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Saggio

La consecuzione delle procedure concorsuali nel sistema del Codice della crisi: la prospettiva processuale*

Massimo Montanari, Ordinario di diritto processuale civile nell'Università di Parma

20 Dicembre 2022

*Il presente lavoro costituisce il testo, debitamente integrato e arricchito delle note, della relazione presentata al convegno, sul tema “Il ‘soddisfacimento dei creditori’ nelle procedure di composizione della crisi d’impresa”, svoltosi a Reggio Emilia in data 28 ottobre 2022 e promosso dal Centro Studi “Diritto della crisi e dell’insolvenza” in collaborazione con questa Rivista.
*Il saggio è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
Muovendo dalla sistemazione, offerta a suo tempo dalle Sezioni Unite della Cassazione, dei rapporti tra revoca dell’omologazione del concordato preventivo e sentenza di fallimento sopravvenuta nelle more del giudizio di cassazione contro la pronuncia che aveva posto fine, in quel modo, alla procedura concordataria, il presente lavoro si sofferma sulle problematiche d’ordine processuale connesse al fenomeno della consecuzione tra procedure concorsuali, con precipuo riferimento a quelle legate al fatto che, in quanto legata tassativamente a un’apposita istanza di parte, l’apertura di una procedura liquidatoria non costituisca più l’approdo immediato e automatico della sperimentazione senza successo di uno strumento di regolazione negoziata della crisi.
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1 . Introduzione
L’ottica entro cui intendo svolgere le presenti riflessioni e, cioè, quella della consecuzione della liquidazione giudiziale rispetto a una pregressa – e, logicamente, non andata a buon fine – procedura di concordato preventivo, può suonare come un tradimento del compito che mi è stato assegnato e del riferimento alla generalità delle procedure concorsuali che è contenuto nel titolo contrassegnante questa relazione. 
Sarebbe questa, però, un’impressione decisamente fallace, in quanto non v’è motivo per ritenere che i problemi e, soprattutto, le soluzioni che si metteranno a fuoco in quella prospettiva non debbano attagliarsi alle ipotesi in cui la procedura liquidatoria abbia a conseguire all’insuccesso di un diverso strumento di regolazione negoziale della crisi, come accordi di ristrutturazione dei debiti o piani di ristrutturazione omologati. Come avremo modo di vedere, le sole norme del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (cui sarà d’ora in poi rinvio anche con l’acronimo CCII) da cui possono trarsi spunti per la sistemazione in chiave processuale del passaggio dal concordato preventivo alla liquidazione giudiziale sono tutte comprese entro la sezione dello stesso Codice dedicata al “procedimento unitario per l’accesso alle procedure di regolazione della crisi o dell’insolvenza” e, dunque, hanno per definizione una portata trascendente i rapporti tra le due procedure che sole verranno qui formalmente in considerazione. Senza contare, poi, che talune di quelle norme, come l’art. 49, comma 2, e l’art. 53, comma 5, contengono espressi riferimenti a strumenti concorsuali ulteriori, quali gli accordi di ristrutturazione dei debiti.
Due distinte norme del Codice, quali i relativi artt. 73 e 83, regolano la conversione nella corrispondente procedura liquidatoria (leggi: liquidazione controllata del sovraindebitato) delle procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento a carattere volontario-negoziale, ovverosia, rispettivamente, la ristrutturazione dei debiti del consumatore e il concordato minore, delle quali sia stata disposta la revoca dell’omologazione ai sensi dei precedenti arrt. 72 e 82. Esse, però, non toccano i nodi problematici che saranno affrontati in prosieguo di trattazione[1], per i quali occorre sempre far capo alle su richiamate norme del procedimento unitario, applicabili alle procedure da sovraindebitamento in forza della generale disposizione di rinvio di cui all’art. 65, comma 2, CCII.
Poste queste essenziali premesse, comincio subito con l’osservare come, nel sistema originario della legge fallimentare, quello della consecuzione tra procedure concorsuali non fosse tema di particolare interesse per il processualista, e questo perché, in un ordinamento che ammetteva il fallimento d’ufficio, l’apertura della procedura liquidatoria costituiva l’esito fatale e immediato[2] dell’insuccesso dell’opzione concordataria[3], con ben poco spazio, dunque, per questioni d’ordine processuale di un qualche spessore[4]. Certamente, vi erano autorevoli studiosi, come Ferrara e Bonsignori, che contestavano questi automatismi assumendo che il giudice avrebbe dovuto rifiutarsi di dichiarare il fallimento allorché gli fosse risultata la mancanza dei relativi presupposti[5]: ma il fatto che, per dare concretezza a questa eventualità, si facesse riferimento a vicende poco meno che surreali, come l’eredità dello zio d’America o la vincita alla Sisal[6], dimostra come il dibattito pur agitatosi a tal riguardo si svolgesse su un terreno essenzialmente teorico, senza riscontri applicativi di sorta.
 Le cose cambiano con l’abolizione del fallimento d’ufficio voluta dalla c.d. riforma organica di cui al D. Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, o, meglio, cambiano con il decreto correttivo del 2007 (D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169), che ha soppresso le ipotesi, sopravvissute alla novella dell’anno precedente, di fallimento d’ufficio consecutivo alla cessazione anticipata del concordato. E cambiano, dal punto di vista del processualista, perché, in un sistema siffatto, si materializzava la possibilità non soltanto di una dichiarazione di fallimento non contestuale al provvedimento che avesse segnato la morte prematura del concordato ma, addirittura, che la domanda preordinata a quella dichiarazione fosse proposta in pendenza del giudizio d’impugnazione esperibile avverso detto provvedimento, ossia, ad intenderci, in pendenza dell’impugnazione ammessa, di volta in volta, contro il diniego dell’omologa del concordato, contro la revoca dell’omologazione medesima, contro la pronuncia di risoluzione o annullamento del concordato, contro la revoca dell’ammissione alla procedura[7]: dunque, un potenziale viluppo o intreccio di procedimenti cui il cultore del diritto processuale civile non avrebbe potuto negare la propria attenzione, così come non la potrà negare oggi, sullo sfondo di un Codice della crisi che non ha certo ripristinato una procedura liquidatoria d’ufficio e, quindi, ha mantenuto immutate le condizioni perché il problema si riproponga, ovviamente nell’ottica della successione al concordato della nuova procedura di liquidazione giudiziale.
 Ma andiamo con ordine, partendo dalle soluzioni proposte al riguardo, ovviamente entro la cornice dell’ordinamento concorsuale previgente, dalla Corte di cassazione, intervenuta, addirittura a livello della sua più autorevole composizione, con riferimento a una vicenda i cui più precisi contorni intendo ora tracciare, allo scopo di meglio chiarire i termini della complessiva problematica con cui ci dovremo qui confrontare.
2 . Revoca dell’omologazione del concordato e giudizio dichiarativo di fallimento nella visione della Suprema Corte
A seguito del reclamo esperito dall’INPS a norma dell’art. 183 L. fall., la Corte d’appello di Genova annullava il decreto di omologazione del concordato preventivo proposto da una s.r.l. Tale decisione era a sua volta impugnata con ricorso per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost.[8], deducente un unico motivo attinente al merito della decisione medesima, siccome inficiata da un’erronea applicazione dei limiti legali di falcidiabilità dei crediti previdenziali. Ma nelle more del gravame di legittimità sopravveniva la dichiarazione di fallimento della società ricorrente, che prontamente impugnava tale pronuncia a mezzo di reclamo ex art. 18 L. fall.
In considerazione di ciò, la Prima Sezione della Suprema Corte reputava necessario interpellare le Sezioni unite in vista di un’esatta definizione del rapporto intercorrente tra le due distinte vicende impugnatorie, aventi rispettivamente ad oggetto la revoca o annullamento dell’omologazione del concordato[9] e la sentenza di fallimento, venutesi, nella specie, a contestualmente spiegare (così l’ordinanza interlocutoria 22 settembre 2016, n. 18558)[10].  
Intervenendo al riguardo, con pronuncia n. 9146 del 10 aprile 2017[11], le Sezioni unite hanno fissato il punto preliminare per cui “il fallimento può essere dichiarato anche quando è in corso il giudizio di cassazione contro il decreto che, in riforma del decreto di omologazione, non concede il concordato preventivo”, escludendo in tal modo che l’omologa dell’accordo concordatario possa sbarrare le porte alla declaratoria di fallimento del debitore sin tanto che non sia stata rimossa con provvedimento passato in giudicato. Dopo di che, venendo al merito della questione loro rimessa dall’ordinanza interlocutoria n. 18558/2016[12], hanno affermato che “la sopravvenuta dichiarazione del fallimento comporta l'inammissibilità delle impugnazioni autonomamente proponibili contro il diniego di omologazione del concordato preventivo e comunque l'improcedibilità del separato giudizio di omologazione in corso, perché l'eventuale giudizio di reclamo ex art. 18 L. fall. assorbe l'intera controversia relativa alla crisi dell'impresa, mentre il giudicato sul fallimento preclude in ogni caso il concordato”.  
 Le massime testé riportate non hanno riscosso consensi unanimi in sede dottrinale[13]. Ma non è questo, almeno per il momento, il problema. Nel contesto di un incontro di studi incentrato sul Codice della crisi, è della compatibilità di dette conclusioni con il nuovo impianto normativo, ovvero dell’idoneità di questo ad avvalorare o smentire quelle, fornendo, nell’una o nell’altra direzione, spunti determinanti che in precedenza mancassero, è, dicevo, di questo che dobbiamo anzitutto occuparci. Che poi, per quanto rileva ai presenti fini, l’ordinamento riformato abbia ad offrire appigli soltanto parzialmente risolutivi, sì che, ad una verifica – certo sommaria, date le circostanze – dell’intrinseca bontà delle soluzioni proposte dalle Sezioni unite non ci si possa comunque sottrarre, ciò è vero, ma si tratta, all’evidenza, di altro e successivo discorso.
3 . La consecuzione della liquidazione giudiziale alla revoca dell’omologa del concordato preventivo nell’ipotesi direttamente considerata dall’art. 53, comma 5, CCII
L’assunto professato dalle Sezioni unite, secondo cui la revoca dell’omologa del concordato consentirebbe l’apertura del fallimento non appena decretata e senza bisogno della previa transizione in rem iudicatam, parrebbe trovare conferma, a livello dell’innovato sistema concorsuale, nelle previsioni dell’art. 53, comma 5, CCII, dove è stabilito che “in caso di revoca dell'omologazione del concordato o degli accordi di ristrutturazione dei debiti, su domanda di uno dei soggetti legittimati, la corte d'appello, accertati i presupposti di cui all'articolo 121, dichiara aperta la liquidazione giudiziale e rimette gli atti al tribunale per l'adozione dei provvedimenti di cui all'articolo 49, comma 3”[14]. Un dubbio in proposito potrebbe, però, sovvenire sulla base della notazione che quella ivi, direttamente, regolata è fattispecie (certo contigua ma) diversa da quella su cui il giudice della nomofilachia è stato chiamato a intervenire. Nel caso sottoposto all’attenzione di quest’ultimo, infatti, il giudice dell’omologa non si era trovato a contestualmente statuire sulla domanda di fallimento, tant'è vero che la sentenza che tale domanda aveva di poi accolto era sopravvenuta in pendenza non, semplicemente, del reclamo proposto contro il decreto di omologa ma, addirittura, del ricorso per cassazione contro la pronuncia di revoca di quel decreto.
Consideriamo, viceversa, la fattispecie concretante l’oggetto dalla norma su riportata. Poiché non è pensabile che la domanda diretta alla declaratoria di apertura della liquidazione giudiziale sia presentata direttamente al cospetto della Corte d’appello, necessario è immaginare, affinché essa Corte, come la norma prospetta, possa addivenire a quella declaratoria, che la relativa domanda già appartenesse al fascicolo di primo grado[15], vale a dire che già ne fosse investito il giudice dell’omologa, in modo tale da decretarne il rigetto in via contestuale alla concessione dell’omologa stessa. Solo così, infatti, il reclamo proposto ai sensi dell’art. 51 CCII contro la pronuncia di omologa potrebbe al contempo essere indirizzato, quale distinto capo della medesima sentenza[16], contro la pronuncia reiettiva della domanda di apertura della liquidazione giudiziale, mettendo in condizione la Corte adita di statuire su questa domanda ed accoglierla all’atto del rigetto, con la revoca dell’omologa, della contrapposta istanza concordataria.
 Il divario intercorrente tra le due fattispecie sembrerebbe, pertanto, escludere la possibilità di ravvisare, nella citata disposizione di cui all’art. 53, comma 5, CCII, la consacrazione, sul terreno del nuovo ordinamento delle procedure concorsuali, dell’insegnamento delle Sezioni unite richiamato in apertura di questo paragrafo. Ed invero, che in ragione della presenza sulla scena della domanda di fallimento avanzata da taluno dei soggetti all’uopo legittimati, il giudice chiamato a certificare l’infelice esito, per un qualsivoglia motivo, della procedura concordataria potesse contestualmente dichiarare il fallimento del debitore senza bisogno di aspettare che quella certificazione diventasse definitiva, era un dato sostanzialmente pacifico sotto il vigore della legge fallimentare, come attestato da precise disposizioni della medesima – segnatamente, i relativi artt. 162, 173, 179 e 180 – e sul fondamento di quel generale principio del sistema processuale civile per cui, nei confronti del giudice che l’abbia emanata, la sentenza è in grado di spiegare immediatamente, e senza necessità del previo passaggio in giudicato,  i propri effetti dichiarativi e/o costitutivi[17], così che esso giudice ne possa tener conto, effettuando il dovuto coordinamento decisorio, all’atto della statuizione, contestuale o, comunque, nell’àmbito dello stesso processo, su diritti il cui riconoscimento o disconoscimento dipenda da quegli effetti medesimi[18]. Quanto identicamente dovrebbe valere, mutato quel che v’è da mutare, sullo sfondo del Codice della crisi, sulla scorta di quanto desumibile dalle previsioni di cui agli artt. 49, commi 1 e 2[19], 73, comma 1, 83, comma 1, e 271, comma 2. Al punto, in ultima analisi, da potersi sostenere che, se il legislatore ha sentito la necessità di dirci cosa dovrebbe accadere allorché la richiesta di apertura della liquidazione giudiziale sia già in campo al momento dell’omologa del concordato e delle sua successiva revoca, ciò sia avvenuto non per consentire di dare immediatamente corso a quella richiesta senza attendere il passaggio in giudicato della statuizione revocatoria[20], bensì per attribuire direttamente alla Corte d’appello il potere di provvedere al riguardo, senza bisogno di rimettere gli atti al tribunale[21] - se non al fine dell’adozione dei provvedimenti “consequenziali” ex art. 49, comma 3, CCII -, in perfetta corrispondenza con quanto stabilito in via generale dal successivo art. 50, comma 5, per il caso di accoglimento del reclamo separatamente proposto, ai sensi del medesimo art. 50, contro il diniego di apertura della procedura liquidatoria. 
 Tutto quanto ora osservato, dobbiamo quindi concludere, in relazione al caso deciso dalla predetta Cass., Sez. Un., n. 9146/2017 - e caratterizzato, lo si ripete per l’ennesima volta, dal fatto che il tribunale si trovi a decidere sulla domanda di avvio della procedura liquidatoria quando l’omologa del concordato preventivo sia già stata revocata in sede di reclamo davanti alla Corte d’appello ma con pronuncia tuttora impugnabile in cassazione e poi, di fatto, impugnata –, che l’art. 53, comma 5, CCII non offre indicazioni di sorta, stante la sua immediata attinenza a una fattispecie diversa ? Non credo proprio.
 Nel prescrivere l’adozione di “un unico modello processuale per l’accertamento dello stato di crisi o di insolvenza del debitore” (c.d. procedimento unitario per l’accesso alle procedure di regolazione della crisi o dell’insolvenza), l’art. 2, comma 1, lett. d), della L. 19 ottobre 2017, n. 155 (delega al Governo per la riforma delle discipline della crisi d’impresa e dell’insolvenza), stabiliva che in quella sede si sarebbe dovuto anche armonizzare il regime delle impugnazioni, “con particolare riguardo all’efficacia delle pronunce rese avverso i provvedimenti di apertura della procedura di liquidazione giudiziale ovvero di omologazione del concordato”. E a tal riguardo la Relazione illustrativa che ha accompagnato la pubblicazione del Codice della crisi ha precisato, sub art. 53, che, in ossequio alla quella direttiva, si era reso necessario disciplinare “quello che accade quando, omologato il concordato o l’accordo di ristrutturazione in primo grado, venga dichiarata in secondo grado l’apertura della liquidazione giudiziale, o viceversa”; aggiungendo poi che “si è cercato così di superare le difformità interpretative e di risolvere i dubbi che si erano creati con riferimento all’ipotesi, su cui non era ancora maturato un orientamento uniforme, in cui il decreto (secondo la forma attuale) di omologa del concordato o dell’accordo di ristrutturazione fosse stato revocato dalla corte d’appello”.
 Orbene, se di “dubbi” e “difformità interpretative” era giusto dare atto con riferimento alle tematiche indicate dalla Relazione illustrativa, questi/e, però, non attenevano certamente al caso – di avvenuta proposizione della domanda di fallimento già alla data dell’omologa del concordato e della sua successiva revoca – che è stato oggetto di diretta regolamentazione (ovviamente, sostituita la liquidazione giudiziale al fallimento) da parte dell’art. 53, comma 5, CCII[22]. Sicché, delle due l’una: o il legislatore delegato non ha dato esecuzione in parte qua al mandato che gli era stato conferito; oppure, e forse è questa la supposizione più plausibile, con la disposizione di cui detto art. 53, comma 5, si è inteso esprimere un principio di portata più generale, tale per cui la pendenza dei termini o del giudizio d’impugnazione avverso la sentenza di revoca dell’omologa non possa in alcun caso risultare d’ostacolo all’apertura della liquidazione giudiziale del debitore insolvente.
 D’altro canto, se avverso il principio, di conforme tenore, enunciato da Cass., Sez. Un., n. 9146/2017, si era in dottrina obiettato che dichiarare il fallimento quando ancora le vie del concordato preventivo non fossero definitivamente precluse avrebbe comportato il rischio di “compromettere gli effetti del concordato in maniera spesso irreversibile ”[23], senza contare che un eventuale annullamento in cassazione della pronuncia di revoca dell’omologa avrebbe generato “una situazione doppiamente complessa, perché il problema di riportare il concordato allo status quo ante [si sarebbe intrecciato] con quello di rimuovere le conseguenze prodotte dal fallimento”[24], ecco, identici problemi di intreccio o sovrapposizione di procedure dovrebbero porsi anche nel caso espressamente considerato dalla norma del Codice ora in rassegna: per cui, se tali problemi sono parsi superabili al legislatore allorché si è trattato di permettere alla Corte d’appello di decretare uno actu la revoca dell’omologazione del concordato e l’apertura della liquidazione giudiziale, non si vede perché non dovrebbero essere superabili nell’ipotesi di apertura in successiva e separata sede (ovviamente di tribunale) della procedura liquidatoria. Certamente, nella fattispecie regolata dall’art. 53, comma 5, a neutralizzare il rischio, dato dalla possibile disgregazione del patrimonio in sede “fallimentare”, di compromettere in maniera irreversibile gli effetti del concordato preventivo o, meglio, la capacità della procedura negoziale di conseguire i suoi obiettivi di sistemazione della crisi d’impresa, sovvengono i poteri di inibitoria cautelare, in particolare delle attività di liquidazione dell’attivo, attribuiti dal successivo comma 6 al tribunale presso il quale sia stata radicata la procedura di liquidazione giudiziale a séguito della sua dichiarazione d’avvio da parte della Corte d’appello[25]. Ma nel momento in cui si ammetta che a quella dichiarazione possa autonomamente addivenire il tribunale adito a quel fine in momento successivo alla revoca dell’omologa e in pendenza del relativo gravame in cassazione, quelli o analoghi poteri di inibitoria cautelare dovrebbero essere analogamente spendibili, restando soltanto da stabilire (e di ciò si dirà più avanti, sub § 6), se da parte del tribunale medesimo o della Corte d’appello investita del reclamo contro la sentenza di apertura della liquidazione giudiziale.
4 . L’efficacia immediata delle pronunce di accoglimento del reclamo di cui all’art. 51 CCII e i suoi riflessi sul terreno della consecuzione delle procedure
Ove le pregresse considerazioni non dovessero bastare, a suffragare l’assunto per cui, non appena abbia visto la luce, la pronuncia di revoca dell’omologazione del concordato preventivo dovrebbe sempre spianare la via alla soluzione in chiave liquidatoria della crisi d’impresa, soccorre un dato d’ordine sistematico, come quello costituito dall’adozione, in corrispondenza del reclamo alla Corte d’appello disciplinato a livello dell’art. 51 del Codice, di un unico e medesimo strumento in funzione di gravame ordinario avverso la sentenza di apertura della liquidazione giudiziale, da un lato, e di concessa o negata omologazione del concordato preventivo[26], dall’altro.
Il rilievo di questa opzione dei riformatori ai fini della presente indagine è presto illustrato. Se unico è il rimedio impugnatorio ammesso contro la sentenza di apertura della liquidazione giudiziale e quella di omologazione del concordato preventivo, uniforme dev’essere il regime della relativa pronuncia di accoglimento. A venire in gioco sono allora, a questo punto, le previsioni dell’art. 53, comma 2, CCII, a tenore delle quali, dalla pubblicazione della sentenza di revoca della liquidazione giudiziale “e fino al momento in cui essa passa in giudicato, l'amministrazione dei beni e l'esercizio dell'impresa spettano al debitore, sotto la vigilanza del curatore. Il tribunale, assunte, se occorre, sommarie informazioni ed acquisito il parere del curatore, può autorizzare il debitore a stipulare mutui, transazioni, patti compromissori, alienazioni e acquisti di beni immobili, rilasciare garanzie, rinunciare alle liti, compiere ricognizioni di diritti di terzi, consentire cancellazioni di ipoteche e restituzioni di pegni, accettare eredità e donazioni ed a compiere gli altri atti di straordinaria amministrazione”: una disciplina che attesta la capacità della sentenza di revoca della liquidazione a spiegare i propri effetti quando ancora non sia passata in giudicato[27] e che, se è vero quanto premesso circa la necessaria uniformità di regime delle pronunce di accoglimento dell’unitario rimedio ex art. 51 CCII, autorizza a trarre un’analoga conclusione con riguardo alla revoca dell’omologazione del concordato.
Vero è che quelli che la revoca della liquidazione giudiziale è in grado di produrre all’atto della sua pubblicazione non coprono l’intera panoplia degli effetti che si correlano alla transizione in rem iudicatam della sentenza medesima, a partire da quello che ne è l’effetto fondamentale di atto ablativo della sentenza che ne sia stata oggetto e della procedura su di essa incardinata, la cui perdurante pendenza è asseverata da molteplici indici, in primis quello della permanenza in carica degli organi relativi[28]: e se è giusto, nel caso, discorrere di un’efficacia anticipata soltanto parziale, lo stesso potrebbe predicarsi, allora, con riguardo anche alla sentenza di revoca dell’omologazione del concordato, come tale incapace, sintanto che soggetta ad impugnazione, di rimuovere dalla scena la procedura negoziale in atto e di far posto, correlativamente, alla contrapposta procedura liquidatoria, al cui avvento, nella situazione testé ipotizzata, osterebbe il principio di alternatività o esclusività delle procedure concorsuali[29], tipicamente legato alle loro connotazioni universalistiche [30].            
Altrettanto vero è, però, che quanto vale a giustificare la sopravvivenza della liquidazione giudiziale sintanto che la relativa pronuncia di revoca non sia passata in giudicato, non è estensibile al concordato. In buona sostanza, l’immediato ritorno in bonis del debitore assoggettato a liquidazione giudiziale revocata dalla Corte d’appello comporterebbe il rischio di una dispersione del patrimonio, in vista di un eventuale annullamento della sentenza di revoca in sede di giudizio di cassazione, rispetto al quale i creditori sarebbero sostanzialmente sguarniti, potendo al più contare sui mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale di diritto comune: e questo, per l’appunto, è idoneo a dar conto del perché si sia ritenuto che la procedura liquidatoria sia destinata a rimanere in piedi sintanto che la pronuncia di revoca non sia divenuta definitiva. Identicamente non è a dirsi, per converso, del concordato preventivo, giacché, se l’immediato ritorno in bonis del debitore a séguito della revoca dell’omologazione potrebbe esporre il suo patrimonio al rischio non tanto di dispersione[31] quanto di un’indiscriminata aggressione da parte dei creditori[32], questi ultimi o, almeno, quelli di essi che si vedano pregiudicati da una gestione de-regolata dell’insolvenza del comune debitore, potrebbero sempre porvi rimedio facendo ricorso per l’apertura della liquidazione giudiziale. 
Né potrebbe sostenersi che la permanenza in vita della procedura concordataria sino al passaggio in giudicato della sentenza di revoca dell’omologa sarebbe imposta da ragioni attinenti alla tutela del debitore, id est alla necessità di assicurare il raggiungimento degli obbiettivi del concordato – beninteso, per l’eventualità di un suo ripristino all’esito del giudizio di cassazione contro quella sentenza – quali messi a repentaglio, tali obbiettivi, dalla sopravvenuta procedura di liquidazione giudiziale e dalle operazioni espropriative ad essa tipicamente inerenti: e questo, stante la sicura disponibilità, nell’àmbito di detta procedura, di misure inibitorie idonee a preservare l’integrità del patrimonio del debitore per il caso la procedura concordataria si debba nuovamente rimettere in moto[33].
5 . Revoca dell’omologa del concordato e apertura della liquidazione giudiziale: a) il problematico concorso delle rispettive vicende impugnatorie
Una volta professato, in via preliminare, che “il fallimento può essere dichiarato anche quando è in corso il giudizio di cassazione contro il decreto che, in riforma del decreto di omologazione, non concede il concordato preventivo”, le Sezioni unite non hanno potuto sottrarsi al problema, sottoposto alla loro disamina da parte della Prima Sezione, concernente il concorso e il coordinamento dei rimedi impugnatòri distintamente ammessi, rispettivamente davanti alla Corte d’appello e alla Cassazione, che a quel punto venivano a dividersi il campo. E il problema è a più forte ragione destinato a proporsi oggi, sullo sfondo di un Codice della crisi che alla tesi propugnata in apicibus dalla Suprema Corte offre quelle sponde testuali e di sistema che probabilmente le facevano difetto nel quadro della legge fallimentare[34].
Ciò posto, dobbiamo subito osservare, però, come, superato il nodo pregiudiziale relativo alla possibilità di far luogo all’apertura della liquidazione giudiziale (o altre procedura di tipo liquidatorio) in pendenza dei termini o del giudizio d’impugnazione avverso la pronuncia di revoca dell’omologazione del concordato (o di altra procedura di regolazione negoziale della crisi d’impresa), analoghi spunti risolutivi non siano, per contro, più reperibili tra le pieghe del nuovo ordinamento concorsuale: sicché, intorno alla questione che origina dal riconoscimento di quella possibilità, e che investe, come detto, il rapporto intercorrente tra le impugnazioni esperibili contro i provvedimenti, rispettivamente, di apertura della procedura liquidatoria e revoca dell’omologazione della procedura concordataria, le incertezze che aleggiavano in precedenza sono destinate a perpetuarsi. Perché è vero che la Cassazione è intervenuta al riguardo nella sua più autorevole composizione, ma con soluzione che dava ampio àdito a dubbi, che la riforma, avendo lasciato immutate le coordinate normative di riferimento, non è certo valsa a sopire.  
Quella appena rammentata, e sintetizzata nella massima riportata nelle battute iniziali del § 2, si profilava autenticamente come una soluzione tranchante, nella misura in cui idonea a troncare alla radice il problema escludendo la possibilità di un separato svolgimento dei distinti giudizi d’impugnazione di cui si sarebbe dovuto regolare il concorso. Ed invero, muovendo dal principio, già emerso in sede giurisprudenziale[35], per cui, dove la sentenza di fallimento avesse a scaturire all’esito dell’infelice esperimento della procedura concordataria, il giudizio di reclamo ex art. 18 della stessa legge avrebbe assorbito l’intera controversia relativa alla crisi d’impresa, le Sezioni unite avevano affermato che le eventuali doglianze che il debitore avesse inteso proporre in via di ricorso in cassazione contro la revoca dell’omologa del suo concordato avrebbero dovuto necessariamente essere veicolate, per il tramite di detto reclamo ex art. 18 L. fall., contro la sentenza dichiarativa di fallimento, con annessa inammissibilità/improcedibilità del gravame di cui la pronuncia di annullamento dell’omologa potesse essere o fosse già stata oggetto davanti al giudice di legittimità.
 Nulla essendo mutato con la riforma per quanto rilevante a quegli specifici fini, questa ricostruzione sarebbe astrattamente recuperabile. Ma chi intendesse oggi riproporla, si esporrebbe fatalmente alle stesse obiezioni che all’indirizzo della medesima potevano essere, e in larga parte sono state di fatto, mosse sotto il vigore della legge fallimentare[36]: in primis, che, se i poteri cognitivi e decisori del giudice dell’impugnazione devono rimanere circoscritti entro i confini del provvedimento impugnato, non si vede come il giudice del reclamo contro la sentenza dichiarativa del fallimento/liquidazione giudiziale debba pronunciarsi anche, come era postulato dal supremo consesso, sulla proposta di concordato, concedendone l’omologa all’atto dell’accoglimento del gravame e, dunque, della revoca della sentenza impugnata[37]; in secondo luogo, che, imponendo la devoluzione alla Corte d’appello di contestazioni del caso già portate all’esame della Suprema Corte, la soluzione determinerebbe una regressione della controversia a una fase pregressa del suo svolgimento[38], con evidenti implicazioni lesive del canone, costituzionalmente garantito, dell’economia processuale[39]; e, infine, che ne deriverebbe una inaccettabile violazione della regola di ne bis in idem[40], costringendosi lo stesso giudice, vale a dire, la stessa Corte d’appello, a statuire due volte non soltanto, come è stato detto, sullo stesso oggetto[41], bensì sulle stesse questioni affrontate in vista della decisione su quell’oggetto[42].
 Assodato come le doglianze che il debitore intendesse sollevare contro la decisione con cui la Corte d’appello abbia posto nel nulla l’omologa dianzi concessa al concordato da parte del tribunale possano, tali doglianze, essere fatte valere esclusivamente in via di ricorso di legittimità avverso quella decisione medesima, occorre allora domandarsi in che modo gli esiti del giudizio di cassazione così intrapreso avrebbero a riflettersi sulla procedura liquidatoria che sia stata nel frattempo instaurata, considerato che l’impugnazione proposta davanti alla Suprema Corte non potrebbe avere ad oggetto la sentenza di tribunale che quella procedura abbia dichiarato aperta.
Che sia necessaria, a quel fine, la mobilitazione del rimedio impugnatorio ammesso contro la sentenza da ultima menzionata, è stato escluso da un attento commentatore della predetta Cass., Sez. Un., n. 9146/2017, il quale, dopo averne recisamente confutato l’insegnamento anche nella parte sulla quale poc’anzi ci siamo soffermati[43], ha sostenuto che in caso di accoglimento del ricorso per cassazione nella circostanza esperito, con annessa conferma della legittimità dell’omologa concordataria revocata in appello, si sarebbe avuta l’automatica caducazione della sopravvenuta sentenza di fallimento[44]: e questo in virtù del rapporto di dipendenza che legava quella sentenza alla pronuncia negativa sul concordato dianzi intervenuta[45], così da permettere lo spiegamento, nella fattispecie, del c.d. effetto espansivo esterno della pronuncia di (riforma o) cassazione fondato sulle previsioni (“[…] la cassazione estende i suoi effetti ai provvedimenti e agli atti dipendenti dalla sentenza […] cassata”) dell’art. 336, comma 2, c.p.c.[46]
 Anche questa, al pari di quella propugnata dalle Sezioni unite, appare una soluzione tranchante, siccome tale da lasciare spazio ad una sola delle distinte vicende impugnatorie il cui concorso si tratterebbe quivi di regolare. Al tempo stesso, però, essa sconta il vizio, in certo senso d’origine, dello stretto, quanto dichiarato, raccordo con l’idea di un’operatività extraprocessuale del suddetto effetto espansivo esterno[47] intorno alla quale non si registra certamente il consenso unanime della dottrina processualistica[48], oltre che, chiaramente, disattesa dalle Sezioni unite nell’occasione della pronuncia su cui abbiamo focalizzato in questa sede la nostra attenzione: ché, se le stesse avessero argomentato in quei termini, mai avrebbero asserito, all’atto della formulazione del principio di diritto, che “il giudicato sul fallimento preclude in ogni caso il concordato”, in tal modo escludendo che tale giudicato potesse essere travolto per extensionem degli effetti demolitivi promananti dalla decisione resa dalla Suprema Corte a suggello del distinto procedimento di cognizione avente ad oggetto l’omologa del concordato.
 Stante l’incertezza delle premesse sistematiche su cui poggia la tesi appena illustrata, ragionevole si mostra allora il sondare altre vie in vista di una soluzione finalmente appagante al problema di cui si sta ora dibattendo. E un valido percorso alternativo si rivela, in effetti, praticabile, anzi, sulla scorta di quanto emerso nel corso della pregressa indagine, sostanzialmente obbligato.
6 . Segue: b) la preferibile soluzione nel senso della sospensione ex art. 295 c.p.c. del giudizio impugnatorio in attesa degli esiti dell’altro
A che cosa testé si alludesse parlando di un percorso alternativo “obbligato” alla luce dei risultati acquisiti dalla precorsa indagine, è agevole immaginarlo.
Stabilito, per un verso, che le ragioni di critica avverso la sentenza della Corte d’appello che abbia revocato l’omologazione del concordato possono essere fatte valere esclusivamente in via di ricorso per cassazione contro quella sentenza; e, per il verso opposto, che la salvaguardia dell’opzione concordataria passa necessariamente attraverso l’impugnativa della sentenza di apertura della liquidazione giudiziale che abbia visto la luce dopo la revoca dell’omologa: praticamente inevitabile diviene concludere nel senso che l’attivazione del rimedio impugnatorio ammesso contro uno dei provvedimenti che occupano, nella fattispecie, la scena non preclude l’attivazione dell’altro; e che il coordinamento dei giudizi di gravame che potrebbero venire così a parallelamente dipanarsi debba essere affidato, in ragione della preminenza e, dunque, del rilievo pregiudiziale spettanti alla soluzione concordataria della crisi d’impresa rispetto a quella liquidatoria[49], alla sospensione per pregiudizialità-dipendenza ex art. 295 c.p.c. del giudizio di reclamo, davanti alla Corte d’appello, contro la sentenza di avvio della liquidazione giudiziale, nell’attesa del pronunciamento della Cassazione sul ricorso proposto contro la sentenza di revoca dell’omologazione del concordato. Così che poi: a) in caso di rigetto del ricorso e conseguente conferma dell’oppugnata sentenza di revoca, il debitore non avrebbe motivo per riassumere il giudizio pendente innanzi alla Corte d’appello[50], se non, al più, ai fini dell’esame di vizi intrinseci alla sentenza oggetto del reclamo (siccome, ad es., emessa in violazione della regola del contraddittorio) e tali da determinarne la revoca indipendentemente dalle sorti finali del giudizio di omologazione del concordato; b) mentre, in caso di accoglimento del ricorso e annessa, rinnovata, pronuncia di omologa – vuoi all’esito del giudizio di rinvio dopo la cassazione vuoi da parte, direttamente, della Suprema Corte, nell’esercizio dei suoi poteri di c.d. cassazione sostitutiva ex art. 384, comma 2, ult. parte, c.p.c. -, il giudizio di cui la Corte d’appello aveva decretato la sospensione va necessariamente ripreso, in funzione della revoca della sentenza che aveva dichiarato aperta la procedura di liquidazione giudiziale[51].
 La sospensione ai sensi dell’art. 295 c.p.c del giudizio di reclamo promosso contro questa sentenza non può privare la Corte d’appello adita dei poteri di temporanea inibitoria delle operazioni endoconcorsuali, in particolare, di liquidazione dell’attivo, che le sono stati conferiti, in relazione alla pendenza di quel giudizio, dall’art. 52, comma 1, CCII[52]. Ciò non soltanto vale a rintuzzare ogni possibile suggestione di rinverdire l’obiezione, mossa a suo tempo all’indirizzo di Cass., Sez. Un., n. 9146/2017, per cui ammettere l’apertura della procedura liquidatoria quando ancora l’omologazione del concordato preventivo non sia stata definitivamente tolta di mezzo significherebbe mettere a repentaglio, per l’eventualità che la procedura concordataria venga ripristinata, le possibilità che questa raggiunga poi effettivamente i suoi obbiettivi, come definiti sulla base di un patrimonio che, a causa della sopravvenuta liquidazione giudiziale, potrebbe non essere più lo stesso; ma offre altresì un motivo ulteriore per prendere le distanze dalla tesi, su cui ci si è precedentemente intrattenuti, che vorrebbe dispensato il debitore dall’onere di impugnare la sentenza di fallimento/liquidazione giudiziale emessa nei suoi confronti contando, ai fini della rimozione della medesima e della procedura che ne trae origine, sulla propagazione degli effetti ablativi che abbiano a direttamente colpire, con la pronuncia di accoglimento del ricorso in cassazione da esso debitore proposto, la decisione pregiudiziale di revoca dell’omologa del concordato.
 Non può infatti sfuggire come il prezzo che questa impostazione costringerebbe a pagare sia quello della difficoltà di individuazione del giudice cui rivolgersi per ottenere le misure di inibitoria e, dunque, di conservazione del patrimonio cui si è or ora fatto cenno. E’ vero che, in relazione all’ipotesi di cui al precedente comma 5, in cui è la Corte d’appello a provvedere direttamente all’apertura della liquidazione giudiziale e, dunque, non è ad essa Corte, bensì a quella di cassazione, che va necessariamente indirizzata la relativa impugnazione, l’art. 53, comma 6, CCII attribuisce il potere di adottare quelle misure al Tribunale presso il quale la procedura sia stata radicata; e non del tutto priva di fondamento sarebbe la tentazione di fare ricorso in via analogica a quella norma in ogni altro ipotetico caso in cui le vie del reclamo davanti alla Corte d’appello non siano percorribili contro la sentenza inaugurale della procedura liquidatoria. Resta però il fatto che, dove quelle vie risultino impercorribili in rapporto all’asserita operatività extraprocessuale del meccanismo di cui all’art. 336, comma 2, c.p.c., alla sentenza in questione si dovrebbe guardare come a cosa giudicata. Certo, si tratterebbe di un giudicato soggetto alla condizione risolutiva dell’accoglimento del ricorso per cassazione avanzato contro la sentenza di revoca dell’omologazione del concordato. Ma fintanto che quella condizione non si sia avverata, di giudicato si dovrebbe pur sempre parlare; e ipotizzare che il Tribunale ne possa sospendere o paralizzare l’esecuzione, appare alquanto problematico: in definitiva, una forzatura che dà ulteriormente ragione, nella misura in cui consente di evitarla, dell’opzione ricostruttiva qui preferita.
7 . Il confronto con le altre ipotesi di consecuzione: a) in generale
Le dinamiche, come qui ricostruite, della successione della liquidazione giudiziale al concordato preventivo, allorché dipendente dalla revoca della pronuncia di omologazione di quest’ultimo, appaiono tranquillamente estensibili alle altre fattispecie di consecuzione tra le due procedure. In tal senso, si potrà allora, e più in generale, affermare: i) che la non definitività, siccome tuttora o già soggetto ad impugnazione, del provvedimento che abbia decretato la cessazione prematura del concordato non è d’impedimento alla declaratoria, in separata sede, dell’apertura della liquidazione giudiziale; ii) che nell’ipotesi in cui il Tribunale adito abbia disposto per la prosecuzione del concordato, contestualmente rigettando la domanda di liquidazione giudiziale (si può fare il caso dell’abbinamento di quest’ultima alla domanda di risoluzione o annullamento della procedura negoziale) e gli esiti di quel giudizio siano stati ribaltati in sede di gravame, all’apertura della procedura liquidatoria possa direttamente provvedere la Corte d’appello[53]; iii) che nel caso di pronuncia della sentenza di avvio della liquidazione giudiziale in pendenza del ricorso per cassazione spiegato contro il provvedimento con cui la Corte d’appello abbia sancito (del caso, in via di conferma di analoga statuizione del Tribunale) il naufragio del concordato (ad es., diniego dell’omologa da parte del giudice di prime cure ribadito in sede di reclamo), sussiste l’onere, per il debitore, di impugnare quella sentenza, con annessa sospensione ex art. 295 c.p.c. del susseguente giudizio nell’attesa della decisione del giudice di legittimità.
Nelle ipotesi, logicamente diverse da quella della revoca dell’omologazione, in cui l’impercorribilità delle vie del concordato preventivo sia certificata con provvedimento del Tribunale, si può avverare l’eventualità che la sentenza di apertura della liquidazione giudiziale sopravvenga in pendenza del reclamo proposto davanti alla Corte d’appello avverso quel provvedimento. Scontato come neppure qui il debitore possa astenersi dall’interporre reclamo contro quella sentenza, appare evidente come all’esigenza del coordinamento decisorio tra i distinti procedimenti di gravame così venuti in essere si possa, nella specie, dare risposta, anziché per il tramite della sospensione di quello dipendente, attraverso la riunione dei procedimenti medesimi, cui non osta, com’era, viceversa, nella fattispecie di consecuzione su cui ci siamo innanzitutto trattenuti, la pendenza degli stessi in gradi differenti del giudizio.
8 . Segue: b) le ipotesi in cui sia esperibile il reclamo ex art. 47, comma 5, CCII
Il Codice della crisi ha ampliato, rispetto al previgente ordinamento concorsuale, il novero delle ipotesi in cui il provvedimento che abbia a segnare la fine anticipata della procedura concordataria risulterebbe suscettibile di autonoma impugnazione.
Il riferimento è, chiaramente, al decreto di rigetto dell’istanza di ammissione alla procedura de qua[54], in ordine al quale l’art. 47, comma 5, CCII, ribaltando le scelte espresse dall’art. 162, comma 2, L. fall.[55], ha previsto l’esperibilità di un apposito mezzo di gravame, il cui perimetro applicativo non avrei poi particolari esitazioni ad estendere sino a ricomprendere anche il decreto con cui il Tribunale abbia a dare atto della mancata approvazione, da parte dei creditori, della proposta concordataria nonché quello di revoca dell’ammissione alla procedura di cui all’art. 106, comma 3, CCII[56]. 
 Nei limiti in cui le problematiche dianzi passate in rassegna abbiano qui a riproporsi – avvertenza dovuta fondamentalmente al fatto che in questi casi non sarebbe ipotizzabile la sopravvenienza della declaratoria di apertura della liquidazione giudiziale in pendenza di un giudizio di cassazione che abbia ad oggetto il diniego del concordato[57] -, le soluzioni dovrebbero essere le medesime. E questo, anche con riguardo alla professata ammissibilità della riunione delle impugnazioni distintamente radicate innanzi alla Corte d’appello contro i provvedimenti che abbiano, rispettivamente, fatto calare il sipario sulla procedura concordataria e lo abbiano alzato su quella liquidatoria. E’ vero che quello istituito dal predetto art. 47, comma 5, CCII, pur identicamente denominato come “reclamo” e identicamente devoluto alla cognizione della Corte d’appello, non coincide con lo strumento regolato dal successivo art. 51 per l’impugnazione (non solo ma anche e prima di tutto) della sentenza di apertura della, liquidazione. Ma non vedo come ciò possa ostare alla riunificazione dei relativi procedimenti, nella misura in cui è sempre da ammettersi la capacità della cognizione piena ed esauriente, come quella assicurata dal reclamo art. 51, ad ospitare ed assorbire entro il proprio alveo parentesi di cognizione meramente cameral-sommaria, come è da dirsi di quella innescata dal reclamo ex art. 47, comma 5, ivi disciplinato mediante rinvio alle regole comuni, di cui agli artt. 737 e 738 c.p.c., in materia di procedimenti in camera di consiglio[58].

Note:

[1] 
Il nucleo di detti artt. 73 e 83 CCII consiste infatti nella mera previsione per cui, nella considerata ipotesi di revoca dell’omologazione, la conversione possa essere disposta soltanto su istanza del debitore, a meno che non si tratti di revoca conseguente ad atti di frode o inadempimento, nel qual caso l’istanza di conversione potrebbe provenire anche dai creditori o dal pubblico ministero.
[2] 
Per ogni altro R. Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, IV, Milano, 1974, p. 2252 s.; F. De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, in Galgano, Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, LXIII, Padova, 2012, p. 431 s.
[3] 
E, all’epoca, anche dell’insuccesso dell’amministrazione controllata di cui agli artt. 187 ss. L. fall.
[4] 
Ad avviso di R. Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, I, Milano, 1974, p. 385 ss., il tema della consecuzione di procedure doveva sollecitare l’interprete a porsi e risolvere il seguente quesito d’indole processuale: “svoltosi l’uno o l’altro dei procedimenti concorsuali convertibili avanti a un tribunale, se successivamente viene dichiarato il fallimento della stessa impresa, può tale pronunzia esser data da un tribunale diverso?”. Ma, a ben vedere, non si trattava (né si tratta) di problema specifico alla consecuzione quanto di uno dei diversi profili sotto cui può manifestarsi la più generale problematica del conflitto positivo di competenza in tema di assoggettamento a procedura concorsuale di un determinato soggetto.
[5] 
F. Ferrara jr. (- A. Borgioli), Il fallimento, 5a ed., Milano, 1995, p. 699; A. Bonsignori, Del concordato preventivo, in Commentario Scialoja-Branca della legge fallimentare, a cura di Bricola-Galgano-Santini, Bologna-Roma, 1979, p. 297 s.
[6] 
F. Ferrara jr. (-A. Borgioli), loc. cit. E’ doveroso ricordare che, secondo la dottrina appena richiamata nel testo, il giudice avrebbe potuto astenersi dalla dichiarazione di fallimento anche laddove gli fosse constata l’originaria, e non soltanto sopravvenuta, insussistenza dei relativi presupposti (F. Ferrara jr. [-A. Borgioli] e A. Bonsignori, loc. cit.). Ma avendo il debitore, di fatto, confessato la sussistenza di quei presupposti all’atto della sua istanza di ammissione al concordato o all’amministrazione controllata, l’eventualità di un loro successivo accertamento giudiziale di segno contrario appariva non meno surreale di quelle appena menzionate nel testo.
[7] 
Il riferimento a tale pronuncia si regge, chiaramente, sul presupposto, invero non pacifico, per cui, pur nel silenzio, sul punto, dell’art. 173 L. fall., si sarebbe comunque trattato, ove non accompagnato da contestuale dichiarazione di fallimento, di provvedimento soggetto ad autonomo mezzo di gravame: sulla questione e su quella, contigua ed assai più travagliata, relativa all’identità di quel gravame medesimo, sia consentito rinviare a M. Montanari, Sul regime impugnatorio della revoca dell’ammissione al concordato preventivo non seguita da dichiarazione di fallimento, in Il Fall., 2011, p. 341 ss., spec. 344 ss.
[9] 
D’ora innanzi si parlerà, almeno tendenzialmente, soltanto di revoca dell’omologazione, secondo quanto suggerito da C. Trentini, I concordati preventivi, Milano, 2014, p. 543, citando in tal senso Trib. Milano, 14 luglio 2008, in Ilcaso.it.
[10] 
In virtù della circostanza che le Sezioni unite, in quel preciso momento storico, risultavano altresì investite della questione concernente la separata impugnabilità in cassazione, con ricorso straordinario ex art. 111, comma 7, Cost., dei provvedimenti (inter alia) di diniego o revoca dell’omologa non accompagnati dalla sentenza di fallimento del debitore, la Prima Sezione aveva rimesso al supremo consesso anche la distinta questione relativa alle sorti, per il caso detta separata impugnabilità non fosse stata riconosciuta, del gravame innanzi ad essa interposto, rectius, scontata l’improcedibilità, in quel caso, del gravame in oggetto, relativa alle sorti dei motivi per suo tramite fatti valere, in particolare, se deducibili come censure avverso l’intervenuta sentenza di fallimento: questione rapidamente uscita, però, dai radar delle Sezioni unite, a partire dal momento in cui le stesse, con la nota decisione 28 dicembre 2016, n. 27073 (vedila in Il Fall., 2017, p. 537, commentata da I. Pagni, Decisorietà e definitività dei provvedimenti in materia di concordato e accordi nella prospettiva delle Sezioni unite), ergo a distanza di pochi mesi dalla suddetta interlocutoria n. 18558/2016, al quesito riguardante la separata impugnabilità in cassazione dei provvedimenti di diniego (logicamente, in quanto confermato in sede di reclamo davanti alla Corte d’appello) o revoca dell’omologazione del concordato, ha offerto una soluzione di segno pienamente affermativo, riscontrandone gli estremi, a quel fine richiesti, della definitività e decisorietà.
[11] 
Vedila in Dir. fall. e soc. comm., 2017, II, p. 1198, con nota critica di D. Turroni, Il «concorso tra le impugnazioni» nell’intreccio fra omologazione del concordato preventivo e fallimento; in Riv.esec.forz., 2017, p. 502, annotata adesivamente da R. Brenda, Il rapporto tra soluzione negoziata della crisi e fallimento nelle fasi di impugnazione del diniego di omologazione del concordato preventivo; e in Ilfallimentarista.it, 16 gennaio 2018, con nota, parimenti favorevole, di L. Jeantet-P. Vallino, L’unità decisoria di una crisi di impresa: le Sezioni Unite completano il percorso interpretativo.
[12] 
Rectius, della sola delle questioni loro rimesse ad essere rimasta sul tappeto, in ragione di quanto detto alla precedente nota 10.
[13] 
Valgano in proposito i riferimenti, di segno tra loro contrastante, di cui alla prec. nota 11.
[14] 
La norma si compone di due ulteriori periodi, a tenore dei quali “la sentenza che dichiara aperta la liquidazione giudiziale è notificata alle parti a cura della cancelleria della corte d'appello e comunicata al tribunale, nonché iscritta al registro delle imprese. Restano salvi gli effetti degli atti legalmente compiuti dal debitore e dagli organi della procedura prima della revoca”.
[15] 
Così F. De Santis, Il processo c.d. unitario per la regolazione della crisi o dell’insolvenza: effetti virtuosi ed aporie sistematiche, in Il Fall., 2020, p. 169.
[16] 
Sull’involucro formale della sentenza che deve oggi rivestire la pronuncia di omologazione del concordato preventivo, si veda l’art. 48, comma 3, CCII.
[17] 
Cfr., in particolare, A. Attardi, La revocazione, Padova, 1959, p. 123 ss.; Id., Diritto processuale civile, 3a ed., I, Padova, 1999, pp. 453 s. e 469 s.; nonché A. Chizzini, La revoca dei provvedimenti di volontaria giurisdizione, Padova, 1994, p. 35 ss., che l’immanenza del principio al sistema corrobora anche attraverso il confronto con l’ordinamento tedesco (p. 24 ss.).
[18] 
Il che è quanto dire, traducendo la regola generale in termini aderenti alla problematica in esame, che, per il giudice che avesse decretato la conclusione anticipata del concordato, la condizione ostativa alla dichiarazione di fallimento rappresentata dalla pendenza della procedura volontaria doveva intendersi immediatamente rimossa, ancorché il provvedimento che avesse messo fine a quest’ultima fosse ancora soggetto a impugnazione: per una ricostruzione in questa chiave della logica sottesa alle norme in tema di consecuzione delle procedure appena richiamate nel testo, v. A. Motto, Gli effetti del provvedimento di revoca della corte d’appello sul decreto di omologazione del concordato preventivo (un’analisi alla luce dei principi generali), in Nuove leggi civ. comm., 2016, p. 160 s.
[19] 
Nel prevedere che il tribunale dichiari l’apertura della liquidazione giudiziale una volta definite le domande di accesso a una procedura di regolazione concordata della crisi o dell’insolvenza “eventualmente proposte”, l’art. 49, comma 1, mostra chiaramente di riferirsi ad ipotesi in cui dette domande vengano in gioco come incidenti del giudizio di apertura della procedura liquidatoria o, comunque, il giudice si trovi a decidere su di esse in pendenza di questo giudizio. E non diversamente, è da ritenersi, dovrebbero stare le cose con riguardo alle ipotesi di consecuzione della procedura liquidatoria a quella concordataria non andata a buon fine di cui al successivo comma 2, la cui rassegna è introdotta dal legislatore con la locuzione “allo stesso modo”.
[20] 
Il che, per quanto si è appena detto nel testo, sarebbe stato tranquillamente arguibile su base sistematica, ed era, in effetti, comunemente acquisito, sotto il vigore della legge fallimentare – ex multis M. Fabiani, Concordato preventivo, Bologna, 2014, p. 688; G. Lo Cascio, Il concordato preventivo e le altre procedure di crisi, 10a ed., Milano, 2017, p. 652; G. Carmellino, I giudizi di omologazione tra degiurisdizionalizzazione e contratto, Napoli, 2018, p. 152; L. D’Orazio (-S. Pacchi-A. Coppola), Il concordato preventivo, in A. Didone (a cura di), Le riforme della legge fallimentare, II, Milanofiori Assago, 2009, p. 1887; F.G.G. Pirisi, L’omologazione del concordato preventivo, in O. Cagnasso-L. Panzani (diretto da), Crisi d’impresa e procedure concorsuali, III, Milanofiori Assago, 2016, p. 3716  –, anche se, in quel contesto, all’accoglimento della domanda di fallimento nelle more del passaggio in giudicato della pronuncia di revoca, non avrebbe potuto provvedere direttamente la Corte d’appello: v. in immediato prosieguo di trattazione.
[21] 
Come era, viceversa, in passato – cfr. la dottrina citata alla prec. nota 20 –, nel quadro di un sistema che negava alla Corte d’appello il potere di dichiarare il fallimento all’esito del reclamo proposto a norma dell’art. 22 L. fall. contro il decreto di rigetto della relativa domanda.
[22] 
Riguardando piuttosto, tali “dubbi” e “difformità interpretative”, gli effetti della pronuncia di revoca dell’omologazione non seguita dalla dichiarazione di fallimento, ovverosia se ai fini della loro produzione fosse necessario oppure no attendere il passaggio in giudicato del provvedimento (delle divisioni che mostrava, sotto questo profilo, il campo giurisprudenziale, hanno dato puntualmente conto A. Motto, op. cit., p. 130 ss., e I. Pagni, Gli effetti della revoca della liquidazione giudiziale, dell’omologazione del concordato e degli accordi, in Il Fall., 2020, p. 1275, nt. 12) nonché, ovviamente – e le critiche ricevute dalla sentenza ne sono testimonianza -, il trattamento delle situazioni analoghe a quella che ha provocato l’intervento nel 2017 delle Sezioni unite.
[23] 
Così D. Turroni, Il «concorso tra le impugnazioni», cit., p. 1203 s.
[24] 
D. Turroni, op. cit., p. 1204.
[25] 
L’inquadramento in chiave cautelare dei poteri attribuiti al tribunale dall’art. 53, comma 6, CCII riflette quello comunemente riconosciuto ai corrispondenti poteri spettanti, a norma del precedente art. 52, alla Corte d’appello, ove adita con il reclamo promosso avverso la sentenza dichiarativa della liquidazione giudiziale: in proposito, v. infra, alla nota 52.
[26] 
Nonché, giova precisare, del piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione e degli accordi di ristrutturazione dei debiti, a dimostrazione della valenza generale della ricostruzione in corso, quale idonea ad ampiamente trascendere la mera dimensione dei rapporti tra liquidazione giudiziale e concordato.
[27] 
Così rompendo, a livello della nuova procedura di liquidazione giudiziale, l’inveterato dogma dell’ultrattività della sentenza di fallimento, vale a dire dell’intangibilità dei relativi effetti, quantomeno patrimoniali (sul diverso regime degli effetti personali, cfr. F. De Santis, Il procedimento per la dichiarazione di fallimento. Le impugnazioni del provvedimento di rigetto della domanda di fallimento, in O. Cagnasso-L. Panzani [diretto da], Crisi d’impresa e procedure concorsuali, I, Milanofiori Assago, 2016, p. 625 s., sintanto che la relativa pronuncia di revoca non fosse divenuta immutabile: sulle ragioni testuali e sistematiche che deponevano in tal senso, v., per ogni altro, N. Rascio-C. Delle Donne, Le impugnazioni dei provvedimenti che decidono sull’istanza di fallimento, in A. Jorio-B. Sassani, Trattato delle procedure concorsuali, I, Milano, 2014, p. 609 s.
[28] 
Per più diffuse considerazioni al riguardo, sia permesso rinviare a M. Montanari, Le impugnazioni nel c.d. procedimento unitario, in AA.VV., Studi sull’avvio del Codice della crisi, fascicolo speciale di questa Rivista, 2022, p. 174 s.
[29] 
In merito al quale, v., da ultimo, C. Trentini, Le procedure da sovraindebitamento, Milano, 2021, p. 76 ss.
[30] 
Merita, in proposito, rammentare, ancorché formatasi nell’ottica dell’ordinamento concorsuale previgente, la posizione di Motto. L’Autore escludeva in radice che la revoca del decreto di omologazione fosse in grado di esplicare i propri effetti quando ancora non trascorsa in giudicato (op. cit., p.143 ss., spec. 153); ma aggiungeva che, anche a volerne ammettere, in thesi, l’attitudine a determinare immediatamente la caducazione di quel decreto e dei relativi effetti, essa non avrebbe comunque avuto la capacità, se non una volta passata in giudicato, di togliere di mezzo la procedura concordataria in atto e, così, di spianare la via al fallimento (op. cit., p. 157 ss.).
[31] 
Dal momento che il debitore interessato a coltivare la prospettiva concordataria, al punto da impugnare in cassazione la sentenza di revoca dell’omologa, presumibilmente si asterrebbe dal porre in essere atti idonei a provocare quella dispersione.
[32] 
A causa, chiaramente, della caducazione dell’accordo concordatario, oltre che della, verosimilmente, già intervenuta scadenza del termine massimo di durata delle misure protettive di cui all’art. 8 CCII.
[33] 
Non posso nascondermi che a questo ragionamento si potrebbe imputare il vizio di una certa qual circolarità, nel senso che, se si è assunta l’attitudine della revoca dell’omologa a provocare la caducazione della procedura concordataria senza che se ne debba attendere il passaggio in giudicato come premessa perché altrettanto immediatamente si possa far luogo alla liquidazione giudiziale, si è poi dedotta questa possibilità come ragione decisiva per comprovare la suddetta attitudine. Così, però, non è. L’efficacia immediata o anticipata, rispetto al giudicato, della pronuncia che accolga il reclamo contro la sentenza di omologa del concordato è sancita, sì implicitamente ma, nondimeno, inequivocabilmente, dalla legge. E nel valutare se tale efficacia immediata comprenda anche l’effetto ablativo della procedura concordataria in essere, si è semplicemente osservato che le uniche controindicazioni al riguardo sarebbero neutralizzate dalla possibilità – apprezzabile come naturale corollario di un’efficacia anticipata così intesa – di dar corso immediatamente alla procedura di liquida zione giudiziale.
[34] 
Tantevvero che le Sezioni unite avevano sbrigato il proprio ragionamento sul punto semplicemente rimettendosi all’autorità del precedente costituito da Cass., Sez. Un., 15 maggio 2015, n. 9935, in Il Fall., 2015, p. 890, commentata da F. De Santis, Principio di prevenzione ed abuso della domanda di concordato: molte conferme e qualche novità dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, e I. Pagni, I rapporti tra concordato e fallimento in pendenza dell’istruttoria fallimentare dopo le Sezioni unite del maggio 2015, dove, tra i vari enunciati di principio, figurava anche quello per cui “la dichiarazione di fallimento, […] non sussistendo una rapporto di pregiudizialità tecnico-giuridica tra le procedure, non è esclusa durante le eventuali fasi di impugnazione dell’esito negativo del concordato preventivo”: rinvio effettuato, però, senza considerare che quell’enunciato era scaturito dal confronto con la disciplina degli artt. 162, 173, 179 e 180 l. fall. e, dunque, trascurando (e così pure, nel guardare a quella messa in atto dalle Sezioni unite come a “un buon esempio di coordinamento nomofilattico”, R. Brenda, Il rapporto, cit., p. 509) l’irriducibile divario intercorrente tra la fattispecie devoluta, nell’occasione, al loro esame e quelle assunte ad oggetto delle norme appena menzionate (si veda al par. precedente): per analogo rilievo, cfr. D. Turroni, op. cit., p. 1203; e già, seppure, evidentemente, non al fine di mettere a nudo il fragile impianto argomentativo di Cass., Sez. un., n. 9146/2017, A. Motto, op. cit., 161.
[35] 
La sentenza si è limitata a richiamare, a quel fine, la notissima (ma per altre ragioni) Cass., Sez. Un., 23 gennaio 2013, n. 1521, in Dir. fall. e soc. comm., 2013, II, p. 1, con nota, a p. 185 ss., di G.B. Nardecchia, La fattibilità del concordato preventivo al vaglio delle sezioni unite, e in Riv.esec.forz., 2013, p. 345, annotata da G. Carmellino, Il giudizio di fattibilità del piano di concordato preventivo nella prospettiva delle Sezioni unite, la quale, però, lo aveva, a sua volta, dichiaratamente recepito da Cass., Sez. VI, 8 febbraio 2011, n. 3059, in Il Fall., 2011, p. 1201, con nota di F. De Santis, Ancora sui rapporti tra istruttoria prefallimentare e procedura concordata di soluzione della crisi d’impresa; e Cass., Sez. I, 14 febbraio 2011, n. 3586, ivi, 2011, p. 805, con nota di L. Bottai, Il (limitato) controllo del tribunale sulla proposta di concordato: chiusura del sistema.
[36] 
Entro la cui cornice una sostanziale convergenza con la posizione espressa dalle Sezioni unite era fatta registrare da quella dottrina secondo cui, con la sopravvenuta sentenza di fallimento, la pronuncia di revoca dell’omologa avrebbe visto vanificato quel requisito della definitività in presenza del quale soltanto ne sarebbe stata consentita la ricorribilità in cassazione ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost.: M. Fabiani, Concordato preventivo, cit., p. 688 s.; G. Lo Cascio, Il concordato preventivo, cit., p. 652 s. Qualunque ne potesse essere la valutazione nel suo contesto originario, è certo, comunque, che, con l’avvento del Codice della crisi, questo argomento ha perso ogni consistenza, dal momento che la pronuncia di revoca ha assunto la veste di sentenza (art. 48, comma 3) e quello ammesso nei suoi confronti dall’art. 51, comma 13, dello stesso Codice si profila sicuramente come ricorso ordinario ex art. 360 c.p.c.
[37] 
Come se, anziché di reclamo ex art. 18 L. fall., si fosse trattato del reclamo proposto ai sensi del successivo art. 183 contro il diniego di concessione dell’omologa da parte del Tribunale: così, esattamente, D. Turroni, op. cit., p. 1212. Non per nulla, d’altra parte, le pronunce della Suprema Corte che postulavano la conversione dei vizi del provvedimento negativo sul concordato in motivi di gravame contro la sentenza di fallimento (v. retro, alla prec. nota 35) traevano spunto da detto art. 183, come dall’analoga disposizione di cui all’art. 162, ult. comma, L. fall.
[38] 
D. Turroni, op. cit., p. 1211.
[39] 
Dal momento che la Suprema Corte non aveva assolutamente affermato, né ciò sarebbe stato obbiettivamente possibile, che, a fronte della translatio davanti alla Corte d’appello adita con reclamo ex art., 18 L. fall. delle contestazioni spendibili in cassazione contro la revoca dell’omologa del concordato, tali contestazioni non sarebbero state poi riproponibili in sede di legittimità in caso di conferma della sentenza di fallimento (e della pronuncia di negata omologa ad essa prodromica).
[40] 
D. Turroni, loc. ult. cit.
[41] 
Così, ancora, D. Turroni, op. cit., p. 1211 s., che l’oggetto di tale reiterata decisione identificava nella concedibilità dell’omologa del concordato, ovverosia, cercando di soggettivizzare un simile thema decidendum, nel diritto alla sistemazione in via concordataria dell’insolvenza, di cui il giudice adito con il reclamo avverso la sentenza di fallimento avrebbe dovuto conoscere, nella visione delle Sezioni unite, non incidenter tantum ai fini della revoca del fallimento, bensì principaliter, in vista della rinnovata concessione di quell’omologa che, una prima volta adito in via di reclamo ex art. 183 L. fall., aveva precedentemente revocato.
[42] 
E’ di solare evidenza, ad intenderci, che, se l’omologa del concordato fosse stata revocata in conseguenza della rilevata mancanza del presupposto della fattibilità della proposta concordataria, il reclamo che fosse esperito contro la sentenza di liquidazione giudiziale in funzione del ribaltamento della decisione negativa resa sulla proposta di concordato dovrebbe incardinarsi sulla deduzione della sussistenza di quello stesso requisito, così da finirsi per richiedere alla Corte d’appello il riesame, auspicabilmente con esito di opposto tenore, di una questione dalla stessa già e in precedenza affrontata.
[43] 
E dove i rilievi critici svolti da quel commentatore sono stati in larga parte mutuati dallo scrivente.
[44] 
D. Turroni, op. cit., p. 1214.
[45] 
D. Turroni, op. cit., p. 1213 s.
[46] 
D. Turroni, op. cit., p. 1212 ss.
[47] 
Intendendosi con il sintagma di “operatività extraprocessuale” la capacità dell’effetto espansivo in questione di manifestarsi anche nel caso in cui la sentenza cassata e il provvedimento da essa dipendente, e per ciò stesso esposto a quell’effetto, risultino appartenere a processi di cognizione distinti.
[48] 
Per un aggiornato resoconto sul dibattito in argomento, si rinvia a M. Vanzetti, La condanna generica, Milano, 2021, p. 314 ss.
[49] 
Come inequivocabilmente sancito, nel Codice della crisi, a livello del relativo art. 7. Ma non è che le gerarchie tra le forme di sistemazione della crisi fossero diverse o, addirittura, invertite sullo sfondo della legge fallimentare, bastando al riguardo considerare che quelle fissate nel Codice, come si legge nella Relazione accompagnatoria allo schema di legge delega, hanno individuato quale primario modello di riferimento il magistero impartito sul punto, nel senso della “prevalenza [degli] strumenti negoziali di risoluzione della crisi d’impresa e di ristrutturazione rispetto a quelli meramente disgregatòri” (così la menzionata Relazione, p. 8 s.), dalla cit. Cass., Sez. Un., n. 9935/2015.
[50] 
Visto che, dati gli esiti del giudizio di cassazione, tale riassunzione non potrebbe condurre che a una sentenza di rigetto del reclamo, ergo allo stesso risultato del passaggio in giudicato della sentenza di liquidazione che si avrebbe in séguito all’omessa riassunzione del giudizio ed alla sua conseguente estinzione.
[51] 
Altrimenti destinata, tale sentenza, a passare in giudicato e a prevalere su quella di omologa, almeno per chi si aderisca alla più diffusa concezione secondo cui, in caso di contrasto pratico di giudicati, a prevalere dovrebbe essere quello posterior in tempore: per i dovuti riferimenti, cfr. M. Gradi, Il contrasto teorico fra giudicati, Bari, 2020, p. 222 ss.
[52] 
Quanto si dice sulla base del duplice presupposto: a) della natura cautelare delle inibitorie di cui all’appena citato art. 52, comma 1, CCII (cfr. M. Fabiani, L’omologazione del nuovo concordato preventivo, in Il Fall., 2020, p. 1320; C. Cecchella, Il diritto della crisi dell’impresa e dell’insolvenza, Milano, 2020, p. 217 s.; L. Boggio, L’accesso alle procedure di regolazione della crisi o dell’insolvenza, in Giur. it., 2019, p. 1969; b) e della possibilità, comunemente ammessa, di accedere a provvidenze di quella natura anche in pendenza di un processo sospeso e indipendentemente dalla riferibilità o meno alle stesse della previsione, in ordine agli atti che possono essere autorizzati in corso di sospensione della lite, di cui all’art. 48, comma 2, c.p.c. (in argomento v., diffusamente, G. Trisorio Liuzzi, La sospensione del processo civile di cognizione, Bari, 1987, p. 638 ss.).
[53] 
Sulle ragioni che depongono per l’assoggettabilità delle sentenze di risoluzione o annullamento del concordato preventivo allo stesso gravame previsto per quella di apertura della liquidazione giudiziale, mi permetto, ancora una volta, di rinviare a M. Montanari, Le impugnazioni, cit., p. 168, nt. 7.
[54] 
E’ vero che in questo caso l’apertura della liquidazione giudiziale non darebbe luogo, a rigore, a un fenomeno di consecuzione di procedure, visto che quella concordataria sarebbe stata stroncata sul nascere (in ordine al sistema previgente e all’omologa eventualità di apertura, nella specie, del fallimento, v. per ogni altro, E. Norelli, Il giudizio di omologazione del concordato preventivo, in L. Ghia-C. Piccininni-F. Severini [diretto da], Trattato delle procedure concorsuali, 4, Milanofiori Assago, 2011, p. 533, nt. 34. Ma lecito, egualmente, è trattarne in questa sede, dal momento che lo strumento impugnatorio istituito al riguardo dal Codice è estensibile, come subito vedremo, ad altri provvedimenti dove il riferimento alla consecuzione è, viceversa, pertinente; e analoghi pertanto, rispetto a queste specifiche ipotesi di consecuzione, sono i problemi che, come parimenti si vedrà, ne discendono quanto ai rapporti con l’eventuale procedura liquidatoria.
[55] 
Che detto decreto qualificava apertis verbis come “non soggetto a reclamo”.
[56] 
A differenza delle due figure di decreto prese dianzi in considerazione, quest’ultimo era, probabilmente, già suscettibile di autonoma impugnazione nel vigore della legge fallimentare: sul punto, v. retro, alla nota 7.
[57] 
Almeno in quanti si convenga sulla persistente validità del dictum della citata Cass., Sez. Un., n. 27073/2016, che, differentemente da quanto acclarato per le decisioni assunte nel giudizio di omologazione (logicamente una volta esaurita la relativa fase di reclamo), aveva escluso, dei provvedimenti appena enumerati nel testo, l’indole decisoria e, così, la ricorribilità in cassazione ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost.
[58] 
Quid iuris nell’ipotesi di rigetto dell’istanza di ammissione al concordato preventivo decretato in via contestuale alla dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale? Scontando, presumibilmente, il fatto che il primo di tali provvedimenti figura oggi assoggettato ad un apposito rimedio impugnatorio, il Codice non ha dettato una disposizione di tenore analogo a quella dell’ult. comma dell’art. 162 L. fall., ai sensi del quale, nei casi di negata ammissione al concordato pronunciata in una alla sentenza di fallimento, con il reclamo avverso questa sentenza avrebbero potuto “farsi valere anche motivi attinenti all’ammissibilità della proposta di concordato”. Ma la soluzione alternativa che vorrebbe quei motivi come deducibili in via esclusiva per il tramite del nuovo reclamo ex art. 47, comma 5, CCII, in vista di una successiva riunione del susseguente procedimento con quello innescato dal reclamo ex art. 51 contro la sentenza di liquidazione giudiziale, appare, questa soluzione, alquanto farraginosa e non appieno rispondente al principio dell’economia processuale,  sì che non irragionevole è supporre che il modus operandi tracciato da detto art. 162, ult. comma, L. fall. meriti ancora di essere praticato.

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