Loading…

Saggio

La disciplina sostanziale delle azioni di responsabilità nella liquidazione giudiziale: tra adeguatezza degli assetti, monitoraggio della continuità e gestione tempestiva della crisi*

Francesco Macario, Ordinario di diritto privato dell’Università Roma Tre

26 Maggio 2025

*Il saggio è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
Il contributo costituisce la rielaborazione della relazione tenuta al convegno, organizzato dalla Rivista e svoltosi a Mantova, nei giorni 4 e 5 ottobre 2024, sul tema “La crisi delle società e dei gruppi dopo il decreto correttivo”.
Muovendo dall’intreccio tra la disciplina della responsabilità patrimoniale e quella della responsabilità civile nel sistema del diritto privato e dal confronto con gli scenari contenziosi tipici del passato in materia di azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori e dei gestori dell’impresa, si esaminano i nuovi scenari normativi, caratterizzati da norme e principi giuridici, che devono essere compresi nella prospettiva economico-aziendale dell’attività d’impresa e dell’operato dei soggetti responsabili della gestione. In tal senso, vengono considerati gli obblighi gestori specificati dal legislatore all’insegna della continuità aziendale, ossia assicurare assetti organizzativi adeguati alle caratteristiche dell’impresa, monitorare e rilevare tempestivamente la crisi e, infine, adottare tempestivamente gli strumenti di regolazione della crisi. Tali obblighi gravano sui gestori dell’impresa e, in particolare, sugli amministratori, la cui condotta è valutata secondo il canone della diligenza, alla luce del criterio operativo che fa capo alla c.d. business judgment rule. La nuova disciplina della responsabilità da attività d’impresa, che attende il riscontro decisivo del diritto vivente, di matrice giurisprudenziale, deve infine confrontarsi con i tradizionali snodi problematici delle azioni di responsabilità come la legittimazione attiva, l’individuazione del danno risarcibile e del nesso causale, la prescrizione e le questioni relative al concorso (dei danneggianti) e alla solidarietà.
Riproduzione riservata
1 . Una premessa: responsabilità patrimoniale e responsabilità civile nel sistema del diritto privato; il confronto con le problematiche del passato
Poiché la tematica oggetto della relazione si presenta estremamente ampia e articolata, mentre l’autentica valanga di studi dedicati alle numerose problematiche relative alle azioni in esame rende superfluo, in questa sede, un esame analitico delle questioni, così come delle linee di tendenza emerse in dottrina e in giurisprudenza, è preferibile concentrare l’analisi sul tentativo di delineare il quadro delle novità normative, le quali si inseriscono in una generale ridefinizione del sistema, ossia del contesto giuridico in cui la tutela risarcitoria affidata alle azioni di responsabilità dovrà operare nel nuovo scenario normativo che fa capo al codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza. Prima di svolgere le considerazioni su tale scenario, le cui innovazioni non possono non incidere anche sulla disciplina delle azioni di responsabilità nella liquidazione giudiziale, sembra opportuna una rapidissima considerazione preliminare, in qualche modo anch’essa di sistema e dunque di indole prevalentemente metodologica.
 Nel sistema del diritto privato, il concetto di responsabilità costituisce una sorta di pilastro nei diversi discorsi relativi, rispettivamente, alla condizione del debitore nei confronti del creditore (inteso individualmente, ossia nella atomistica singolarità del rapporto obbligatorio, ma anche collettivamente, ove rileva il patrimonio del debitore e, dunque, la sua responsabilità patrimoniale), e ai diritti dei soggetti (terzi) danneggiati, ossia pregiudicati da fatti, atti e/o attività riconducibili alla responsabilità di chi sarà tenuto a risarcire il danno. 
Posta la diversità e la separazione dei due ambiti, se non altro nella tradizione degli studi civilistici, un primo interrogativo attiene allo stessa cornice normativa attuale del dissesto dell’impresa, se esso non sia rivelatore di una sorta di nuovo - si direbbe, inedito e, per certi versi, difficilmente prevedibile, prima che fosse avviata la riforma - crocevia tra la responsabilità patrimoniale (legata e conseguente all’insolvenza e, più in generale, al dissesto dell’impresa) e la responsabilità civile (intesa in senso lato, ossia per danni derivanti tanto dall’inadempimento, quanto dall’illecito extracontrattuale).
Se così fosse, come invero lo stesso iter normativo della riforma lascerebbe intendere, sembra piuttosto evidente che la considerazione dei problemi e la trattazione delle questioni giuridiche riconducibili all’area della responsabilità civile - per come quest’ampia area si presenta nel nostro tempo, evidentemente, e al di là del valore prima facie puramente descrittivo dell’idea appena enunciata - non potrebbero che essere inquadrate nel contesto, profondamente modificato, del diritto della crisi d’impresa e dell’insolvenza, evidentemente nella veste in cui oggi si presenta, grazie alla sua organica sistemazione nel codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza[1]. 
Quanto dire, in termini estremamente semplificati, che nessuno dovrebbe meravigliarsi se, nell’esperienza giurisprudenziale (ossia nel diritto vivente) ‘post-codice’, alcuni degli strumenti giuridici del passato potrebbero rivelarsi obsoleti, e dunque da abbandonare definitivamente, imponendosi al contempo uno sforzo significativo, a carico dell’interprete, per dare effettività al nuovo quadro normativo. Un quadro, quello che ci consegna il codice, significativamente innovativo anche con riferimento alla specifica materia oggetto della presente riflessione, si diceva, ove il legislatore della riforma, introducendo norme e dando voce a “principi” (ben evidenziati ed esplicitati in apertura dello stesso codice), con cui abbiamo iniziato a fare i conti soltanto nell’ultimo ventennio, impone – tanto agli studiosi, quanto agli operatori professionali – di affrontare il ragionamento e dunque svolgere l’argomentazione, costituente il fondamento delle azioni proposte e delle decisioni da adottare in sede giurisdizionale, con categorie ordinanti aggiornate, per così dire, e dunque innovative. 
Va da sé che, non soltanto l’entrata in vigore del codice della crisi e dell’insolvenza, ma anche e soprattutto la lunga, quasi ventennale, evoluzione della riforma, avente ad oggetto la legge fallimentare (ormai archiviata e consegnata alla storia, quale espressione di una cultura e sensibilità giuridica definitivamente superate), avvenuta attraverso numerosi interventi del legislatore, imporrebbero di muovere dal dato normativo, da intendere sempre quale esito del percorso di riforma (peraltro non sempre lineare, come era pressoché inevitabile, nel momento in cui, s’è detto, le opzioni di politica del diritto dovevano e volevano segnare un distacco netto con la tradizionale disciplina dell’insolvenza e delle procedure concorsuali affidata alla legge fallimentare). 
Occorre, tuttavia, ulteriormente premettere, e anzi sottolineare, che i nuovi scenari della responsabilità civile (connessa al dissesto dell’impresa) possono essere compresi appieno soltanto dopo aver ribadito due presupposti di fondo, che in qualche modo rendono ragione della stessa filosofia alla base della riforma (da ultimo, riconoscibile nello stesso codice), sintetizzabili - nel massimo sforzo di schematizzazione e semplificazione possibile - con: (a) lo spazio (più o meno ampio, a seconda dei contesti in cui la crisi e/o l’insolvenza vengono gestite e regolate, ma sempre molto più rilevante che in passato) acquisito dall’autonomia negoziale, con un’ampia libertà di manovra, per così dire, del debitore e, per altro verso, (b) la rilevanza dell’attività d’impresa e della sua “continuità”, quale nuovo valore dell’ordinamento, in ragione dei diversi interessi che, astrattamente, possono farvi capo. 
Potrebbe essere persino banale e scontato, a questo punto – specie in questa sede, ossia davanti a un uditorio così qualificato - sottolineare che si tratta di presupposti del tutto estranei alla vecchia logica del diritto dell’insolvenza e delle procedure concorsuali (emblematicamente rappresentate dal fallimento, così come la figura del fallito rappresentava in modo paradigmatico l’imprenditore incapace e sostanzialmente ‘immeritevole’ di rimanere sul mercato, anche dopo che erano state espunte dall’ordinamento le conseguenze sanzionatorie, su vari piani, del giudizio di disvalore connesso all’insolvenza). 
Tutto ciò premesso, un rapido sguardo al passato appare comunque necessario, al fine di meglio comprendere e valorizzare la novità e originalità degli scenari, in cui oggi le diverse problematiche della responsabilità civile incrociano la vicenda dell’impresa in dissesto, considerando, sia pure in termini riduttivamente sommari, gli ambiti in cui si sarebbero poste le stesse problematiche in passato. 
In tal senso, non si può ignorare la duplice dimensione della disciplina: rispettivamente, come diritto positivo (affidato alle disposizioni normative in se stesse considerate) e diritto vivente (proveniente dalla elaborazione giurisprudenziale). Muovendo dalla componente più formale del diritto positivo, la responsabilità che il curatore fallimentare (ad tempus) avrebbe potuto far valere, nel tentativo di recuperare l’attivo da distribuire ai creditori, era, emblematicamente, legata all’attività degli amministratori e, in particolare, alla violazione degli obblighi gestionali (nei confronti della società, dei soci e dei terzi), previsti espressamente dalla legge ovvero riconducibili, in concreto, alla diligenza, così come all’attività dei componenti del collegio sindacale, relativa all’attività di vigilanza. 
La norma originaria (ossia ancor prima della riforma del diritto societario del 2003) di riferimento era nell’art. 2449 c.c., caratterizzata dal perentorio divieto di intraprendere nuove operazioni e dall’accentuazione della “responsabilità per debito”, trovando il suo spazio più rilevante nell’ambito delle procedure fallimentari[2]. In seguito, con la riforma del 2003 la disciplina (innovata anche su questo punto) s’incentra sull’art. 2486 c.c. (che consente di proseguire l’attività, purché in modo conservativo), destinato a operare in modo sostanziale sempre in ambito fallimentare, ove il curatore era solito lamentare il decremento del patrimonio netto cagionato dall’illecita prosecuzione della gestione imprenditoriale. Di qui, gli sviluppi successivi e l’esito della singolare previsione normativa recante il criterio (sia pure flessibile) di quantificazione del danno.
 Al livello, invece, del diritto giurisprudenziale, si potrebbero richiamare, a titolo esemplificativo, le sempre controverse - in termini generali e astratti ma ancor più nella concretezza delle diverse situazioni – questioni relative all’individuazione dell’amministratore di fatto, all’abuso nell’attività di direzione e coordinamento nei gruppi societari, nonché alla concessione abusiva del credito all’impresa in crisi. 
Poiché innumerevoli studi hanno trattato, anche in tempi recenti – lo si rilevava in apertura, alla luce, per un verso, delle innovazioni legislative e, per altro verso, dell’evoluzione del diritto vivente di matrice giurisprudenziale –, le svariate questioni giuridiche relative agli ambiti della responsabilità appena indicati, chi intenda indagare sul nuovo sistema della responsabilità nella gestione dell’impresa dovrebbe concentrarsi sulle più significative novità che la normativa attuale presenta (se non altro, su quelle che potrebbero apparire, prima facie, le più rilevanti), relative a due tematiche, diverse ma potenzialmente interferenti l’una con l’altra. 
La prima attiene ai nuovi doveri, obblighi e alle conseguenti responsabilità a carico in primo luogo dei gestori dell’impresa, ma anche di chi deve vigilare sull’attività gestoria - oggetto specifico di altra relazione, immediatamente successiva, affidata a Bruno Inzitari -, da ricostruire secondo i nuovi principi e le altrettanto innovative norme specifiche. La seconda tematica, che non verrà trattata in questa sede, si riferisce a una delle più rilevanti novità della riforma, ossia l’introduzione delle norme sulla composizione negoziata della crisi, ove, com’è noto, il legislatore ha disciplinato, in modo particolarmente analitico, anche nell’individuazione di diritti e obblighi delle parti coinvolte, un percorso negoziale, caratterizzato da una trattativa funzionale alla gestione della situazione di crisi, nella prospettiva (auspicata) del suo superamento. 
Prima di esaminare, tuttavia, più da vicino la disciplina e tentare di individuare alcune questioni problematiche, occorre precisare – benché possa apparire persino scontato – che, in entrambi i casi, le vicende cui s’è fatto cenno possono comprendersi, come del resto si rilevava in apertura, nella logica della ristrutturazione (dell’indebitamento e della stessa impresa in crisi), mentre nella vecchia logica del trattamento giuridico del dissesto dell’impresa in chiave meramente liquidatoria, avrebbero potuto trovare spazio le azioni di responsabilità cui s’è fatto appena cenno, rispetto alle quali peraltro si può contare su una produzione giurisprudenziale molto ricca e già scandagliata in tutti i suoi risvolti.
2 . I nuovi scenari normativi: regole e principi giuridici nella prospettiva economico-aziendale
 Svolta la premessa di natura in qualche modo metodologica, il punto di partenza va rinvenuto senz’altro nei “principi generali” del codice, esposti nel “Capo II”, in primo luogo (nella Sezione I) con riferimento agli “obblighi dei soggetti che partecipano alla regolazione della crisi o dell’insolvenza”, ove si definiscono, all’art. 3 CCII la “adeguatezza delle misure e degli assetti in funzione della rilevazione tempestiva della crisi” e all’art. 4 CCII i “doveri delle parti”. 
Questo complesso di obblighi rappresenta una delle più significative novità della codificazione del diritto dell’insolvenza, delineando i termini dell’attuale, composita e certamente molto più dettagliata rispetto al passato, disciplina della responsabilità in relazione alla crisi e al dissesto dell’impresa, sicché la trattazione non può che avere ad oggetto l’inquadramento di tale nuovo sistema di obblighi e relative responsabilità. 
Se la scelta di far precedere da alcune “disposizioni generali” la disciplina delle diverse modalità di gestire la crisi e/o l’insolvenza – un tempo definite genericamente procedure concorsuali, ma oggi distinte tra gli “strumenti di regolazione della crisi”, da un lato, e la procedura vera e propria della “liquidazione giudiziale” dall’altro – era stata già adottata dal legislatore della legge fallimentare del 1942, l’idea di enunciare, sempre in apertura della disciplina (ma nel Capo II del Titolo I, ossia a ridosso delle due disposizioni generali relative all’ambito di applicazione del codice e alle definizioni delle espressioni più ricorrenti) alcuni “principi generali” è senz’altro innovativa e deve essere salutata certamente con favore[3]. 
In relazione a tali principi, destinati a operare in primo luogo sul piano sostanziale, ossia nei rapporti tra i diversi soggetti interessati, ma anche sul piano processuale (cfr. artt. 7-11 CCII), ci si è posti immediatamente il problema della loro funzione, potendosi individuare almeno tre diverse forme di utilità, per così dire: una prima funzione è senz’altro quella interpretativa, svolgendo i principi, in tal modo, un essenziale ruolo ordinante all’interno del nuovo sistema di norme[4]; un’ulteriore funzione è quella ‘integrativa’, con riferimento alla possibile applicazione della tecnica che fa capo all’analogia iuris; infine, vi è la funzione certamente più rilevante, ossia quella normativa, esprimendosi nei principi in esame regole di condotta, spesso molto ben delineate (in termini di sufficiente precisione della fattispecie astratta) dal legislatore, sicché la violazione degli obblighi (di comportamento) non potrà non trovare risposta da parte dell’ordinamento, in termini sanzionatori o comunque di conseguenze sfavorevoli al soggetto inadempiente[5]. 
Come si rilevava in esordio, occorre rinunciare tanto all’indagine puntuale delle condotte illecite imputabili ai singoli soggetti - operanti nell’interesse del debitore, ancorché con veste diversa, ossia come amministratori, direttori generali, sindaci, soci, revisori -, da svolgere in ogni caso mediante trattazioni separate e specifiche per ognuno dei soggetti in questione, quanto all’analisi delle responsabilità derivanti dallo svolgimento dell’attività professionale all’interno delle diverse procedure (dunque, responsabilità da inadempimento agli obblighi del curatore, del commissario giudiziale e del liquidatore, dell’attestatore e così via), non riscontrandosi, in quest’ultimo ambito normativo, particolari novità derivanti dalla riforma e dal codice rispetto al passato. 
Con quest’ultima precisazione, intesa anche a delimitare l’ambito dell’indagine, si tratta di comprendere se e in che modo la definizione degli obblighi dei soggetti coinvolti nella regolazione della crisi o dell’insolvenza - in chiave tanto di “adeguatezza delle misure e degli assetti in funzione della rilevazione tempestiva della crisi d’impresa” (ex art. 3 CCII), quanto, in termini ancora più generali, di “doveri delle parti” (ex art. 4 CCII) – determini un nuovo assetto del sistema, come accennato in apertura, della responsabilità derivante dalle condotte di quanti, a qualunque titolo, si trovino coinvolti nelle vicende societarie. 
Occorre dunque in primo luogo esaminare, in particolare, gli obblighi a carico del debitore, in qualità di imprenditore (il quale è oggi anche esplicitamente obbligato ad avvalersi di uno degli strumenti di regolazione della crisi), di: (a) assicurare assetti organizzativi adeguati alle caratteristiche dell’impresa, (b) monitorare e rilevare tempestivamente la crisi, infine (c) adottare tempestivamente gli strumenti di regolazione della crisi (infra, n. 3). 
Le innovazioni sul piano normativo sono evidentissime, ma sempre ragionando in termini generali sul sistema della responsabilità nel nostro ordinamento, ci si potrebbe anche porre il problema dell’individuazione delle possibili conseguenze delle violazioni dei (vecchi e nuovi) doveri, dal momento che l’obbligo di risarcire il danno (da inadempimento a tali doveri), potrebbe non esaurire il ventaglio delle conseguenze, definibili lato sensu sanzionatorie[6]. Lo stesso legislatore, infatti, potrebbe prevedere, a seconda dei diversi contesti (s’intende, procedurali e non), in cui la violazione degli obblighi rileva, conseguenze particolari, in funzione della più efficace tutela dei soggetti interessati (in primis, evidentemente, i creditori, ma anche il debitore, soprattutto se si considera la fase, idealmente preliminare e spesso prodromica rispetto all’accesso alla procedura concordataria, della composizione negoziata della crisi, ove gioca un ruolo decisivo la correttezza delle condotte: infra). 
Quel che sembra indiscutibile è il vantaggio che la specificazione degli obblighi comporta in sede applicativa delle norme. In questo senso, le considerazioni, talvolta svolte in dottrina, sulla scarsa utilità delle previsioni in esame (dal momento che le stesse regole sarebbero state desumibili dal diritto comune, così come dalla disciplina generale relativa alla responsabilità gestoria nelle società commerciali), non possono essere condivise, dal momento che la previsione espressa della regola di responsabilità non può che facilitare la formazione e l’evoluzione del diritto vivente in materia. 
L’opera di “concretizzazione”, inevitabilmente connessa all’applicazione di principi e/o clausole generali e rimessa al momento giurisdizionale[7], viene in questo modo senz’altro agevolata, attraverso la specificazione avvenuta sul piano normativo, tanto delle attività, quanto degli obiettivi cui le prime devono tendere nella gestione dell’impresa e, in particolare, nella situazione di crisi, concorrendo in tal modo il legislatore alla costruzione del sistema degli obblighi (e delle responsabilità) dei soggetti partecipanti alle diverse fasi in cui si articola l’attività di un’impresa in forma collettiva. 
Si tratta, a ben vedere, per un verso di riempire di contenuti normativi specifici e circostanziati alcuni precetti generali, come la norma dettata dal legislatore in apertura della disciplina delle obbligazioni (in generale) con l’art. 1175 c.c., rispetto non soltanto alla situazione di crisi – in cui rilevano i doveri di agire per la tutela dei valori aziendali e degli interessi dei creditori, strettamente connessi ai primi –, ma anche alla “gestione dell’impresa”, come conferma la disciplina degli assetti adeguati, di cui all’art. 2086, comma 2, c.c., non a caso ripresa, con esplicito riferimento alla norma del codice civile, dall’art. 3 CCII (infra, n. 3); per altro verso, sul piano più propriamente della ricostruzione sistematica, di riconoscere l’apposizione di un ulteriore tassello allo studio della ‘terra di mezzo’ tra contratto e torto[8], che ha condotto all’elaborazione della dottrina della obbligazione senza obbligo primario di prestazione[9], valorizzando la relazionalità come essenza dell’obbligazione e, di conseguenza, della responsabilità, da qualificare - mi sembrerebbe senza riserve – come contrattuale[10].
 Se si osserva, infine, la giurisprudenza che sinora ha fatto concretamente uso delle nuove norme, calandosi nella logica, evidentemente, della risistemazione della disciplina della responsabilità degli organi secondo le linee della riforma del diritto della crisi (ora svolte in forma organica nel codice), si può rilevare come la stessa si sia solitamente espressa con riferimento alla denuncia di gravi irregolarità ex art. 2409 c.c.[11].
Gli sviluppi successivi non potranno che estendersi alla materia, non meno delicata e complessa, del danno risarcibile lamentato dai creditori e a carico dei soggetti imputabili della violazione degli obblighi relativi all’attività, tanto di gestione (che include, evidentemente, l’organizzazione degli assetti societari adeguati, ma anche ora la corretta e, dunque, razionale utilizzazione degli strumenti negoziali per la gestione della crisi, a cominciare dalla trattativa regolamentata in vista della composizione negoziata, cui si faceva cenno), quanto di controllo, a seguito della crisi e dell’assoggettamento della società alle procedure per la sua gestione[12].
Nel nuovo sistema della responsabilità degli organi sociali, a cominciare da chi ha compiti gestori evidentemente, è prevedibile un significativo incremento del contenzioso relativo alle azioni di responsabilità (contro amministratori e sindaci, in primo luogo), in cui il giudice potrà – verosimilmente, dovrà, attrezzandosi in modo adeguato anche sul piano tecnico-valutativo – rendere effettivo il duplice nesso, che diventa sempre più stretto con l’evolversi del diritto della crisi e delle procedure per la sua gestione, tra: (a) la disciplina dei rapporti societari (con particolare riferimento a compiti, obblighi e responsabilità degli organi) e quella della crisi d’impresa e, per altro verso, (b) principi, regole e prassi di corretta gestione, in chiave economico-aziendale (anche alla luce della logica della discrezionalità alla stregua della business judgment rule: infra, n. 4) e norme giuridiche (vecchie e nuove), sempre più spesso formulate come clausole generali, implicanti perciò l’esigenza della loro concretizzazione in base alle circostanze del caso e alla luce di principi e regole delle scienze economico-aziendali[13].
La prospettiva giuridica, peraltro, impone di considerare le particolari difficoltà connesse alla ricostruzione e dimostrazione di un adeguato nesso causale tra il danno lamentato e l’illecito imputabile (anche in forma omissiva, s’intende), che dovrebbe far capo alla (lamentata) inadeguatezza dell’assetto organizzativo, ma anche – si direbbe, soprattutto - al mancato o colpevolmente infruttuoso ricorso a uno degli strumenti per la regolazione della crisi, dovendosi altresì presumere che l’assetto ritenuto - in linea di pura ipotesi, s’intende - adeguato, così come la corretta adozione e utilizzazione dello strumento avrebbe potuto evitare il danno specificamente reclamato (almeno, in situazioni di normalità, ossia in assenza di scenari eccezionali, che determinano la sostanziale ingestibilità della situazione)[14].
La complicazione sembra acuirsi, se si considera che il danno costituisce, assai spesso, l’esito finale di una serie di violazioni di obblighi desumibili dalla normativa e dal sistema nel suo complesso, sicché non può derivare soltanto, evidentemente, dall’inadempimento all’obbligo di predisporre l’assetto organizzativo adeguato, posto che vi sono gli obblighi di monitoraggio, così come di salvaguardia della continuità anche e soprattutto attraverso il ricorso tempestivo alle procedure idonee, gli “strumenti” disciplinati dal codice, in relazione alla specificità delle circostanze[15].
In questo senso, se i tratti generali della nuova cornice normativa sono stati ben tracciati dal legislatore, la definizione più analitica delle fattispecie lesive e degli effetti delle condotte in violazione degli obblighi rappresenta una storia ancora da scrivere ed è persino scontato considerare che un ruolo fondamentale lo svolgerà la giurisprudenza, impegnata nel trovare i punti di equilibrio tra le nuove norme (particolarmente impegnative per l’imprenditore, ma anche i diversi soggetti che concretamente operando nel contesto della crisi d’impresa) e le scelte gestorie, inevitabilmente connotate dalla discrezionalità (v. infra).
a . assicurare assetti organizzativi adeguati alle caratteristiche dell’impresa
Alla base della nuova normativa relativa ai principi generali, con valenza s’è detto sistematica, figura l’art. 2086 c.c., da ritenersi ormai un caposaldo delle norme generali sull’impresa, più in particolare sull’imprenditore – già definito, in passato, “capo dell’impresa”, dal quale “dipendono gerarchicamente i suoi collaboratori” (primo comma dell’art. 2086 c.c.) -, arricchito nel 2019 con un nuovo (secondo) comma, introdotto dalla riforma delle procedure concorsuali (dunque dal nuovo diritto della crisi e dell’insolvenza)[16]. 
La novella prevede che l’imprenditore, il quale operi in forma societaria o collettiva, ha il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale.
Formalmente riconducibile al D.Lgs. n. 14/2019 (che, com’è noto, ha inciso altresì sull’art. 2476 c.c., con la responsabilità solidale degli amministratori, i quali non abbiano rispettato la nuova norma di cui all’art. 2086, comma 2, c.c., per i debiti della società), l’innovazione costituisce, al contempo, uno degli esiti dell’evoluzione del diritto della crisi d’impresa, ma anche un tassello importante nella disciplina generale dell’impresa, in linea evidentemente con la detta evoluzione normativa, espressione della più significativa e radicale riforma di sistema dei nostri tempi, in ambito di diritto privato[17].
In questo senso, non deve stupire che la nuova norma sia stata inserita nell’art. 2086 c.c., ossia in una disposizione emblematica di un’epoca e di una cultura giuridica che sembrano oggi molto lontane: una previsione normativa incentrata sull’affermazione del principio gerarchico – da cui la rubrica “Direzione e gerarchia nella impresa” -, che giustifica il potere di organizzazione, nonché i poteri direttivo, di controllo, disciplinare e così via, al fine di fissare i termini fondamentali del rapporto tra l’imprenditore e i prestatori di lavoro o, più in generale, i suoi collaboratori nell’attività d’impresa. 
Si tratta di un’importante integrazione della disciplina dell’attività d’impresa, che nasce e matura in ambito di diritto della crisi e delle procedure per la sua gestione e il suo superamento – può essere sufficientemente emblematico il già rilevato nesso strettissimo che intercorre con l’art. 3 CCII – e diventa norma generale, al punto da meritare la collocazione nel Titolo II del Libro V del codice civile, dell’impresa e della sua attività. La sua saldatura, per così dire, con il diritto societario è assicurata dalla connessa (e consequenziale, in un certo senso) disciplina della responsabilità degli organi sociali, a cominciare naturalmente dagli amministratori – di qui, il già ricordato contemporaneo intervento innovativo sull’art. 2476 c.c. -, che ne risulta significativamente modificata in termini sistematici, come si cercherà di evidenziare nelle pagine seguenti[18]. 
La rilevanza della nuova disciplina non è sfuggita, in primo luogo evidentemente alla dottrina di matrice commercialista[19], ma si può dire che anche la giurisprudenza, sin dalle prime decisioni emesse a ridosso della novella, non ha mancato di valorizzare l’innovazione normativa[20]. È inoltre evidente che, sempre in termini generali, la disciplina del “diritto societario della crisi” finisce per imporre anche un attento riesame del principio c.d. di “neutralità organizzativa”[21], nel senso di una sorta di tendenziale indifferenza della forma organizzativa del soggetto (societario) rispetto al diritto della crisi e dell’insolvenza, incidente prima facie sulle vicende dell’attività (d’impresa, s’intende pur sempre riconducibili al soggetto imprenditore in forma collettiva, ossia con la veste della società commerciale)[22]. 
La novella che fa capo al secondo comma dell’art. 2086 c.c. rappresenta, in modo a ben vedere esemplare, il mutamento di prospettiva (da ritenersi ormai irreversibile), secondo la quale va sviluppandosi la tendenza, per un verso, a legare in modo pressoché indissolubile l’organizzazione e la gestione dell’impresa alla prospettiva della sua crisi, anche sul piano squisitamente giuridico – e non soltanto, dunque, in termini economico-aziendali, come è sempre accaduto in passato -, per altro verso, ad attribuire una sempre più marcata rilevanza alle vicende dell’attività organizzativa e gestionale dell’impresa sugli assetti societari, in relazione ai diritti e agli obblighi degli organi, con quanto ne consegue in punto di responsabilità a loro carico, anche con riferimento alle vicende e alla fenomenologia delle società operanti nell’ambito di un gruppo[23]. 
In tal modo, la costruzione giuridica semplificata, per così dire, che rappresentava la figura dell’imprenditore, in una prospettiva statica, quale vertice ideale dell’organizzazione e della gestione dell’attività, può dirsi definitivamente superata e sostituita (o comunque, se si preferisce, arricchita) dalla previsione esplicita, a livello normativo, della sua funzione (con le conseguenti ricadute in termini di responsabilità), in generale esprimibile come duplice dovere: (a) di vigilare sull’idoneità dell’organizzazione a far fronte alle eventuali difficoltà determinate dai momenti critici e - nel caso in cui sia necessario reagire – (b) di operare per gestire tali difficoltà nel modo più efficiente, in primo luogo nell’interesse prioritario dei creditori[24]. Sempre dal punto di vista di questi ultimi, dunque nella prospettiva di massimizzare la tutela dei creditori, anche questo intervento normativo vale a confermare come il patrimonio del debitore-imprenditore, oggetto di garanzia nella realizzazione coattiva del credito, non possa essere considerato se non nella sua dimensione dinamica, connaturale all’attività d’impresa, che costituisce s’è detto il termine di riferimento oggettivo della tutela[25].
Il primo dato normativo, con il quale occorre fare i conti, attiene agli “assetti organizzativi”, dei quali si richiede l’idoneità a consentire la tempestiva rilevazione della crisi (o comunque della difficoltà o disfunzione), in funzione dell’adozione delle misure per la gestione più corretta della situazione, nella prospettiva della massima tutela dei creditori. La funzione che la norma attribuisce alla dotazione degli assetti organizzativi è dunque preventiva[26], per così dire, incidendo sugli obblighi dei gestori, nella prospettiva della prevenzione appunto degli effetti della crisi, ove tempestivamente rilevata, mediante la previsione di obblighi affidati a una formula di carattere generale, che andranno a concretizzarsi nella specificità dei diversi contesti economici e imprenditoriali, ossia con riferimento all’attività di impresa, come risultato ed espressione dell’inevitabile organizzazione, da cui il soggetto imprenditore collettivo non può prescindere[27].
 La sensazione che sia in atto una sorta di ricomposizione dell’intero sistema relativo al diritto dell’impresa sembra confermata dal collegamento ideale della norma in esame, innanzitutto con l’art. 3 CCII, ma anche con l’art. 12 CCII, che richiama “l’assetto organizzativo adeguato” in ambito di “procedure di allerta”, senza trascurare le diverse disposizioni del diritto societario (ad esempio, artt. 2086, 2257, 2475, 2380 bis, 2477, 2486 c.c., in aggiunta al riferimento centrale dell’art. 2381 c.c.)[28]. Si comprende come l’attenzione alla conservazione della “continuità aziendale” e, pertanto, il monitoraggio costante, affidato in primo luogo agli assetti organizzativi adeguati – da ritenersi tali, se consentono in termini effettivi il monitoraggio -, debbano connotare la vita del soggetto economico collettivo (ossia operante in forma societaria) in ogni momento, proprio per la funzione di prevenzione affidata alla nuova disposizione normativa.
Va da sé che l’obbligo, gravante sull’imprenditore in termini generali, comporta il sorgere di doveri di nuovo conio per tutti gli organi della società – amministratori, sindaci e soci, ciascun organo con i suoi propri compiti e prerogative -, non tipizzabili ex ante, in quanto desumibili (anche e soprattutto) dalla specificità del contesto e con la precisazione che, rispetto ai soci, al diritto di controllo (previsto dalle diverse disposizioni, a seconda della tipologia societaria) si aggiungono i doveri (non tipizzabili, s’è detto, ma desumibili dal contesto) derivanti dalla generale anteposizione - quale carattere, se si preferisce una sorta di principio, del nuovo assetto sistematico - della tutela dei diritti dei creditori agli interessi degli stessi soci. La conseguenza è che costoro, sempre ragionando in termini generali, non potranno ostacolare le decisioni dell’organo gestorio intese a tutelare i creditori, senza incorrere in una condotta illecita (astrattamente suscettibile di valutazione in termini di effetti pregiudizievoli e dunque di tutela risarcitoria).
In questo senso, tuttavia, si spiega anche la competenza esclusiva dell’organo amministrativo a decidere, con quanto ne consegue in termini di potere e responsabilità per le conseguenze delle decisioni, sulle diverse opzioni organizzative e gestionali, sino alla “adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e della perdita della continuità aziendale” (art. 2086, comma 2, c.c.).
Una decisione, quella dell’organo gestorio, che in linea di principio potrebbe risultare in conflitto con gli interessi dei soci (come espressi dalla volontà della maggioranza), fermo, da un lato, il principio della necessaria informazione da rendere a questi ultimi, dall’altro lato il diritto degli stessi soci di opporsi (come soggetti “interessati”) all’omologazione dell’accordo di ristrutturazione o del concordato preventivo, facendo valere ragioni rilevanti, tuttavia, soltanto sul piano della valutazione in termini di legittimità (e non di opportunità, ossia nel merito delle scelte gestionali).
La modifica dell’impostazione sul piano sistematico appare pertanto radicale, rispetto al passato, in quanto i (nuovi) doveri gravanti sugli amministratori non vedrebbero i soli soci quali ‘controparti’ del rapporto obbligatorio – al di là della relazione con i diritti e gli obblighi originati dal mandato, che comunque lega l’amministratore alla società e caratterizza il relativo rapporto -, ma tutti i (diversi e variegati) soggetti, i cui interessi possono essere pregiudicati dalla crisi, secondo il principio generale di cui è espressione l’art. 3 CCII[29].
È indubbio che, dal punto di vista dei contenuti degli obblighi aventi a oggetto gli assetti organizzativi e la loro adeguatezza, la formulazione normativa generale debba trovare riscontro concreto in specifiche regole di condotta, che consentano di valutare l’idoneità delle scelte e le conseguenze delle stesse (così come delle omissioni colpevoli), rispetto ai criteri generali enunciati, ma anche agli obiettivi del legislatore, rappresentati in primo luogo, s’è detto più volte, dalla tutela dei diritti dei creditori. La formula normativa, inevitabilmente generale, non potrà, pertanto, non essere applicata con riferimento alle regole e alle prassi della corretta gestione amministrativa e contabile, nel contesto dell’attività economica in questione e, dunque, in primo luogo alla luce delle condizioni contingenti in cui la stessa attività si svolge.
La questione al centro del nuovo sistema attiene, come del resto tutti gli studiosi hanno rilevato sin dall’inizio, al rapporto tra gli obblighi degli amministratori (ma non solo loro, evidentemente, all’interno della compagine societaria) e la discrezionalità delle scelte, rilevando i criteri gestionali ispirati al noto principio che fa capo all’espressione anglosassone business judgment rule. Un principio, quest’ultimo, che non potrà mai essere cancellato (essendo connaturale alla gestione di un’attività economica e, dunque, non può essere condizionato dalla nuova normativa), ma che, allo stesso tempo, non può non avere un limite, si direbbe intrinseco alla stessa discrezionalità che esso esprime[30]. Il limite va così individuato, in termini generali, nell’irrazionalità delle scelte, rispetto alla situazione in cui si svolge in concreto l’attività d’impresa, ma che oggi opera anche nella prospettiva della tutela, in via preventiva secondo la ratio della riforma, dei diritti dei creditori[31]. Sul punto occorre ritornare, trattandosi di un punto nodale nell’esame della responsabilità dei gestori dell’impresa (infra, n. 4).
La discrezionalità tecnica degli amministratori non è dunque soppressa, né potrebbe mai esserlo invero, attesa la sua - ontologica, si direbbe tentati di dire - appartenenza ai compiti e, in generale, alla funzione gestoria[32], ma tanto la predisposizione, quanto la verifica, ossia il monitoraggio (non in se stesso considerato, bensì) funzionale all’attivazione – ove la situazione aziendale lo esiga, s’intende - delle misure idonee a contenere e comunque gestire la crisi, si realizzano in un contesto di discrezionalità gestoria orientata e caratterizzata dal principio, più volte ricordato, della massima tutela dei creditori. Lo scenario, quindi, si presenta ben più complesso e articolato, rispetto ai vecchi (sempre validi, peraltro) divieti di porre in essere nuove operazioni, in funzione di una gestione – come si diceva – di natura conservativa).
Le decisioni e gli atti posti in essere dagli amministratori, dal contenuto normativamente non predeterminato, dovranno pertanto rispondere alle finalità che, invece, vengono individuate dal legislatore con estrema chiarezza. Tali finalità, esprimendo principi dell’ordinamento (nella materia in esame) e criteri generali che devono guidare le scelte operative, costituiranno il parametro o, se si preferisce, il filtro per valutare anche le condotte degli amministratori predeterminate dal legislatore, in presenza di determinati presupposti (ossia gli obblighi in qualche modo tipizzati, nel tessuto del diritto societario contenuto nel codice civile innanzitutto, senza considerare tuttavia le nuove tendenze evolutive del sistema).
Delicate questioni potranno porsi, nel contenzioso che alla luce dei nuovi obblighi sorgerà, tanto all’interno dei rapporti tra organi societari – in primo luogo, alla luce del mandato che lega gli amministratori alla società -, quanto all’esterno, ossia per il pregiudizio sofferto dai creditori, in relazione all’onere probatorio, che vede a carico dell’attore la dimostrazione dell’irrazionalità delle scelte e della condotta gestionale, oltre che del danno, quale conseguenza immediata e diretta della gestione, che si assume in violazione degli obblighi, tanto di predisposizione e monitoraggio degli assetti organizzativi, quanto di attivazione tempestiva delle procedure di gestione della crisi.
Sempre sul piano probatorio, all’amministratore, quale preteso danneggiante, spetterà invece dimostrare la rispondenza della sua condotta alle regole e alle prassi di corretta e oculata gestione – avvalendosi anche dei modelli delle scienze aziendalistiche, non di rado ordinati e resi concretamente fruibili nelle elaborazioni di regole e principi da parte delle associazioni professionali ovvero nei codici di autodisciplina -, ma soprattutto dovrà essere provato il rispetto del principio di tutela (prioritaria) degli interessi e dei diritti dei creditori, con riferimento alle situazioni specifiche e dunque ai contesti in cui la condotta gestoria è stata posta in essere.
Se entrambe le prove appaiono prima facie complesse, è la prova ‘liberatoria’ a carico dell’amministratore, che sembra tutt’altro che agevole, in quanto lo stesso esito infausto dell’attività d’impresa, agevolando in un certo senso la dimostrazione a carico dell’attore dell’irrazionalità delle scelte gestorie (così come delle colpevoli omissioni) nel contesto dato, nonché del nesso causale tra la (pretesa) violazione e il pregiudizio economico, complicherà, all’opposto, la difesa dell’organo gestorio, il quale dovrebbe probabilmente ricorrere alla dimostrazione di circostanze imprevedibili e in nessun modo gestibili, secondo le tecniche e le prassi della diligente e corretta amministrazione, tali da vanificare gli assetti organizzativi, ancorché in astratto adeguati alla natura e alle dimensioni dell’attività[33]. 
L’intreccio che inevitabilmente viene a crearsi tra gli obblighi relativi alla predisposizione degli assetti adeguati e quelli, successivi ed eventuali, relativi al ricorso alle procedure per la gestione tempestiva della crisi ovvero della situazione di difficoltà, non può che complicare le valutazioni da compiere in sede contenziosa, rispetto alle quali occorrerà attendere con pazienza che si sedimentino gli orientamenti giurisprudenziali, in termini di diritto vivente dell’innovato sistema normativo.
b . monitorare e rilevare tempestivamente la crisi
Il nodo maggiormente problematico, in termini di diritto sostanziale, è rinvenibile nel collegamento funzionale, che la nuova normativa instaura tra l’adeguatezza degli assetti organizzativi e il monitoraggio per la rilevazione tempestiva della crisi, con l’obiettivo di salvaguardare il valore della continuità aziendale, ormai al centro del sistema delle procedure concorsuali, come dimostra con chiarezza l’evoluzione della normativa sul concordato preventivo, all’interno della lunga (e ancora non interamente compiuta) riforma del diritto della crisi e dell’insolvenza. 
Con l’inevitabile e anzi decisivo supporto delle scienze aziendalistiche - alla luce anche delle norme individuate da organismi di categoria e associazioni professionali, ove si individuano i criteri per inquadrare e valutare le diverse manifestazioni della crisi -, l’organo responsabile della gestione dell’attività è obbligato a predisporre gli assetti organizzativi idonei a consentire il monitoraggio e così, in concreto, a rilevare i sintomi della crisi, prima che quest’ultima si sviluppi e giunga alla situazione giuridicamente qualificata come stato d’insolvenza (tendenzialmente caratterizzato dalla irreversibilità del dissesto)[34]. 
Gli obblighi a carico degli amministratori dovranno essere pertanto considerati alla luce di questa prima finalità, ossia evitare che la crisi degeneri, provocando un pregiudizio economico sempre maggiore ai creditori – va da sé anche ai soci, che potrebbero vedere il loro investimento vanificato dal raggiungimento dello stato d’insolvenza, come situazione di decozione irreversibile -, di modo che, in ultima analisi, la nuova disciplina finisce per aggiungere ai tradizionali obblighi degli amministratori (che, s’è detto, non vengono meno in alcun modo), ulteriori compiti. 
Questi ultimi si comprendono nella prospettiva (non più soltanto di conservazione del valore del patrimonio aziendale, quanto piuttosto) della prosecuzione dell’attività (ossia della continuità, in considerazione dei molteplici interessi connessi), che esige il continuo monitoraggio dei risultati raggiunti e della programmazione, in una dimensione certamente più dinamica della stessa attività gestoria (rispetto al passato, in cui poteva apparire prevalente la prospettiva statica, incentrata sulla tutela della consistenza del patrimonio, con la conseguente centralità del divieto di porre in essere nuove operazioni e degli obblighi di operare una gestione conservativa) [35]. 
In questo senso, allo stato d’insolvenza, in termini di irreversibilità del dissesto - quale presupposto tradizionale per l’apertura della procedura liquidatoria, emblematicamente rappresentata, nella storia, dal fallimento[36] -, l’imprenditore non dovrebbe, a rigore, neanche arrivare, ove: (a) gli assetti organizzativi siano adeguati (v. supra), (b) il monitoraggio delle disfunzioni non soltanto possa avvenire, ma avvenga, in punto di fatto e in termini effettivi, (c) l’organo amministrativo, infine, ricorra agli strumenti per la gestione della crisi, prima che la stessa si aggravi, sino a raggiungere lo stadio finale dell’insolvenza irreversibile (infra). 
Potranno darsi, naturalmente, situazioni estreme, in cui la crisi si produca e si sviluppi in modo talmente repentino e imprevedibile, da vanificare anche l’assetto organizzativo adeguato e così l’impegno degli organi (amministrativo e di controllo) nel monitorare e segnalare tempestivamente la disfunzione che potrebbe condurre alla crisi. In tali ipotesi, potrebbero giocare un ruolo le cause esimenti, che il soggetto responsabile non avrebbe difficoltà a rinvenire nel sistema della responsabilità - impossibilità oggettiva della prestazione, forza maggiore, caso fortuito etc. -, ma è evidente che, di norma, lo squilibrio economico finanziario si manifesterà con una (più o meno graduale) evoluzione, in un susseguirsi di stadi di progressiva gravità, ove dovrebbe essere consentito – oggi, grazie alla nuova disciplina, imposto - agli amministratori di intervenire, per evitare che sia raggiunto lo stadio finale, per così dire, dell’insolvenza irreversibile. 
Nei nuovi scenari della responsabilità degli organi sociali si realizza così un’inedita rilevanza giuridica del concetto di “insolvenza prospettica”, già valorizzata – è appena il caso di precisarlo - dagli studi di matrice economico-aziendale[37], ma anche dalla recente giurisprudenza[38]. Se non è possibile, in questa sede, trattare la materia degli indici sintomatici, che gli amministratori (al pari degli organi di controllo) dovranno in ogni caso considerare attentamente, sembra persino intuitivo individuare, tra i campanelli d’allarme – sulla rilevanza dei quali si è sempre dibattuto, con riferimento alla cosiddette misure di allerta –, l’inadeguatezza dei flussi di cassa (anche prospettici) ad assicurare il regolare adempimento delle obbligazioni, insieme agli ulteriori indicatori ricavabili dai conti sociali e dalle proiezioni, alla stregua dei già ricordati modelli elaborati in ambito più propriamente economico-aziendale[39]. 
Nel contesto del monitoraggio continuo, decisiva è la rilevanza della “perdita di continuità”[40], in generale consistente nell’incapacità di determinare risultati positivi e di generare flussi finanziari adeguati, ma che può manifestarsi, anche in relazione alle specificità dell’attività economica, in modi diversi (rispetto ai quali, ancora una volta, le scienze aziendalistiche, nonché le elaborazioni di norme di condotta, che dovrebbero indirizzare la prassi, costituiscono il punto di riferimento primario). Si deve ritenere che, sin dai suoi primi segnali, sia la perdita di continuità il dato economico che comporta la responsabilità degli amministratori, in ordine alle decisioni più idonee a gestire la crisi nella sua fase embrionale, eventualmente attivando (o almeno programmando la futura attivazione di) uno dei procedimenti previsti per evitare l’esito finale della liquidazione (all’epoca, ossia prima dell’entrata in vigore del codice, in sede fallimentare), come si vedrà a breve (infra). 
Acquistano dunque un significato decisivo, per un verso, la continuità aziendale, per altro verso l’individuazione degli strumenti che, secondo le buone pratiche imprenditoriali, possono in concreto assicurarla – se del caso, anche attraverso la programmazione e la realizzazione di operazioni straordinarie - ovvero, ove ciò non sia possibile nelle circostanze date, gestirla nel modo meno pregiudizievole per i diversi soggetti interessati, considerando in primo luogo – s’è detto più volte, ma occorre ribadirlo – la tutela dell’interesse dei creditori, che rimane un obiettivo primario delle attività poste in essere dall’organo gestorio, in particolare in situazioni di difficoltà che, prospetticamente, potrebbero condurre all’insolvenza. 
L’indagine, prodromica e inevitabile – innanzitutto, per decidere se promuovere l’eventuale giudizio di responsabilità – sulle cause della perdita di continuità[41], dovrà così coniugarsi con la valutazione, dal valore se si vuole preponderante, delle possibilità di gestire, in concreto e nella situazione specifica, la difficoltà venutasi a creare per le ragioni più varie, con la giusta dose di ragionevolezza e un’adeguata capacità gestoria (venendo sempre in rilievo il criterio della business judgement rule, di cui si dirà brevemente: infra, n. 4). La norma introdotta dall’art. 2086 c.c. è chiarissima in questo senso, confermando – sulla scia della disciplina societaria già vigente, rappresentata esemplarmente dalle norme di cui agli artt. 2381 e 2403 c.c., aventi come destinatari rispettivamente gli amministratori e i sindaci - quanto è desumibile dalla lettura combinata di una serie di disposizioni, già più volte indicate, espressive pertanto della nuova linea di tendenza del sistema. 
Se uno dei punti salienti del nuovo scenario normativo va colto nell’appena ricordata competenza esclusiva in capo agli amministratori - rispetto agli obblighi di predisporre gli assetti organizzativi adeguati, ma anche di monitorare tutti gli indicatori della perdita (ovvero del rischio di perdita) della continuità aziendale e, infine, di attivarsi con gli strumenti più idonei a fronteggiare la situazione di difficoltà -, occorre ricordare che, alle responsabilità derivanti dalla mancata osservanza della nuova normativa non può certo sottrarsi l’organo di controllo. 
Anche l’attività del collegio sindacale risulta, dunque, incisa in modo significativo, con la conferma e il rafforzamento del sistema di cui agli artt. 2403 e 2477 c.c. (prima ancora, l’art. 2381 c.c.), in ordine alla prevista vigilanza sull’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile, così come sul suo funzionamento, nello specifico contesto in cui si svolge l’attività[42], potendosi tuttavia rinviare sul punto alla successiva relazione di Bruno Inzitari. Nel nuovo scenario, caratterizzato dalla disciplina per la prevenzione mediante la previsione delle misure di allerta (di cui agli artt. 14 ss. CCII), risultano in tal modo accentuati i compiti (e le conseguenti responsabilità) dell’organo di controllo, se del caso anche in relazione all’eventuale denuncia delle “gravi irregolarità” ex art. 2409 c.c.[43], ma soprattutto con riferimento alla rilevazione tempestiva della perdita di continuità, se non addirittura della crisi o dell’insolvenza (sempre nella logica della novella, che fa capo al secondo comma dell’art. 2086 c.c.). 
Neanche va trascurata la posizione dei soci, i quali hanno titolo per interagire, in primo luogo in termini di controllo sull’operato degli amministratori, per far sì che le scelte gestorie, nella situazione di difficoltà – incidente sulla continuità aziendale, con quanto ne consegue sull’evoluzione della crisi, sino allo stadio dell’insolvenza –, rispondano all’obiettivo del legislatore di massimizzazione della tutela dei creditori[44]. 
Un obiettivo, quest’ultimo, che non si pone in conflitto - almeno in linea di principio - con gli interessi degli stessi soci, dal momento che i tentativi - se posti in essere in modo corretto e tempestivo - di sostenere la continuità aziendale, ovvero di gestire il suo progressivo venir meno, non possono che attenuare un pregiudizio, che finisce per colpire, allo stesso tempo, creditori e società debitrice: in ultima analisi, gli stessi soci, interessati a preservare il valore dell’investimento. 
Anche in questo caso, così come avviene per la posizione dei sindaci, il nuovo secondo comma dell’art. 2086 c.c. consente di ritenere obbligata alle condotte virtuose, rispetto alla stella polare costituita dalla tutela degli interessi dei creditori, la società ossia gli stessi soci, ai quali, per un verso, competono i poteri di controllo sull’operato degli amministratori, pur dotati della competenza esclusiva – s’è detto più volte – a decidere e scegliere le modalità più idonee a gestire la situazione critica, ma, per altro verso, sono obbligati a non ostacolare la realizzazione degli interessi dei creditori (secondo il principio espresso nel più volte ricordato art. 4 CCII, ma desumibile anche dalle linee guida europee)[45]. 
Se tale obbligo può comportare la compressione del diritto del socio di esprimere liberamente la volontà in sede di delibera assembleare, si deve sempre ricordare che ciò avviene in un contesto giuridico, in cui s’impone come prioritaria la tutela degli interessi dei creditori – come più volte ribadito e, in linea di principio, da non considerare necessariamente in conflitto con quelli dei soci -, al di là delle prerogative che l’ordinamento riconosce ai soci all’interno della compagine societaria, ossia nei rapporti tra gli organi. 
c . adottare tempestivamente gli strumenti di regolazione della crisi
Le considerazioni sin qui svolte non possono che esitare nella vicenda relativa alla gestione della crisi e/o dell’insolvenza attraverso il sistema delle diverse tecniche, giudiziali o stragiudiziali, offerte dall’ordinamento. In altri termini, gli obblighi dell’organo gestorio relativi al monitoraggio per la rilevazione tempestiva della crisi, all’insegna della conservazione (o del recupero) della continuità aziendale sono strettamente - si direbbe, anche inevitabilmente - connessi con i doveri (incombenti sempre, in primo luogo, sugli amministratori) concernenti il ricorso, in modo al solito corretto e tempestivo, agli strumenti di gestione della crisi, che il legislatore ha elaborato, nel corso del lungo iter riformatore iniziato oltre un quindicennio addietro, secondo modelli diversi, a loro gradualmente resi sempre più articolati e sofisticati. 
Va ricordato, in premessa, che anche rispetto a tali decisioni, il fatto che gli obblighi gravino primariamente sugli amministratori, non implica che l’organo di controllo possa rimanere indifferente mentre, da altro punto di vista, gli stessi soci dovrebbero valutare attentamente e, in linea di principio almeno, assecondare tali decisioni, in ragione del generale arretramento delle loro prerogative, all’interno della compagine sociale, rispetto agli interessi dei creditori. 
Se un tempo, che potrebbe sembrare ormai molto remoto, la prospettiva dell’impresa in crisi era essenzialmente liquidatoria – secondo una dicotomia semplificata e semplificante: da un lato, l’esercizio dell’attività d’impresa da parte del soggetto (imprenditore individuale o collettivo) in bonis, dall’altro la liquidazione del patrimonio legata allo stato d’insolvenza -, tanto che anche il concordato preventivo costituiva, notoriamente, una procedura concorsuale di natura liquidatoria (ricorrendovi il debitore soltanto allo scopo di evitare la dannosa e infamante dichiarazione di fallimento), oggi sappiamo che l’opzione di politica del diritto è chiarissima, essendosi del resto realizzata con la riforma, nella direzione esattamente opposta. L’impresa e la sua continuità aziendale, infatti, rappresentano e comprendono valori da salvaguardare anche nella situazione di crisi, persino dopo l’accertamento dello stato d’insolvenza (con la conseguente dichiarazione di fallimento, oggi sostituita dall’apertura della liquidazione giudiziale, grazie alle potenzialità dell’esercizio dell’impresa, un tempo detto “provvisorio”, alla stregua delle norme riformate). 
Di qui, la sistematica delle diverse alternative che, in ogni caso, vedono la liquidazione del patrimonio aziendale prevista dal legislatore come ultima ratio, ossia una soluzione obbligata una volta che le procedure di salvataggio dell’impresa in crisi non siano più concretamente percorribili. Non dovrebbe meravigliare che, nel nuovo assetto organico reso possibile dal codice della crisi e in linea con l’evoluzione della riforma all’insegna della priorità del salvataggio dell’impresa, il legislatore abbia deciso di disciplinare, in primo luogo, le soluzioni (ossia “gli strumenti”) definibili in senso lato stragiudiziali, per poi regolare il concordato, quale strumento funzionale (non già a una liquidazione del patrimonio proposta e programmata dal debitore, bensì) al recupero delle potenzialità dell’impresa in crisi, mediante le diverse forme di continuità (diretta o indiretta) dell’attività aziendale. 
Certo, non si può ignorare che la continuità aziendale è destinata a svolgersi in un contesto inevitabilmente incerto e dunque obiettivamente rischioso – come è stato detto, in modo efficace: tra “scommessa” e “tradimento”[46] -, sicché, anche dopo che gli amministratori hanno adempiuto all’obbligo di affrontare la crisi attivandosi con il ricorso a uno degli strumenti disponibili, occorrerà verificare in che modo concretamente la gestione della crisi sia avvenuta. In tal senso, non potrà non essere considerata la vigenza sostanziale – e, di fatto, imprescindibile – della più volte menzionata business judgment rule, con i suoi altrettanto noti limiti, operanti nei casi in cui manchi ogni istruttoria, risulti un conflitto d’interessi, una violazione di legge, ovvero elementi di avventatezza, irragionevolezza e irrazionalità[47], nell’oscillazione e nell’equilibrio – da valutarsi nella concretezza delle circostanze - tra obbligo di diligenza e discrezionalità nella gestione dell’impresa da parte degli amministratori. 
4 . Diligenza e discrezionalità degli amministratori secondo la business judgment rule
S’è detto che la business judgment rule nasce e opera, nella valutazione delle condotte dei soggetti responsabili (della gestione, in primo luogo, ma anche, in seconda battuta, dei controlli in ambito societario) con l’obiettivo di porre un argine alla sindacabilità ex post, in sede giurisdizionale, delle scelte gestorie operate dall’imprenditore, limitando la responsabilità di quest’ultimo solo al caso in cui la sua attività sia caratterizzata da una manifesta irragionevolezza, tale da vanificare l’appena menzionata barriera dell’insindacabilità[48]. 
Il fondamento del principio in esame, in termini generali, può essere ricondotto a differenti esigenze, tra cui quella di incoraggiare gli organi gestori a compiere atti potenzialmente più redditizi, sia pure esponendosi a rischi maggiori, nonché evitare che un soggetto si astenga dall’assumere la carica di amministratore per il solo timore di esporsi a responsabilità per il compimento di atti gestori e ancora, da ultimo, ridurre le ingerenze del giudice nell’ambito decisionale proprio dell’imprenditore[49]. 
La regola dell’insindacabilità delle attività gestorie compiute dagli amministratori impedisce che gli stessi possano essere ritenuti responsabili per aver compiuto scelte inopportune sotto il profilo del risultato economico (deludente o addirittura negativo), di modo che il giudizio sulla responsabilità dell’amministratore non possa avere ad oggetto il merito delle operazioni gestorie, dovendo invece investire unicamente l’omissione della diligenza e delle cautele normalmente richieste per una scelta di quella tipologia, assunta in quelle circostanze e con quella precisa modalità[50]. 
Con specifico riferimento all’obbligo di adeguatezza degli assetti organizzativi societari di cui all’art. 2086 c.c., la questione si complica ulteriormente, poiché pone il problema della valutazione in ordine alla riconducibilità del dovere di predisporre assetti adeguati nel novero delle scelte di gestione della società (con ciò che ne consegue in termini di operatività della business judgment rule) ovvero di esclusione dall’ambito applicativo del detto principio, qualora tale dovere venga qualificato come una decisione di carattere meramente organizzativo. 
La questione sorge in considerazione del fatto che, secondo taluni autori, l’insindacabilità delle decisioni adottate dagli amministratori sarebbe giustificata solo in presenza di atti gestori in senso stretto, ritenendo che il dovere di istituire un adeguato assetto organizzativo e un sistema di tempestiva rilevazione della crisi, non sarebbe riconducibile a tale tipologia di attività, dovendosi piuttosto qualificare come un momento meramente organizzativo nella vita dell’impresa[51]. 
L’inoperatività della business judgment rule, rispetto alle attività poste in essere dall’imprenditore in ottemperanza a quanto disposto dal secondo comma dell’art. 2086 c.c., sarebbe giustificata dall’assunto secondo il quale l’obbligo, imposto dalla richiamata disposizione, di garantire l’adeguatezza degli assetti, rientrerebbe in un più ampio (ma sufficientemente specifico) dovere di diligenza (potendosi anche chiamare in causa, nella vicenda in esame, la correttezza), cui l’imprenditore si deve conformare realizzando le precise finalità imposte dalla legge, vale a dire l’adeguatezza degli assetti alla natura e alle dimensioni dell’impresa, nonché l’idoneità della struttura organizzativa a rilevare tempestivamente la crisi e a consentire di reagire alla perdita di continuità aziendale[52]. 
Tuttavia, la dottrina (apparentemente, maggioritaria), anche sulla scia dell’orientamento giurisprudenziale affermatosi sempre più negli ultimi anni, risolve positivamente la questione inerente l’applicabilità della business judgment rule alle scelte di tipo organizzativo (e, dunque, all’istituzione di assetti organizzativi, amministrativi e contabili adeguati), ritenendole operazioni in linea di principio insindacabili, in quanto riconducibili nella più estesa categoria dell’attività gestoria[53]. 
In questo senso, l’operato del buon amministratore, ossia capace di individuare la tipologia degli assetti idonei in relazione all’attività imprenditoriale, nonché gli strumenti più adatti alla tempestiva rilevazione della crisi e della perdita di continuità aziendale, rientrerebbe nella sfera di discrezionalità di quest’ultimo e sarebbe pertanto sindacabile, in termini anche di responsabilità, soltanto in caso di manifesta irrazionalità, secondo la già ricordata formulazione generale del criterio, da concretizzare nello specifico contesto, dunque con riferimento alle circostanze rilevanti nel singolo caso[54]. 
La tesi favorevole all’applicabilità della business judgment rule si fonda sull’assunto secondo il quale anche la definizione della struttura organizzativa dell’impresa costituisce, unitamente all’attività di individuazione degli obiettivi da perseguire e delle modalità con cui gli stessi verranno realizzati, un momento centrale della vita imprenditoriale, rappresentando piena espressione della discrezionalità che caratterizza le scelte amministrative[55]. 
L’operatività della business judgment rule viene altresì confermata dalla giurisprudenza, ancora una volta con la precisazione per cui la struttura organizzativa istituita dall’amministratore non potrebbe essere in ogni caso sottratta al sindacato giurisdizionale, qualora emerga il mancato rispetto dei criteri di proporzionalità e ragionevolezza. L’indagine, in altri termini, deve riguardare: (a) l’idoneità dell’assetto organizzativo (nella sua concretezza, ossia rispetto al contesto imprenditoriale specifico) a recepire tempestivamente segnali di crisi e di possibile perdita della continuità aziendale, nonché (b) l’adeguatezza degli interventi concretamente posti in essere dall’organo gestorio all’emergere di tali indici sintomatici[56]. 
Sotto tale ultimo profilo, peraltro, a seguito della riforma avvenuta nel 2019, gli obblighi gravanti sull’amministratore, sino a quel momento incentrati sulla mera risposta a una crisi già in atto, si arricchiscono di una più penetrante caratterizzazione, in quanto assumono rilievo fondamentale anche nella fase che precede la crisi, essendo funzionali alla tempestiva rilevazione della stessa, nonché alla predisposizione di strumenti atti a intervenire in maniera repentina, a fronte dei primi segnali della perdita di continuità aziendale, con l’obiettivo di tentare la risoluzione e il superamento delle problematiche insorte. 
Sulla base di tali considerazioni, pertanto, non soltanto la mancata adozione di qualsivoglia misura organizzativa è certamente fonte di responsabilità dell’amministratore[57], ma dovrebbe essere ben possibile individuare profili di responsabilità dell’amministratore anche qualora l’assetto organizzativo sia stato istituito, ma si sia rivelato inadeguato rispetto agli obiettivi di rilevazione della crisi e tempestivo intervento per il superamento della stessa. 
Va da sé, s’è detto, che tale attività, in quanto operante la business judgment rule, non potrà dar luogo ad addebiti nei confronti dell’amministratore, qualora le scelte compiute da quest’ultimo siano state precedute da una valutazione ex ante (sorretta dalle conoscenze e dalle circostanze che caratterizzavano il contesto imprenditoriale in concreto) in ordine all’adeguatezza della struttura adottata a verificare la (e quindi reagire tempestivamente alla) perdita di continuità aziendale. 
Da ultimo, può essere utile fare cenno alla possibilità che il discorso sulla business judgment rule assuma diverse e specifiche connotazioni, in ragione del ramo di attività dell’impresa, come ad esempio in ambito bancario e finanziario, in quanto le imprese che operano in questi settori sono sottoposte a una regolamentazione decisamente più stringente, anche sotto il profilo dell’organizzazione, atteso l’elevato tecnicismo e tasso di rischio connaturato all’attività svolta. 
In questo senso, gli assetti organizzativi delle imprese bancarie e finanziarie non soltanto devono apparire adeguati in relazione alle già richiamate esigenze imprenditoriali, ma occorre altresì che garantiscano condizioni di sana e prudente gestione, nel rispetto degli specifici obblighi imposti dalla normativa di settore. Ecco, dunque, che la disciplina generale contenuta nell’art. 2086, comma 2, c.c., si affianca la normativa speciale introdotta dal Testo unico bancario, che integra la prima, rendendola più specifica e completa[58].
5 . Conclusioni: la nuova disciplina della responsabilità da attività d’impresa e i tradizionali snodi problematici delle relative azioni (legittimazione attiva, danno risarcibile e nesso causale, prescrizione, concorso e solidarietà)
A conclusione della riflessione sin qui svolta, si potrebbe ritornare alle considerazioni iniziali, di carattere generale, sull’evoluzione del sistema della responsabilità civile, per constatare come il completamento della riforma del diritto della crisi e dell’insolvenza finisca per confermare il passaggio da un mondo (che può considerarsi ormai definitivamente trascorso), in cui alla responsabilità civile non era assegnato un ruolo di particolare rilievo (nell’ordinamento e, in particolare, nel sistema del diritto privato), a un nuovo scenario, avente carattere generale e che, proprio per questo, non può non coinvolgere anche la materia in esame. 
È innegabile che la previsione di più o meno specifici obblighi (ancorché in molti casi già desumibili dal sistema e dalle norme incentrate sui criteri generalissimi, cui devono ispirarsi le condotte, come diligenza e correttezza, non per nulla enunciate come capisaldi iniziali del diritto delle obbligazioni nel codice civile) comporti l’apertura di altrettanto nuovi scenari della responsabilità, caratterizzati appunto dalla previsione di tali obblighi – generali o più o meno circostanziati – gravanti sui diversi soggetti coinvolti nella gestione e nel dissesto dell’impresa (tutti i soggetti, non soltanto il debitore e il creditore, come sempre è avvenuto nella rappresentazione tradizionale della vicenda)[59]. 
L’impressione desumibile con una certa chiarezza dalle norme del nuovo codice della crisi, potrebbe essere rafforzata, in un certo senso, ove si consideri – come occorrerebbe fare, invero, in ogni ambito della disciplina consegnata alla nuova codificazione – non soltanto il dato normativo, ossia la disposizione di legge vigente, ma l’iter della riforma nel suo insieme e nel suo svolgersi in un arco temporale sufficientemente ampio da consentire la sedimentazione di alcuni punti fermi, in termini di principi e norme che possono dirsi oggi, in un certo senso, la struttura portante del codice. 
In tal senso, è evidente che il depotenziamento dell’azione revocatoria fallimentare, iniziato già ai primi passi della novellazione della legge fallimentare nel 2005, in quanto espressione di una delle linee guida della riforma – probabilmente la più rilevante, si sarebbe tentati di dire la sua stessa filosofia -, non potesse che condurre all’espansione dell’ambito delle responsabilità e delle relative azioni (non solo verso gli organi sociali, ma anche verso i terzi, in qualche modo connessi all’attività degli stessi organi sociali)[60]. 
L’ampliamento dei tradizionali ambiti della responsabilità, sempre nel tentativo di considerare la riforma nel suo complesso e nel suo percorso evolutivo, si comprende poi anche alla luce dei due nuovi caratteri fondamentali del diritto dell’insolvenza, ossia la valorizzazione, rispettivamente, dell’autonomia privata e dell’impresa, che si esprime in particolare come tutela della continuità aziendale. 
Sul piano più strettamente normativo, appare senz’altro in linea con le considerazioni appena svolte anche la formulazione dell’art. 255 CCII, ove si elencano le iniziative che il curatore può promuovere, come: a) l’azione sociale di responsabilità; b) l’azione dei creditori sociali prevista dall’articolo 2394 c.c. e dall’articolo 2476, sesto comma c.c.; c) l’azione prevista dall’articolo 2476, ottavo comma c.c.; d) l’azione prevista dall’articolo 2497, quarto comma c.c.; ma soprattutto, con una formula di chiusura, tutte le altre azioni di responsabilità che al curatore sono attribuite da singole disposizioni di legge[61]. 
Il superamento dello scenario ante-riforma, cui si faceva cenno all’inizio con riferimento tanto alla responsabilità degli organi gestori e di controllo per mala gestio, quanto alla concessione abusiva del credito all’impresa in crisi (in particolare all’azione per responsabilità aquiliana del finanziatore), appare evidente, sol che si rifletta sui molteplici casi in cui il dissesto viene gestito in modo inadeguato o negligente (anche, in ipotesi, attraverso il ricorso agli “strumenti” del codice), come nel caso di piani attestati o accordi di ristrutturazione, fondati su pianificazioni inidonee, che finiscono per ritardare l’apertura della procedura liquidatoria e, di conseguenza, aggravare l’esposizione debitoria, danneggiando in tal modo i creditori (nonché i soci). 
Infine, come notazione conclusiva, se l’enunciazione dei principi generali, così come la previsione esplicita di nuovi obblighi – va ancora una volta ribadito, in quanto rilevante innovazione con valenza sistematica: a carico delle diverse parti, coinvolte nel dissesto, e non più soltanto degli organi gestori o di controllo nelle società commerciali – valgono a estendere l’ambito della responsabilità, sarà necessario farsi carico - anche in questo caso valorizzando la novità dello scenario generale, che si è tentato di delineare, nonostante lo scetticismo mostrato da alcuni studiosi sul punto - dei problemi tradizionali e generali della responsabilità civile, su cui non possono non incidere i contesti specifici in cui le azioni vengono promosse. 
Si tratta in primo luogo della natura della responsabilità (contrattuale o extracontrattuale), della legittimazione attiva, della prescrizione delle azioni, del nesso causale (materiale e giuridico), della liquidazione del danno (nonostante la ‘semplificazione’ introdotta dal legislatore con la norma che rinvia alla differenza tra i “netti patrimoniali”, lasciando irrisolto, tra gli altri, il problema del danno da perdita di valore dell’azienda, che non coincide con il danno da insolvenza, stricto sensu inteso, ossia per i creditori, che potrebbe non sussistere, in quanto non è intaccata la solvibilità[62]), del concorso e della solidarietà. 
a . legittimazione attiva e natura dell’azione
Con riferimento alle azioni risarcitorie nel contesto della crisi d’impresa, in particolare nei confronti degli amministratori di società di capitali, la prima tra le questioni problematiche attiene alla legittimazione ad agire del curatore e alla natura dell’azione, da considerare come “azione di massa”[63]. 
Il presupposto del ragionamento è nella differenza tra le due principali azioni di responsabilità esercitabili contro gli amministratori delle società di capitali, ossia l’azione sociale di responsabilità di cui all’art. 2393 c.c. e l’azione dei creditori sociali ex art. 2394 c.c. Se, da un lato, la responsabilità ascrivibile all’amministratore nei confronti della società ai sensi dell’art. 2392, comma 1, c.c. (e tutelata dall’azione sociale di responsabilità disciplinata dall’art. 2393 c.c.), è pacificamente ricondotta nel novero della responsabilità contrattuale, dall’altro lato, è discussa la natura giuridica della responsabilità dell’organo gestorio nei confronti dei creditori sociali, la cui tutela è affidata alla norma di cui all’art. 2394 c.c. 
La tesi tradizionalmente dominante è nel senso della natura aquiliana della responsabilità, atteso che, pur dovendosi riconoscere l’eventuale rilevanza esterna – diversa, pertanto, rispetto a quella ‘interna’ degli obblighi che caratterizzano il rapporto tra amministratore e società, così come tra quest’ultima e i creditori - della violazione degli obblighi di conservazione del patrimonio sociale, nel momento in cui la si consideri causa del danno cagionato (anche) ai creditori sociali (oltre che ai soci e alla società in prima battuta), deve pur sempre evidenziarsi – sostengono i fautori di questa tesi, impostando la riflessione sul piano strettamente formale - come questi ultimi non vantino alcuna pretesa, in via diretta (s’è detto, sul piano formale), nei confronti dell’amministratore o degli organi gestori in genere, con conseguente esclusione del carattere contrattuale della responsabilità[64]. 
L’opinione, tradizionalmente minoritaria, di chi ha sostenuto la natura contrattuale anche della responsabilità verso i creditori – in quanto conseguente all’inosservanza, da parte dell’organo gestorio, di precisi obblighi, nella specie inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale, sicché all’origine della responsabilità non vi sarebbe un illecito tout court, riconducibile allo schema della responsabilità aquiliana, bensì la specifica violazione di obblighi preesistenti e previsti dalla legge[65] - dovrebbe oggi rafforzarsi, proprio in ragione delle nuove disposizioni, che, per un verso, specificano meglio e incrementano i doveri a carico delle parti (in primis, dunque, del debitore, ossia dei soggetti incaricati della gestione dell’attività sociale: supra, n. 3), per altro verso, non lasciano alcun dubbio sui beneficiari finali della tutela disposta dalle norme, ossia i creditori, rispetto ai quali perciò è arduo non riconoscere l’esistenza di un rapporto giuridico rilevante, prima che si verifichi l’illecito e il conseguente danno. 
b . prescrizione dell’azione
Sempre per evidenziare alcune tra le problematiche in ambito di azioni per conseguire il risarcimento del danno, va ricordata la questione della prescrizione delle azioni di responsabilità, dovendo premettere che entrambe le azioni, sia l’azione sociale di responsabilità, sia l’azione dei creditori sociali, sono soggette al termine prescrizionale di cinque anni, secondo quanto previsto dal combinato disposto degli artt. 2393, comma 4, e 2949, comma 2, c.c.[66]. 
Sotto tale ultimo profilo, può essere interessante rilevare, per completezza della presente pur sintetica riflessione, il contrasto dottrinale determinato dalla stessa formulazione della norma – si tratta del quarto comma dell’art. 2393 c.c., secondo cui “l’azione può essere esercitata entro cinque anni dalla cessazione dell’amministratore dalla carica” -, in ordine alla qualificazione del quinquennio quale termine (non prescrizionale, bensì) decadenziale, come si desumerebbe dalla circostanza secondo la quale, dopo la decorrenza del detto termine, il rischio di coinvolgimento dell’ex amministratore in una causa di responsabilità sociale, ai sensi degli artt. 2392 e 2393 c.c., si riduca, sino a scomparire[67]. 
Allo stato, tuttavia, sembra prevalente la tesi della natura prescrizionale del termine quinquennale di cui all’art. 2393 c.c.[68], con le conseguenze applicative che ne derivano: in primo luogo, con riferimento alla necessità che il danno si sia verificato durante lo svolgimento dell’attività nel periodo per il quale dura la carica e, inoltre, nel senso dell’operatività della causa di sospensione, di cui all’art. 2941, n. 7, c.c.[69]. 
Per ciò che concerne, invece, l’azione dei creditori sociali, sembrerebbe operare il criterio generale, sicché il termine di prescrizione inizierebbe a decorrere dal giorno in cui si è verificato il fatto. Non mancano, ancora una volta, implicazioni problematiche, come emerge dall’analisi della giurisprudenza di legittimità che, non di rado, ha individuato il dies a quo nel diverso momento in cui il danno diviene percepibile all’esterno, ovvero, per ciò che qui interessa, nel giorno – tendenzialmente coincidente con la dichiarazione di fallimento, ma potrebbe trattarsi anche di una data antecedente - in cui sia diventata effettivamente conoscibile l’insufficienza del patrimonio sociale a soddisfare i creditori.
c . danno risarcibile e nesso causale
Ancorché ci si debba limitare, in questa sede, a un rapido cenno anche con riferimento all’ulteriore questione concernente la determinazione del danno risarcibile, non si può non evidenziare, in primo luogo, la problematica inerente alla risarcibilità della pura perdita patrimoniale[70]. Risolta tale questione, nel senso di riconoscere il diritto al risarcimento anche a fronte della pura perdita patrimoniale, tanto nel caso dell’azione sociale di responsabilità, quanto nell’ipotesi di azione dei creditori sociali, occorre concentrarsi sulle conseguenze di tale conclusione sotto il profilo del nesso eziologico[71]. 
Non occorre, in questa sede, soffermarsi sulla differenza tra causalità materiale e causalità giuridica, intendendosi con la prima, com’è noto, il rapporto tra condotta del danneggiante ed evento lesivo, mentre, con la seconda, il nesso tra evento lesivo e conseguenze dannose, in termini di danno risarcibile. Sotto tale ultimo profilo, tuttavia, si colgono le implicazioni problematiche della questione inerente alla risarcibilità della mera perdita patrimoniale – ossia della pura perdita economica, non intermediata dalla lesione di alcuna situazione giuridica soggettiva protetta -, nell’opera di individuazione dell’estensione del danno risarcibile, secondo il nesso di causalità giuridica, dunque attraverso l’individuazione del complesso delle conseguenze pregiudizievoli derivanti dall’evento lesivo e, conseguentemente, dei danni risarcibili secondo il criterio della regolarità causale[72]. 
Sotto il profilo probatorio, è persino superfluo ricordare come l’attore (la società, i creditori ovvero il curatore) che abbia convenuto in giudizio l’amministratore, debba fornire la prova sia del nesso causale (materiale, in primo luogo), sia delle conseguenze dannose derivate dalla condotta su cui si fonda l’azione stessa[73]. In termini più specifici, occorre dimostrare i danni che le condotte di mala gestio poste in essere dall’amministratore hanno cagionato alla società, ai soci, ovvero ai creditori sociali e ai terzi, con la precisazione (secondo quanto disposto dall’art. 2486, comma 3, c.c.) che il danno potrà anche essere liquidato in via equitativa, alla luce del criterio del deficit fallimentare - occorrerà, in concreto, quantificare l’importo pari alla differenza tra attivo e passivo accertato in sede concorsuale -, nell’ipotesi in cui manchino o siano irregolari le scritture contabili o quando, per altre ragioni, il pregiudizio non sia precisamente determinabile[74]. 
In determinati casi, vale a dire quando non sia possibile isolare in maniera puntuale gli specifici profili di responsabilità ascrivibili agli organi gestori, si renderà così necessario il ricorso a criteri presuntivi, che consentano di imputare agli amministratori la globale attività di gestione (rectius, la cattiva gestione) della società, che si traduce, sul piano applicativo, nell’utilizzo di parametri equitativi, ai fini della valutazione del quantum risarcitorio, in ragione dell’impossibilità di determinare il pregiudizio nel suo preciso ammontare[75]. In tal senso, si determina un’inversione probatoria mediante la presunzione legale, secondo cui – l’ipotesi, s’è detto, è quella della mancanza o irregolarità della documentazione contabile idonea a consentire di ricostruire il c.d. netto patrimoniale – il danno corrisponderebbe alla differenza tra attivo e passivo accertato in sede concorsuale. L’onere della prova, dunque, viene posto a carico del soggetto su cui gravava l’obbligo di predisporre la documentazione che (qualora non fosse mancata o fosse stata tenuta in maniera regolare) avrebbe potuto essere posta alla base della determinazione del danno, in quanto tale soggetto è responsabile per aver reso, con la sua condotta (ossia con l’inadempimento di tale obbligo), di fatto impossibile acquisire la prova stessa. Muovendo da queste ultime considerazioni, un cenno merita anche l’ipotesi in cui l’amministratore, pur avendo posto in essere condotte di mala gestio, non abbia provocato alcun danno alla società, ai creditori, ai soci o ai terzi[76]. 
Sempre in tema di nesso causale, è possibile individuare un’ulteriore problematica, con riferimento alla questione delle condotte omissive causative di pregiudizio. Sotto tale profilo, la responsabilità può essere affermata solo all’esito di un’indagine sul nesso di causalità materiale, attraverso e all’esito di un giudizio “controfattuale”, che impone di accertare cosa sarebbe accaduto, qualora fosse stata posta in essere la condotta omessa[77].
d . concorso e solidarietà
Non soltanto è possibile, ma accade piuttosto di frequente che la responsabilità nell’ambito della crisi di impresa sia ascrivibile a più soggetti in concorso tra loro (gli amministratori componenti il consiglio e/o i componenti del collegio sindacale), sicché un ultimo cenno va fatto alla questione della solidarietà nelle azioni risarcitorie. La problematica si complica ulteriormente nell’ipotesi, tutt’altro che inconsueta, in cui l’azione sociale esercitata nei confronti di più soggetti si concluda con un accordo transattivo, raggiunto tuttavia solo con alcuni dei soggetti convenuti come responsabili[78]. 
Non di rado, peraltro, il curatore - nell’ambito della procedura concorsuale, per quanto consta dalla giurisprudenza del passato relativa al fallimento, ma analogamente si può ragionare con riferimento alle liquidazioni giudiziali, nelle quali è prevedibile, per altro verso inevitabile, che si sviluppi un notevole contenzioso in tema di responsabilità degli organi sociali – riesce a comporre la controversia con la sua definizione transattiva, in ragione dei molteplici vantaggi che da tale opzione conciliativa possono derivare, in termini di riduzione della durata dei tempi procedurali, nonché di sicuro ed effettivo (ancorché parziale) soddisfacimento dei creditori[79]. 
Le considerazioni appena esposte rendono evidente la peculiarità della transazione sulle azioni di responsabilità, qualora la stessa sia conclusa nel contesto della crisi di impresa, trattandosi di una vicenda che potrebbe porre molteplici questioni problematiche, come, ad esempio, quella inerente all’individuazione delle condizioni in presenza delle quali possa e debba ritenersi opportuna la scelta nel senso di procedere all’opzione transattiva da parte degli organi concorsuali o ancora l’individuazione degli effetti scaturenti dalla transazione conclusa tra la società in bonis e l’organo gestorio in epoca anteriore rispetto all’apertura della procedura concorsuale. 
È inoltre possibile che soltanto alcuni, tra gli organi sociali chiamati a rispondere delle proprie condotte nei confronti della società in crisi, aderiscano all’accordo transattivo, sicché si potrebbe porre un problema di coordinamento con la previsione di cui all’art. 1304 c.c., ai sensi del quale “la transazione fatta dal creditore con uno dei debitori in solido non produce effetto nei confronti degli altri, se questi non dichiarano di volerne profittare”. Benché alcuni autori neghino la possibilità di concepire una transazione pro quota[80], la dottrina attualmente prevalente, nonché la giurisprudenza maggioritaria, sono favorevoli alla diversa idea della configurabilità di una limitazione dell’oggetto della transazione (nel senso della possibilità di determinare la porzione di debito gravante sul soggetto transigente) ai soli debitori che abbiano preso parte all’accordo transattivo[81]. 

Note:

[1] 
L’impressione è che il sistema, in questo caso, risulti talmente modificato da integrare la proverbiale rivoluzione copernicana, caratterizzata e accompagnata dal mutamento degli stessi “paradigmi” concettuali di riferimento primario, secondo il pensiero del celebre filosofo della scienza Thomas Kuhn, svolto nella trattazione (apparsa in prima edizione nel 1962) della “struttura delle “rivoluzioni scientifiche” (in traduzione italiana: T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino, 1999). 
[2] 
Per una rapida, ma efficace, ricostruzione storica, si può rinviare al recente studio di M. Fabiani, Perdita di valore dell’impresa, responsabilità degli organi sociali e il pernicioso “abbaglio” dei netti patrimoniali, in Società, 2004.
[3] 
In questo senso, tra gli studiosi più autorevoli che si occupati del tema, R. Rordorf, I doveri dei soggetti coinvolti nella regolazione della crisi nell’ambito dei principi generali del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Il Fall., 2021, 589, 590, il quale tuttavia ricorda, correttamente, che “quando si parla di principi, occorre fare molta attenzione: è parola da maneggiare con cautela”; cfr. altresì F. Di Marzio, Diritto dell’insolvenza, Milano, 2023, spec. 166 ss., 214 ss.; nonché M. Fabiani, Il Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza tra definizioni, principi generali e qualche omissione, in Foro it., 2019, V, 166.
[4] 
Così G. D’Attorre, I principi generali del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Dirittodellacrisi.it; Id., I principi generali nel diritto della crisi d’impresa, in Nuova giur. civ. comm., 2019, 1084; Id., La formulazione legislativa dei principi generali nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Banca, borsa, tit. cred., 2019, I, 467, nonché in Aa. Vv., La nuova disciplina delle procedure concorsuali. In ricordo di Michele Sandulli, Torino, 2019, 253; nonché R. Rordorf, I doveri dei soggetti coinvolti nella regolazione della crisi, cit., 590; cfr. altresì S. Ambrosini, I “principi generali” nel codice della crisi, in Ilcaso.it.
[5] 
Cfr. ancora G. D’Attorre, I principi generali, cit.; R. Rordorf, I doveri dei soggetti coinvolti nella regolazione della crisi, cit., 590; nonché M. Fabiani, Il Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza, cit., 166. 
[6] 
Cfr. G. D’Attorre, I principi generali, cit.; ma anche M. Fabiani, Il Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza, cit., 166, per l’opportunità di spingersi oltre il rimedio risarcitorio, considerando il contesto delle procedure concorsuali, ove rimedi maggiormente specifici e, in qualche modo, circostanziati potrebbero risultare senz’altro più efficaci.
[7] 
Per tutti, si può rinviare a E. Scoditti, Concretizzare ideali di norma. Su clausole generali, giudizio di cassazione e stare decisis, in Aa. Vv., Principi e clausole generali nell’evoluzione dell’ordinamento giuridico, a cura di G. D’Amico, Milano, 2017, pp. 167 ss.; Id., Clausole generali e certezza del diritto, in Questionegiustizia.it
[8] 
O, se si preferisce, della “terra di nessuno”: cfr. F. D. Busnelli, Itinerari europei nella “terra di nessuno” tra contratto e fatto illecito: la responsabilità da informazioni inesatte, in Contratto impr., 1991, 539 ss.
[9] 
Per tutti, C. Castronovo, Responsabilità civile, Milano, 2018, 521 ss.; già Id., L’obbligazione senza prestazione ai confini tra contratto e torto, in Le ragioni del diritto. Scritti in onore di Luigi Mengoni, tomo I, Diritto civile, Milano, 1995, 149 ss. (sviluppando le preziose intuizioni proprio di Luigi Mengoni in materia di responsabilità contrattuale).
[10] 
L’approfondimento si deve sempre a C. Castronovo, La relazione come categoria essenziale dell’obbligazione e della responsabilità contrattuale, in Europa dir. priv., 2011, 55 ss.
[11] 
Si fa riferimento, a titolo esemplificativo, alle decisioni di: Trib. Milano, 21.10.2019 (in Società, 2020, 988, nonché in Giur. it., 2020, 363 con nota di O. Cagnasso), Trib. Roma, 8 aprile 2020 (in Società 2020,1339), Trib. Cagliari, 19 gennaio 2022, in Dirittodellacrisi.it.
[12] 
Per lo sviluppo delle considerazioni sulla responsabilità da “attività”, piuttosto che da specifici “atti”, cfr. ancora M. Fabiani, Perdita di valore dell’impresa, responsabilità degli organi sociali e il pernicioso “abbaglio” dei netti patrimoniali, cit.; Id., Sistema, principi e regole del diritto della crisi d’impresa, 2 ed., La Tribuna-Foro italiano, 2024, 540 s.
[13] 
E anche da questo punto di vista, si può dire che siano stati fatti importanti passi in avanti, sol che si consideri la disponibilità del test pratico per la verifica della ragionevole perseguibilità del risanamento e della check-list particolareggiata per la redazione del piano di risanamento. Si veda, nell’ambito di un approfondimento delle più rilevanti problematiche relative alla gestione delle imprese in crisi, il prezioso contributo di S. Chiaruttini, Assetti organizzativi e business judgment rule, in Aa. Vv., La Governance nelle aziende in crisi, a cura di P. Galbiati e A. Negri-Clementi, McGraw - Hill Education, 2024, 159 ss., la quale sottolinea come, muovendo dall’analisi economico-aziendale degli assetti organizzativi, in aggiunta a quelli obbligatori si debbano considerare, nel valutare la responsabilità dei gestori, anche gli assetti da ritenere “opportuni”, in considerazione delle circostanze che connotano l’attività d’impresa.
[14] 
È nota la posizione assunta dalla Cassazione, a Sezioni Unite, 6 maggio 2015, n. 9100, in Foro it., 2016, 282, con nota di M. Fabiani, La determinazione causale del danno nelle azioni di responsabilità sociali e il ripudio delle semplificazioni, ove si afferma il principio, secondo cui: “Nell’azione di responsabilità promossa dal curatore del fallimento di una società di capitali nei confronti dell’amministratore della stessa, l’individuazione e la liquidazione del danno risarcibile deve essere operata avendo riguardo agli specifici inadempimenti dell’amministratore, che l’attore ha l’onere di allegare, onde possa essere verificata l’esistenza di un rapporto di causalità tra tali inadempimenti ed il danno di cui si pretende il risarcimento. Nelle predette azioni la mancanza di scritture contabili della società, pure se addebitabile all’amministratore convenuto, di per sé sola non giustifica che il danno da risarcire sia individuato e liquidato in misura corrispondente alla differenza tra il passivo e l’attivo accertati in ambito fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato soltanto al fine della liquidazione equitativa del danno, ove ricorrano le condizioni perché si proceda ad una liquidazione siffatta, purché siano indicate le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore e purché il ricorso a detto criterio si presenti logicamente plausibile in rapporto alle circostanze del caso concreto”.
[15] 
In questa direzione sembra svolgersi anche il pensiero di M. Fabiani, Perdita di valore dell’impresa, cit., il quale prevede, del tutto correttamente, che la partita della responsabilità si giocherà in futuro “sulle responsabilità connesse ad una tardiva o inadeguata reazione alla crisi e ciò ben prima della formale perdita del capitale sociale”, ritenendo – anche in questo caso, in modo totalmente condivisibile – che “anche qui di tratterà di danni cagionati da attività e non da atti”.
[16] 
Con riferimento al codice della crisi, si tratta delle disposizioni di cui agli artt. 375 e 377 CCII, rispettivamente intitolati: “Assetti organizzativi dell’impresa” e “Assetti organizzativi societari”, attuativi del principio (di cui all’art. 14, lett. b della legge delega) relativo al “dovere dell’imprenditore e degli organi sociali di istituire assetti organizzativi adeguati per la rilevazione tempestiva della crisi e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi per l’adozione tempestiva di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale”. In particolare, l’art. 375 ha modificato la rubrica dell’art. 2086 c.c. (intitolato ora “Gestione dell’impresa” e non più “Direzione e gerarchia nell’impresa”) e ha introdotto nella disposizione un secondo comma, ai sensi del quale: “L’imprenditore, che operi in forma societaria o collettiva, ha il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale”. L’art. 377 (rubricato “Assetti organizzativi societari”) ha modificato, per parte sua, le norme sull’amministrazione delle società: di persone (art. 2257 c.c.), per azioni (artt. 2380 bis e, per le S.p.a. a sistema dualistico, 2409 novies c.c.) e a responsabilità limitata (art. 2475 c.c.), prevedendo che, indipendentemente dal tipo di società “la gestione dell’impresa si svolge nel rispetto della disposizione di cui all’art. 2086, secondo comma – con “un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa” -, e spetta esclusivamente agli amministratori, i quali compiono le operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale”, in linea con la legge delega (art. 14, comma primo, lett. b).
[17] 
L’innovazione è stata correttamente considerata altresì l’esito di un percorso normativo che, muovendo per le società quotate dal T.U.F. (art. 149) e attraverso le evoluzioni operate dal legislatore nell’ultimo ventennio in tema di società azionarie, di enti collettivi (D.Lgs. n. 231/2001) e di società a partecipazione pubblica, senza dimenticare i settori bancario e assicurativo, “ha progressivamente consacrato la regola di adeguatezza degli assetti organizzativi come principio di corretta gestione imprenditoriale, in quanto tale destinata a valere in tutte le realtà imprenditoriali in forma collettiva o societaria” (N. Abriani e A. Rossi, Nuova disciplina della crisi d’impresa e modificazioni del codice civile: prime letture, in Società, 2019, 393 ss.). Si è inoltre sottolineato in dottrina come la nuova disposizione finisca per collocarsi nel solco della riforma del 2003 per le società per azioni, con riferimento agli artt. 2381 e 2403 c.c. (cfr. ancora, per tutti, N. Abriani e A. Rossi, ibid.), pur imponendo ormai di considerare la disciplina degli assetti organizzativi adeguati quale norma di sistema, comune a tutti i tipi di società (anche non commerciali), ragionevolmente estensibile a qualsiasi organizzazione che svolga attività d’impresa. Si è ritenuto, peraltro, che “nella generalizzazione di un principio originariamente formulato nella sola sede della società azionaria ai sensi dell'art. 2380 bis, si attui una singolare ‘eterogenesi dei fini” (S. Fortunato, Codice della crisi e Codice civile: impresa, assetti organizzativi e responsabilità, in Riv. società, 2019, 952 ss.). 
[18] 
Come espressione di un pensiero particolarmente autorevole, si può richiamare ancora la voce di chi ha coordinato i lavori del nuovo codice, chiarendo senza mezzi termini che “uno degli obiettivi del progetto di riforma consisteva nel realizzare un miglior coordinamento tra la disciplina concorsuale e quella societaria contenuta nel codice civile” (R. Rordorf, Prime osservazioni sul codice della crisi e dell’insolvenza, cit., 2019, 134); del resto, è noto che da tempo ormai si discorre, nell’ambito della dottrina commercialistica più autorevole, di “diritto societario della crisi”: si vedano, ad esempio, i contributi, compresi nel medesimo volume dedicato al tema, di G. Portale, Verso un ‘diritto societario della crisi’, in Aa. Vv., Diritto societario e crisi d’impresa, a cura di U. Tombari, Torino, 2014, 1; U. Tombari, Principi e problemi di “diritto societario della crisi”, ibid., 5; F. Guerrera, Le competenze degli organi sociali nelle procedure di regolazione negoziale della crisi, ibid., 65.
[19] 
Tra i contributi più significativi sul tema generale, meritano una segnalazione innanzitutto alcuni scritti apparsi in epoca precedente all’inserimento del secondo comma nell’art. 2086 c.c., in particolare: M. Irrera, Assetti organizzativi adeguati e governo delle società di capitali, Milano, 2005; V. Buonocore, Adeguatezza, precauzione, gestione, responsabilità: chiose sull’art. 2381, commi terzo e quinto, del codice civile, in Giur. comm., 2006, I, 5 ss.; con riferimento in particolare alle vicende della crisi: C. Mazzoni, La responsabilità gestoria per scorretto esercizio dell’impresa priva della prospettiva di continuità aziendale, in Aa.Vv., Amministrazione e controllo nel diritto delle società. Liber amicorum Antonio Piras, Torino, 2010, 813 ss.; M. Miola, Riflessioni sui doveri degli amministratori in prossimità dell’insolvenza, in Aa.Vv., Studi in onore di Belviso, I, Bari, 2011, 609 ss.; R. Sacchi, La responsabilità gestionale nella crisi dell’impresa societaria, in Giur. comm., 2014, I, pp. 304 ss. Dopo la riforma che ha inciso sull’art. 2086 c.c., si vedano: N. Abriani e A. Rossi, Nuova disciplina della crisi d’impresa, cit., 393 ss.; M. Cian, Crisi dell’impresa e doveri degli amministratori: i principi riformati e il loro possibile impatto, in Nuove leggi civ. comm., 2019, 1160 ss.; S. Fortunato, Codice della crisi e Codice civile: impresa, assetti organizzativi e responsabilità, cit., 952 ss.; P. Montalenti, Gestione dell’impresa, assetti organizzativi e procedure di allerta dalla “Proposta Rordorf” al Codice della crisi, in Aa.Vv., La nuova disciplina delle procedure concorsuali. In ricordo di Michele Sandulli, Torino, 2019, 482 ss.; Id., Il codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza: assetti adeguati, rilevazione della crisi, procedure di allerta nel quadro generale della riforma, in Giur. comm., 2020, I, 829 ss.; più di recente, Id., Assetti organizzativi e organizzazione dell’impresa tra principi di corretta amministrazione e business judgment rule: una questione di sistema, in Nuovo dir. soc., 2021, I, 11 ss.; M. Arato, Corretta amministrazione e adeguatezza degli assetti organizzativi: ruoli e prerogative di amministratori, sindaci e revisori, in Aa.Vv., La nuova disciplina delle procedure concorsuali. In ricordo di Michele Sandulli, cit., 76 ss.; V. Calandra Bonaura, Corretta amministrazione e adeguatezza degli assetti organizzativi nella Società per azioni, in Giur. comm., 2020, I, 439 ss.; M. Irrera, L’art.2467 c.c.: limiti di applicazione di una norma transtipica ad una srl transtipica, in Riv. dir. comm. 2020, 401; M. Fabiani, Dai finanziamenti alla adeguatezza dell’assetto finanziario della società, in Il Fall., 2021, 1312 ss.; S. Leuzzi, La scommessa dell’allerta: inquadramento, regole, criticità, in M. Fabiani e S. Leuzzi, La tutela dei creditori tra allerta precoce e responsabilità, in Foro italiano, Speciali 2/2021, 27 ss.
[20] 
Subito dopo l’entrata in vigore della nuova norma, ad esempio, di fronte alla società che adduceva la forza maggiore, per la crisi di liquidità determinata dalla congiuntura economica, nel tentativo di giustificare il mancato pagamento delle imposte, la Cassazione ha chiarito che, rispetto ai due elementi costitutivi della forza maggiore - uno oggettivo, relativo a circostanze anomale ed estranee all’impresa e uno soggettivo, costituito dall’obbligo per l’azienda di premunirsi contro le conseguenze dell’evento anormale, adottando misure appropriate – se manca quello soggettivo, nel senso che l’azienda non è adeguata per prevenire le circostanze anomale, non può essere invocata la forza maggiore (Cass., ord. 28 settembre 2020, n. 20389, Dirittodelrisparmio.it); più di recente, fa il punto sulla responsabilità degli amministratori per la gestione non conservativa, Cass., ord. 25 marzo 2024, n. 8069, in Foro it., 2024, I, 1502, con tutti i necessari richiami alla precedente giurisprudenza, tanto in motivazione, quanto nella nota redazionale. In altre decisioni, di merito questa volta, scelte a campione – si tratta del Tribunale delle Imprese, rispettivamente: di Milano (21 ottobre 2019, in Società, 2020, 988, nonché in Giur. it., 2020, 363 con nota di O. Cagnasso), di Roma (8 aprile 2020, in Società 2020,1339) e di Cagliari (19 gennaio 2022, in Dirittodellacrisi.it) -, veniva rilevata la condotta di mala gestio degli amministratori, con conseguente assoggettamento delle condotte alla responsabilità di cui all’art. 2476 c.c., per non aver dotato l’azienda di adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili. In particolare, il Tribunale milanese ha chiarito che “le condotte degli amministratori non in linea con i doveri gestori oggi predicati dall’art. 2086 secondo comma costituiscono una grave irregolarità nella gestione, alla quale è collegata la reazione della denunzia al tribunale ex art. 2409 c.c. (quindi anche da parte di altri soci) nonché la conseguente revoca dell’organo amministrativo con la nomina di un amministratore giudiziario”. Anche la decisione del Tribunale romano, emessa in sede cautelare, ha affrontato il tema della responsabilità dell’amministratore di società per un profilo inerente all’adeguatezza degli assetti organizzativi adottati nell’impresa in attuazione di quanto prescritto sia dall’art. 2381, comma 3, e soprattutto dell’art. 2086, comma 2. Può essere interessante segnalare la posizione favorevole all’applicazione del principio facente capo alla business judgment rule, relativamente alla insindacabilità delle scelte operate dagli amministratori sulla definizione degli assetti organizzativi dell’impresa, sino a quanto gli stessi risultino conformi a criteri di legittimità e di ragionevolezza. In tal modo, si conferma l’idea che si tratterebbe sempre di scelte attinenti alla gestione (nello specifico, fra le più strategiche, per così dire), considerando che l’assetto organizzativo adeguato è oggetto di un obbligo gravante sugli amministratori, ma di carattere generale e dunque non predeterminato nel suo contenuto, sicché il limite non può che essere quello della irrazionalità, ossia delle scelte gestionali connotate da imprudenza e negligenza professionale. Infine, nella più recente decisione del Tribunale di Cagliari l’ispettore aveva segnalato l’assenza di un assetto adeguato, in quanto funzionale a rilevare tempestivamente i sintomi dello squilibrio economico-finanziario, al fine della salvaguardia della continuità aziendale. Risultava, in particolare, che la società non disponeva: “di strumenti che permettano di rilevare squilibri finanziari; ciò non solo a consuntivo, ma anche e soprattutto a livello previsionale, impendendole di verificare la propria capacità prospettica di far fronte alle obbligazioni”. Nel merito delle inadempienze riscontrate dall’ispettore, si rilevavano le seguenti mancanze, (a) sul piano organizzativo: “organigramma non aggiornato e difetta dei suoi elementi essenziali; assenza di mansionario; inadeguata progettazione della struttura organizzativa e polarizzazione in capo a una o poche risorse umane di informazioni vitali per l’ordinaria gestione dell’impresa (ufficio amministrativo) assenza di un sistema di gestione e monitoraggio dei principali rischi aziendali”; (b) sull’assetto più propriamente amministrativo: “mancata redazione di un budget di tesoreria; mancata redazione di strumenti di natura previsionale; mancata redazione di una situazione finanziaria giornaliera; assenza di strumenti di reporting; mancata redazione di un piano industriale”; da ultimo, (c) sull’assetto specificamente contabile: “la contabilità generale non consente di rispettare i termini per la formazione del progetto di bilancio e per garantire l’informativa ai sindaci; assenza di una procedura formalizzata di gestione e monitoraggio dei crediti da incassare; analisi di bilancio unicamente finalizzata alla redazione della relazione sulla gestione; mancata redazione del rendiconto finanziario”.
[21] 
Si veda, sempre per limitarsi ai contributi più autorevoli: A. Nigro, Il “diritto societario della crisi”: nuovi orizzonti?, in Riv. soc., 2018, 1207, il quale propende un intervento legislativo idoneo a disegnare uno statuto normativo delle società in crisi, qualunque definizione si voglia dare a tale normativa. Tra i tanti contributi in argomento, cfr. altresì D. Vattermoli, La posizione dei soci nelle ristrutturazioni. Dal principio di neutralità organizzativa alla resisual owner doctrine?, in Riv. soc., 2018, 858; nonché, in termini dubitativi, R. Sacchi, Sul così detto diritto societario della crisi: una categoria concettuale inutile o dannosa, in Nuove leggi civ. comm., 2018, 1280; O. Cagnasso, Il diritto societario della crisi fra passato e futuro, in Giur. comm., 2017, I, 33 ss.; Id., Le interferenze tra il diritto societario e il diritto fallimentare, in Crisi di impresa e procedure concorsuali, diretto da O. Cagnasso e L. Panzani, Torino, 2016, II, 2616 ss.; da ultimo, C. Esposito, Lo statuto delle società in crisi e l’esilio della neutralità organizzativa, in Giust. civ., fasc. 3, 2021, 563 ss.
[22] 
Per qualche considerazione in chiave comparatistica, cfr. U. Tombari, Principi e problemi di diritto societario della crisi, in Aa. Vv., Diritto societario e crisi di impresa, a cura di U. Tombari, Torino, 2014, 7. 
[23] 
In argomento, si può rinviare ai numerosi studi di F. Guerrera, in particolare: Assetti organizzativi di gruppi, forme di eterodirezione e regimi di responsabilità, in Riv. dir. soc., 2024. fasc. 2, p. 205 ss.
[24] 
La riflessione è ricollegabile, in un certo senso, alle considerazioni di quanti hanno, in tempi recenti enfatizzato l’evoluzione della stessa concezione generale di impresa, dal punto di vista giuridico: G. Palmieri, La crisi del diritto societario e la riscoperta del valore della “nuda” impresa nell'economia post covid-19 (con uno sguardo all'art. 41 della costituzione), in Banca, borsa tit. cred., 2021, 18; U. Tombari, Corporate purpose e diritto societario, dalla “supremazia degli interessi dei soci” alle libertà di scelta dello scopo sociale?, in Riv. soc., 2021, 1; mentre è sin troppo noto il risalente dibattito sugli scopi della società, sicché ci si limita a richiamare, per un’eco in tempi recenti: C. Angelici, Divagazioni sulla “responsabilità sociale” di impresa, in Riv. soc., 2018, 3.
[25] 
In termini espliciti, F. Di Marzio, Obbligazione, insolvenza, impresa, Milano, 2019, 136: “l’assetto organizzativo è della società, ma ha per oggetto [corsivo nel testo] l’impresa”, sicché “lo scopo di queste regole è di tutelare l’impresa”.
[26] 
Correttamente s’è detto che gli adeguati assetti organizzativi sono “le fondamenta che sorreggono l’edificio dell’early warning italiano, la cui architettura è basata soprattutto sulla circolarizzazione efficiente dei flussi informativi fra gli organi societari” (S. Leuzzi, La scommessa dell’allerta, cit., 27). Ai riferimenti bibliografici già indicati, si può aggiungere in questo senso, V. De Sensi, Adeguati assetti e business judgment rule, in Dirittodellacrisi.it; nonché Id., Adeguati assetti organizzativi e continuità aziendale: profili di responsabilità gestoria, in Riv. società, 2017, 324; più di recente, in argomento, con particolare riferimento alla struttura patrimoniale e finanziaria e alla non incongruità degli equilibri, rispettivamente, patrimoniale ed economico-finanziario, M. Houben, Assetti patrimoniali (non manifestamente in) adeguati, doveri degli amministratori e (nuovo) art. 3, comma 3° lett. A, codice della crisi d’impresa, in Banca, borsa, tit. cred., 2023, 106 ss. 
[27] 
Da ultimo, si segnala, per la consueta chiarezza e precisione sistematica, il contributo di R. Rordorf, I doveri dei soggetti coinvolti nella regolazione della crisi, cit., 589.
[28] 
Sempre illuminante rimane la lettura delle pagine di V. Buonocore, Adeguatezza, precauzione, gestione, responsabilità: chiose sull’art. 2381, commi terzo e quinto, del codice civile, in Giur. comm., 2006, I, 5.
[29] 
In questi termini, per tutti: F. Di Marzio, Obbligazione, insolvenza, impresa, cit., 135.
[30] 
Si è detto, in modo ineccepibile, che se le decisioni sulle modalità organizzative dell’impresa “debbono soddisfare il criterio dell’adeguatezza prescritto dal codice”, non si potrà comunque negare il “notevole margine di discrezionalità, non foss’altro perché anche tali decisioni debbono essere rette da un criterio di proporzionalità riferito alla dimensione ed alla natura dell’impresa e, per quanto le si voglia procedimentalizzare e ricondurre a modelli prestabiliti, è inevitabile – anzi, direi, auspicabile – che esse dipendano da come le esigenze organizzative di ciascuna singola impresa in concreto si manifestano (R. Rordorf, I doveri dei soggetti coinvolti nella regolazione della crisi, cit.). La relativa valutazione – prosegue l’illustre A. - non può dunque non presentare ampi margini di opinabilità. Il che sta a significare, in definitiva, che anche in questo settore sarà solo la manifesta irrazionalità dei comportamenti degli amministratori, o l’insanabile loro contrarietà a criteri noti e consolidati di buona organizzazione aziendale, a poter implicare una qualche forma di responsabilità per i danni derivati dalla cattiva organizzazione dell’impresa, così come per quelli causati da una scelta non corretta degli strumenti da adoperare per fronteggiare eventuali situazioni di crisi”.
[31] 
La giurisprudenza già ricordata si è espressa anche in ordine al significato giuridico del principio che si celerebbe dietro la formula che fa capo alla business judgment rule (da ultimo, cfr. Cass. 8069/2024, cit., mentre in sede di merito, si può rinviare, in particolare, a Trib. Roma, 8.4.2020, cit.). In dottrina, tra i contributi più recenti (in aggiunta alla già ricordata riflessione di Rordorf): A. Bartalena, Assetti organizzativi e business judgment rule, in Società, 2020,1351; per una prospettazione diversa, si veda P. Montalenti, Il codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza: assetti organizzativi adeguati, rilevazione delle crisi, procedure di allerta nel quadro generale della riforma, in Giur. comm., 2020, I, 829; dello stesso A., Le riforme del codice civile: Assetti organizzativi societari, in La riforma delle procedure concorsuali, a cura di A. Jorio e R. Rosapepe, Milano 2021, 41. Altri contributi rilevanti sono quelli di: L. Benedetti, L’applicazione della business judgment rule alle decisioni organizzative: spunti giurisprudenziali, in Banca borsa, tit. cred., 2021, 284; nonché, in uno studio monografico del tema, E. Barcellona, Business judgment rule e interesse sociale nella crisi. L’adeguatezza degli assetti organizzativi alla luce della riforma del diritto concorsuale, Milano, 2020.
[32] 
Per tutti, S. Fortunato, Codice della crisi e Codice civile: impresa, assetti organizzativi e responsabilità, cit., 990.
[33] 
Può essere interessante, in tal senso, ricordare quanto afferma la Cassazione, nel senso che, se l’azienda non dispone di strutture adeguate a consentire il controllo e la prevenzione delle circostanze anomale, non può essere invocata la forza maggiore (si tratta della già citata Cass., ord. 28 settembre 2020, n. 20389, cit.).
[34] 
Si può rinviare ancora, per la particolare chiarezza della prospettazione aziendalistica, a S. Chiaruttini, Assetti organizzativi e business judgment rule, cit., 560 ss. 
[35] 
La problematica è, evidentemente, molto complessa e non caso è oggetto di studio anche nella prospettiva di behavioral economics, ove rileva quella che viene definita in termini di mala gestio cognitiva (da parte dei gestori dell’impresa): cfr. N. Usai, Economia comportamentale e diritto della crisi: il ruolo della “mala gestio cognitiva” nel ritardo nell’emersione delle difficoltà dell’impresa, in Riv. società, 2022, 1216 ss.
[36] 
Si veda l’avvincente e documentata ricostruzione storica di F. Di Marzio, in Il Fall., Storia di un’idea, Milano, 2018. 
[37] 
Per tutti, si veda il già ricordato contributo di S. Chiaruttini, Assetti organizzativi e business judgment rule, cit., ove gli ulteriori riferimenti bibliografici.
[38] 
Si tratta delle già ricordate decisioni di: Trib. Milano, 21.10.2019, cit.; Trib. Cagliari, 19.1.2022, cit.; ma soprattutto Trib. Benevento, 18.12.2019, in Ilcaso.it, che si cala nello spirito della riforma in itinere e dunque nella prospettiva dell’emersione tempestiva della crisi, alla stregua delle norme previste nel codice della crisi, per affermare: “nell’indagine del tema dell’insolvenza prospettica, va tenuto presente che le procedure vanno intese non per porre rimedio ex post a situazioni dannose, come ad esempio accade con le azioni revocatorie, bensì alla luce della loro evoluzione imposta dalle direttive europee, come strumenti di emersione tempestiva della crisi con lo scopo di ridurre al minimo l'impatto della stessa ed il pregiudizio delle ragioni creditorie. Invero – prosegue la motivazione -, la irreversibilità della crisi consiste sempre in una previsione negativa sulla possibilità che i creditori possano trovare integrale soddisfazione, in presenza, tuttavia, di un limbo, soventemente ricorrente, in cui la crisi non si manifesta con inadempimenti o altri fatti esteriori: diviene così importante capire quando si è di fronte alla c.d. insolvenza prospettica o ad una vera e propria crisi più o meno grave, tenendo presente che l’insolvenza prospettica non può che essere legata ad un orizzonte temporale molto contenuto, perché quanto più la prognosi è lontana nel tempo, tanto più si possono inserire nel meccanismo imprenditoriale fattori nuovi ed imprevedibili”. Il riferimento al codice della crisi consente così al Tribunale di affermare che “l’insolvenza prospettica assume rilevanza come situazione di pericolo che giustifica la segnalazione interna affidata all’organo di controllo o quella esterna affidata ai creditori istituzionali, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 14 e15. Finalità precipua infatti del nuovo costrutto normativo – prosegue la sentenza - è il risalto dato a tale condizione dell'impresa nell'ambito delle misure di allerta (cfr. artt. 12 e ss.), che ha lo scopo di adottare, tempestivamente, strumenti di prevenzione dell’insolvenza e non certo quello di consentire una indiscriminata declaratoria di fallimento (rectius, liquidazione giudiziale) di tutte le imprese che, in una prospettiva anche abbastanza prossima (sei mesi appunto), potrebbero non essere in grado di far fronte alle scadenze dei propri debiti”.
[39] 
Si ricorderà che, ad esempio, il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti ed esperti contabili ha redatto e pubblicato un documento ad hoc (per evidenziare appunto gli “indici di allerta”), caratterizzato da un analitica rappresentazione delle circostanze indicative del rischio di crisi; cfr. R. Della Santina, Indicatori ed indici della crisi nel sistema degli strumenti di allerta: l’interpretazione sistematica e di metodo offerta dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli esperti contabili, reperibile su Ilcaso.it, 2020.
[40] 
Si può rinviare al contributo di F. Di Marzio, Obbligazione, insolvenza, impresa, cit., 33, che correttamente vede nella continuità aziendale la stessa essenza dell’impresa; nonché G. Ivone, La continuità di impresa nella procedura di liquidazione giudiziale alla luce della delega n. 155 del 2017, in Giustiziacivile.com, 21.6.2018.
[41] 
Tra le molteplici ragioni - di solito, più d’una e in modo concorrente - vi saranno la crisi (se non la perdita) delle commesse e, più in generale, di ambiti di mercato, il venir meno di amministratori, dirigenti, agenti, ausiliari, così come di fornitori, ma anche (più semplicemente) l’ingresso sul mercato di concorrenti agguerriti, cui non si riesce a tenere testa, spesso per le rigidità organizzative e dunque la mancanza di abilità innovativa. Tutti eventi, quelli esemplificativamente indicati, che possono, a loro volta, avere cause diverse, di natura meramente economica, ma anche politico-sociale, cui l’imprenditore non è in grado di far fronte.
[42] 
Per un approfondimento, G. Domenichini, Ruolo del collegio sindacale nelle procedure di allerta, in Aa.Vv., La riforma delle procedure concorsuali, a cura di A. Jorio e R. Rosapepe, cit., 34.
[43] 
Si può ancora rinviare alle già ricordate decisioni tanto di Trib. Milano, 21.10.2019, cit., quanto della più recente di Trib. Cagliari, 19.1.2022.
[44] 
Per tutti, si vedano: D. Vattermoli, La posizione dei soci nelle ristrutturazioni, cit., 858; nonché R. Santagata, Assetti organizzativi adeguati e diritti particolari di ingerenza gestoria dei soci, in Riv. soc., 2021, 14.
[45] 
Si ricorderà come anche in ambito europeo, ossia con la già menzionata direttiva 1023/2019, si preveda che i soci e quanti abbiano comunque interessi nella società, non debbano impedire irragionevolmente le misure, come un piano di ristrutturazione del debito, idonee a garantire il recupero dell’attività d’impresa (art. 12 par. 1), nel rispetto del principio affidato all’espressione anglosassone della residual owner doctrine. Per riferimenti in dottrina, cfr. A. Nigro, La proposta di direttiva comunitaria in materia di disciplina della crisi delle imprese, cit., 201; L. Stanghellini, La proposta di direttiva UE in materia di insolvenza, cit. 873; G. Ferri jr, Il ruolo dei soci nella ristrutturazione finanziaria dell’impresa, alla luce della proposta di direttiva europea, cit., 542; S. Pacchi, La ristrutturazione dell’impresa come strumento per la continuità nella Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio 2019/1023, in Dir. fallim., 2019, 1259.
[46] 
G. D’Attorre, La continuità aziendale tra “scommessa” e “tradimento”, in Il Fall., 2024, 1049, spec. 1052 s., sulla questione specifica della responsabilità in capo agli amministratori.
[47] 
In argomento, per ulteriori considerazioni, si rinvia sempre a D’Attorre, La continuità aziendale tra “scommessa” e “tradimento”, cit., 1053 e 1055.
[48] 
In giurisprudenza, tra le più recenti, Cass. 16 febbraio 2023, n. 4849, reperibile nella banca dati Dejure, la cui massima recita: “all’amministratore di una società non può essere imputato a titolo di responsabilità ex art. 2392 c.c. di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico, poiché il giudizio sulla diligenza dell’amministratore nell’adempimento del proprio mandato non può mai investire le scelte di gestione (o le modalità e circostanze di tali scelte), anche se presentino profili di rilevante alea economica. In nessun caso, quindi, il giudice potrà sindacare il merito delle scelte imprenditoriali a meno che, se valutate ex ante, risultino manifestamente avventate ed imprudenti”.
[49] 
Nella prospettiva comparatistica, può essere utile l’approfondimento di M. Roth, Business Judgment Rule, in Max Planck Encyclopedia of European Private Law, in www.max-eup2012, il quale analizza il principio della business judgment rule e la sua applicazione nelle diverse realtà di common law e civil law, così sintetizzando la ratio comune all’introduzione del detto principio nei diversi ordinamenti: “There are numerous arguments for granting this safe harbour from liability: the danger of a judicial determination on the results of a business decision made at a time of uncertainty (hindsight bias), the greater expertise of the company directors in relation to judges, the related principle of judicial self-restraint, encouraging capable persons to assume the position of director, the efficiency of shielding ‘honest decisions’ from judicial review, the protection of risky decisions with the opportunities of high returns, the need to decide under time pressure and the protection of the internal organization of the company’s management. Apart from the protection of the acting board members, the directors’ safe harbour from liability corresponds with the interests of shareholders and provides sufficient entrepreneurial freedom for corporations”.
[50] 
In altri termini, non sussiste – in quanto sarebbe, in sostanza, irragionevole - un obbligo di raggiungere un determinato successo economico, dal momento che l’unico dovere incombente sull’amministratore è quello di gestire l’impresa agendo con la dovuta diligenza (secondo il tradizionale paradigma dell’obbligazione di mezzi). Il principio è pacifico, ed è stato affermato già in tempi risalenti dalla giurisprudenza di legittimità, potendosi richiamare, tra le altre, Cass. 28 aprile 1997, n. 3652, in Società, 1997, 12, con nota di Figon, la cui massima recita: “all’amministratore di una società non può essere imputato a titolo di responsabilità ex art. 2392 c.c. di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico, atteso che una tale valutazione attiene alla discrezionalità imprenditoriale e può pertanto eventualmente rilevare come giusta causa di revoca dell’amministratore, non come fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della società. Ne consegue che il giudizio sulla diligenza dell'amministratore nell’adempimento del proprio mandato non può mai investire le scelte di gestione (o le modalità e circostanze di tali scelte), ma solo l’omissione di quelle cautele, verifiche e informazioni preventive normalmente richieste per una scelta di quel tipo, operata in quelle circostanze e con quelle modalità”.
[51] 
Tra gli autori che affermano l’inapplicabilità della business judgment rule alla disciplina degli assetti adeguati, si ricorda il già richiamato contributo di P. Montalenti, Il codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza: assetti organizzativi adeguati, rilevazione delle crisi, procedure di allerta nel quadro generale della riforma, cit., nonché A. M. Benedetti, Gli «assetti organizzativi adeguati» tra principi e clausole generali. Appunti sul nuovo art. 2086 c.c., in Riv. soc., 2023, 964 ss. Si veda anche lo studio di L. Benedetti, Gli assetti adeguati e la business judgment rule, in Riv. Corporate Governance, fasc. 3, 2022.
[52] 
In tal senso, P. Montalenti, Il codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza: assetti organizzativi adeguati, cit., 11, pur riconoscendo l’ampiezza del margine di discrezionalità tecnica lasciato all’imprenditore, con la conseguenza che, evidentemente, la valutazione del giudice non può che tener conto delle componenti variabili afferenti alla singola attività imprenditoriale (tra cui rilevano, a titolo esemplificativo, le dimensioni della stessa impresa, la tipologia del mercato di riferimento e le strutture operative), afferma che la clausola generale di adeguatezza cristallizzata nell’art. 2086, comma 2, c.c., è fonte di un obbligo legale preciso. Secondo l’A. “non si tratta dunque di una scelta “pura” di mercato ascritta all’area dell’imponderabile rischio d’impresa”, sicché le modalità operative di attuazione dell’obbligo di predisposizione dell’assetto adeguato non potrebbero rappresentare, come da altri sostenuto, una decisione insindacabile.
[53] 
Tra le voci favorevoli all’ampliamento della sfera d’insindacabilità delle decisioni volte ad attuare il dovere degli amministratori di dotare la società di assetti organizzativi adeguati alla struttura aziendale, cfr. L. Benedetti, L’applicabilità della business judgment rule alle decisioni organizzative degli amministratori, in Riv. soc., 2019, 425. In giurisprudenza, oltre alle già richiamate decisioni Trib. Milano (21 ottobre 2019) e Trib. Roma (8 aprile 2020), che per prime hanno affrontato il rapporto tra la norma di cui all’art. 2086, comma 2, c.c. e la business judgment rule, può richiamarsi la recente Trib. Catania, 8 febbraio 2023, in Il Fall., 2023, 6, 817, con nota di P. Benazzo, la cui massima recita: “la carenza assoluta di assetti organizzativi adeguati, nel sottrarsi ai limiti di sindacabilità delle scelte gestorie, costituisce un grave inadempimento degli obblighi gravanti in capo all'organo amministrativo, la quale configura una grave irregolarità, potenzialmente dannosa per la società e gli interessi dei creditori sociali, ai sensi e per gli effetti dell'art. 2409 c.c. con la conseguente necessità di adozione del provvedimento di revoca dell'organo amministrativo e di nomina di amministratore giudiziario”.
[54] 
A tal fine, può essere utile la semplificazione offerta da A. Bartalena, Assetti organizzativi e business judgment rule, cit., 1351, il quale, nel commentare la nota ordinanza emessa nel 2020 dal Tribunale di Roma, ribadisce che la valutazione in ordine al quomodo, nonché all’an di istituzione di un determinato assetto organizzativo rappresenta una scelta discrezionale degli amministratori, in quanto tale coperta dalla business judgment rule, a condizione tuttavia che “sia stata assunta con cognizione di causa, sulla base di un’adeguata istruttoria (supportata, se del caso, dalla consulenza di esperti della materia) e non sia palesemente irrazionale (o irragionevole)”.
[55] 
Sul punto, V. Calandra Buonaura, Corretta amministrazione e adeguatezza degli assetti organizzativi nella Società per azioni, cit., ritiene applicabile la business judgment rule, in quanto “affermare che la clausola generale di adeguatezza, in quanto prevista dalla legge e soggetta a vigilanza da parte dell’organo di controllo, esclude la discrezionalità delle decisioni organizzative equivale a sostenere che la clausola generale di “correttezza dell'amministrazione”, anch’essa prevista dalla legge e soggetta alla vigilanza sindacale, elimina la discrezionalità delle scelte di gestione. In realtà, come si desume anche dall’applicazione che ne viene proposta dalla giurisprudenza d’oltre atlantico, l’esigenza da cui muove la business judgment rule, di evitare che tramite un sindacato di merito si chiamino gli amministratori a rispondere del risultato della gestione tramite una valutazione ex post che penalizzi la capacità innovativa e la propensione al rischio dell’imprenditore, si manifesta anche con riguardo alle decisioni organizzative”.
[56] 
Sul punto, la già richiamata ordinanza resa dal Trib. Roma, 8 aprile 2020, sottolinea che “la scelta di gestione è insindacabile, in primo luogo, solo se essa è stata legittimamente compiuta (sindacato sul modo in cui la scelta è stata assunta) e, sotto altro aspetto, solo se non è irrazionale (sindacato sulle ragioni per cui la scelta compiuta è stata preferita ad altre)”, ribadendo l’insindacabilità della decisione organizzativa, a condizione che la stessa non sia ab origine connotata da imprudenza in relazione al contesto e sia stata assunta nel rispetto della diligenza richiesta dalla natura dell’incarico.
[57] 
Nonostante qualche opinione contraria, allo stato minoritaria, come quella di A. Rossi, Dagli assetti organizzativi alla responsabilità degli organi sociali nel Codice della crisi (Appunti per una lezione), in Dirittodellacrisi.it, p. 10, secondo il quale l’affermazione che la mancata adozione di qualsivoglia misura organizzativa sarebbe sempre imputabile agli organi amministrativi, non potrebbe mai valere in termini assoluti, atteso che “il rispetto in sé delle regole poste a presidio del funzionamento delle società di capitali impedisce che queste possano essere prive di “qualsivoglia misura organizzativa”, condizione che implicherebbe di per sé la violazione di altre inderogabili regole, quali quelle riguardanti la tipica organizzazione societaria ovvero la tenuta delle minime scritture contabili (sì che la responsabilità degli organi sociali deriverebbe in tal caso dalla violazione di queste inderogabili regole, non dall’inesistenza/inadeguatezza degli assetti organizzativi)”.
[58] 
Per un’analisi del rapporto tra gli obblighi di predisposizione degli assetti organizzativi adeguati di cui all’art. 2086, comma 2, c.c. e l’impresa bancaria, si veda il contributo di F. Scannicchio, Il “Recovery Plan” delle banche: doveri e responsabilità degli amministratori, in Atti del convegno tenuto a Venezia, 10 e 11 novembre 2023, per i settant’anni della Rivista delle società, dedicato “La s.p.a. nell’epoca della sostenibilità e della transizione tecnologica”, in corso di pubblicazione.
[59] 
Senza dire del rafforzamento della disciplina relativa agli obblighi di rendicontazione di sostenibilità, in chiave di tendenze (di politica del diritto, anche alla luce dell’art. 41 Cost.) e procedure intese a garantire l’adeguatezza degli assetti, alla stregua dei c.d. fattori ESG (ambientali, sociali e di governance), così da (tentare, se non altro, di) migliorare la gestione dei rischi (come le crisi ambientali e reputazionali), la performance in generale, come valore a lungo termine, e infine l’accesso al credito (grazie anche al rating ESG). Il riferimento normativo fa capo al D.Lgs. 6 settembre 2024, n. 125 (in attuazione della direttiva 2022/2464/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 14 dicembre 2022, recante modifica del regolamento 537/2014/UE, della direttiva 2004/109/CE, della direttiva 2006/43/CE e della direttiva 2013/34/UE per quanto riguarda la rendicontazione societaria di sostenibilità).
[60] 
In tal senso, cfr. anche M. Fabiani, Sistema, principi e regole del diritto della crisi d’impresa, cit., 533 s.
[61] 
Da ultimo, sulle diverse problematiche, si può rinviare a M. Fabiani, Sistema, principi e regole del diritto della crisi d’impresa, cit., 533 ss.
[62] 
M. Fabiani, Perdita di valore dell’impresa, responsabilità degli organi sociali e il pernicioso “abbaglio” dei netti patrimoniali, cit.
[63] 
M. Fabiani, Sistema, principi e regole del diritto della crisi d’impresa, cit., 537.
[64] 
Sul punto, tra gli studi più recenti, può richiamarsi S. Delle Monache, Il nesso di causalità e il danno: profili generali, in Crisi d’impresa e responsabilità nelle società di capitali, a cura di L. Balestra e M. Martino, Milano, 2022, 436, il quale afferma che “l’ingiustizia del danno si realizza, qui, in via mediata, per il tramite della violazione di un obbligo che sull’amministratore responsabile grava non verso il creditore danneggiato, ma verso la società medesima”.
[65] 
Tra i sostenitori della natura contrattuale della responsabilità dell’organo gestorio nei confronti dei creditori sociali, sulla base dell’assunto secondo il quale l’amministratore violerebbe obblighi preesistenti, mentre la fonte delle obbligazioni è senz’altro la legge, sicché è corretto rilevare che “il diritto del creditore alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale è violato nel momento in cui l’amministratore contravviene ai propri doveri”, mentre per altro verso la valorizzazione delle (nuove) norme di cui agli artt. 4 e 21 CCII, relativamente alle condotte dovute nella gestione in caso d’insolvenza, conduce a porre “l’interesse dei creditori come prioritario punto di riferimento”: così M. Fabiani, Sistema, principi e regole del diritto della crisi d’impresa, cit., 536 s.; nonché Id., Le azioni di responsabilità verso gli organi sociali dopo il codice della crisi, in M. Arato, G. D’Attorre, M. Fabiani, Le nuove regole societarie dopo il codice della crisi e dell’insolvenza, Torino, 2020, 63 ss.; nonché G. Cavalli, Il fallimento delle società, in Trattato delle procedure concorsuali, diretto da A. Jorio e B. Sassani, I, Milano, 2014, 265 ss.; M. Aiello, La responsabilità degli amministratori e dei soci nelle s.r.l., Bologna, 2013, 297.
[66] 
M. Fabiani, Sistema, principi e regole del diritto della crisi d’impresa, cit., 540.
[67] 
L. Calvosa, La prescrizione dell’azione sociale di responsabilità nei confronti di amministratori e sindaci di società per azioni, in Società, banche e crisi d’impresa, Liber amicorum Abbadessa, 3, Torino, 2014, 935 ss.; U. De Crescenzo, La responsabilità, in Le nuove s.p.a., Trattato, diretto da O. Cagnasso e L Panzani, IV, Bologna, 2012, 182 ss.; S. Ambrosini, Il termine per l’esercizio delle azioni di responsabilità, in La responsabilità di amministratori, sindaci e revisori contabili, a cura di S. Ambrosini, Milano, 2007, 213 ss.
[68] 
In tal senso si è pronunciata Cass. 11 ottobre 2016, n. 18529, nonché Cass. 20 settembre 2019, n. 23452.
[69] 
Sotto il primo profilo, si veda C. Picciau, in Amministratori, a cura di F. Ghezzi, Artt. 2380-2396 c.c., Commentario alla riforma delle società, diretto da P.G. Marchetti, L.A. Bianchi, F. Ghezzi, M. Notari, Milano, 2005, 592 ss. Per un approfondimento sul termine prescrizionale dell’azione di responsabilità sociale si veda S. Delle Monache, Azione di responsabilità e sospensione del termine prescrizionale, in Giustiziacivile.com, 2020.
[70] 
La questione è connessa alla differente natura giuridica dell’azione sociale di responsabilità (di natura contrattuale) rispetto all’azione dei creditori sociali (il cui titolo di responsabilità è extra-contrattuale). Mentre la risarcibilità della pura perdita patrimoniale è pacificamente prevista nel primo caso, in dottrina è possibile rinvenire un acceso dibattito con riferimento alla responsabilità aquiliana, in relazione alla quale l’elemento dell’ingiustizia del danno dovrebbe necessariamente essere inteso in termini di lesione di una situazione giuridica protetta. Per un significativo approfondimento, cfr. M. Maggiolo, Il risarcimento della pura perdita patrimoniale, Milano, 2003, 7 ss. 
[71] 
S. Delle Monache, Il nesso di causalità e il danno, cit., 450; G. Alpa, Trattato di diritto civile. IV. La responsabilità civile, Milano, 1999, 351 ss.
[72] 
R. Campione, L’accertamento del nesso eziologico, in Giur. comm., I, 2017, 106 ss.; Id., L’accertamento del nesso di causalità, in Crisi d’impresa e responsabilità nelle società di capitali, cit., 471 ss.; sempre in tema di determinazione del danno risarcibile, cfr. A. Patti, Il danno e la sua quantificazione nell’azione di responsabilità contro gli amministratori, in Giur. comm., 1997, I, 81 ss.
[73] 
Per gli approfondimenti in ambito probatorio: I. Pagni, Onere di allegazione e onere della prova nelle azioni di responsabilità, in Riv. dir. comm., 2016, I, 603; R. Campione, L’accertamento del nesso eziologico, cit., 97; nonché, più di recente e in termini generali: L. Nonne, Prova e giudizio di causalità, in Il regime probatorio nel giudizio sulla responsabilità da inadempimento, a cura di M. Maggiolo, Milano, 2022, 631.
[74] 
Tale formulazione dell’art. 2486, comma 3, c.c. costituisce com’è noto l’approdo di un lungo percorso evolutivo, da parte della giurisprudenza, culminato con la pronuncia nell’autorevole composizione a Sezioni Unite n. 9100/2015. Sul tema, conviene rinviare alla chiara ed esauriente trattazione, da ultimo, di M. Fabiani, Sistema, principi e regole del diritto della crisi d’impresa, cit., 540 s., ove si sottolinea, del tutto correttamente, la distinzione tra “responsabilità da atti” (quando il danno attiene a singole condotte ed eventi lesivi) e “responsabilità da attività” (supra, n. 2, nella classica fattispecie dell’amministratore che prosegua l’esercizio dell’impresa, in presenza di una causa di scioglimento, ma analogamente potrebbe ragionarsi nel caso in cui non si adottino tempestivamente le misure per gestire la crisi e/o l’insolvenza, mediante il ricorso a uno degli strumenti previsti e disciplinati dal codice: supra, n. 3, lett. c).
[75] 
Si vedano, in argomento: L. Panzani, Responsabilità degli amministratori: rapporto di causalità tra mala gestio e danno. Lo stato della giurisprudenza, in Il Fall., 1989, 980; M. Spiotta, L’atteso chiarimento delle Sezioni Unite sull’utilizzabilità del criterio del deficit, in Giur. it., 2015, 1413; D. Galletti, Brevi note sull’uso del criterio dei netti patrimoniali di periodo nelle azioni di responsabilità, in Ilcaso.it; A. Jorio, La determinazione del danno risarcibile nelle azioni di responsabilità, in Giur. comm., 2011, 149.
[76] 
Sul punto, può richiamarsi l’interessante approfondimento di S. Delle Monache, Il nesso di causalità e il danno, cit., 459, ove un intero paragrafo è dedicato alle c.d. “violazioni senza danno”. 
[77] 
La problematica è avvertita anche da S. Delle Monache, Il nesso di causalità e il danno, cit., 458.
[78] 
Il richiamo è, ancora una volta, a S. Delle Monache, Il nesso di causalità e il danno, cit., 545. Il tema è stato trattato, tra gli altri, da C. D’Alessandro, La transazione del condebitore solidale, Milano, 2012; E. Del Prato, Sulla transazione del debitore in soldo, in Riv. dir. priv., 2009, 58 ss.; G. Cerdonio Chiaromonte, Transazione e solidarietà, Padova, 2002; in precedenza, A. Di Majo, Delle obbligazioni in generale, in Comm. Scialoja Branca, diretto da F. Galgano, Bologna, 1988; A. Cannata, Le obbligazioni in generale, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, 9, Torino, 1984, 3; M. Costanza, Obbligazioni solidali e transazione, Milano, 1978; U. Salvestroni, Solidarietà d’interessi e d’obbligazione, Padova, 1974. 
[79] 
La considerazione appena svolta, unitamente ad altri elementi, come la convenienza per il ceto creditorio di una definizione transattiva (anche in termini di capienza patrimoniale del convenuto), rendono la conclusione della transazione una scelta preferenziale anche nell’ambito del concordato preventivo, nel rispetto dell’art. 94, comma 3, CCII. Sul punto, per tutti, si può rinviare a N. Abriani, Le azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori di società di capitali, in Responsabilità societarie e assicurazione, a cura di P. Montalenti, Milano, 2009, 11 ss.
[80] 
Tale affermazione troverebbe fondamento, secondo F. Carresi, La transazione, in Trattato Vassalli, Torino, 1966, 185, nell’assunto per cui la transazione non potrebbe che avere ad oggetto l’intera obbligazione. Diversamente, ad avviso di M. Costanza, Obbligazioni solidali e transazione, cit., 57, l’inconcepibilità di una transazione pro quota deriverebbe dalla impossibilità di determinare l’esatta quantificazione della singola quota.
[81] 
In giurisprudenza, ex multis, Cass. 6 luglio 2020, n. 13877, reperibile sulla banca dati Dejure, la cui massima recita: “L’art. 1304, comma 1, c.c. si riferisce unicamente alla transazione che abbia ad oggetto l'intero debito e non la sola quota del debitore con il quale è stipulata, poiché è la comunanza dell'oggetto della transazione che comporta, in deroga al principio secondo cui il contratto produce effetti solo tra le parti, la possibilità per il condebitore solidale di avvalersene, pur non avendo partecipato alla sua stipulazione. Se, invece, la transazione tra il creditore ed uno dei condebitori solidali ha avuto ad oggetto esclusivamente la quota del condebitore che l'ha conclusa, occorre distinguere: qualora il condebitore che ha transatto abbia versato una somma pari o superiore alla sua quota ideale di debito, il residuo debito gravante sugli altri debitori in solido si riduce in misura corrispondente all'importo pagato; ove il pagamento sia stato inferiore, il debito residuo degli altri coobbligati deve essere ridotto in misura pari alla quota di chi ha transatto”; in senso conforme: Cass. 3 marzo 2011, n. 5108, in Giust. civ. Mass. 2011, 3, 341; Cass. 8 luglio 2009, n. 16050, in Giust. civ. Mass. 2009, 7-8, 1064; Cass. 22 giugno 2009, n. 14550, in Giust. civ. Mass. 2009, 6, 956; Cass. 18 aprile 2006, n. 8946, in Contratti, 2007, 1, 10, con nota di E. Vaglio. In dottrina, tra gli studi più significativi: D. Rubino, Obbligazioni alternative. Obbligazioni in solido. Obbligazioni divisibili e indivisibili, in Commentario Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1963, 278 ss.; M. Costanza, Obbligazioni solidali e transazione, cit., 54; E. A. Emiliozzi, Obbligazioni alternative, in solido, divisibili e indivisibili, in Commentario Scialoja-Branca-Galgano, a cura di De Nova, Bologna, 2019, 487 ss.

informativa sul trattamento dei dati personali

Articoli 12 e ss. del Regolamento (UE) 2016/679 (GDPR)

Premessa - In questa pagina vengono descritte le modalità di gestione del sito con riferimento al trattamento dei dati personali degli utenti che lo consultano.

Finalità del trattamento cui sono destinati i dati personali - Per tutti gli utenti del sito web i dati personali potranno essere utilizzati per:

  • - permettere la navigazione attraverso le pagine web pubbliche del sito web;
  • - controllare il corretto funzionamento del sito web.

COOKIES

Che cosa sono i cookies - I cookie sono piccoli file di testo che possono essere utilizzati dai siti web per rendere più efficiente l'esperienza per l'utente.

Tipologie di cookies - Si informa che navigando nel sito saranno scaricati cookie definiti tecnici, ossia:

- cookie di autenticazione utilizzati nella misura strettamente necessaria al fornitore a erogare un servizio esplicitamente richiesto dall'utente;

- cookie di terze parti, funzionali a:

PROTEZIONE SPAM

Google reCAPTCHA (Google Inc.)

Google reCAPTCHA è un servizio di protezione dallo SPAM fornito da Google Inc. Questo tipo di servizio analizza il traffico di questa Applicazione, potenzialmente contenente Dati Personali degli Utenti, al fine di filtrarlo da parti di traffico, messaggi e contenuti riconosciuti come SPAM.

Dati Personali raccolti: Cookie e Dati di Utilizzo secondo quanto specificato dalla privacy policy del servizio.

Privacy Policy

VISUALIZZAZIONE DI CONTENUTI DA PIATTAFORME ESTERNE

Questo tipo di servizi permette di visualizzare contenuti ospitati su piattaforme esterne direttamente dalle pagine di questa Applicazione e di interagire con essi.

Nel caso in cui sia installato un servizio di questo tipo, è possibile che, anche nel caso gli Utenti non utilizzino il servizio, lo stesso raccolga dati di traffico relativi alle pagine in cui è installato.

Widget Google Maps (Google Inc.)

Google Maps è un servizio di visualizzazione di mappe gestito da Google Inc. che permette a questa Applicazione di integrare tali contenuti all'interno delle proprie pagine.

Dati Personali raccolti: Cookie e Dati di Utilizzo.

Privacy Policy

Google Fonts (Google Inc.)

Google Fonts è un servizio di visualizzazione di stili di carattere gestito da Google Inc. che permette a questa Applicazione di integrare tali contenuti all'interno delle proprie pagine.

Dati Personali raccolti: Dati di Utilizzo e varie tipologie di Dati secondo quanto specificato dalla privacy policy del servizio.

Privacy Policy

Come disabilitare i cookies - Gli utenti hanno la possibilità di rimuovere i cookie in qualsiasi momento attraverso le impostazioni del browser.
I cookies memorizzati sul disco fisso del tuo dispositivo possono comunque essere cancellati ed è inoltre possibile disabilitare i cookies seguendo le indicazioni fornite dai principali browser, ai link seguenti:

Base giuridica del trattamento - Il presente sito internet tratta i dati in base al consenso. Con l'uso o la consultazione del presente sito internet l’interessato acconsente implicitamente alla possibilità di memorizzare solo i cookie strettamente necessari (di seguito “cookie tecnici”) per il funzionamento di questo sito.

Dati personali raccolti e natura obbligatoria o facoltativa del conferimento dei dati e conseguenze di un eventuale rifiuto - Come tutti i siti web anche il presente sito fa uso di log file, nei quali vengono conservate informazioni raccolte in maniera automatizzata durante le visite degli utenti. Le informazioni raccolte potrebbero essere le seguenti:

  • - indirizzo internet protocollo (IP);
  • - tipo di browser e parametri del dispositivo usato per connettersi al sito;
  • - nome dell'internet service provider (ISP);
  • - data e orario di visita;
  • - pagina web di provenienza del visitatore (referral) e di uscita;

Le suddette informazioni sono trattate in forma automatizzata e raccolte al fine di verificare il corretto funzionamento del sito e per motivi di sicurezza.

Ai fini di sicurezza (filtri antispam, firewall, rilevazione virus), i dati registrati automaticamente possono eventualmente comprendere anche dati personali come l'indirizzo IP, che potrebbe essere utilizzato, conformemente alle leggi vigenti in materia, al fine di bloccare tentativi di danneggiamento al sito medesimo o di recare danno ad altri utenti, o comunque attività dannose o costituenti reato. Tali dati non sono mai utilizzati per l'identificazione o la profilazione dell'utente, ma solo a fini di tutela del sito e dei suoi utenti.

I sistemi informatici e le procedure software preposte al funzionamento di questo sito web acquisiscono, nel corso del loro normale esercizio, alcuni dati personali la cui trasmissione è implicita nell'uso dei protocolli di comunicazione di Internet. In questa categoria di dati rientrano gli indirizzi IP, gli indirizzi in notazione URI (Uniform Resource Identifier) delle risorse richieste, l'orario della richiesta, il metodo utilizzato nel sottoporre la richiesta al server, la dimensione del file ottenuto in risposta, il codice numerico indicante lo stato della risposta data dal server (buon fine, errore, ecc.) ed altri parametri relativi al sistema operativo dell'utente.

Tempi di conservazione dei Suoi dati - I dati personali raccolti durante la navigazione saranno conservati per il tempo necessario a svolgere le attività precisate e non oltre 24 mesi.

Modalità del trattamento - Ai sensi e per gli effetti degli artt. 12 e ss. del GDPR, i dati personali degli interessati saranno registrati, trattati e conservati presso gli archivi elettronici delle Società, adottando misure tecniche e organizzative volte alla tutela dei dati stessi. Il trattamento dei dati personali degli interessati può consistere in qualunque operazione o complesso di operazioni tra quelle indicate all' art. 4, comma 1, punto 2 del GDPR.

Comunicazione e diffusione - I dati personali dell’interessato potranno essere comunicati, intendendosi con tale termine il darne conoscenza ad uno o più soggetti determinati, dalla Società a terzi per dare attuazione a tutti i necessari adempimenti di legge. In particolare i dati personali dell’interessato potranno essere comunicati a Enti o Uffici Pubblici o autorità di controllo in funzione degli obblighi di legge.

I dati personali dell’interessato potranno essere comunicati nei seguenti termini:

  • - a soggetti che possono accedere ai dati in forza di disposizione di legge, di regolamento o di normativa comunitaria, nei limiti previsti da tali norme;
  • - a soggetti che hanno necessità di accedere ai dati per finalità ausiliare al rapporto che intercorre tra l’interessato e la Società, nei limiti strettamente necessari per svolgere i compiti ausiliari.

Diritti dell’interessato - Ai sensi degli artt. 15 e ss GDPR, l’interessato potrà esercitare i seguenti diritti:

  • 1. accesso: conferma o meno che sia in corso un trattamento dei dati personali dell’interessato e diritto di accesso agli stessi; non è possibile rispondere a richieste manifestamente infondate, eccessive o ripetitive;
  • 2. rettifica: correggere/ottenere la correzione dei dati personali se errati o obsoleti e di completarli, se incompleti;
  • 3. cancellazione/oblio: ottenere, in alcuni casi, la cancellazione dei dati personali forniti; questo non è un diritto assoluto, in quanto le Società potrebbero avere motivi legittimi o legali per conservarli;
  • 4. limitazione: i dati saranno archiviati, ma non potranno essere né trattati, né elaborati ulteriormente, nei casi previsti dalla normativa;
  • 5. portabilità: spostare, copiare o trasferire i dati dai database delle Società a terzi. Questo vale solo per i dati forniti dall’interessato per l’esecuzione di un contratto o per i quali è stato fornito consenso e espresso e il trattamento viene eseguito con mezzi automatizzati;
  • 6. opposizione al marketing diretto;
  • 7. revoca del consenso in qualsiasi momento, qualora il trattamento si basi sul consenso.

Ai sensi dell’art. 2-undicies del D.Lgs. 196/2003 l’esercizio dei diritti dell’interessato può essere ritardato, limitato o escluso, con comunicazione motivata e resa senza ritardo, a meno che la comunicazione possa compromettere la finalità della limitazione, per il tempo e nei limiti in cui ciò costituisca una misura necessaria e proporzionata, tenuto conto dei diritti fondamentali e dei legittimi interessi dell’interessato, al fine di salvaguardare gli interessi di cui al comma 1, lettere a) (interessi tutelati in materia di riciclaggio), e) (allo svolgimento delle investigazioni difensive o all’esercizio di un diritto in sede giudiziaria)ed f) (alla riservatezza dell’identità del dipendente che segnala illeciti di cui sia venuto a conoscenza in ragione del proprio ufficio). In tali casi, i diritti dell’interessato possono essere esercitati anche tramite il Garante con le modalità di cui all’articolo 160 dello stesso Decreto. In tale ipotesi, il Garante informerà l’interessato di aver eseguito tutte le verifiche necessarie o di aver svolto un riesame nonché della facoltà dell’interessato di proporre ricorso giurisdizionale.

Per esercitare tali diritti potrà rivolgersi alla nostra Struttura "Titolare del trattamento dei dati personali" all'indirizzo ssdirittodellacrisi@gmail.com oppure inviando una missiva a Società per lo studio del diritto della crisi via Principe Amedeo, 27, 46100 - Mantova (MN). Il Titolare Le risponderà entro 30 giorni dalla ricezione della Sua richiesta formale.

Dati di contatto - Società per lo studio del diritto della crisi con sede in via Principe Amedeo, 27, 46100 - Mantova (MN); email: ssdirittodellacrisi@gmail.com.

Responsabile della protezione dei dati - Il Responsabile della protezione dei dati non è stato nominato perché non ricorrono i presupposti di cui all’art 37 del Regolamento (UE) 2016/679.

Il TITOLARE

del trattamento dei dati personali

Società per lo studio del diritto della crisi

REV 02