Il decreto in esame non si è avveduto dell’opposta convinzione della Suprema Corte, con una pronuncia non menzionata e persuasiva, perché molto più prudente nell’interpretazione dell’art. 8 del decreto n. 252 del 2005[24]. Infatti, si è considerata l’espressione “conferimento” “atecnica”, così “che deve essere qualificata giuridicamente”; il testo normativo “costituisce un sintomo ulteriore, sotto il profilo della libertà di selezione dello strumento negoziale del favor per l’autonomia privata in tale ambito previdenziale rispetto a quello obbligatorio”[25], con una impostazione diversa da quella del decreto in esame. Infatti, l’art. 8 del decreto n. 252 del 2005 non regola “lo strumento tecnico – giuridico tramite il quale deve essere eseguito il finanziamento”[26] e ciò comporta “che il legislatore abbia riservato alla volontà del lavoratore e del fondo (…) stabilire se utilizzare (…) la delegazione di pagamento, con incarico conferito dal lavoratore al proprio datore di lavoro di versare le quote di trattamento di fine rapporto al fondo, ovvero di prevedere la cessione del credito futuro alle quote (…) direttamente al fondo”[27].
Quindi, “il pagamento che il datore di lavoro esegue a favore del fondo (…) realizza una delegazione di pagamento ai sensi dell'art. 1269 c.c. e il lavoratore rimane il titolare del diritto”[28], sebbene non sia questo un principio generale, ma l’esito possibile di una ricostruzione della concorde volontà del fondo e del dipendente, con l’interpretazione rimessa all’applicazione degli artt. 1362 ss. c.c. e con l’effetto proprio dell’art. 72 del regio decreto n. 267 del 1942 sul rapporto di delegazione[29], posti le perduranti conseguenze traslative della cessione, per crediti anteriori alla dichiarazione di fallimento[30]. Pertanto, la modificazione della titolarità del credito è una soluzione negoziale compatibile con l’art. 8 del decreto n. 252 del 2005, ma non è l’unica[31], con la necessaria ricostruzione dell’impostazione convenzionale prescelta. Neppure la delegazione è una strategia imposta dall’art. 8[32], in quanto il fondo e il dipendente possono e, anzi, devono regolare in modo consensuale il problema, facendo riferimento a uno dei due istituti plausibili; soprattutto, tale tesi coglie un punto fondamentale, cioè la frequente previsione nei regolamenti dei fondi dell’esercizio dell’azione da parte dei prestatori di opere, in caso di inadempimento dell’impresa e, soprattutto, di procedure concorsuali, a tacere della scarsa solerzia nella presentazione di istanze di ammissione allo stato passivo a opera degli stessi fondi[33].
Se tale ultimo aspetto può avere una rilevanza in fatto, al massimo sul versante della giustizia sostanziale, il primo ha un significato preciso, in quanto, in tali evenienze, vi è un elemento a supporto della possibilità di qualificare l’accordo come di delegazione e non di cessione del credito; anzi, ciò smentisce il preteso rilievo dell’irrevocabilità del conferimento[34], poiché tale profilo riguarda la protezione dell’affidamento del fondo sulla stabilità della decisione del prestatore di opere, ma non il rapporto lavorativo. Poi, se il regolamento del fondo invita o impone al dipendente di agire, come spesso accade, non si comprende perché dall’art. 8 del decreto n. 252 del 2005 si dovrebbe trarre una direttiva inderogabile in senso opposto[35].
L’iniziativa previdenziale e i relativi meccanismi di finanziamento devono essere distinti dal rapporto di lavoro, nel quale è iscritto il credito retributivo[36]; in tale contesto, ha scarso rilievo il carattere irrevocabile della determinazione del prestatore di opere, mentre importa la natura dell’atto compiuto con il fondo e non vi è alcun obbligo di una cessione, a fronte di una diversa indicazione del regolamento, a natura contrattuale[37]. L’art. 8 del decreto n. 252 del 2005 non propone un modello esclusivo di finanziamento, a maggiore ragione a proposito di un tema estraneo ai suoi obbiettivi e, cioè, con riguardo alle implicazioni sulla titolarità di un credito retributivo[38]. Non si vede perché, a tale proposito, questi dovrebbe impostare la partecipazione del prestatore di opere secondo uno solo dei modelli, mentre si può fare ricorso a entrambi.
Né giova alla tesi del decreto in esame l’art. 5, secondo comma, del decreto legislativo n. 80 del 1992, per cui il lavoratore “può richiedere al Fondo di garanzia di integrare presso la gestione di previdenza complementare interessata i contributi risultanti omessi”, in quanto, comunque la si voglia leggere, la disposizione non può essere invocata a sostegno dell’esistenza di una cessione, come se l’intervento del Fondo di garanzia postulasse la necessaria proposizione dell’azione surrogatoria. Se mai, l’iniziativa del prestatore di opere contemplata nell’art. 5 porta a conclusioni opposte e, a torto o a ragione, le circolari dell’Inps richiedono l’azione del lavoratore, quale ineludibile presupposto del pagamento da parte del Fondo di garanzia[39]. A ragione, il decreto in esame sottolinea la ricostruzione restrittiva data dall’Inps all’art. 5, secondo comma, del decreto n. 80 del 1992, ma sottostima il riferimento della norma alla domanda del solo prestatore di opere. Ne deriva una impostazione in sé poco coerente dello stesso art. 5, da cui non si possono trarre indicazioni solide sulla natura del “conferimento”, tanto meno a favore della sua riconduzione alla cessione, poiché osta il richiamo all’istanza del preteso cedente del credito e non del cessionario. A tutto volere concedere, l’art. 5 è neutro rispetto alla soluzione del problema e, non a caso, non è menzionato dalla Suprema Corte[40].