Il comma 11 dell’art. 13 modifica l’articolo 53 CCII inserendo il comma 5-bis con il quale si prevede, in attuazione dell’articolo 16, paragrafo 4, della direttiva insolvency, che in caso di accoglimento del reclamo proposto avverso la sentenza di omologazione del concordato preventivo in continuità aziendale, la Corte di appello, su richiesta delle parti, può confermare la sentenza di omologazione se l’interesse generale dei creditori e dei lavoratori prevale rispetto al pregiudizio subito dal reclamante.
È previsto, in tale ipotesi, il diritto del reclamante ad ottenere un “risarcimento del danno”, risarcimento che sarà posto a carico del debitore in concordato preventivo.
La portata della norma è dirompente, ed è facile immaginare che darà la stura ad una pletora di questioni interpretative e sistematiche.
In primo luogo, sul piano processuale, occorrerà comprendere se il diritto del reclamante ad ottenere ristoro soggiaccia o meno al principio della domanda o se, piuttosto, la Corte di appello possa pronunciarsi d’ufficio.
Per rispondere all’interrogativo conviene partire dal testo della direttiva, a mente del quale “Gli Stati membri possono prevedere che, se un piano è omologato a norma del primo comma, lettera b), sia concesso un risarcimento a qualsiasi parte che abbia subito perdite monetarie e la cui impugnazione sia stata accolta” La disposizione sembra prevedere una sorta di automatismo: alla omologa del piano nonostante la fondatezza del reclamo (è questa l’ipotesi i cui al primo comma let. bb) segue un risarcimento (indemnisation).
Sennonché il legislatore nazionale nell’importare la previsione si è premurato di renderla più acconcia al nostro sistema processuale, prevedendo che “in caso di accoglimento del reclamo proposto contro la sentenza di omologazione del concordato preventivo in continuità aziendale, la corte d’appello, su richiesta delle parti, può confermare la sentenza di omologazione se l'interesse generale dei creditori e dei lavoratori prevale rispetto al pregiudizio subito dalla reclamante, riconoscendo questo ultimo il risarcimento del danno”.
Come si vede, la norma prescrive la “richiesta delle parti”. Un primo dato è quindi chiaro: affinché l’omologa del concordato in continuità possa essere confermata nonostante la fondatezza del ricorso, è necessario che almeno una delle parti lo richieda, ed a farlo sarà, normalmente in via subordinata, quella che ha interesse al rigetto del reclamo.
Non altrettanto certo è invece che la richiesta delle parti (e segnatamente del reclamante) sia necessaria anche al fine di accordare il risarcimento richiesto, atteso che il testo normativo, sotto questo profilo, appare anfibologico.
Ed infatti, da un lato si potrebbe dire che la richiesta delle parti è necessaria tanto per confermare l’omologa quanto per risarcire il danno, in perfetta aderenza con la nostrana tradizione processuale; dall’altro, invece, il sintagma normativo si presta ad essere interpretato nel senso di ritenere che, alla conferma della omologa, pronunciata su richiesta delle parti segue, ipso iure, il risarcimento del danno in favore del reclamante il cui reclamo sia fondato ma non accolto.
Probabilmente è questa la soluzione che il legislatore comunitario intendeva predicare, ed è questa la funzione più sintonica rispetto allo scopo della disposizione, il cui proposito è quello di introdurre un meccanismo perequativo, volto ad evitare che sull’altare della salvaguardia degli interessi dei creditori e dei lavoratori vengano immolate le ragioni del reclamante, le cui doglianze risultino fondate.
Ma allora, dato questo obiettivo, v’è da chiedersi se il momento di tale bilanciamento non possa anticiparsi in primo grado, immaginando cioè una pronuncia del Tribunale che, riconoscendo fondate le ragioni di una parte, potenziale reclamante, ma ritenuto nel contempo meritevole di maggiore presidio l’interesse dei creditori e dei lavoratori, le accordi la medesima tutela oggi riconosciuta in appello, anche in un’ottica deflattiva.
Il riconoscimento di una tutela a colui il quale proponga un appello che, benchè fondato, venga rigettato, impone, nel merito di stabilire quando “l'interesse generale dei creditori e dei lavoratori prevale rispetto al pregiudizio subito dalla reclamante”. A me sembra che il legislatore abbia qui volutamente coniato una disposizione di ampio respiro, ma non pare revocabile in dubbio che l’interesse generale dei creditori e dei lavoratori (la cui considerazione evoca la particolare tutela che tutta la direttiva insolvency trasuda) si sostanzia, in ultima e definitiva analisi, nell’interesse medesimo (che dunque riceve una ennesima sottolienatura) alla continuità aziendale che deriva dall’omologa, e che potrebbe anche risolversi a vantaggio del reclamante medesimo, poiché egli stesso potrebbe essere un creditore o un lavoratore.
Quanto detto, a ben vedere, riverbera i suoi effetti anche in punto determinazione del quantum.
Si consideri a questo proposito che la corte, nell’accordare il risarcimento, dovrà tenere conto anche della utilità che lo stesso reclamante eventualmente ricava dall’omologa, operando così una sorta di compensazione parziale.
Ma non è certamente questo il principale degli aspetti di cui si dovrà tenere conto. Più un generale la norma interroga l'interprete sulla natura di questo ristoro.
La disposizione comunitaria, come si è visto sopra, prevede un “risarcimento” (così è stato tradotto il termine indemnisation) alla parte che “abbia subito perdite monetarie”.
A tal’uopo, un elemento che può essere colto nella previsione sovranazionale è quello per cui la misura copre soltanto il così detto danno emergente, restando fuori dalla valutazione del giudice il lucro cessante. Ciò, a mio avviso, deve costituire la chiave di lettura dell’espressione utilizzata dal legislatore nostrano, che nel recepire la direttiva ha utilizzato l’espressione “risarcimento del danno”, la quale deve essere intesa nel senso che il riconoscimento dovuto al reclamante abbia natura (e quindi, conseguentemente, contenuto) indennitaria. Una lettura di tal fatta sarebbe del resto coerente sia con il dato per cui l’omologa si risolve, in parte, anche a vantaggio del reclamante indennizzato, sia con il postulato per cui, sul piano processuale, la corte la corte potrebbe accordarlo d’ufficio, a condizione che risulti, almeno ex actis la perdita monetaria da ristorare.