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Saggio

Il ricorso del pubblico ministero per l’apertura della liquidazione giudiziale: tra interesse pubblico e modelli processuali comuni*

Francesco De Santis, Ordinario di diritto processuale civile nell’Università di Salerno - Avvocato

27 Maggio 2021

*Il saggio è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
Il Codice della crisi d’impresa stabilisce, con formulazione più ampia ed inclusiva di quella contenuta nella legge fallimentare, che il pubblico ministero presenta il ricorso per l’apertura della liquidazione giudiziale in ogni caso in cui ha notizia dell'esistenza di uno stato di insolvenza. La previsione valorizza la funzione proattiva della parte pubblica fin dall’esordio della vicenda concorsuale, ma ne incanala l’azione nell’alveo del diritto processuale comune, in coerenza coi principi del contraddittorio e della paritaria difesa*.     
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1 . Interessi coinvolti nell’apertura della liquidazione giudiziale e legittimazione “plurale” ad agire
Il processo per l’accesso ad una procedura regolatrice della crisi o dell’insolvenza muove su domanda di parte.
La legittimazione ad introdurre la relativa domanda appartiene, con riferimento a tutte le procedure, al debitore.
Con specifico riferimento alla domanda di apertura della liquidazione giudiziale, essa appartiene – oltre che al debitore – ai creditori ed al pubblico ministero; l’art. 37 CCII ha implementato tale elenco, rispetto a quello contenuto nell’art. 6 L. fall., aggiungendovi la legittimazione degli organi e delle autorità amministrative che hanno funzioni di controllo e di vigilanza sull'impresa.
La norma declina una legittimazione “plurale”, che tiene conto della possibile varietà degli interessi coinvolti nei processi di regolazione della crisi d’impresa.
Si tratta, innanzi tutto, di interessi privati, in quanto derivanti dall’impossibilità per il ceto creditorio di ottenere soddisfazione delle proprie pretese in maniera diversa (e meno invasiva) dell’esecuzione concorsuale, oppure dall’esigenza del debitore di affidare agli organi concorsuali una “ragionata” ed “ordinata” soluzione di quelle pretese.
Ma si tratta di interessi anche pubblici (soprattutto se connessi o propedeutici alla repressione di reati), affidati alla gestione del pubblico ministero, alle autorità “tutorie” di vigilanza e, quod rationem, agli organi di controllo interni delle società.
Difficilmente si potrebbe dire meglio di Satta, secondo il quale “la molteplicità dei legittimati è un altro segno dell’incomunicabilità, salvo che nel fine ultimo, la soddisfazione dei creditori, tra l’esecuzione individuale e il procedimento concorsuale”, poiché “l’insolvenza dell’impresa, si può dire sinteticamente, è un fatto che interessa tutti. Interessa l’ordinamento, perché l’impresa fa parte dell’organizzazione economica generale, e quindi il suo dissesto incide su questa organizzazione, portando alla necessaria eliminazione dell’impresa. Di qui l’iniziativa del P.M. o la dichiarazione ex officio. Interessa i creditori, che nell’insolvenza possono veder pregiudicate le loro ragioni, sia per la disintegrazione del patrimonio del debitore, che costituisce la loro garanzia, sia per la violazione della par condicio. Interessa il debitore stesso, che non vuole aggravare la sua situazione, né veder disperdere i propri beni attraverso disordinate azioni singolari”[1].
Un tratto caratterizzante e condiviso, tra le numerose innovazioni processuali introdotte dalle riforme della normativa concorsuale del 2006-2007 (confermate dal CCII) è la soppressione dell’iniziativa officiosa per l’apertura dell’esecuzione concorsuale.
Ciò non deve essere inteso, però, come il precipitato di una presunta “privatizzazione del fallimento”, ove il ruolo preponderante dell’autorità giudiziaria ceda di fronte alla necessità di perseguire modelli di efficienza economica e di conservazione delle risorse e dei valori d’impresa[2]. 
Piuttosto, una visione in senso più “privatistico” della gestione dell’insolvenza comporta, ad avviso di chi scrive, che i procedimenti giudiziali ad essa finalizzati debbano essere organizzati secondo modelli processuali quanto più possibile prossimi alle regole del diritto comune, e quindi a quelli del codice di rito[3]. 
E’ dunque sul terreno processuale che va rintracciata la ratio della soppressione dell’iniziativa officiosa ed, al contempo, la permanenza dell’iniziativa del pubblico ministero: nell’essere, cioè, il procedimento unitario per la regolazione della crisi o dell’insolvenza un processo di parti, regolato dal contraddittorio, dal diritto alla prova e dalla paritaria difesa[4]. 
Il legislatore di questo secolo ha, dunque, canalizzato nell’alveo del sistema processuale comune anche il delicato tema della legittimazione ad agire per l’apertura delle procedure concorsuali, valorizzando il potere (e la responsabilità) dell’iniziativa della “parte” pubblica.
Tornano attuali le parole di Gustavo Bonelli, il quale sottolineava la singolarità della disposizione (olim contenuta nell’art. 688 del codice di commercio) sull’iniziativa officiosa, “in quanto ammette il tribunale non solo a provvedere senza domanda di parte, ma anche senza aver provocato dal naturale e normale organo tutelare del diritto sociale offeso, che è il Ministero Pubblico”, sicché “la dichiarazione di fallimento diviene veramente una funzione sociale, un atto d’impero più che di giurisdizione”[5]. 
2 . Potere di azione del pubblico ministero e disponibilità della domanda di apertura della liquidazione giudiziale
Come sopra si diceva, l’art. 37, comma 2, CCII prevede – ad instar dell’art. 6, comma 1, L. fall. –  che la domanda di apertura della liquidazione giudiziale possa essere proposta anche dal pubblico ministero[6].
Il pubblico ministero è altresì parte “necessaria” (rectius “automatica”) di tutti i giudizi per la soluzione della crisi d’impresa, atteso che, ai sensi dell’art. 40, comma 3, qualsiasi domanda di accesso alle procedure è trasmessa dal cancelliere, unitamente ai documenti allegati, al pubblico ministero.
Questi principi normativi si riverberano, a rime incrociate, sull’instaurazione del contraddittorio nelle fasi d’impugnazione (reclami ex artt. 50 e 51 CCII; processo di cassazione). E’ fuor di dubbio, infatti, che nei giudizi di impugnazione il P.M. continui ad essere parte necessaria (come tale destinatario della notifica dell’atto introduttivo). 
Nondimeno, nel caso di apertura della liquidazione giudiziale, la legittimazione attiva al reclamo ex art. 51 CCII deve essere negata al pubblico ministero, per la ragione che la legge gli riconosce il potere di instare per l’apertura della liquidazione giudiziale, ma non, all’incontro, per la revoca della stessa. Ai sensi dell’art. 50, comma 1, la legittimazione ad impugnare gli spetta pleno jure nell’ipotesi di rigetto della domanda di liquidazione giudiziale da parte del tribunale.
Ciò è previsto anche dalla vigente legge fallimentare (cfr. art. 22), e si tratta di un’innovazione recente ed importante, dato che siffatta legittimazione veniva negata dalla giurisprudenza sotto il vigore delle norme antecedenti alle riforme della legge concorsuale del 2006-2007, sul presupposto che essa non era espressamente prevista dalla legge: si diceva all’epoca che il pubblico ministero non è titolare di una vera e propria azione per chiedere il fallimento, ma solo di un potere di segnalazione diretto a provocare la dichiarazione di fallimento d’ufficio[7]. 
Si deve altresì ritenere che al P.M. spetti il potere d’impugnare per cassazione la pronunzia di accoglimento del reclamo ex art. 51, nonché di rigetto del reclamo, introdotto da lui (o da altri legittimati) ex art. 50 CCII.
Quanto ai presupposti dell’azione, l’art. 38 CCII ha rafforzato l’orientamento inaugurato dal legislatore concorsuale del 2006-2007, prevedendo che la domanda di apertura della liquidazione giudiziale del pubblico ministero sia formulata, al pari che per gli altri soggetti legittimati, con “ricorso”; e che il pubblico ministero “presenta” (e non “può presentare”) il ricorso “in ogni caso in cui ha notizia dell'esistenza di uno stato di insolvenza”.
Nonostante l’apparente doverosità dell’iniziativa per l’apertura della liquidazione giudiziale, verso la quale sembra spingere la formulazione letterale della norma, pare a chi scrive che il pubblico ministero sia tenuto a presentare il ricorso nella sola ipotesi in cui la notizia d’insolvenza (notitia decoctionis) – che abbia motu proprio rinvenuto agli atti di un procedimento giudiziale o di un’indagine, o che gli sia stata trasmessa da altra autorità giudiziaria –  rivesta prima facie un qualche fondamento.
L’ordinamento, infatti, prevede l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale (art. 112 Cost.), non dell’azione concorsuale[8].
Su questo punto tornerò più avanti.
Occorre invece porsi l’interrogativo se, volta che abbia esercitato il potere di azione, al P.M. sia dato di rinunziare alla domanda di apertura della liquidazione, ovvero di “desistere”.
Se, da un lato, è pacifica la facoltà del creditore procedente di rinunziare alla domanda – esplicitamente ovvero implicitamente (ad esempio, non coltivando il processo per l’apertura del concorso) – non altrettanto pacifica è la sussistenza di analoga facoltà in capo al P.M. agente.
Preciso che all’interrogativo non sembra offrire risposta l’art. 43, comma 1, CCII, secondo il quale, in caso di rinuncia alla domanda di cui all’articolo 40, il procedimento si estingue, ma “è fatta salva la legittimazione del pubblico ministero intervenuto”. Secondo quanto si legge nella Relazione illustrativa al CCII, tale inciso ha lo scopo di evitare un uso strumentale del potere di rinunciare alla domanda, sicché “è previsto che permanga comunque in capo al PM, che abbia partecipato al procedimento, il potere di chiedere la liquidazione giudiziale, senza necessità di proporre un nuovo ed autonomo ricorso”. 
Ma la norma non chiarisce se, volta che sia stato il P.M. a proporre il ricorso per l’apertura della liquidazione, egli vi possa – re melius perpensa, ovvero in relazione alle sopravvenienze istruttorie – rinunziare in corso di causa.
Vero è che “i poteri del pubblico ministero agente sono gli stessi di quelli che competono ad ogni parte che promuove l’azione, ma con il preciso limite derivante dall’impossibilità di compiere atti di disposizione del diritto”[9]. 
Su queste basi, la giurisprudenza di merito ritiene che la dichiarazione di fallimento pronunciata su iniziativa del pubblico ministero e di un creditore che abbia presentato dichiarazione di desistenza è validamente pronunciata anche in caso di assenza del pubblico ministero all’udienza prefallimentare, posto che la richiesta di quest’ultimo organo non è rinunciabile, e la sua mancata partecipazione all’udienza non inficia in alcun modo il procedimento[10] .
La Suprema Corte ha precisato che, quando l'iniziativa fallimentare sia stata assunta dal pubblico ministero, “affinché il giudice possa pronunciarsi nel merito è sufficiente che il ricorso sia stato ritualmente notificato all'imprenditore, sicché è irrilevante la mancata partecipazione della parte pubblica all'udienza prefallimentare, non potendosi trarre da tale condotta alcuna volontà, anche solo implicita, di rinunziare all'istanza presentata”[11].
Nel sistema processuale comune, la giurisprudenza ritiene che, quando la legge prevede l’intervento obbligatorio del pubblico ministero (ad esempio, nei giudizi per querela di falso), è sufficiente che lo stesso venga informato del processo e messo in grado di parteciparvi, a nulla rilevando che egli non intervenga alle udienze e non formuli conclusioni[12].
Ma, una cosa è l’intervento obbligatorio in causa, altre (e ben diverse) cose sono la proposizione e la permanenza della domanda giudiziale. 
E’, perciò, legittimo chiedersi se il venir meno dei presupposti della fallibilità, o l’accertamento della loro inesistenza alla luce dell’istruttoria svolta, possano rendere privo di giustificazione razionale il dovere del P.M. di coltivare il giudizio, non diversamente da una richiesta di archiviazione formulata al G.i.p.[13].
Ragione per la quale – fermo rimanendo il potere di ogni altro legittimato di intervenire nel processo e di fare proprio (e sostenere) il ricorso già presentato dal P.M. – non mi pare che si possa negare il potere-dovere dell’ufficio di procura di desistere dall’iniziativa concorsuale, volta che, in relazione agli elementi acquisiti, essa non sia ritenuta più coerente col perseguimento dell’interesse pubblico all’ordinato svolgimento dei rapporti economici.
Interpretazione, quest’ultima, che appare altresì coerente con una prospettiva di interpretazione teleologica della normativa concorsuale in termini di ragionevole durata del processo, nonché di efficiente organizzazione dell’ufficio di procura[14]. 
D’altro canto, anche a voler restare su un terreno più strettamente tecnico, la desistenza dall’azione concorsuale non necessariamente rappresenta un atto di disposizione del diritto sostanziale, ma può concretarsi anche in un atto a valenza meramente processuale, da intendersi, in ragione della sua peculiare natura, come un atto rivolto al giudice e da estendere allo stesso, al pari della domanda iniziale, perché questo lo valorizzi nel contesto procedimentale in cui è formato[15].
Se così stanno le cose, poi, l’applicazione delle regole comuni alla condotta processuale del pubblico ministero esige, nelle ipotesi in cui non si intenda desistere, che la domanda sia “coltivata” al pari delle altre parti del giudizio, e che il rappresentante del pubblico ministero attore sia presente all’udienza.
Si apre in tale guisa l’interrogativo se il tribunale possa, nell’assenza delle parti all’udienza, dichiarare egualmente l’apertura della liquidazione concorsuale, o se debba, in questo caso, fare applicazione del modello processuale comune di cui agli artt. 309 e 181 c.p.c., come a me pare conseguente all’adozione della prospettiva interpretativa qui affacciata[16].
Ove si riconoscesse al P.M. il potere di rinunziare alla domanda, troverebbe, a mio avviso, applicazione anche con riferimento alla parte pubblica il principio, ormai consolidato in giurisprudenza, secondo il quale, nel giudizio di reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, hanno rilievo esclusivamente i fatti esistenti al momento della sua decisione, e non quelli sopravvenuti, perché la pronuncia di revoca del fallimento, cui il reclamo tende, presuppone l'acquisizione della prova che non sussistevano i presupposti per l'apertura della procedura alla stregua della situazione di fatto esistente al momento in cui essa venne aperta; ne discende che la rinuncia all'azione o desistenza, che sia intervenuta dopo la dichiarazione di fallimento, è irrilevante perché al momento della decisione del tribunale sussisteva ancora l’originaria legittimazione all'azione[17]. 
3 . Il pubblico ministero come punto di convergenza delle notitiae decoctionis
Ai sensi dell’art. 6 L. fall., il pubblico ministero presenta la richiesta di fallimento esclusivamente nei casi previsti dall’art. 7 (in presenza cioè di una notitia decoctionis cd. “qualificata”), ossia: a) quando l’insolvenza risulta nel corso di un procedimento penale, ovvero dalla fuga, dall’irreperibilità o dalla latitanza dell’imprenditore, dalla chiusura dei locali dell’impresa, dal trafugamento, dalla sostituzione o dalla diminuzione fraudolenta dell’attivo da parte dell’imprenditore; e b) quando l’insolvenza risulta dalla segnalazione proveniente dal giudice che l’abbia rilevata nel corso di un procedimento civile.
L’art. 38, commi 1 e 2, CCII prevede ora che il pubblico ministero presenta il ricorso per l’apertura della liquidazione giudiziale “in ogni caso in cui ha notizia dell'esistenza di uno stato di insolvenza”, e che “l'autorità giudiziaria che rileva l'insolvenza nel corso di un procedimento lo segnala al pubblico ministero”.
E’ opinione di chi scrive che – malgrado la norma di nuovo conio abbia eliminato il riferimento ai casi “tipici” previsti dall’art. 7 L. fall. – non qualsiasi notizia d’insolvenza possa indurre il pubblico ministero ad esercitare l’azione, bensì soltanto quelle notizie che egli abbia legalmente acquisito nell’esercizio delle sue funzioni, ossia che gli provengano dal procedimento, dal processo o dalle indagini[18]. 
E per giunta, non tutte le notizie legalmente acquisite devono, per ciò stesso, essere ritenute dal P.M. meritevoli di essere poste a fondamento della domanda ex art. 37, comma 2, ma possono (ed, a mio avviso, devono) essere senz’altro vagliate (ed implementate) dall’ufficio di procura, se del caso avvalendosi degli efficaci mezzi di indagine che ha a disposizione[19].
Con riferimento alla previsione della legge fallimentare, secondo la giurisprudenza, la volontà legislativa che emerge dalla lettura delle ipotesi alternative previste dall'art. 7, comma 1, n. 1, L. fall., una volta venuta meno la possibilità di dichiarare il fallimento d’ufficio, è chiaramente nel senso di ampliare la legittimazione del P.M. alla presentazione della richiesta per la dichiarazione di fallimento a tutti i casi nei quali l'organo abbia istituzionalmente appreso la notitia decoctionis, e tale soluzione interpretativa trova conforto sia nella previsione del successivo n. 2 dell’art. 7, che si riferisce al procedimento civile senza limitazioni di sorta, sia nella Relazione allo schema di D.Lgs. n. 5/2006 di riforma delle procedure concorsuali, che fa riferimento a qualsiasi notitia decoctionis emersa nel corso di un procedimento penale[20].
La giurisprudenza fallimentare è, pertanto, attualmente contraria ad una lettura “riduttiva” della legittimazione, che faccia perno unicamente sulle ipotesi tipiche dell’art. 7 L. fall., ritenendo che il P.M. sia legittimato a proporre richiesta di fallimento nel caso, collegato alla sua funzione tipica, in cui abbia attinto la notitia decotionis dalle indagini assunte nell’ambito di un procedimento penale pendente, o, in alternativa, se l’abbia desunta dalla condotta dell’imprenditore estrinsecatasi nei fatti tipizzati dall’art. 7, comma 1, L. fall., non necessariamente integranti ipotesi di reato, verificati anche al di fuori ed a prescindere dalla pendenza di un procedimento penale[21]. 
Il riferimento, contenuto nell’art. 7, al riscontro della notitia decoctionis "nel corso di un procedimento penale" non deve perciò essere interpretato in senso riduttivo, non essendo necessaria la preventiva iscrizione di una notitia criminis nel registro degli indagati a carico del fallendo o di terzi[22]. 
Una conferma in questo senso viene dal tenore letterale dell’art. 7 L. fall., che, nel separare in termini alternativi la notizia appresa nel corso di un procedimento penale dai casi elencati nella seconda parte della norma, consentendo di ravvisare nella fuga, irreperibilità, latitanza dell'imprenditore, chiusura dei locali, trafugamento, sostituzione o diminuzione fraudolenta dell'attivo altrettante ipotesi di legittimazione che possono anche essere esterne a un procedimento penale, attribuisce la legittimazione al P.M. in ipotesi in cui la notitia decoctionis viene conosciuta non necessariamente nell'ambito di un procedimento penale, ma anche nel corso dello svolgimento delle proprie attività istituzionali, siano esse di direzione dell'investigazione o di ricezione di informazioni[23]. 
Da tanto deriva, ad avviso di chi scrive, che – fuori del bagaglio conoscitivo attinto dai procedimenti (o, comunque, dai contesti procedimentalizzati) di cui egli stesso sia parte – il P.M. non possa presentare il ricorso per l’apertura della liquidazione giudiziale su mera segnalazione di un terzo, che sia ad esempio portatore di un interesse di mero fatto.
E tali principi mi sembrano da estendersi al sistema del CCII.
La notitia decoctionis potrebbe altresì provenire (ai sensi del comma 2 dell’art. 38, al pari, come si è visto, dell’art. 7 L. fall.) dalla segnalazione dell’autorità giudiziaria, che “la rilevi nel corso di un procedimento”.
In questa ipotesi, è la pendenza del processo (o del procedimento) che “qualifica” la notitia decotionis, essendo, perciò, da condividersi l’orientamento per il quale il P.M. è legittimato a chiedere il fallimento dell’imprenditore anche se la notitia decotionis sia stata da lui appresa nel corso di indagini svolte nell’àmbito di un “procedimento” nei confronti di soggetti diversi dall’imprenditore medesimo, sia esso individuale o collettivo[24], financo se conclusosi con esito favorevole alle persone sottoposte alle indagini[25].
Tale conclusione non sembra scalfita dalla previsione di cui all’art. 63, comma 1, D.Lgs. n. 159/2011 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione), a mente del quale “il pubblico ministero, anche su segnalazione dell’amministratore giudiziario che ne rilevi i presupposti, chiede al tribunale competente che venga dichiarato il fallimento dell’imprenditore i cui beni aziendali siano sottoposti a sequestro o a confisca”. In disparte l’eccentricità sistematica del riferimento alla segnalazione proveniente dall’amministratore giudiziario del compendio sequestrato o confiscato, è evidente, infatti, che la notitia decoctionis viene, anche in questa ipotesi, pur sempre attinta nel contesto procedimentalizzato dell’applicazione di una misura special-preventiva.
Al di fuori dei procedimenti penali, non vi è dubbio che a segnalare la ricorrenza dello stato d’insolvenza possa essere anche il giudice civile, nell’àmbito od all’esito di un processo di cognizione ordinaria (anche se celebrato col rito speciale, ad esempio del lavoro, ovvero col rito cd. sommario di cognizione ex artt. 702 bis ss. c.p.c.), nonché dei processi di cognizione “speciali” regolati dal D.Lgs. n. 151/2011, e dei procedimenti sommari (ivi compreso il procedimento monitorio), cautelari e camerali, e del processo esecutivo. Nulla osta a che la segnalazione venga inoltrata alla procura competente anche dalla Corte di cassazione.
Un particolare enfasi è stata recentemente riposta sui rapporti tra giudice dell’esecuzione ed ufficio di procura, specie nell’ottica della stipula di protocolli d’intesa, “al fine di predefinire in forme prevedibili e certe, non lasciate all’iniziativa estemporanea pur se a volte encomiabile dei singoli, la segnalazione di situazioni di insolvenza che, dalla visione privilegiata del giudice dell’esecuzione, spesso si manifestano con particolare evidenza”[26].
In questo quadro, il giudice dell’esecuzione viene ad assumere “una evidente funzione propulsiva, tutte le volte in cui si convinca che l’esecuzione individuale costituisce soltanto la punta dell’iceberg di una più complessiva situazione di insolvenza, vuoi per la tipologia di beni oggetto di esecuzione, vuoi per la natura del soggetto esecutante, vuoi – ancora – perché l’iniziativa aggressiva (pure in sé non particolarmente indiziante) si colloca in un quadro di iniziative esecutive, anche pregresse, che non lascino dubbi sulla situazione di insolvenza in cui si trova l’imprenditore esecutato”[27].
Nell’alveo del procedimento davanti alle autorità giudiziarie, ove può emergere la notizia decoctionis, si comprendono anche quei processi di cognizione lato sensu riconducibili al processo civile, quali i processi dinanzi al giudice amministrativo, tributario e contabile, ossia i processi la cui disciplina fa solitamente rinvio, anche se in via residuale, alle norme del codice di procedura civile.
4 . La notitia decoctionis attinta dal procedimento per l’apertura della liquidazione giudiziale
L’ipotesi più ricorrente di processo civile, all’interno del quale può risultare lo stato d’insolvenza dell’imprenditore, resta proprio il giudizio per l’apertura della liquidazione concorsuale.
Sotto il vigore della legge fallimentare riformata, le sezioni unite hanno consolidato il principio per il quale non si può escludere che le segnalazioni vengano effettuate nell’ambito di procedure fallimentari, senza che ciò entri in contrasto con l’abrogazione del fallimento d’ufficio, in quanto “la trasmissione al P.M. della notitia decoctionis non ha alcun contenuto decisorio, nemmeno come esito di una delibazione sommaria sicché, non essendovi alcuna coincidenza fra il contenuto della segnalazione e l’oggetto della successiva istruttoria conseguente all’iniziativa del P.M., non è neppure astrattamente configurabile una violazione dei principi di terzietà e imparzialità del giudice, intesi come sua equidistanza dall’oggetto del giudizio e dalle parti”[28]. 
Vuoi che avvenga nella fase decisoria, vuoi che avvenga nella fase istruttoria, la segnalazione non è espressione di un potere decisorio, configurandosi, invece, come un atto “neutro”, assunto prima facie dal giudice, che non richiede neppure una delibazione sommaria dello stato di insolvenza, la cui valutazione è rimessa al P.M.[29]. 
Ritengo che tali principi siano coerenti anche con le previsioni del CCII, di talché il tribunale concorsuale, qualora il procedimento finalizzato all’apertura della liquidazione giudiziale si concluda con una decisione in rito, potrà, ai sensi dell’art. 38, disporre la trasmissione degli atti al P.M., affinché valuti se instare per l’iniziativa concorsuale, senza che ciò comporti alcuna violazione del principio di terzietà del giudice di cui all’art. 111 Cost., per il solo fatto che il tribunale sia chiamato una seconda volta a decidere sull’apertura della liquidazione giudiziale dell’imprenditore a seguito di richiesta del P.M., conseguente alla segnalazione da parte dello stesso giudice[30].
Va, altresì, considerato che, nel corso del giudizio per l’apertura della liquidazione giudiziale, potrebbe emergere l’insolvenza di un imprenditore diverso da quello contro il quale si procede, ad esempio un socio illimitatamente responsabile, ovvero un terzo.
Inoltre, la notitia decoctionis è un evento che mantiene il suo potenziale interesse ai fini dell’attivazione dell’iniziativa del pubblico ministero anche nei casi di desistenza (rectius rinunzia) alla domanda di apertura della liquidazione da parte dell’attore (ad esempio, del creditore che potrebbe essere stato, come si suol dire, “tacitato” dall’imprenditore insolvente con un pagamento avvenuto in corso di causa).
In questi casi, il tribunale (ovvero la corte d’Appello in sede di giudizio di impugnazione ex art. 51 CCII), benché privo dell’iniziativa officiosa, potrebbe ritenere rilevante segnalare la notitia decoctionis al pubblico ministero, disponendo che gli sia trasmessa copia degli atti del processo.
In conclusione, ben si può dire che il pubblico ministero, anche nella prospettiva del CCII, continui ad essere il “collettore” delle segnalazioni d’insolvenza provenienti dai giudici dei processi e dei procedimenti, ovvero dai magistrati che hanno in corso indagini penali, essendo l’unico legittimato a presentare istanza di apertura della liquidazione giudiziale in nome dell’interesse pubblico[31].
Tale conclusione risulta avvalorata dalla previsione dell’art. 22 CCII, che – in esito all’insuccesso del procedimento di composizione assistita della crisi ed alla sua chiusura senza che il debitore abbia depositato domanda di accesso ad una procedura di regolazione della crisi e dell'insolvenza – faculta il collegio sedente presso l’OCRI, “se ritiene che gli elementi acquisti rendano evidente la sussistenza di uno stato di insolvenza del debitore”, ad effettuare la relativa segnalazione, con relazione motivata, al referente dell’Organismo, che ne dà notizia al pubblico ministero presso il tribunale concorsuale competente per materia e per territorio ai sensi dell’art. 27.
5 . La domanda di apertura della liquidazione giudiziale proposta dal P.M. nel corso del procedimento di concordato preventivo
Resta, ma soltanto in apparenza, al di fuori delle declinazioni di cui sopra l’ipotesi in cui la notitia decoctionis venga attinta autonomamente dal P.M. nel corso di un procedimento civile a cui egli partecipi, o in quanto parte “istituzionale” dello stesso, ovvero perché il procedimento è stato da lui stesso promosso o vi sia intervenuto.
Segnatamente, la notitia decoctionis emerge frequentemente nel corso o all’esito del procedimento di concordato preventivo.
Nella prassi applicativa della legge fallimentare non è certo rara l’eventualità che il debitore (convocato dal tribunale all’udienza per la dichiarazione d’inammissibilità della domanda concordataria, ovvero per la revoca del concordato, ad esempio a seguito di relazione e richiesta in tal senso del commissario giudiziale) vi incontri il pubblico ministero, il quale conclude per l’inammissibilità (o la revoca) del concordato e la contestuale dichiarazione di fallimento.
La proposizione, nel corso del procedimento concordatario, della domanda di apertura della liquidazione giudiziale da parte del P.M. non è soggetta a particolari vincoli di forma, e non esige la notifica di un apposito ricorso al debitore[32].
Essa può essere anche verbalizzata direttamente alle udienze, allorché il procedimento concordatario è in procinto di chiudersi con un provvedimento diverso dall’omologazione: nella pratica, talvolta il P.M. deposita un’apposita memoria, più spesso rassegna brevemente le conclusioni a verbale, senza essere vincolato a determinarsi nell’uno o nell’altro modo[33]. 
Ebbene, alla richiesta di fallimento formulata dal P.M. a seguito della dichiarazione di improcedibilità della domanda di concordato preventivo per rinuncia del proponente, non si applica il disposto dell'art. 7 L. fall., in quanto la parte pubblica, una volta informata della proposta di concordato preventivo ai sensi dell'art. 161, comma 5, L. fall., partecipa ordinariamente al procedimento, rassegnando in udienza le proprie conclusioni orali, che possono comprendere anche l'eventuale richiesta di fallimento dell'imprenditore in ragione dell’insolvenza insolvenza, di cui ha avuto conoscenza per effetto di detta partecipazione[34]. 
Secondo la Corte regolatrice, il sub-procedimento diretto alla declaratoria di fallimento, che si apre all’esito della dichiarazione d’inammissibilità della proposta di concordato preventivo, si inserisce nell’ambito di una procedura unitaria, nella quale il debitore ha già formalizzato il rapporto processuale innanzi al tribunale ed il cui eventuale sbocco nella dichiarazione di fallimento deve essergli noto sin dal momento della proposizione della domanda, soprattutto dopo avere preso conoscenza del decreto ex art. 162, comma 2, L. fall., cui consegue la trasmissione degli atti al pubblico ministero[35].
Neppure la rinuncia del debitore alla domanda di concordato preventivo con riserva, formulata nel corso della fase di ammissione al procedimento, impedisce al P.M., prima che il tribunale dichiari l'inammissibilità della detta domanda, di avanzare una richiesta di fallimento dell'imprenditore, in ragione della ritenuta sua insolvenza, di cui sia venuto a conoscenza a seguito della comunicazione ex art. 161, comma 5, L. fall.[36]. 
La richiesta di fallimento introdotta dal pubblico ministero è, dunque, un’eventualità “immanente” in tutte le fasi della vicenda concordataria (ammissibilità, revoca, omologazione).
In effetti, il procedimento di concordato preventivo, fin dalla sua origine, è (come si direbbe con espressione oggi molto in voga) “partecipato” dal P.M.
Anche nel sistema del CCII, come sopra si è detto, ai sensi dell’art. 40, comma 3, la domanda di accesso ad una procedura giudiziale di regolazione della crisi o dell’insolvenza, unitamente ai documenti allegati, è sempre trasmessa, a cura della cancelleria, al pubblico ministero.
Ad instar dell’orientamento già consolidato della giurisprudenza fallimentare, sopra segnalato, è, quindi, in facoltà del pubblico ministero intervenire nel procedimento concordatario ed ivi rassegnare eventuali conclusioni, nonché richiedere la dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale.
Le norme non limitano tale partecipazione ad una o ad alcune fasi o udienze del giudizio concordatario, potendo il P.M. “entrare” nel procedimento allorché lo ritiene necessario, ovvero opportuno.
In base alla medesima logica, la domanda di apertura della liquidazione concorsuale può essere introdotta dal P.M. in qualunque momento della vicenda concordataria, anche prima che il tribunale adotti una qualsiasi decisione sulla domanda di soluzione per via pattizia della crisi d’impresa.
La condizione sancita dall’art. 7 CCII (in adesione ai noti principi già da tempo declinati dalle sezioni unite della Corte di cassazione[37]) è che le domande dirette a regolare la crisi o l'insolvenza con strumenti diversi dalla liquidazione giudiziale o dalla liquidazione controllata debbano essere trattate e definite in via prioritaria.
Soltanto all’eventuale esito di tali domande in senso ostativo alla prosecuzione dell’esperimento giudiziale pattizio, ai sensi dell’art. 49, commi 1 e 2, il tribunale dichiara con sentenza, su ricorso di uno dei soggetti legittimati e accertato il presupposto dell’insolvenza, l'apertura della liquidazione giudiziale.
Il ricorso del P.M. (o di altro legittimato) può anche preesistere ed il passaggio dall’esito negativo del giudizio pattizio al procedimento per l’apertura della liquidazione giudiziale può avvenire, come sopra si è detto, senza soluzione di continuità, nel rispetto del principio del contraddittorio.  
Ciò può, ad esempio, accadere in caso di domanda di concordato in bianco, allorché (cfr. art. 44, comma 2) il tribunale concorsuale revoca il provvedimento di concessione dei termini, se accerta la ricorrenza di atti di frode, o quando vi è stata grave violazione degli obblighi informativi, quando è decorso inutilmente il termine per la presentazione della domanda della proposta e del piano in caso di concordato con riserva, quando il debitore non ha depositato le spese della procedura concordataria, ovvero nei casi di atti di frode e apertura della liquidazione giudiziale nel corso della procedura, o ancora in caso di mancata approvazione del concordato preventivo o quando il concordato preventivo o gli accordi di ristrutturazione non sono stati omologati.
Resta fermo che – tutte le volte in cui emergano i presupposti per l’apertura della liquidazione giudiziale – il tribunale debba comunque sentire il debitore in camera di consiglio, all’uopo fissando un’apposita udienza camerale, con provvedimento da comunicarsi a tutte le parti, in primis al debitore ed al pubblico ministero[38]. 
Sarebbe altresì, a mio avviso, opportuno (se non necessario) che – specie in presenza di argomentate istanze di fallimento del P.M., tese a valorizzare specifici aspetti del materiale istruttorio acquisito nel corso del procedimento concordatario (o, a maggior ragione, nelle ipotesi in cui il P.M. introduca nuovi elementi aliunde acquisìti nell’esercizio delle sue funzioni) – si conceda al debitore il tempo utile all’esame della domanda del pubblico ministero, senza alcuna “compressione” del contraddittorio processuale.
6 . L’intervento del pubblico ministero nel giudizio per la soluzione della crisi d’impresa
L’art. 7, comma 1, del D.Lgs. “correttivo” n. 147/2020 ha aggiunto all’art. 38 del CCII due commi.
Nel primo (comma 3 dell’art. 38) si dispone che il pubblico ministero può intervenire in tutti i procedimenti diretti all'apertura di una procedura di regolazione della crisi e dell'insolvenza.
La norma fa da sponda alla previsione di cui all’art. 41, comma 5, ove si prevede che l'intervento nel giudizio per l’apertura della liquidazione giudiziale dei terzi che hanno legittimazione a proporre la domanda e del pubblico ministero può avere luogo sino a che la causa non venga rimessa al collegio per la decisione.
Si tratta di un intervento cd. “facoltativo”, inquadrabile nella fattispecie di cui all’ultimo comma dell’art. 70 c.p.c., a cui il P.M. è legittimato nella misura in cui ravvisi nella causa la ricorrenza di un pubblico interesse. 
Trattandosi, al contempo, di causa che egli stesso avrebbe potuto proporre, dovrebbe trovare applicazione anche il successivo art. 72 c.p.c., che, in queste ipotesi, riconosce al P.M. i medesimi poteri che competono alle parti, consentendogli di esercitarli nelle forme che la legge stabilisce per queste ultime.
Ne deriva che la desistenza dal ricorso per l’apertura della liquidazione giudiziale da parte di altro legittimato non impedisce al pubblico ministero di mantenere ferma la relativa domanda, come del resto dispone espressamente l’art. 43, comma 1, del CCII.
Nel successivo comma 4 dell’art. 38, si prevede, poi, che il P.M. intervenuto in uno dei procedimenti diretti all'apertura di una procedura di regolazione della crisi e dell'insolvenza, instaurato dinanzi al tribunale concorsuale di cui all'art. 27, può chiedere di partecipare al successivo grado di giudizio quale sostituto del procuratore generale presso la Corte di Appello. La partecipazione è disposta dal procuratore generale presso la Corte di Appello qualora lo ritenga opportuno.
Gli avvisi, però, spettano in ogni caso al procuratore generale, e così pure – io ritengo – le notifiche e le comunicazioni.
Si legge nella Relazione governativa di accompagnamento al D.Lgs. n. 147/2020 che “La norma è stata interamente riscritta al fine di inserirvi un terzo ed un quarto comma: il primo rende esplicita la regola secondo la quale il pubblico ministero, così come è legittimato a proporre istanza di apertura della liquidazione giudiziale – per la liquidazione controllata provvede in modo autonomo l'articolo 268 – può intervenire in tutti i procedimenti diretti all'apertura di una procedura di regolazione della crisi e dell'insolvenza; con il comma 4 si consente al rappresentante del pubblico ministero intervenuto di partecipare al successivo grado di giudizio quale sostituto del procuratore generale presso la Corte di Appello. Ciò sul modello tracciato dall'art. 570, comma 3, del codice di procedura penale, allo scopo di valorizzare le conoscenze già acquisite in merito alla procedura dal magistrato che ha seguito il procedimento nel primo grado di giudizio”.


*Lo scritto muove dalla relazione svolta il 12 maggio 2021 nell’àmbito dell’evento formativo Verso l’applicazione del Codice della crisi d’impresa: il ruolo del giudice e del P.M., organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura, Struttura di formazione decentrata della Corte di cassazione.

Note:

[1] 
Satta, Diritto fallimentare, 3^ ed. aggiornata ed ampliata da Vaccarella-Luiso, Padova, 1996, p. 53. Nel medesimo senso v. anche Bonsignori, Tutela giurisdizionale dei diritti, in Commentario Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1999, p. 25; Tiscini, Potere di azione per la dichiarazione di fallimento e potere di segnalazione dello stato d’insolvenza: entità eterogenee a confronto, in Fall., 2011, p. 333.
[2] 
Stanghellini, Proprietà e controllo dell’impresa in crisi, in Riforma del diritto societario e riflessi sulle procedure concorsuali, a cura di Menchini, Torino, 2005, p. 162.
[3] 
Fabiani, sub art. 6, in Il nuovo diritto fallimentare a cura di Jorio-Fabiani, I, Bologna, 2006, p. 106.
[4] 
Rinvio, per più lungo discorso sul tema, a De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, Padova, 2012, passim.
[5] 
Bonelli, Del fallimento, I, Milano, 1923, p. 224 ss.
[6] 
L’art. 218, comma 2, affida altresì al P.M. la legittimazione ad introdurre la domanda di liquidazione controllata dell’imprenditore sovraindebitato.
[7] 
Cfr. Cass., sez. I, 26 maggio 1967, n. 1160; v. anche Cass., sez. I, 19 settembre 1995, n. 9884; Cass., sez. I, 3 ottobre 1986, n. 5854; Cass., sez. I, 6 luglio 1973, n. 1919.
[8] 
Interessanti spunti in questo senso si rinvengono in Santangeli, P.M. e fallimento, in Dir. fall., 2017, p. 18.
[9] 
Così Montesano, Arieta, Trattato di diritto processuale civile, I, 1, Padova, 2001, p. 474, ed ivi ulteriori riferimenti.
[10] 
App. L’Aquila 22 maggio 2012, est. D’Orazio, in Giur. merito, 2013, 4. Precisa Trib. Benevento 27 gennaio 2016, in Fall., 2016, p. 745, che la mancata comparizione all’udienza prefallimentare del P.M. richiedente la dichiarazione di fallimento non implica l’abbandono dell’istanza e la sua conseguente desistenza, atteso che l’art. 15 L. fall., pur prevedendo l’intervento obbligatorio del p.m. che ha assunto l’iniziativa, non richiede che l’organo pubblico sia presente alle singole udienze celebrate davanti al tribunale, ma semplicemente che ne abbia conoscenza per avere la possibilità di determinarsi correttamente, valutando se coltivare o meno l’istanza proposta, e mancando del resto un’esplicita qualificazione normativa di carattere generale, in termini di desistenza, dell’assenza fisica all’udienza, della parte (pubblica o privata che sia), e non può essere condannato alle spese in caso di soccombenza.
[11] 
Cass., sez. I, 18 maggio 2017, n. 12537.
[12] 
Cass., sez. II, 29 ottobre 2018, n. 27402; Cass., sez. I, 21 maggio 2014, n. 11223.
[13] 
Cfr. Ferro, Mancata comparizione all’udienza e improcedibilità dell’istanza di fallimento, in Giur. merito, 2009, p. 1011 ss.; Plenteda, Profili processuali del fallimento dopo la riforma, Milano, 2008, p. 70 s. (il quale ne fa altresì questione di correttezza, che dovrebbe presiedere all’attività del P.M.). Nel senso della rinunziabilità dell’istanza di fallimento da parte del P.M. v. anche De Matteis, L’istruttoria prefallimentare, in Fallimento ed altre procedure concorsuali, a cura di Fauceglia-Panzani, I, 2009, p. 204.
[14] 
Modifico in parte qua la tesi da me sostenuta in Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., p. 50.
[15] 
Ciò è quanto ritiene la giurisprudenza con riferimento alla desistenza del creditore istante per il fallimento, non accompagnata dall'estinzione dell'obbligazione, come tale inidonea a spiegare i propri effetti qualora venga depositata allorché il procedimento prefallimentare sia stato definito con la deliberazione della decisione, anche se questa non sia stata ancora pubblicata (cfr. Cass., Sez. I, 30 giugno 2020, n. 13187).
[16] 
Ma v. in quest’àmbito Cass., Sez. I, 24 maggio 2012, n. 8227, secondo la quale, nel giudizio di reclamo ex art. 18 L. fall., in coerenza con la natura camerale dell'intero procedimento e con l’effetto devolutivo pieno di tale giudizio, vale il principio per cui, in caso di difetto di comparizione del reclamante all'udienza di trattazione, il giudice, verificata la regolarità della notificazione del ricorso e del decreto, deve decidere il reclamo nel merito, esclusa la possibilità di una decisione di rinvio della trattazione o di improcedibilità per disinteresse alla definizione o di "non luogo a provvedere" (nel medesimo senso cfr. anche Cass., Sez. I, 12 marzo 2020, n. 7121).
[17] 
Ex multis: Cass., Sez. I, 12 marzo 2020, n. 7121, cit.; Cass., Sez. I, 28 giugno 2017, n. 16180.
[18] 
Secondo Cass., sez. I, 28 ottobre 2019, n. 27539, “se l'iniziativa del P.M. dipende non dalla preventiva iscrizione di una notitia criminis nel registro degli indagati, bensì dalla conoscenza di circostanze apprese nell'ambito dello svolgimento dei compiti istituzionali affidati al magistrato requirente, non può essere posto in dubbio che la notitia decoctionis possa essere ricavata dal magistrato inquirente anche dalla lettura degli atti a lui trasmessi ed iscritti a modello 45 perché privi di rilevanza penale, dato che una simile attività rientra nei compiti istituzionali attribuitigli e può quindi costituire una fonte di informazione utile a legittimare l'iniziativa volta alla dichiarazione di insolvenza”. Pertanto, “non assume alcuna decisività la contestazione della legittimità delle indagini svolte dalla Guardia di Finanza prima di una nuova iscrizione nel registro delle notizie di reato e comunque al di fuori di un procedimento penale nei confronti i terzi”.
[19] 
In questo senso v. Santangeli, op. cit., p. 15, secondo il quale “la segnalazione del giudice civile al P.m. della insolvenza, per come ricavata da un processo civile, quindi, non conduce certo ad una automatica richiesta da parte del P.m. al tribunale fallimentare; ricevuta la notizia, sarà il P.m. a vagliarla con cura, e a valutare con attenzione l’esistenza a suo giudizio dei presupposti oggettivi e soggettivi del fallimento prima di presentare la richiesta. Ritengo che lo stesso debba accadere quando il P.M. agisce dopo avere riversato delle potenziali situazioni di insolvenza nell’ambito di un procedimento o di un processo penale; anche in questo caso il P.M. dovrà fare precedere l’azione da un esame attento per verificare l’esistenza dei presupposti oggettivi e soggettivi per procedere al fallimento”.
[20] 
Cass., sez. I, 21 agosto 2020, n. 17511; Cass., sez. I, 15 maggio 2014, n. 10679; Cass., sez. I, 16 novembre 2016, n. 23391.
[21] 
Cass., sez. I, 21 aprile 2011, n. 9260.
[22] 
Cass., sez. VI-1, 5 maggio 2016, n. 8977.
[23] 
Cass., sez. VI-1, 5 maggio 2016, n. 8977 cit.
[24] 
Cass., sez. I, 30 gennaio 2017, n. 2228.
[25] 
Cass., sez. I, 25 agosto 2017, n. 2044. Secondo Cass., sez. VI-1, 5 maggio 2016, n. 8977, cit., il P.M. è legittimato a chiedere il fallimento dell'imprenditore anche se la notitia decoctionis, da lui appresa nel corso di indagini svolte nei confronti di soggetti diversi o collegati all'imprenditore medesimo, sia stata approfondita, sul piano investigativo, dopo che siano già state formulate le proprie richieste in sede penale, ove quegli approfondimenti non costituiscano una nuova e arbitraria iniziativa d'indagine, ma si caratterizzino come uno sviluppo di essa, collegato strettamente alle sue risultanze, per quanto non complete, già acquisite nel corso dell'indagine penale (nella specie, la S.C. ha ritenuto legittima l'iniziativa del P.M., intrapresa a seguito di indagini della Guardia di finanza sulla situazione patrimoniale e finanziaria della società ricorrente ed espletate, in epoca successiva all'esercizio dell'azione penale, sulla base della documentazione acquisita e delle indicazioni ricevute dal proprio consulente).
[26] 
Farolfi, Il nuovo ruolo del giudice dell’esecuzione nella tempestiva emersione della crisi d’impresa, in Riv. es. forzata, 2020, p. 68 s., il quale richiama l’esempio dell’azione di rilascio della sede aziendale condotta in locazione dall’imprenditore, “per la carica esiziale che questa può comportare non solo sulla possibilità di proseguire l’attività economica ma, ancor prima, per la dissoluzione dell’entità “azienda” che questo spesso comporta, impedendone una valorizzazione complessiva, come pure per la perdita dell’avviamento e la conseguente, spesso rovinosa, vendita delle rimanenze di magazzino a valori fallimentari”.
[27] 
Così ancora Farolfi, ivi, p. 72.
[28] 
Cass., sez. un., 18 aprile 2013, n. 9409.
[29] 
Cass., sez. I, 10 agosto 2017, n. 19927; Cass., sez. VI-1, 20 maggio 2020, n. 9205.
[30] 
Cass., sez. I, 18 marzo 2015, n. 5447.
[31] 
Cavalli, La dichiarazione di fallimento. Presupposti e procedimento, in Aa.Vv., La riforma della legge fallimentare a cura di S. Ambrosini, Bologna, 2006, p. 42.
[32] 
Cass., sez. I, 24 maggio 2018, n. 12968.
[33] 
Cfr. Cass., sez. I, 23 giugno 2011, n. 13818, la quale, con riferimento alla domanda di fallimento presentata nel corso del procedimento concordatario, ha precisato che l’utilizzo del termine “istanza” – già presente nelle disposizioni di cui all’art. 162, comma 2, e art. 180, ultimo comma, L. fall., in luogo di “ricorso” – chiarisce che l’iniziativa può essere assunta senza particolari formalità e quindi anche con dichiarazione a verbale, in quanto gli elementi attinenti all’individuazione dell’ufficio giudiziario, delle parti e della ragioni della domanda sono inequivocabilmente desumibili dalla specificità del procedimento in cui l’iniziativa viene presa, fermo restando che, nella fattispecie, la qualità di creditore dell’istante non è contestata.
[34] 
Cass., sez. I, 16 marzo 2018, n. 6649; Cass., sez. I, 16 maggio 2018, n. 12010.
[35] 
Cass., sez. VI-1, 18 dicembre 2015, n. 25587.
[36] 
Cass., sez. I, 23 ottobre 2019, n. 27200; Cass., sez. I, 14 maggio 2019, n. 12855.
[37] 
Cass., sez. un, 15 maggio 2015, nn. 9935 e 9936.
[38] 
Cfr. Cass. Sez. I, 22 giugno 2016, n. 12957, la quale ha statuito che, ove sia stata presentata proposta di concordato preventivo cosiddetto in bianco, ai sensi dell’art. 161, comma 6, L. fall., va rispettato l’obbligo di audizione del debitore ex art. 162, co. 2, per consentire allo stesso di svolgere le proprie difese prima della pronuncia di inammissibilità, salvo che, inserendosi la proposta nell’ambito della procedura prefallimentare, il debitore sia stato comunque sentito in relazione alla proposta ed abbia avuto modo di svolgere le sue difese.

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