stessa come abuso del diritto (o del processo), il cui apprezzamento presuppone necessariamente la conoscenza delle condizioni offerte dal debitore con la proposta e delle modalità di realizzazione dell’accordo, nonché dei dati contabili che le supportano [20].
Nel contesto di questa (più o meno consolidata) disciplina, mi pare che si vadano delineando due importanti questioni, relative alla decorrenza del termine per la presentazione della proposta e del piano, ed alla revoca del termine.
Secondo un recente orientamento della Suprema Corte, il termine che il tribunale concede per il deposito della proposta e del piano decorre dalla data di presentazione della domanda, non da quella dell’emissione del provvedimento di concessione del termine, né dalla comunicazione di tale provvedimento da parte della cancelleria [21].
Il principio desta, a mio avviso, non poche perplessità.
Se è, infatti, vero che “la fissazione del termine da parte del giudice va ad inserirsi in una fattispecie procedimentale che vede coinvolti anche soggetti, i creditori, che in questa prima fase, e sino all’udienza per la dichiarazione di voto, non possono interloquire, pur subendo gli effetti protettivi della presentazione della domanda dalla pubblicazione della stessa nel registro delle imprese” [22], è altrettanto vero che - pur nel bilanciamento degli interessi in gioco - gli eventuali ritardi del tribunale nell’emissione del provvedimento e della cancelleria nella comunicazione del medesimo al debitore non possono riverberarsi negativamente su quest’ultimo, sottraendogli del tempo, sovente assai “prezioso”, destinato alla predisposizione della documentazione pattizia [23].
Tale orientamento parrebbe superato dalla previsione alloggiata nell’art. 44, comma 1, lett. d), CCII, a tenore del quale il decreto di fissazione del termine deve essere immediatamente trascritto, a cura del cancelliere, nel registro delle imprese. Ne dovrebbe, a mio avviso, conseguire che il termine decorrerà dalla detta iscrizione, siccome forma idonea di pubblicità del provvedimento sia a vantaggio dei creditori e dei terzi, sia a vantaggio dello stesso debitore, che ha pari possibilità di accesso a tale pubblicità degli altri citati soggetti.
Il secondo profilo da affrontare riguarda il provvedimento di revoca del termine ed il suo regime di stabilità.
Secondo il CCII, il termine per la presentazione del piano o dell’accordo può essere revocato dal tribunale (art. 44, comma 2, CCII). La previsione è mutuata dagli artt. 161, 162 e 173 L. fall.: la revoca è disposta, su segnalazione del commissario giudiziale o del P.M., in caso di scoperta di atti di frode, quando la condotta del debitore si rivela manifestamente inidonea ad una soluzione efficace della crisi, quando si verifichino circostanze tali da pregiudicare tale soluzione, nonché in caso grave inadempimento degli obblighi informativi o di mancato versamento del fondo spese.
Il decreto di revoca è emesso previa instaurazione del contraddittorio e non è autonomamente reclamabile, sul presupposto che esso determina soltanto l’arresto del procedimento, ma non impedisce la riproposizione della domanda di concordato.
La scelta qui compiuta dal CCII è stata di costruire l’apparato processual-sanzionatorio non sul profilo dell’improcedibilità della domanda (così come oggi prevede l’art. 161, comma 7, L. fall.), bensì della revoca del termine, che è una soluzione processualmente più “leggera” di quella adottata dalla legge fallimentare, ed è probabilmente finalizzata a conferire un fondamento sistematico più robusto alla previsione della non assoggettabilità ad impugnazione del relativo provvedimento.
Le sezioni unite della Suprema Corte, a proposito dei provvedimenti che si collocano nella fase anteriore all’omologazione del concordato preventivo, coi quali viene disposta la chiusura della procedura senza la contestuale dichiarazione di fallimento (e, tra questi, il provvedimento d’inammissibilità del concordato per mancanza dei suoi presupposti, reso ai sensi dell’art. 162 L. fall.), ne hanno sancito la non impugnabilità per Cassazione, perché tale decreto “pur presentando indubbiamente il carattere della definitività - in quanto espressamente dichiarato ‘non soggetto a reclamo’ - non presenta anche il carattere della decisorietà. Esso, infatti, viene emesso dal tribunale a prescindere da una controversia, anche solo potenziale, tra parti contrapposte, nonché all’esito di un procedimento che non prevede alcun contraddittorio, bensì la sola audizione del debitore (‘sentito il debitore’, recita il richiamato art. 162, comma 2). Che i creditori siano o meno favorevoli alla proposta di concordato presentata dal debitore è del tutto irrilevante: il tribunale deve provvedere comunque, d’ufficio, a tutela di un interesse più generale, che prescinde dall’interesse individuale di ciascun creditore” [24].
Altra è l’ipotesi in cui il provvedimento di revoca dell’ammissione al concordato preventivo (ad esempio giustificato dall’accertamento di condotte fraudolente del debitore) sia adottato nel corso del giudizio di omologazione, instaurato all’esito della votazione favorevole dei creditori ed in assenza di opposizioni di quelli dissenzienti, comportando in questo caso anche il sostanziale diniego dell’omologazione: avverso tale provvedimento può essere proposto il reclamo di cui
all’art. 183, comma 1, L. fall., e, successivamente, il ricorso in Cassazione [25].
Tale orientamento è probabilmente alla base dell’innovativa scelta processuale del CCII di consentire l’impugnazione del provvedimento (avente la forma della sentenza e non più del decreto), che nega l’omologazione del concordato o dell’accordo (cfr. art. 51, comma 1, CCII), in situazioni nelle quali la riproponibilità della domanda di soluzione pattizia non è necessariamente esclusa, ma, giunti al termine della procedura, essa risulterebbe gravosa in termini di celerità ed economia processuali, comportando il sacrificio delle attività poste in essere sino a quel momento.
Diversamente, la possibilità di riproporre la domanda (al pari della non contenziosità del procedimento) è alla base dell’espressa previsione di non impugnabilità del provvedimento di revoca del termine, di cui all’art. 44, comma 2, CCII.
Nell’assenza di una previsione normativa espressa, occorre tuttavia chiedersi quale sia il destino della domanda una volta che sia stato revocato il termine, rectius in che senso la domanda sia riproponibile. Non si può, difatti, obliare il dato letterale della legge, a tenore del quale non è la domanda ad essere revocata, ma il termine, sicché - ci si perdoni il bisticcio di parole - a rigor di termini la domanda non dovrebbe essere toccata dal provvedimento.
Il CCII nulla dice al riguardo, ma è da ritenersi che il debitore (benché decaduto dal termine) possa presentare proposta e piano senza termine, salvi gli effetti derivanti dalla coeva pendenza o dalla successiva presentazione di domande di apertura della liquidazione giudiziale.
Non risultano, in questo caso, preclusioni espresse, atteso che la previsione di cui all’art. 47, comma 5, CCII (che subordina la ripresentabilità della domanda di concordato al mutamento delle circostanze), è a mio avviso da riferirsi all’ipotesi in cui il tribunale abbia negativamente delibato l’ammissibilità e la fattibilità del piano, non anche al caso in cui il piano e la proposta non siano stati neppure presentati, a causa della revoca del termine.
Occorre piuttosto chiedersi se l’assenza della previsione di reclamabilità del provvedimento di revoca del termine dia la stura per predicare la percorribilità del ricorso straordinario in Cassazione, essendo dubbio se il diritto di riproporre la domanda pattizia sia sufficiente ad assorbire e superare ogni questione attorno alle caratteristiche di definitività o decisorietà del provvedimento di revoca del termine [26].
Per questo, sarebbe, amio avviso, più opportuna una previsione che consenta il reclamo alla corte d’appello del provvedimento di revoca dei termini, adinstar della previsione di cui all’art. 47, comma 4, CCII, relativa alla reclamabilità del decreto di inammissibilità della proposta concordataria, di cui si dirà infra.