Come sopra si diceva, l’art. 37, comma 2, CCII prevede – ad instar dell’art. 6, comma 1, L. fall. – che la domanda di apertura della liquidazione giudiziale possa essere proposta anche dal pubblico ministero[6].
Il pubblico ministero è altresì parte “necessaria” (rectius “automatica”) di tutti i giudizi per la soluzione della crisi d’impresa, atteso che, ai sensi dell’art. 40, comma 3, qualsiasi domanda di accesso alle procedure è trasmessa dal cancelliere, unitamente ai documenti allegati, al pubblico ministero.
Questi principi normativi si riverberano, a rime incrociate, sull’instaurazione del contraddittorio nelle fasi d’impugnazione (reclami ex artt. 50 e 51 CCII; processo di cassazione). E’ fuor di dubbio, infatti, che nei giudizi di impugnazione il P.M. continui ad essere parte necessaria (come tale destinatario della notifica dell’atto introduttivo).
Nondimeno, nel caso di apertura della liquidazione giudiziale, la legittimazione attiva al reclamo ex art. 51 CCII deve essere negata al pubblico ministero, per la ragione che la legge gli riconosce il potere di instare per l’apertura della liquidazione giudiziale, ma non, all’incontro, per la revoca della stessa. Ai sensi dell’art. 50, comma 1, la legittimazione ad impugnare gli spetta pleno jure nell’ipotesi di rigetto della domanda di liquidazione giudiziale da parte del tribunale.
Ciò è previsto anche dalla vigente legge fallimentare (cfr. art. 22), e si tratta di un’innovazione recente ed importante, dato che siffatta legittimazione veniva negata dalla giurisprudenza sotto il vigore delle norme antecedenti alle riforme della legge concorsuale del 2006-2007, sul presupposto che essa non era espressamente prevista dalla legge: si diceva all’epoca che il pubblico ministero non è titolare di una vera e propria azione per chiedere il fallimento, ma solo di un potere di segnalazione diretto a provocare la dichiarazione di fallimento d’ufficio[7].
Si deve altresì ritenere che al P.M. spetti il potere d’impugnare per cassazione la pronunzia di accoglimento del reclamo ex art. 51, nonché di rigetto del reclamo, introdotto da lui (o da altri legittimati) ex art. 50 CCII.
Quanto ai presupposti dell’azione, l’art. 38 CCII ha rafforzato l’orientamento inaugurato dal legislatore concorsuale del 2006-2007, prevedendo che la domanda di apertura della liquidazione giudiziale del pubblico ministero sia formulata, al pari che per gli altri soggetti legittimati, con “ricorso”; e che il pubblico ministero “presenta” (e non “può presentare”) il ricorso “in ogni caso in cui ha notizia dell'esistenza di uno stato di insolvenza”.
Nonostante l’apparente doverosità dell’iniziativa per l’apertura della liquidazione giudiziale, verso la quale sembra spingere la formulazione letterale della norma, pare a chi scrive che il pubblico ministero sia tenuto a presentare il ricorso nella sola ipotesi in cui la notizia d’insolvenza (notitia decoctionis) – che abbia motu proprio rinvenuto agli atti di un procedimento giudiziale o di un’indagine, o che gli sia stata trasmessa da altra autorità giudiziaria – rivesta prima facie un qualche fondamento.
L’ordinamento, infatti, prevede l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale (art. 112 Cost.), non dell’azione concorsuale[8].
Su questo punto tornerò più avanti.
Occorre invece porsi l’interrogativo se, volta che abbia esercitato il potere di azione, al P.M. sia dato di rinunziare alla domanda di apertura della liquidazione, ovvero di “desistere”.
Se, da un lato, è pacifica la facoltà del creditore procedente di rinunziare alla domanda – esplicitamente ovvero implicitamente (ad esempio, non coltivando il processo per l’apertura del concorso) – non altrettanto pacifica è la sussistenza di analoga facoltà in capo al P.M. agente.
Preciso che all’interrogativo non sembra offrire risposta l’art. 43, comma 1, CCII, secondo il quale, in caso di rinuncia alla domanda di cui all’articolo 40, il procedimento si estingue, ma “è fatta salva la legittimazione del pubblico ministero intervenuto”. Secondo quanto si legge nella Relazione illustrativa al CCII, tale inciso ha lo scopo di evitare un uso strumentale del potere di rinunciare alla domanda, sicché “è previsto che permanga comunque in capo al PM, che abbia partecipato al procedimento, il potere di chiedere la liquidazione giudiziale, senza necessità di proporre un nuovo ed autonomo ricorso”.
Ma la norma non chiarisce se, volta che sia stato il P.M. a proporre il ricorso per l’apertura della liquidazione, egli vi possa – re melius perpensa, ovvero in relazione alle sopravvenienze istruttorie – rinunziare in corso di causa.
Vero è che “i poteri del pubblico ministero agente sono gli stessi di quelli che competono ad ogni parte che promuove l’azione, ma con il preciso limite derivante dall’impossibilità di compiere atti di disposizione del diritto”[9].
Su queste basi, la giurisprudenza di merito ritiene che la dichiarazione di fallimento pronunciata su iniziativa del pubblico ministero e di un creditore che abbia presentato dichiarazione di desistenza è validamente pronunciata anche in caso di assenza del pubblico ministero all’udienza prefallimentare, posto che la richiesta di quest’ultimo organo non è rinunciabile, e la sua mancata partecipazione all’udienza non inficia in alcun modo il procedimento[10] .
La Suprema Corte ha precisato che, quando l'iniziativa fallimentare sia stata assunta dal pubblico ministero, “affinché il giudice possa pronunciarsi nel merito è sufficiente che il ricorso sia stato ritualmente notificato all'imprenditore, sicché è irrilevante la mancata partecipazione della parte pubblica all'udienza prefallimentare, non potendosi trarre da tale condotta alcuna volontà, anche solo implicita, di rinunziare all'istanza presentata”[11].
Nel sistema processuale comune, la giurisprudenza ritiene che, quando la legge prevede l’intervento obbligatorio del pubblico ministero (ad esempio, nei giudizi per querela di falso), è sufficiente che lo stesso venga informato del processo e messo in grado di parteciparvi, a nulla rilevando che egli non intervenga alle udienze e non formuli conclusioni[12].
Ma, una cosa è l’intervento obbligatorio in causa, altre (e ben diverse) cose sono la proposizione e la permanenza della domanda giudiziale.
E’, perciò, legittimo chiedersi se il venir meno dei presupposti della fallibilità, o l’accertamento della loro inesistenza alla luce dell’istruttoria svolta, possano rendere privo di giustificazione razionale il dovere del P.M. di coltivare il giudizio, non diversamente da una richiesta di archiviazione formulata al G.i.p.[13].
Ragione per la quale – fermo rimanendo il potere di ogni altro legittimato di intervenire nel processo e di fare proprio (e sostenere) il ricorso già presentato dal P.M. – non mi pare che si possa negare il potere-dovere dell’ufficio di procura di desistere dall’iniziativa concorsuale, volta che, in relazione agli elementi acquisiti, essa non sia ritenuta più coerente col perseguimento dell’interesse pubblico all’ordinato svolgimento dei rapporti economici.
Interpretazione, quest’ultima, che appare altresì coerente con una prospettiva di interpretazione teleologica della normativa concorsuale in termini di ragionevole durata del processo, nonché di efficiente organizzazione dell’ufficio di procura[14].
D’altro canto, anche a voler restare su un terreno più strettamente tecnico, la desistenza dall’azione concorsuale non necessariamente rappresenta un atto di disposizione del diritto sostanziale, ma può concretarsi anche in un atto a valenza meramente processuale, da intendersi, in ragione della sua peculiare natura, come un atto rivolto al giudice e da estendere allo stesso, al pari della domanda iniziale, perché questo lo valorizzi nel contesto procedimentale in cui è formato[15].
Se così stanno le cose, poi, l’applicazione delle regole comuni alla condotta processuale del pubblico ministero esige, nelle ipotesi in cui non si intenda desistere, che la domanda sia “coltivata” al pari delle altre parti del giudizio, e che il rappresentante del pubblico ministero attore sia presente all’udienza.
Si apre in tale guisa l’interrogativo se il tribunale possa, nell’assenza delle parti all’udienza, dichiarare egualmente l’apertura della liquidazione concorsuale, o se debba, in questo caso, fare applicazione del modello processuale comune di cui agli artt. 309 e 181 c.p.c., come a me pare conseguente all’adozione della prospettiva interpretativa qui affacciata[16].
Ove si riconoscesse al P.M. il potere di rinunziare alla domanda, troverebbe, a mio avviso, applicazione anche con riferimento alla parte pubblica il principio, ormai consolidato in giurisprudenza, secondo il quale, nel giudizio di reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, hanno rilievo esclusivamente i fatti esistenti al momento della sua decisione, e non quelli sopravvenuti, perché la pronuncia di revoca del fallimento, cui il reclamo tende, presuppone l'acquisizione della prova che non sussistevano i presupposti per l'apertura della procedura alla stregua della situazione di fatto esistente al momento in cui essa venne aperta; ne discende che la rinuncia all'azione o desistenza, che sia intervenuta dopo la dichiarazione di fallimento, è irrilevante perché al momento della decisione del tribunale sussisteva ancora l’originaria legittimazione all'azione[17].