L’ambiente delle crisi – dal versante professionale - si sviluppa su piani diversi e spesso assai poco comunicanti tra loro. Vi sono professionisti che assistono solo i debitori, altri che assistono solo i creditori e altri che assistono gli uni e gli altri. Nella maggior parte dei casi questi professionisti non coincidono con quelli che si muovono leggiadramente o cupamente nei corridoi dei tribunali[54].
Le crisi delle imprese di maggiori dimensioni e dei gruppi quasi sempre presuppongono un primo passaggio dalle procedure volontarie, per poi approdare alla liquidazione giudiziale o alla amministrazione straordinaria quando il tentativo di risanamento o di ristrutturazione non ha esito positivo. Nelle procedure negoziate di una certa dimensione, che sono numericamente poche (però, non poi così poche) ma che rappresentano la grandissima maggioranza in termini di indebitamento, è consueto intercettare i consulenti legali del debitore, il consulente dedito al confezionamento della manovra finanziaria, quello dedito alla formazione del piano industriale, quello dedito alla ricerca sul mercato di potenziali interessati all’acquisizione dell’azienda o del capitale; i consulenti legali e finanziari degli investitori e dei creditori; quando serve l’attestatore, o il chief officer restructuring. Come è facile intuire questi costi sono spesso enormi, ma anche tante volte, si dice, quasi inevitabili. Il tema è assai delicato perché questi costi sottraggono risorse ai creditori anteriori al processo di risanamento, il che si traduce nella necessità (non sempre avvertita) di dimostrare che il valore aggiunto di questi costi si misura sul più elevato tasso di recovery che si promette ai creditori. Detto altrimenti, questi costi sono tollerabili, anche per ‘numeri’ consistenti, quando sono funzionali ad un miglior trattamento dei creditori. Se ciò accade non v’è nulla da scandalizzarsi se l’entità di questi costi si misura con cifre a sei zeri e quando il processo va in porto i contratti di conferimento di incarico non dovrebbero essere messi in discussione.
Il quadro muta profondamente quando il processo di risanamento va in stallo o, peggio, esonda in una procedura concorsuale liquidatoria, perché in tal caso i costi della ristrutturazione comprimono le attese dei creditori precedenti. Talora può accadere che l’insuccesso dipenda (anche) da inadempimenti professionali e se così accade, la scure dei rigetti delle domande di ammissione al passivo, tante volte agitata, può risolvere il problema; questi, però, dovrebbero essere casi patologici, perché nella fisiologia delle situazioni all’insuccesso non si accompagna alcun inadempimento dell’obbligazione professionale. È in queste ipotesi che si palesa il conflitto tra i professionisti del debitore e i creditori anteriori: la fetta della torta da distribuire diviene più misera per i secondi perché bisogna fare spazio ai primi. Se il professionista (il cui credito è assistito da causa di prelazione) o la società di consulenza (il cui credito è di natura chirografaria) hanno svolto con diligenza, perizia e prudenza il loro incarico non v’è ragione che siano penalizzati per il sol fatto dell’insuccesso del risanamento, così come per converso i creditori anteriori che non beneficiano di un processo per loro non favorevole (o, peggio, pregiudizievole) non dovrebbero vedere ridotte le loro pretese per un concorso di altri creditori successivi. Sia chiaro, la questione non riguarda solo i crediti dei professionisti ma di tutti i creditori che tali divengono lungo il processo di risanamento.
Giunti a questo punto è sin troppo ovvio che il passo conseguente sarebbe la messa in discussione dell’istituto (perché tale è diventato nel corso del tempo) della prededuzione[55]. Sennonché, mettere in discussione la prededuzione è tema non solo assai complesso ma persino sistemico, volta che senza prededuzione i processi di risanamento sarebbero, in apice, impraticabili. Qui, allora, non è il caso di dibattere di prededuzione in generale, ma di verificare se vi possa essere un punto di conciliazione tra i diritti dei creditori anteriori e i diritti dei professionisti successivi. Questi termini, anteriori e successivi, vanno intesi in modo non tecnico se solo si pensa al fatto che nella composizione negoziata della crisi non vi è uno spartiacque formale tra creditori anteriori e creditori successivi, data la natura non concorsuale della composizione negoziata. Il legislatore, non sordo rispetto a queste tensioni, e memore del principio direttivo della legge delega 155/2017[56], ha pensato di stabilire un quoziente di prededuzione fissato al 75% del credito, secondo ciò che dispone l’art. 6 CCII. Questa disposizione è ed è stata molto criticata[57], ma a ben vedere rappresenta un barlume di una possibile ‘transazione’ tra i diritti dei creditori anteriori e i diritti di credito professionali; con una precisazione, perché la norma si riferisce ai crediti dei professionisti in senso stretto e non ai crediti delle società di consulenza che pure si ritrovano in tutte le ristrutturazioni più importanti.
Sempre l’art. 6 assume che la natura del credito sia prededucibile a condizione dell’omologazione di un accordo ex artt. 57 ss. CCII o di un piano ex artt. 64 bis ss. CCII o dell’apertura della procedura di concordato preventivo ex art. 47 CCII[58]. La disposizione, tuttavia, contiene un velo di ipocrisia perché tutti siamo consapevoli di quante volte accordi di ristrutturazione omologati naufraghino ben presto e di quante volte concordati preventivi, pur aperti, si incaglino nei procedimenti di revoca (art. 106 CCII)[59], nella mancata approvazione o nel diniego di omologazione. Proviamo a dare per scontato che tutti questi eventi negativi avvengano al di fuori del controllo dei professionisti e che a costoro nulla debba o possa essere imputato: i professionisti hanno eseguito correttamente la loro prestazione ma il costo da essi rappresentato riduce obiettivamente le prospettive di soddisfacimento dei creditori anteriori.
Questo conflitto già oggi presente va risolto de iure condito e de iure condendo.
Sulla base del diritto positivo attuale se si adotta una interpretazione letterale dell’art. 6 CCII, l’unico risultato possibile è questo: (i) i crediti professionali (in senso stretto) sono prededucibili – nei limiti di quanto previsto nell’art. 6 lett. (b), (c) e (d) – a prescindere dal successo o insuccesso; (ii) i crediti delle società di consulenza non sono assistiti né da cause di prelazione, né dalla prededuzione, perché non sono prestazioni professionali e non sono prestazioni connesse alla gestione del patrimonio e alla continuazione dell’attività. Ciò nondimeno, una interpretazione diversa è possibile ed è connessa alla formula lessicale che chiude la lettera (d) dell’art. 6 comma 1: “per il buon esito dello strumento”. La dimensione della sequenza delle parole sembra inclinare alla sopra descritta interpretazione letterale secondo la quale la prededuzione compete per il solo fatto che il debitore abbia conferito un incarico funzionale ad ottenere un buon risultato della ristrutturazione. Però, se si vuole, così interpretata la norma parrebbe quasi paradossale perché implicherebbe – a contrario – che il debitore possa (invece) conferire un incarico al fine di conseguire un risultato negativo dello strumento. Ed allora non sarebbe poi così eterodosso che il “buon esito dello strumento” divenisse la condizione per l’attribuzione della prededuzione, ferma invece la spettanza della causa di prelazione[60]. In questo modo non verrebbe sovvertito il principio di trasformazione dell’obbligazione in obbligazione di risultato[61]. Ma neppure questo risultato è appagante perché vorrebbe dire che in ogni ipotesi di sbocco in una procedura liquidatoria la prededuzione non potrebbe mai invocarsi[62]. Pertanto, comunque interpretata, la norma produce un risultato inefficiente. Chiuso il circuito interpretativo si torna al punto di partenza e cioè alla lettura più tradizionale dell’art. 6 CCII, con l’effetto che nel conflitto tra creditori, chi soccombe è il creditore anteriore e così non si è trovato un punto di mediazione. Il rischio è evidente: se non si può addomesticare la prededuzione, ci sarà maggiore propulsione ad eccepire inadempimenti che in verità tali non sono e, di riflesso, ci sarà un aumento del contenzioso, esito che invece dovremmo tutti cercare di voler evitare. Una conclusione, questa, all’evidenza deludente.
Una ipotesi di lavoro diversa mi pare che possa muovere da una attenta valutazione di ciò che vuole rappresentare la prededuzione, cioè un premio destinato a chi ha favorito il percorso di ristrutturazione[63]. Se tale percorso non ha performato, la prededuzione è un onere eccessivo (sopravvenuto) per la collettività dei creditori. Queste parole evocano un istituto del diritto civile di antica formazione: la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta (art. 1467 c.c.). Si potrebbe, dunque, immaginare che il curatore, in sede di formazione dello stato passivo, non lamenti un inadempimento nella prestazione, il che condurrebbe alla esclusione del credito, ma lamenti l’eccessiva onerosità della prestazione nella parte in cui ha generato un credito prededucibile, il che condurrebbe ad una possibile soluzione di mediazione affidandoci all’ultimo comma dell’art. 1467 c.c., là dove il contratto può essere riportato a condizioni più eque, quali ad esempio il riconoscimento del privilegio in luogo della prededuzione, ciò che, però, consentirebbe di superare il ben peggiore risultato della esclusione del credito per inadempimento[64].
Mi rendo ben conto della forzatura della interpretazione ma, appunto, l’interprete non può rinunciare a trovare una lettura della norma che specie in presenza di interessi collettivi risulti assecondare un principio di gradualità (o proporzionalità)[65].
Se, invece, si trascorre ad una prospettiva de iure condendo, la previsione apparentemente rozza di attribuzione di un quoziente soltanto in prededuzione nel caso di insuccesso, può costituire un punto di conciliazione tra interessi contrapposti. Non è un mistero che il legislatore in tempi recenti, v., la l. 35/2025 sulla misura della responsabilità dei sindaci delle società di capitali[66], sta proprio adottando criteri – per quanto discutibilissimi – di predeterminazione dell’entità delle obbligazioni di debito[67].