Il Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza ha preso atto - come aveva fatto la legge fallimentare – della circostanza che l’ordinamento giuridico avverte l’esigenza che in talune circostanze la situazione di “crisi” di una impresa (o di un soggetto in singoli casi di specie ad essa equiparato) sia disciplinata attraverso la applicazione di una procedura bensì “concorsuale”, e tuttavia diversa dalla procedura concorsuale (liquidativa) di diritto comune, funzionale a regolare le situazioni di “crisi” della generalità delle imprese[2].
La ragione di ciò risiede principalmente nella ritenuta necessità di predisporre una adeguata tutela non soltanto degli interessi dei creditori dell’impresa versante in una situazione di difficoltà (quale che ne sia la natura) – come accade invece allorché si tratta di affrontare la “crisi” di una impresa di diritto comune – : bensì anche degli interessi di natura pubblicista – di vario genere -, che la disciplina delle procedure concorsuali di diritto comune non tutela adeguatamente (o non tutela affatto), perché insussistenti (o scarsamente sussistenti) nel contesto di una situazione di “crisi” coinvolgente una impresa “ordinaria”.
La modalità principale attraverso la quale apprestare una adeguata tutela anche ad interessi di natura pubblicista non coincidenti (e talora, anzi, confliggenti) con l’interesse dei creditori dell’impresa in “crisi”, può essere colta, oggi, dal semplice confronto tra le denominazioni della procedura “di diritto comune” e della procedura “di diritto speciale” che si contrappongono.
Liquidazione giudiziale l’una, e liquidazione (coatta) amministrativa l’altra: dove è evidente la contrapposizione rappresentata dalla circostanza che nel primo caso la natura della procedura (concorsuale) ha carattere “giudiziale”; mentre nel secondo caso la natura (sia pur sempre concorsuale) della procedura ha carattere “amministrativo”.
Si pensi ad interessi pubblicistici che in certe fattispecie possono assumere una rilevanza fuori dall’ordinario, come quelli concernenti i livelli occupazionali; l’impatto sociale; il funzionamento dei servizi pubblici essenziali, la considerazione dei quali potrebbe fare ritenere indispensabile la prosecuzione dell’attività di impresa nonostante la presenza di perdite di conto economico, l’effetto delle quali è inevitabilmente rappresentato dall’intaccamento del patrimonio e conseguente pregiudizio per i creditori[3].
La ragione di ciò risiede nella circostanza che proprio in considerazione degli interessi sottesi alle attività esercitate dalle imprese “di diritto speciale” la loro gestione è caratterizzata dalla com-presenza dell’autorità amministrativa, che ne condiziona marcatamente l’evoluzione (di norma già condizionandone l’ammissione all’esercizio dell’attività “speciale” al rilascio di una preventiva autorizzazione amministrativa), e che per ciò è interessata a disciplinare anche gli effetti della sopravvenienza di una situazione di “crisi”, e la valutazione della sussistenza dei presupposti per la permanenza sul mercato, piuttosto che l’espulsione dallo stesso (di norma, proprio tramite la revoca di quella autorizzazione che aveva consentito l’avvio dell’esercizio dell’attività “riservata”)[4] [5].
L’attribuzione di una rilevanza centrale ad interessi anche diversi da (e, come detto, talora addirittura confliggenti con) quelli di cui sono portatori i creditori dell’impresa, mette in evidenza la possibile inadeguatezza della disciplina delle procedure concorsuali “di diritto comune” a favorirne un adeguato soddisfacimento, sotto una serie di profili.
In via preliminare, vengono in considerazione i presupposti oggettivi di assoggettamento dell’impresa ad una procedura concorsuale. Sotto tale profilo:
(i) assumono rilievo non soltanto i presupposti che sono espressivi di una “crisi” di carattere economico–finanziario–patrimoniale, bensì anche quelli espressivi di una “crisi” di carattere “comportamentale” – cc.dd. “crisi di legalità”: violazione di norme di legge, di disposizioni regolamentari, di principi statutari -; e
(ii) pur rimanendo nell’alveo dei presupposti espressivi di una crisi di carattere economico-finanziario-patrimoniale, assumono rilievo non soltanto quelli espressivi di una situazione di crisi attuale, bensì anche quelli che costituiscono i sintomi di una possibile crisi di carattere prospettico[6].
In effetti, delle sei situazioni giudicate rilevanti ai fini dell’assoggettamento delle imprese bancarie (e degli intermediari finanziari non bancari ad esse assimilati) alla procedura di l.c.a. (vale a dire: situazioni nelle quali: 1. risultano irregolarità nell'Amministrazione o violazioni di disposizioni legislative, regolamentarie o statutarie che regolano l'attività dell’intermediario di gravità tale che giustificherebbero la revoca dell'autorizzazione all'esercizio dell'attività; 2. risultano perdite patrimoniali di eccezionale gravità, tali da privare l’intermediario dell'intero patrimonio o di un importo significativo del patrimonio; 3. le attività dell’intermediario sono inferiori alle sue passività; 4. l’intermediario non è in grado di pagare i propri debiti alla scadenza; 5. elementi oggettivi indicano che una o più delle situazioni su indicate si realizzeranno nel prossimo futuro; 6. è stato erogato un sostegno finanziario pubblico straordinario a favore dell’intermediario, salvo quanto previsto dall'articolo 18 D.Lgs. n. 180/2015), di queste sei situazioni – si diceva – le prime quattro costituiscono altrettanti sintomi di crisi attuali, per come sono declinate (le irregolarità gestionali o violazioni di legge “risultano” – cioè sono già state accertate -; le perdite di eccezionale gravità pure “risultano”; le attività “sono” inferiori alle passività; e infine, l’intermediario “è” non in grado di pagare i propri debiti alla scadenza), mentre le ultime due “situazioni” prospettano invece un “rischio di dissesto”. Esse infatti riguardano:
(i) il caso in cui le situazioni di rischio attuale declinate nelle prime quattro lettere del comma in esame sia ipotizzabile - sulla base di “elementi oggettivi” - “nel prossimo futuro”; e
(ii) l’erogazione di un sostegno finanziario straordinario in favore dell’intermediario “è previsto” (ma non ancora attuato).
Mentre l’accertamento della seconda “situazione” di rischio di dissesto dovrà (e potrà) fare riferimento a provvedimenti dell’Autorità di Vigilanza (o di chi di competenza), già individuati ed in attesa di essere adottati nel contesto della instauranda procedura di gestione della crisi; la verifica della prima situazione (il pericolo che si presenti, “nel prossimo futuro”, una delle “situazioni” che, una volta verificatasi, comporterebbe l’assoggettamento dell’intermediario alla riduzione o conversione di strumenti di capitale o di quasi capitale; o alla risoluzione; ovvero alla L.C.A.), presenta maggiori profili di problematicità.
Pare improbabile che possa ricorrere il pericolo di una prossima concretizzazione di una “crisi di legalità” - corrispondente alla “situazione” prospettate nella lettera a) del secondo comma dell’art. 17 D.Lgs. n. 180/2015 -. Ove si dovesse temere che gli Organi della banca possano macchiarsi, “nel prossimo futuro”, di irregolarità gestionali o di violazioni di legge, li si dovrebbe semplicemente sostituire (per iniziativa del corpo sociale ovvero della stessa Autorità di Vigilanza: cfr. art. 53 bis, comma 1, lett. 2), T.U.B.; art. 69 vicies-semel T.U.B.; art. 7, comma 2-bis. T.U.F.; art. 55 quinquies T.U.F.).
È invece possibile che vi siano casi nei quali “elementi oggettivi” indicano che una “crisi economica” (e/o finanziaria e/o patrimoniale) è destinata a manifestarsi in un “prossimo futuro”: e ciò tanto in relazione al pericolo di una prossima illiquidità - che prefigurerebbe la “situazione” rilevante di cui alla lettera d) dell’art. 17, comma 2) - ; quanto in relazione al pericolo di una prossima deficienza patrimoniale - che prefigurerebbe le “situazioni” rilevanti ai sensi delle lettere b) e c) della norma citata -.
La esigenza di attribuire rilevanza – per ciò che concerne le “crisi economiche” – anche a profili previsionali, oltre che ad accertamenti già acquisiti, era presente già nella disciplina delle crisi bancarie previgente.
Con il passaggio dall’art. 67 l. banc. all’art. 80 T.U.B., infatti, in materia di rilevanza delle perdite ai fini dell’assoggettamento della banca alla l.c.a., si era rinunciato alla pretesa che le perdite «risultino» (cfr. art. 67 l. banc.), e si era attribuito rilievo anche alle perdite soltanto «previste».
D’altro canto, una volta esercitata l’opzione di ricondurre le crisi patrimoniali bancarie rilevanti non solo alle situazioni di «insolvenza» (intesa come illiquidità), ma anche alle situazioni di «perdite patrimoniali» (intese come produttive della perdita dei requisiti patrimoniali che condizionano l’autorizzazione all’esercizio dell’attività creditizia), l’esigenza che tali perdite dovessero essere, per divenire rilevanti (oltre che gravi ad eccezionalmente gravi, anche) «risultanti», sarebbe stata del tutto irrealistica.
Poiché l’attivo delle banche è necessariamente formato da crediti verso la clientela (oltre che verso altri intermediari finanziari); e poiché i ricavi delle stesse sono in larga misura rappresentati dagli interessi attivi contabilizzati su tali crediti; è evidente che una situazione di «perdita» può essere costituita solo (od essenzialmente) da valutazioni, da «previsioni» – per l’appunto – sul grado di esigibilità di quella fondamentale componente dell’attivo che è rappresentata dai crediti; nonché di quell’altra fondamentale componente dei ricavi correnti che è (nuovamente) rappresentata da (crediti per) interessi attivi.
La soluzione che connettesse l’intervento delle procedure di crisi alle sole situazioni nelle quali le perdite di patrimonio siano oggettivamente «risultate», ne rinvierebbe l’apertura – in buona sostanza – al momento di effettivo riscontro dell’esito (in ipotesi infausto) delle pratiche giudiziali di recupero dei crediti di dubbia esigibilità: il ché non è improponibile da un punto di vista puramente logico, ma appare inaccettabile per l’intuitivo effetto moltiplicatore che produrrebbe sulle conseguenze della crisi patrimoniale della banca, messa in condizione di «svilupparsi» in tutta la sua devastante potenzialità.
A questa logica è stata ridotta anche la disciplina delle crisi “irreversibili” delle cc.dd. Sim “speciali” [7]: anche se le ragioni di ciò sembrano individuarsi soprattutto nella prospettiva delle crisi dell’impresa bancaria.
In argomento si deve ritenere che gli “elementi oggettivi” dai quali sarebbe lecito desumere un “rischio di dissesto” dell’intermediario, rilevante ai fini di assoggettarlo alla l.c.a., non siano circoscritti a quelli connessi alle valutazioni del possibile esito dei crediti o degli strumenti finanziari facenti parte del suo patrimonio, ma riguardino anche valutazioni riferite a profili strettamente gestionali.
Si deve infatti considerare che nelle situazioni nelle quali l’intermediario faticasse a rispettare i coefficienti patrimoniali “di legge”, ovvero quelli (cc. dd. “rafforzati”) che gli fossero stati assegnati dall’Autorità di Vigilanza, ove fossero indisponibili (o più semplicemente fossero esaurite) operazioni straordinarie di patrimonializzazione, l’unica arma funzionale a migliorare (ovvero più semplicemente conservare) i coefficienti patrimoniali, sarebbe costituita da una generale riduzione delle attività sul mercato: il ché costituirebbe l’inevitabile presupposto di ulteriori perdite di conto economico.
Il rapporto tra patrimonio ed impieghi (in ché consiste, in ultimissima analisi, il coefficiente di cui si parla) è rappresentato – in mancanza di strumenti di incremento del patrimonio – dalla riduzione degli impieghi.
Questa manovra, peraltro (denominata “de-risking”) produce, con la diminuzione del volume dei finanziamenti alla clientela, una immediata contrazione dei ricavi, alla quale non può fare riscontro – principalmente a causa delle rigidità che continuano a caratterizzare il lavoro bancario, che rappresenta di gran lunga il maggior fattore di costo dell’attività creditizia – una corrispondente riduzione di costi (né in termini quantitativi, e tanto meno in termini temporali). Da ciò, i presupposti di sicure perdite di conto economico, che costituiscono fattori di ulteriore erosione del patrimonio: con l’innesco di una spirale i cui risultati pregiudizievoli “nel prossimo futuro” è agevole prevedere.
In secondo luogo, vengono in considerazione esigenze particolari, che anche nelle fattispecie nelle quali il presupposto oggettivo di assoggettamento dell’impresa “di diritto speciale” risultasse identico a quello compostante l’assoggettamento ad una procedura concorsuale “di diritto comune” (id est: la già verificata insolvenza dell’impresa), non risulterebbero adeguatamente soddisfatte dalla relativa disciplina (vale a dire: dalla disciplina del “fallimento” ieri, e dalla disciplina della liquidazione giudiziale oggi), neppure per i profili strettamente economico-finanziario-patrimoniale: da cui, anche in queste fattispecie, la necessità di una procedura concorsuale “di diritto speciale”.
Si pensi, ad esempio, alla esigenza di potere corrispondere ai creditori degli acconti rispetto ai prevedibili pagamenti conseguenti alla liquidazione del patrimonio dell’impresa insolvente, e perciò assoggettata a procedura concorsuale: esigenza che (il “fallimento”, ovvero) la liquidazione giudiziale ignora – diversamente, per l’appunto, da talune Liquidazioni Coatte Amministrative: v. in argomento l’art. 212, comma 2, L. fall. (riprodotto dall’art. 312, comma 2, CCII), che prevede la facoltà del Commissario liquidatore, nelle procedure di L.C.A. in generale (salvo contraria disposizione di norme specifiche), di “distribuire acconti parziali…”. -. Si pensi, ancora, alla più favorevole disciplina dell’accertamento delle pretese dei creditori nei confronti dell’impresa insolvente, che nelle procedure di l.c.a. si manifesta con l’accertamento d’ufficio, da parte del Commissario liquidatore, delle passività dell’impresa assoggettata a L.C.A. Quanto sopra considerato dovrebbe portare naturalmente a formulare la considerazione della incompatibilità della procedura concorsuale liquidativa “di diritto comune” con la natura della crisi dell’impresa “di diritto speciale”, dal momento che:
(i) in caso di “crisi di legalità”, la procedura di liquidazione giudiziale non è applicabile;
(ii) in caso di crisi economico-finanziaria-patrimoniale solo ipotetica (il c.d. “pericolo di dissesto”: v., in questo senso, l’art. 17 D.Lgs. n. 180/2015), la procedura di liquidazione giudiziale non è applicabile;
(iii) in caso di già verificata insolvenza, la procedura di liquidazione giudiziale sarebbe in teoria applicabile, ma dovrebbe vedersi preferita la procedura di liquidazione coatta amministrativa per la più attenta considerazione che la stessa riserva ai soggetti coinvolti dalle situazioni di crisi delle imprese connotate di profili di “specialità”, ivi compresi gli stessi creditori.
Sarebbe pertanto (rectius: è pertanto) fortemente incoerente la previsione di una possibile alternatività tra la liquidazione giudiziale e la l.c.a., nelle situazioni nelle quali anche la prima risultasse teoricamente applicabile (cioè le situazioni di già verificata insolvenza): per la ragione che la disciplina della seconda garantirebbe un trattamento più soddisfacente per gli stessi soggetti (a partire dai creditori) colpiti dagli effetti di una crisi caratterizzata da connotati economico-finanziario-patrimoniale.
La denunciata incoerenza è tuttavia generalmente accettata con riguardo a situazioni (principalmente rappresentate dalle fattispecie di insolvenza delle società cooperative esercitanti una attività d’impresa), nelle quali si dà atto che l’impresa “di diritto speciale” può essere assoggettata o alla liquidazione giudiziale; o alla liquidazione coatta amministrativa, semplicemente in base al criterio della prevenzione[8].
Tale risultato è fortemente insoddisfacente: in termini sistematici, per le ragioni già elencate; ed in termini di opportunità generale, purché consenta all’impresa interessata (nell’esempio fatto: la società cooperativa con oggetto commerciale) di scegliere la procedura concorsuale “preferibile”, nel momento della acquisita consapevolezza della sopravvenuta insolvenza. L’esperienza insegna che la generalità delle società cooperative (con oggetto commerciale) insolventi, “si precipita” a richiedere l’assoggettamento alla l.c.a., nelle situazioni nelle quali sarebbe ugualmente assoggettabile al “fallimento” (oggi: alla liquidazione giudiziale): qualcosa vorrà dire, e – si ritiene – nulla di particolarmente pregevole.