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Saggio

La fase dell’esecuzione e le patologie nelle procedure di accordo di composizione della crisi e piano del consumatore

Pasquale Russolillo, Giudice delegato nel Tribunale di Avellino

24 Giugno 2021

L’A. affronta funditus la tematica dell’esecuzione delle procedure ristrutturatorie da sovraindebitamento, ponendone in luce gli snodi cruciali e adombrandone le criticità. Con riferimento ai punti oscuri della disciplina sono offerte possibili chiavi di lettura.
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1 . Premessa
Il presente lavoro è stato presentato in occasione del corso di formazione tenutosi presso la Scuola Superiore della Magistratura in data 24-26 maggio 2021 sul tema “Crisi da sovraindebitamento: la disciplina attuale, l’impatto economico conseguente all’emergenza sanitaria e la riforma contenuta nel ccii” ed è dedicato all’analisi degli istituti della fase esecutiva e delle patologie delle procedure di sovraindebitamento diverse dalla liquidazione del patrimonio. 
La disciplina della fase esecutiva dell’accordo e del piano del consumatore omologati è estremamente succinta, e pertanto lascia insolute numerose questioni che solo in parte possono essere affrontate applicando analogicamente la normativa in materia di concordato preventivo.
Molti sono infatti gli aspetti peculiari delle procedure di sovraindebitamento in cui si intersecano e confondono istituti propri del diritto dei contratti ed istituti invece tipicamente concorsuali.
La commistione delle discipline incide e non poco anche sulla regolamentazione, invero assai più ampia, delle patologie che possono verificarsi nella fase di adempimento della proposta, in cui il legislatore, con scelta foriera di confusioni applicative, ha distinto anche nominalmente una molteplicità di strumenti di tutela dei creditori: risoluzione per impossibilità sopravvenuta dell’accordo; risoluzione per inadempimento dell’accordo; annullamento dell’accordo; cessazione degli effetti dell’accordo e del piano del consumatore per mancato pagamento di crediti qualificati o impignorabili; revoca degli effetti dell’omologa del piano del consumatore; cessazione degli effetti dell’omologa del piano del consumatore per inadempimento non imputabile; cessazione degli effetti dell’omologa del piano del consumatore per inadempimento imputabile.
La successiva esposizione, oltre a raccogliere i pochi precedenti giurisprudenziali editi in materia di esecuzione e patologie delle procedure di sovraindebitamento, si propone di dare un quadro sistematico e dunque più facilmente padroneggiabile dell’intera materia, con uno sguardo sempre attento alle novità che, quando in vigore, saranno introdotte dal Codice della Crisi.
2 . Disciplina della fase esecutiva dell’accordo e del piano del consumatore
La disciplina dell’esecuzione dell’accordo e del piano del consumatore è compendiata in un unico articolo della l. 27 gennaio 2012, n. 3 (d’ora innanzi l.s.) comune alle due procedure: l’art. 13.
La struttura della dell’articolo citato è la seguente:
co. 1: casi di nomina, requisiti e funzioni del liquidatore giudiziale;
co. 2: ruolo dell’Organismo di Composizione della Crisi (d’ora innanzi OCC) e del giudice delegato;
co. 3: poteri del giudice delegato relativi allo svincolo delle somme ricavate dalla liquidazione, alla cancellazione della formalità pregiudizievoli iscritte o trascritte sui beni liquidati, alla sospensione degli atti di esecuzione dell’accordo per gravi e giustificati motivi;
co. 4: inefficacia di pagamenti e atti dispositivi posti in essere dal debitore in violazione dell’accordo o del piano del consumatore rispetto ai creditori anteriori;
co. 4bis: prededucibilità dei crediti, compresi quelli relativi all’assistenza dei professionisti, sorti in occasione o in funzione delle procedure di sovraindebitamento;
co. 4-ter: modifica della proposta in caso di impossibilità sopravvenuta di esecuzione dell’accordo o del piano per ragioni non imputabili al debitore.
Non si tratta invero di disposizioni esaustive della disciplina in esame, atteso che tracce della regolamentazione della fase esecutiva sono rinvenibili in altre parti della medesima legge, e segnatamente:
art. 7 co. 1 terzo e quarto periodo: casi di nomina, requisiti e funzioni del gestore della liquidazione;
art. 8 co. 3: limitazioni all’accesso del proponente l’accordo al mercato del credito al consumo, all’utilizzo degli strumenti di pagamento elettronico a credito e alla sottoscrizione di strumenti creditizi e finanziari;
art. 8 co. 4: moratoria fino ad un anno dall’omologazione per il pagamento dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca quando i beni oggetto della causa di prelazione non siano destinati alla liquidazione;
art. 10 co. 2 lett. b) ed analogo art. 12 co. 3 secondo periodo: ordine di trascrizione del decreto di fissazione dell’udienza di omologa dell’accordo e del decreto di omologa del piano del consumatore su beni immobili e mobili registrati, dei quali sia prevista la liquidazione o l’affidamento a terzi, a cura dell’OCC presso gli uffici competenti;
art. 10 co. 5 e analogo art. 12 bis co. 7: equiparazione del decreto di fissazione dell’udienza di omologa dell’accordo e del decreto di omologa del piano del consumatore all’atto di pignoramento;
art. 12 co. 3 e analogo art. 12 ter co. 2 secondo periodo: divieto di azioni esecutive sui beni oggetto del piano per i creditori con causa o titolo posteriore all’accordo e al piano del consumatore;
art. 12 co. 5: esenzione dall’azione revocatoria fallimentare per atti, pagamenti e garanzie posti in essere in esecuzione dell’accordo e prededucibilità dei crediti derivanti da finanziamenti effettuati in esecuzione dell’accordo omologato; 
art. 12 ter co. 1: divieto di azioni esecutive e cautelari e di acquisto di diritti di prelazione sul patrimonio del debitore per i creditori anteriori all’omologa del piano del consumatore;
art. 14 duodecies co. 2: prededucibilità dei crediti sorti in occasione o in funzione delle procedure negoziali di sovraindebitamento nella successiva liquidazione del patrimonio.
Anche la semplice lettura del superiore elenco rende l’idea di una disciplina estremamente frastagliata e spesso incomprensibilmente lacunosa, come ad esempio nella parte in cui sancisce l’inibitoria al compimento di azioni esecutive nella fase post omologa esclusivamente riguardo alla procedura di piano del consumatore e non di accordo, ovvero la possibile nomina del gestore della liquidazione ed il possibile limite all’uso di carte di credito o alla sottoscrizione di strumenti finanziari per il solo accordo e non per il piano del consumatore, differenze tanto più inspiegabili ove si consideri che allo stato il debitore che rientri nella definizione di consumatore può accedere ad entrambe le modalità di regolazione della crisi da sovraindebitamento.
Molti dei vuoti normativi sono stati colmati dalla giurisprudenza ricorrendo ad analoghi istituti previsti dalla disciplina delle procedure concorsuali maggiori, in particolare il concordato preventivo, che presenta numerose affinità non solo con l’accordo di composizione della crisi, ma anche con il piano del consumatore.
Non possono del resto nutrirsi oramai soverchi dubbi sulla riconducibilità di entrambe le procedure di sovraindebitamento in esame alla categoria di quelle concorsuali, atteso che sono caratterizzate: a) da un provvedimento giudiziale di omologa; b) dalla nomina di organi di vigilanza e di liquidazione dei beni eventualmente ceduti; c) dall’universalità degli effetti che si producono sul patrimonio del debitore, coinvolto per l’intero (c.d. universalità oggettiva), e verso la massa dei creditori (c.d. universalità soggettiva); d) dall’applicazione di misure di protezione del patrimonio del debitore, fra cui il blocco di azioni esecutive e cautelari; e) dalla cristallizzazione della massa passiva anche mediante interruzione della decorrenza degli interessi sui crediti chirografari; f) dal rispetto del principio della par condicio creditorum[1]. 
Deriva dalla equiparazione alle altre procedure concorsuali, ad esempio, l’orientamento che, pur in assenza di esplicita previsione, ritiene applicabili alle vendite disposte ai sensi dell’art. 13 l.s. i principi di massima informazione e partecipazione a cui si informano le procedure competitive regolate dalla legge fallimentare[2].
Egualmente è a dirsi per la rendicontazione periodica sullo stato delle attività di liquidazione sull’esatto adempimento della proposta che, pur in assenza di specifica previsione normativa, l’OCC deve effettuare nei confronti del giudice delegato ed a beneficio del ceto creditorio. 
3 . Il venir meno dello spossessamento attenuato a seguito dell’omologa e l’obbligo del debitore di dare esecuzione alla proposta. Le variazioni del piano
Con l’omologa dell’accordo e del piano vengono meno le limitazioni ai poteri di disposizione del patrimonio che connotano le fasi procedimentali successive alla presentazione della proposta e del piano (c.d. spossessamento attenuato).
È noto che nella fase preparatoria della proposta e del piano il debitore, pur potendo continuare a disporre dei propri beni, proseguire i rapporti negoziali pendenti e costituirne di nuovi, è tuttavia soggetto a vincoli che ne riducono l’autonomia negoziale.
L’art. 10 co. 3 bis l. s. stabilisce, infatti, che, a decorrere dalla data di deposito del decreto con cui il giudice accerta che la proposta soddisfa i requisiti di cui agli artt. 7, 8 e 9 l.s. (ovvero dopo un preliminare vaglio di fattibilità giuridica, regolarità formale e completezza) e sino alla data dell’omologazione dell’accordo, gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione compiuti senza autorizzazione del giudice delegato sono inefficaci rispetto ai creditori anteriori. Fra questi si comprende il pagamento di crediti aventi titolo e causa anteriore all’apertura del procedimento, ove compiuti in assenza di autorizzazione giudiziale, essendo essi lesivi della par condicio creditorum e poiché contravvengono al principio di cristallizzazione della massa passiva che si produce con l’apertura della procedura concorsuale.[3]
La disposizione in commento rappresenta il contraltare delle forti restrizioni che i creditori subiscono alla tutela delle loro ragioni di credito sin dall’apertura delle procedure di sovraindebitamento. Analoga regola deve pertanto ritenersi applicabile anche al piano del consumatore tenuto conto dall’identico ombrello protettivo che esso assicura al debitore.
Le limitazioni in questione vengono meno successivamente all’omologa, in quanto il debitore recupera la libera e piena disponibilità delle proprie risorse patrimoniali, potendo dunque compiere, senza necessità di autorizzazione del giudice delegato, anche atti di straordinaria amministrazione.
Ciò non vuol dire, tuttavia, che possa agire in spregio agli interessi del ceto creditorio, posto che l’effetto esdebitativo dell’omologa, pur producendosi in via immediata, non si consolida fin quando la proposta non sia stata integralmente adempiuta.
Ed invero, intervenuta l’omologazione, il mancato rispetto dell’accordo o del piano del consumatore ed il compimento di atti in difformità costituisce, di regola, inadempimento contrattuale, al quale i creditori potranno reagire con l’azione di risoluzione per inadempimento e chiedendo la conversione della procedura in liquidazione del patrimonio.
Non pare dunque improprio sostenere che la legislazione ricostruisce in termini di sinallagmaticità il rapporto negoziale, plurisoggettivo, che con l’omologa si costituisce fra debitore e creditori, siano essi aderenti e non aderenti, insieme finalizzato a consentire la migliore soddisfazione possibile dei creditori ed il superamento della condizione di eccessivo indebitamento del debitore, con conseguente suo ritorno ad una condizione di vita dignitosa che consenta anche la ripresa di un’iniziativa economica e professionale realmente libera (c.d. “fresh start”).
La responsabilità dell’esecuzione della proposta è in capo al debitore, il quale è tenuto ad adempiere con diligenza agli impegni assunti ed ad adeguare la propria condotta a regole di buona fede[4].
Si è sostenuto al riguardo che nella fase esecutiva delle procedure di sovraindebitamento allo spossessamento attenuato si sostituisce un vincolo di destinazione impresso sul patrimonio del debitore, o meglio sui beni e le risorse economiche destinate alla soddisfazione del ceto creditorio.
La tutela dei creditori anteriori pare, anzi, rafforzata rispetto a quanto accade nelle procedure maggiori, essendo espressamente previsto, dall’art. 13 c. 4 l.s., che “i pagamenti e gli atti dispositivi dei beni posti in essere in violazione dell’accordo o del piano del consumatore sono inefficaci”.
E dunque, diversamente da quanto avviene nell’ipotesi di consecuzione fra procedura di concordato preventivo e fallimento, il recupero di atti e pagamenti compiuti in difformità alla proposta o al piano in corso di esecuzione non passa attraverso l’ordinaria azione revocatoria, bensì attraverso una più agevole azione di inefficacia, senza limiti temporali ed incentrata sulla verifica di inclusione o meno dell’atto impugnato nel piano di sovraindebitamento. Quest’azione sarà normalmente esperita dall’organo incaricato della liquidazione ogni volta che l’accordo o il piano del consumatore oggetto di risoluzione sfocino, per conversione, nella procedura di cui all’art. 14 ter l.s.[5].
Va anche considerato che laddove l’atto difforme consista nel trasferimento di beni immobili o mobili registrati e sia dunque soggetto a pubblicità dichiarativa, l’inopponibilità dell’atto per la massa nella successiva liquidazione del patrimonio è conseguenza diretta dall’equiparazione del decreto di fissazione udienza ex art. 10 l.s. e del decreto di omologa del piano del consumatore all’atto di pignoramento (art. 2913 c.c.). 
Non pare invece possibile l’esperimento di un’azione uti singulus per la declaratoria di inefficacia degli atti in difformità, la quale avrebbe, ove ammessa, effetti necessariamente limitati al solo proponente.
È verosimile dunque che il creditore che intenda far valere la lesione del proprio diritto in conseguenza dell’atto dispositivo difforme debba intraprendere autonoma azione revocatoria, ai sensi dell’art. 2901 c.c., peraltro non estensibile ai pagamenti di debiti scaduti, e sempre che non si ritenga detta azione, in quanto prodromica all’esecuzione individuale, preclusa dalla pendenza della fase esecutiva dell’accordo e del piano.
La tutela individuale è dunque mediata dall’attività del liquidatore nominato ai sensi dell’art. 14 ter l.s., sicché presuppone necessariamente la previa risoluzione dell’accordo o la revoca del piano seguita dalla conversione in procedura di liquidazione del patrimonio, che non a caso, proprio in ipotesi di inadempimento imputabile, può essere aperta su richiesta del singolo creditore (art. 14 quater co. 1 l.s. secondo periodo).
Forse opportuno, onde evitare il necessario transito della procedura nella fase liquidatoria con conseguente perdita di finanza esterna promessa e non ancora erogata, sarebbe stato attribuire legittimazione nell’interesse della massa anche al liquidatore nominato con il decreto di omologa, organo però come vedremo non sempre necessario e comunque con poteri limitati alla sola liquidazione di beni ceduti ai creditori, o all’OCC, al quale sono però affidati solo poteri di vigilanza[6].
Con l’entrata in vigore del CCI la disciplina degli atti e pagamenti in violazione è rimasta pressoché invariata, avendo il d.lgs. 147/2020 inserito al terzo comma dell’art. 71 CCI (per la ristrutturazione dei debiti del consumatore) e al terzo comma dell’art. 81 (per il concordato minore) una disposizione di tenore letterale identico a quello dell’art. 13 co. 4 l.s. Non dovrebbe tuttavia più porsi il problema delle tutele revocatorie ordinarie eventualmente esperibili dai singoli creditori in pendenza della fase esecutiva per l’ipotesi di mancata conversione in liquidazione del patrimonio, atteso che gli atti di inadempimento dovranno essere doverosamente segnalati dall’OCC e comporteranno la revoca anche d’ufficio del decreto d’omologa.
La vigente tutela civilistica contro il compimento degli atti dispositivi (cessioni e pagamenti) difformi non richiede di indagare sulla natura dolosa o colposa della condotta del debitore e neppure sulla dannosità dell’atto per i creditori, essendo sufficiente ai fini della risoluzione dell’accordo o della cessazione degli effetti del piano del consumatore il fatto oggettivo dell’inadempimento. Tale accertamento è sempre demandato ad un impulso di parte, occorrendo per la risoluzione l’istanza di uno o più creditori.
Ritengo infatti inapplicabile alla fase esecutiva la revoca d’ufficio conseguente alla commissione di atti in frode. Il disposto dell’art. 11 co. 5 l.s. dovrebbe riguardare esclusivamente le attività poste in essere in epoca compresa fra la domanda e l’omologa, essendo riferito agli atti compiuti “durante la procedura”, la quale come è noto si chiude con decreto di omologazione[7].
Erroneo pare dunque il rinvio fatto alla citata norma dall’art. 14 bis co. 1 l.s. per il piano del consumatore, salvo voler ritenere, valorizzando più che la lettera della norma la sua collocazione sistematica, che solo in questa procedura, stante il particolare interesse pubblico che la pervade, si sia inteso prevedere un meccanismo sanzionatorio più efficace e persino officioso in caso di atti e pagamenti fraudolenti. 
Va notato che il CCI introdurrà definitivamente e senza margini di incertezza la disciplina degli atti in frode anche nella fase esecutiva del piano di ristrutturazione dei debiti del consumatore e del concordato minore (artt. 72 e 82 CCI), ma sul punto si rimanda al paragrafo otto.
La distinzione fra meri inadempimenti ed atti volontariamente diretti a frodare le ragioni dei creditori rileva invece senz’altro ai fini penalistici, non potendo dubitarsi che devono essere assistite dall’elemento psicologico del dolo generico le condotte che integrano i delitti previsti e puniti dall’art. 16 c.1 lett. d) ed f) l.s., rispettivamente relativi ai casi del debitore che: lett. d) nel corso della procedura di sovraindebitamento effettua pagamenti in violazione dell’accordo o del piano del consumatore; lett. f) intenzionalmente non rispetta i contenuti dell’accordo o del piano del consumatore[8].
 Accertare se un atto dispositivo o un pagamento sia stato posto in essere dal debitore in violazione dell’accordo o del piano del consumatore impone di rispondere alla domanda del se possa ritenersi conforme un atto non espressamente previsto nel piano attuativo, ma che comunque risponde alle finalità perseguite con la proposta, ovvero un atto che parzialmente diverso ma comunque in linea con gli obiettivi prefissi.
In questi casi ci troviamo di fronte a mere variazioni del piano da ritenersi sempre consentite senza necessità di un nuovo vaglio giudiziale.
Non vi è dubbio che il piano integri i contenuti della proposta di soluzione della crisi da sovraindebitamento, ma è altrettanto certo che in esso convivono un contenuto prettamente negoziale, laddove detta scadenze e modalità di pagamento e prevede il rilascio di garanzie (art. 7 l.s.) ed un contenuto informativo e programmatico, consistente nell’indicazione dei mezzi e delle risorse per la soddisfazione del fabbisogno concordatario, che, in quanto soggetto ad un sindacato di “fattibilità” economica (oltre che giuridica nel senso della non manifesta inadeguatezza avvertibile ab initio), assume natura previsionale e struttura necessariamente elastica e non interamente predeterminata. Non sono del resto infrequenti piani che prospettano scenari alternativi e dunque soluzioni distinte a seconda delle condizioni che dovessero in concreto verificarsi.
Ne consegue che atti non espressamente indicati e tuttavia funzionali, secondo un criterio di causalità adeguata, alla realizzazione delle finalità della proposta, id est alla migliore soddisfazione del ceto creditorio, saranno sottratti alla sanzione di inefficacia, dovendo considerarsi comunque conformi.
Del pari dovranno ritenersi contenute nel perimetro della proposta così come originariamente formulata le variazioni del piano dovute a circostanze sopravvenute impreviste che non lo rendano tuttavia inattuabile, garantendo comunque il rispetto delle modalità e delle scadenze promesse ai creditori.
E’ ben possibile concludere dunque che finché la proposta è attuabile il debitore ben potrà apportare al piano ogni modifica che sia funzionale al suo miglior perseguimento senza doverlo nuovamente sottoporre al vaglio del ceto creditorio, rientrando del resto nella logica dell’esatto adempimento, ovvero dell’esecuzione del rapporto secondo regole di buona fede, l’adeguamento della prestazione al mutato contesto purché comunque rispondente all’interesse del creditore. In questi casi non è possibile parlare dunque di una “modifica” della proposta, ma di semplici variazioni del piano ad essa sottostante che il debitore potrà liberamente apportare[9]. 
Se inteso nel modo sopra specificato il concetto di variazione del piano deve ritenersi scisso da quello civilistico di atto non novativo (art. 1231 c.c.).
Perché possa parlarsi di mera variazione, infatti, non deve aversi riguardo alla natura strutturale o accessoria delle modifiche apportate al piano, bensì all’interesse dei creditori, sicché mentre non sarà consentita nella fase esecutiva la proroga di un termine di adempimento senza dar corso alla procedura di cui all’art. 13 co. 4 ter l.s. (di cui meglio si dirà in seguito) e far dunque retroagire la procedura alla fase ante omologa, viceversa mutamenti anche strutturali che apportino maggiori risorse e migliorino i tempi e le percentuali di soddisfo, sempre nel rispetto dell’ordine delle prelazioni, dovranno ritenersi consentite senza dover riavviare il procedimento di omologa dell’accordo o del piano.
4 . Il pactum de non petendo in executivis nella fase post omologa e le ipotesi di cessazione di diritto degli effetti dell’accordo e del piano
Nella procedura di piano del consumatore è inibito, a tutti i creditori con causa o titolo anteriore alla data di omologa, l’inizio o la prosecuzione di azioni esecutive individuali e di azioni cautelari (anche diverse dai sequestri conservativi), nonché l’acquisto di diritti di prelazione sul patrimonio del debitore (art. 12 ter l.s.). 
Ne consegue che, laddove, sia stata già in via preventiva ed anticipatoria, ordinata su richiesta del debitore la sospensione di specifici procedimenti di esecuzione forzata nelle more della convocazione dei creditori, come consentito dall’art. 12 bis co. 2 l.s.[10], essi con l’omologa divengono definitivamente improcedibili
Nella procedura di accordo, in cui l’effetto inibitorio si produce per i creditori anteriori già alla data dalla pubblicità del decreto che fissa l’udienza per la verifica dell’esito della votazione (art. 10 co. 2 lett. c) l.s.), manca una disposizione che regoli la sorte di quell’inibitoria nella fase post omologa. Essa è peraltro incomprensibilmente riferita, quanto alle azioni cautelari, ai soli sequestri conservativi.
Non vi è ragione che giustifichi tuttavia un trattamento differenziato, sicché anche nel caso dell’accordo le procedure eventualmente sospese dovranno essere dichiarate improcedibili, mentre saranno inammissibili azioni cautelari ed esecutive successivamente intraprese da creditori concorsuali[11]. 
Vi è peraltro da chiedersi, ma sul punto si ritornerà nel prosieguo, se sia possibile al liquidatore nominato in sede di omologa, così come consente l’art. 107 co. 3 l.f. per il fallimento (cui fa rinvio l’art. 182 l.f. il concordato con cessione di beni), subentrare, per ragioni di economia processuale, nelle procedure esecutive intraprese dai creditori sul patrimonio del debitore ai fini della liquidazione nell’interesse dell’intera massa, così evitando la declaratoria di improcedibilità.
 In entrambe le procedure di sovraindebitamento, diversamente da quanto avviene per il concordato preventivo, analoga inibitoria si produce, inoltre, nei confronti di creditori con causa o titolo posteriore (art. 11 co. 3 l.s. per l’accordo e art. 12 ter co. 2 l.s. per il piano), benché essi siano estranei alla procedura e non soggetti alla falcidia o alla dilazione delle scadenze dei pagamenti, ed a fortiori rispetto a particolari crediti, pur quando maturati anteriormente all’omologa, ai quali l’art. 13 co. 4 bis l.s., riconosce il beneficio della prededucibilità in sede di ripartizione dell’attivo, vale a dire quelli sorti in occasione o in funzione della procedura di sovraindebitamento, compresi quelli relativi all’assistenza professionale[12].
Restano esclusi i soli titolari di crediti impignorabili ai sensi dell’art. 545 c.p.c., che oltre a rimanere estranei al piano, non essendo consentito che quest’ultimo ne modifichi il trattamento, godono di una tutela rafforzata non subendo alcuna limitazione delle iniziative conservative ed esecutive a tutela delle loro pretese, tanto più che il piano deve assicurare non solo nella fase della proposta, ma nel corso dell’intera procedura (v. art. 13 co. 3 l.s.) la disponibilità di risorse sufficienti alla loro soddisfazione.
Non sono ammesse altre eccezioni, sicché è del tutto condivisibile l’orientamento, assolutamente maggioritario, che preclude anche al creditore fondiario la prosecuzione o l’avvio di azioni esecutive, nulla prevedendo al riguardo l’art. 41 TUB, riferito alla sola procedura fallimentare[13].
L’inibitoria delle azioni esecutive costituisce in tutta evidenza l’oggetto principale della controprestazione che l’omologa delle procedure di sovraindebitamento alternative alla liquidazione pone a carico del ceto creditorio, alla stregua di un pactum de non petendo in executivis, ed è dunque giustificata dalla necessità di evitare che atteggiamenti aggressivi di singoli concorrenti possano pregiudicare l’attuazione della proposta ed impedire il rispetto del principio della par condicio creditorum nella fase di esecuzione del piano.
Tale ultima affermazione consente di condividere la tesi, pur non unanime, secondo cui il divieto di azioni esecutive individuali investe non solo i beni destinati nel piano alla liquidazione, ma l’intero patrimonio del debitore, comprensivo delle attività che egli abbia inteso invece conservare al fine di poter proseguire l’attività professionale o di impresa (nell’accordo) o al fine di tutelare esigenze di vita primarie come avviene nel caso dell’esclusione della casa di abitazione (nel piano del consumatore).
Sebbene, infatti, l’art. 8 co. 4 l.s., nel prevedere la possibilità di moratoria nel pagamento di crediti prelatizi quando i beni oggetto della prelazione non siano destinati alla liquidazione, rende evidenza dell’ammissibilità di accordi e piani del consumatore non interamente liquidatori, non vi è alcuna ragione di ritenere che i cespiti che il debitore intenda preservare a sé - impegnandosi al contempo a reperire risorse diverse (endogene o esogene al suo patrimonio) da destinare alla soddisfazione della parte capiente di privilegi, pegni ed ipoteche - debbano intendersi suscettibili di esecuzione forzata in deroga alla regola generale dell’inibitoria, consentendo ai creditori in questione di non partecipare al concorso sostanziale e di sottrarsi alle regole della par condicio[14].
Il divieto di azioni esecutive, ritengo, debba estendersi del pari, pur dopo la novella di dicembre 2020, al caso della banca che sia vincolata dalla proposta di piano o di accordo alla prosecuzione dei mutui ipotecari o pignoratizi in corso di ammortamento relativi, rispettivamente, alla casa di abitazione principale e a beni strumentali all’esercizio dell’attività di impresa (artt. 8 co. 1 ter e 8 co. 1 quater l.s.). Condizione indispensabile per l’applicazione del beneficio di legge è infatti la capienza del valore del bene ipotecato o pignorato rispetto al debito ancora insoluto, comprese le rate a scadere, proprio al fine di evitare che la manutenzione del rapporto ed il rispetto del piano convenzionale dei pagamenti violi la par condicio facendo gravare sugli altri creditori, ed in particolare quelli antergati (si pensi ai privilegiati generali), il costo economico delle risorse necessarie a farvi fronte[15].
Si aggiunge per completezza che l’inibitoria fin qui esaminata non riguarda: a) le iniziative per la dichiarazione di fallimento, laddove il debitore sia un imprenditore che per accrescimento della propria attività sia divenuto fallibile, ovvero sia il socio illimitatamente responsabile di una società di persone soggetta a fallimento, in tal senso deponendo l’art. 12 co. 5 l.s. (ovviamente riferito al solo accordo e non al piano); b) le azioni esecutive nei confronti di terzi garanti che abbiano sottoscritto la proposta quali fideiussori o terzi datori di pegno o ipoteca, trattandosi di soggetti estranei alla procedura.
Dovrebbero invece essere precluse le azioni revocatorie ordinarie proponibili dai singoli creditori contro gli atti posti in essere in violazione dell’accordo o del piano, quantomeno per difetto di interesse, atteso che si tratterebbe di giudizi strumentali all’esperimento di iniziative esecutive individuali (art. 2902 c.c.) precluse dal decreto di omologa. E tuttavia va considerato che, mancando nella fase esecutiva delle procedure negoziali di sovraindebitamento un organo rappresentativo della massa dei creditori (a sua volta inesistente come tale secondo la giurisprudenza di legittimità) una siffatta limitazione finisce di fatto con l’ostacolare, come si è detto nel precedente paragrafo, la tempestiva reazione ad atti e pagamenti difformi dalla proposta e dal piano.
Vi è peraltro da chiedersi se e quando possa esservi una riespansione del diritto dei creditori (anteriori e posteriori) ad agire in executivis e se ciò imponga in ogni caso la caducazione degli effetti dell’omologa o possa precedere, quanto meno in via cautelativa, gli esiti dell’impugnazione o risoluzione dell’accordo o della domanda di revoca e cessazione degli effetti del piano del consumatore.
Una prima fattispecie di sicuro rilievo è quella descritta dall’art. 11 co. 5 l.s. (cui fa rinvio l’art. 14 bis co. 1 l.s.), che prevede la risoluzione di diritto degli effetti dell’accordo o del piano quando il debitore non esegue integralmente, entro novanta giorni dalle scadenze previste, i pagamenti dovuti secondo il piano alle amministrazioni pubbliche e agli enti gestori di forme di previdenza e assistenza.
L’ipotesi opera senza dubbio nella fase post omologa e richiede l’adozione da parte del giudice delegato di un decreto (verosimilmente su istanza del creditore o su segnalazione dell’OCC) - prevedibilmente previa convocazione delle parti - reclamabile dinanzi al collegio in camera di consiglio.
All’esito di tale semplificato procedimento la procedura sarà convertita in liquidazione del patrimonio, ma solo su istanza del debitore, ovvero di uno dei creditori quando sia accertata l’imputabilità al debitore del mancato pagamento, come da inciso conclusivo dell’art. 14 quater l.s.[16]
Deve dunque convenirsi, che laddove la conversione in procedura liquidatoria non sia possibile, in mancanza di apposita istanza o quando l’inadempimento è considerato non imputabile, gli effetti dell’omologa dovranno ritenersi cessati, per tutti i creditori e non solo per le amministrazioni e gli enti insoddisfatti, e con essi l’inibitoria delle azioni esecutive e cautelari.
Un analogo modello procedurale, sempre riconducibile alla fattispecie della risoluzione di diritto, è applicato in caso di omesso pagamento di crediti impignorabili (artt. 12 co. 4 l.s. per l’accordo e 12 ter co. 4 l.s. per il piano)[17], con la differenza principale che la declaratoria di cessazione degli effetti dell’accordo o del piano in tal caso impone un’istanza di parte e che non è prevista la conversione in procedura di liquidazione controllata (v. art. 14 quater l.s.), stante l’evidente estraneità di questi creditori alla procedura. Cionondimeno deve convenirsi con la sussistenza di un interesse anche dei creditori concorsuali ad attivare il procedimento di risoluzione qui descritto, onde beneficiare degli effetti che esso produce, estesi all’intera procedura in quanto divenuta priva di causa, con il problema ulteriore di valutare se, in tale ipotesi o in quella di loro intervento nell’udienza camerale fissata ai sensi dell’art. 12 co. 4 l.s., siano anche legittimati a chiedere il provvedimento di conversione.
Un ulteriore caso di caducazione degli effetti inibitori dell’omologa è, secondo alcuni autori, quello previsto dall’art. 13 co. 3 l.s. ultimo inciso, che fa riferimento alla sospensione degli atti di esecuzione dell’accordo (ma non del piano del consumatore), disposta dal giudice delegato con decreto motivato qualora ricorrano gravi e giustificati motivi.
Se la norma dovesse essere letta nel contesto dell’equilibrio sinallagmatico che regge le posizioni della parti potrebbe darsi ragione a chi sostiene che in caso di sopravvenienze (esempio accertamento definitivo di crediti originariamente contestati[18]) tali da mutare le condizioni patrimoniali del debitore ammesso all’accordo, e dunque l’assetto di interessi ad esso sotteso, potrebbe, in analogia al disposto dell’art. 1461 c.c., essere richiesta al giudice (da ciascun creditore o dall’OCC) l’adozione di un provvedimento che consenta la riattivazione delle eventuali procedure esecutive non ancora dichiarate improcedibili o di assumere iniziative eventualmente conservative (es. sequestri preventivi).
Non sembra, tuttavia, questo lo spirito della norma in esame, collocata sistematicamente nel comma relativo ai poteri del giudice delegato rispetto alle attività di liquidazione eventualmente previste dal piano. 
E’ più probabile dunque che si sia voluto con essa prevedere il generale potere sospensivo del perfezionamento delle vendite riconosciuto dall’art. 108 co. 1 l.f. su istanza di ogni soggetto interessato, anche se meraviglia la non estensione di questo potere alle liquidazioni previste dal piano del consumatore.
Del resto prevedere la possibilità di sospensione temporanea dell’effetto inibitorio della procedura nelle more dell’eventuale richiesta di risoluzione dell’accordo, eventualmente modificabile e prima della definitiva pronuncia del giudice al riguardo, può determinare una situazione di incertezza e favorire iniziative di creditori forti in danno degli altri.
Al di fuori delle ipotesi prescritte, la riespansione del potere di intraprendere iniziative esecutive individuali ed azioni cautelari sul patrimonio del debitore è subordinata, come vedremo, alla risoluzione o revoca dell’accordo e del piano nei casi previsti dalle legge e che saranno successivamente esaminati.[19]
Il Codice delle Crisi, nell’intento di semplificare la complessa disciplina delle patologie della fase esecutiva, ha opportunamente emendato ogni riferimento agli speciali istituti di risoluzione e cessazione di diritto degli effetti delle procedure di sovraindebitamento, riconducendo ogni ipotesi di inadempimento, sia esso per causa imputabile o non imputabile, nel perimetro dell’azione di revoca, evitando perciò trattamenti differenziati, anche sul piano procedurale, fra le varie categorie di creditori. 
Non viene peraltro nella disciplina riformata e non ancora in vigore richiamata la disposizione che estende, nelle procedure di sovraindebitamento, il divieto di azioni esecutive anche ai creditori posteriori, sicché è verosimile che anche la materia in esame sarà investita dall’ampio dibattito, ancora oggi aperto, relativo all’estensione soggettiva del vincolo di destinazione che l’omologa del concordato preventivo produce sul patrimonio del debitore, ovvero sulla possibilità per soggetti estranei alla procedura e per i titolari di crediti prededucibili (il cui pagamento ex art. 98 CCI deve avvenire secondo le scadenze previste dalla legge o dal contratto) di tutelare le proprie ragioni aggredendo i beni destinati alla soddisfazione del fabbisogno concordatario, così da rendere inattuabile la proposta.
5.1 . L’Organismo di composizione della crisi
Il principale organo della fase esecutiva è l’Organismo di composizione della crisi, al quale compete la vigilanza sull’esatto adempimento della proposta di accordo o di piano del consumatore, nonché la risoluzione di eventuali difficoltà insorte.
Se dunque il ruolo dell’OCC è più simile a quello dell’attestatore indipendente nella fase anteriore all’omologa, esso si avvicina maggiormente a quello del commissario giudiziale nella fase dell’esecuzione, essendogli demandato di sorvegliare appunto sulla diligenza prestata dal debitore nell’osservare gli impegni assunti nonché sull’eventuale venir meno delle condizioni di attuabilità del piano.
In tal modo si riconosce al gestore della crisi o al professionista nominato in sede giudiziale[20] un ruolo ausiliario del giudice delegato, al quale l’incaricato ha il dovere di segnalare il mancato pagamento di crediti qualificati (crediti impignorabili, delle pubbliche amministrazioni e degli enti previdenziali ed assistenziali), la sussistenza delle condizioni per l’annullamento dell’accordo o del piano del consumatore, il compimento di atti e pagamenti in violazione della proposta, ogni circostanza che possa rendere il piano inattuabile. La funzione di ausilio all’autorità giudiziaria è del resto consacrato, dall’art. 10 co. 2 lett. b) l.s. e dall’analogo art. 12 bis co. 3 l.s., dove è previsto che la trascrizione del decreto, rispettivamente, di fissazione udienza nell’accordo e di omologa nel piano del consumatore, su beni immobili e mobili registrati destinati alla liquidazione o affidati al gestore per la liquidazione è eseguita a cura dell’OCC. 
Le suindicate funzioni ausiliarie sono avvertite dal ceto creditorio quale garanzia di serietà della proposta ed assicurano il riequilibrio delle asimmetrie informative che normalmente caratterizzano queste procedure, anche in considerazione dell’eterogeneità dei componenti del ceto creditorio, spesse non muniti di strumenti diretti di controllo sulla solvibilità del debitore (lavoratori, fornitori)[21].
È posto infatti a carico dell’OCC l’obbligo di comunicare ai creditori (oltre che naturalmente al giudice delegato) ogni eventuale irregolarità commessa dal debitore e persino la facoltà di risolvere eventuali difficoltà insorte nella fase di esecuzione, assumendo di fatto funzione di mediatore, ma senza possibilità di vincolare le parti con le proprie determinazioni.
Il Codice della Crisi pone un’attenzione particolare proprio ai doveri di informazione posti a carico dell’organismo, introducendo, con previsione che colma una lacuna della normativa vigente, l’obbligo di trasmettere al giudice delegato una relazione di riepilogo semestrale sullo stato dell’esecuzione (artt. 71 co. 1 e 81 co. 1 CCI), nonché una relazione finale al termine dell’esecuzione
Le relazioni in questione saranno prevedibilmente trasmesse anche ai creditori analogamente a quanto previsto dall’art. 16 bis co. 9 quater e co. 9 quinquies D.L. 18 ottobre 2012, n. 179 per il commissario giudiziale, essendo comune a tutte le procedure concorsuali l’esigenza di fornire al ceto creditorio un costante apporto informativo. 
Cionondimeno l’assimilazione della funzione ausiliaria dell’OCC a quella del commissario giudiziale nella fase esecutiva è soltanto indicativa.
Ben più numerose sono infatti le attività allo stesso demandate, oltre che completamente differente la disciplina del rapporto fiduciario e delle connesse responsabilità, derivanti dal rapporto negoziale che lo lega al debitore.
Salvo che nel caso, oramai recessivo, del professionista nominato dall’autorità giudiziaria, l’incarico al gestore della crisi, pur veicolato dalla scelta demandata al referente[22] istituito presso l’OCC, nel rispetto di criteri di rotazione ed equa distribuzione, determina l’instaurazione di un rapporto contrattuale ascrivibile alla prestazione d’opera professionale, come reso evidente dalla previsione di un accordo sul compenso (che dovrà essere reso noto al ceto creditorio) e dall’obbligo di svolgere personalmente la prestazione (art. 12 d.m. 24 settembre 2014, n. 202).
Va soggiunto che l’OCC non è pubblico ufficiale, assumendo egli piuttosto un ufficio di diritto privato, e che le sorti del mandato fiduciario, oltre che agli istituti civilistici della rinuncia[23] e della revoca, sono demandate esclusivamente al controllo e alla vigilanza del referente, a cui i regolamenti degli OCC attribuiscono poteri di revoca e sostituzione del gestore, assente ogni riferimento ad un procedimento giudiziale di approvazione del rendiconto di gestione analogo a quello dell’art. 116 l.f.[24].
E’ possibile dunque affermare che la legge intende qualificare la funzione del gestore della crisi quale prestazione professionale altamente specializzata il cui oggetto è particolarmente esteso e variegato, comprendendo attività che vanno dalla collaborazione con il debitore nella predisposizione della proposta e del piano ad essa sottostante, alla redazione delle attestazioni previste dalla legge, alla funzioni ausiliarie dell’autorità giudiziaria e del ceto creditorio, fino al controllo sulla corretta esecuzione dell’accordo o del piano del consumatore.
Proprio la molteplicità dei compiti demandati all’OCC rende ragione della possibilità di quest’ultimo di incaricare ausiliari, il cui compenso è ricompreso nelle spese preventivate e concordate con il debitore (art. 14 co. 3 d.m. 202/2014), e della cui attività risponde lo stesso organismo ai sensi dell’art. 1228 c.c. 
Quanto sopra evidenziato rende meno sorprendente la possibilità che il gestore assuma anche funzioni di liquidatore o di gestore per la liquidazione (art. 15 co. 8 l.s.), benché a tali organi siano demandate attività esecutive su cui dovrebbe egli stesso vigilare[25].
Il CCI pur demandando al debitore la responsabilità esclusiva dell’adempimento, eliminando, nella versione post correttivo, ogni dipendenza del diritto al compenso dell’OCC dall’integrale esecuzione del piano, non ha tuttavia mancato di valorizzare ulteriormente la permanenza in capo al professionista incaricato di funzioni di assistenza qualificata, associando alle funzioni di vigilanza, anche quelle di “collaborazione” nella conduzione delle operazioni di vendita competitiva, trattandosi di attività implicanti competenze tecnico-giuridiche particolari non sempre fruibili da colui che accede alla procedura di sovraindebitamento.
5.2 . Il Liquidatore e la liquidazione; la figura del gestore della liquidazione
Nel caso in cui il piano preveda la cessione di beni e dunque la necessità del compimento di attività di monetizzazione, in tutto o in parte, del patrimonio del debitore, è possibile affidare tali compiti ad un liquidatore, soggetto professionale capace di offrire garanzie di efficienza ed efficacia delle attività di vendita.
Si tratta di soggetto nominato dal giudice delegato su proposta dell’OCC ed avente i requisiti di professionalità ed indipendenza richiesti dall’art. 28 l.f. per il curatore.
La nomina del liquidatore, di regola facoltativa, diviene necessaria ed indisponibile nel caso in cui per la soddisfazione dei crediti siano utilizzati beni già sottoposti a pignoramento[26].
In questo particolare caso il legislatore ha infatti avvertito maggiore preoccupazione nel riaffidare al debitore esecutato la piena e libera facoltà di cessione di beni, in molti casi già sottratti alla sua custodia, imponendo dunque la nomina di un organo terzo.
In ogni altra ipotesi la presenza o meno del liquidatore nella fase esecutive dipende da quanto stabilito nella proposta o nel piano - diversamente da quanto accade nel concordato preventivo con cessione di beni, in cui è invece necessaria e non ovviabile - ma la designazione nominativa ivi contenuta si ritiene non vincoli l’autorità giudiziaria nella scelta del professionista da incaricare[27]. 
Il perimetro operativo dell’organo liquidatorio delle procedure di accordo e piano del consumatore sembra assai più ristretto di quello del concordato preventivo, in quanto limitato alla sola attività liquidatoria di beni, tanto del debitore, quanto dei terzi che abbiano fornito in tal modo finanza esterna a sostegno del piano, mentre non è prevista, salvo mandato ad hoc, alcuna sua legittimazione all’esperimento di azioni di recupero crediti, da ritenersi dunque affidate al debitore[28]. Analogamente deve ritenersi esclusa, in linea generale e salva attribuzione della rappresentanza sostanziale e processuale, la legittimazione a promuovere giudizi volti alla reintegrazione del patrimonio del debitore o alla miglior realizzazione dell’attivo, quali ad esempio quelli divisionali finalizzati alla liquidazione di quote immobiliari.
Inoltre, la nomina giudiziale del liquidatore comporta quale conseguenza che, diversamente dal debitore, il quale pone in essere gli atti esecutivi senza vincolo e sempre sotto la sorveglianza dell’OCC, le attività di liquidazione compiute da detto organo devono essere autorizzate dal giudice delegato, chiamato anche a verificarne, sentito il parere dell’organismo, la conformità alla proposta e al piano. 
Assumeranno al riguardo particolare pregnanza le disposizioni del decreto di omologa, nel quale, come si vedrà appresso, il giudice esercita poteri c.d. conformativi colmando le lacune della proposta ed integrando la disciplina della fase esecutiva, che ben può essere preceduta dalla predisposizione di un documento programmatico, analogo al programma di gestione di cui all’art. 104 ter l.f.
Allo stesso giudice delegato è affidata l’eventuale revoca o sostituzione del liquidatore per giustificati motivi, sicché, diversamente da dall’OCC, tale organo deve intendersi obbligato alla presentazione del rendiconto della gestione.
Il Codice della Crisi fa venir meno la nomina del liquidatore pur quando vi siano beni sottoposti a pignoramento, consentendo, pertanto, anche in tale eventualità, che le vendite siano curate direttamente dal debitore al di fuori dell’espropriazione giudiziale in corso, divenuta definitivamente improcedibile.
Ove le attività di liquidazione risultino complesse, come nel caso in cui si debba procedere alla vendita di beni con procedure competitive, il debitore potrà avvalersi della collaborazione dell’OCC.
La scelta di elidere la figura del liquidatore non solo risponde all’esigenza di garantire l’economicità della procedura, ma è altresì coerente con l’intento di attribuire al debitore la totale responsabilità dell’esecuzione del piano[29].
E’ vero che in tal modo si rischia di concentrare nella persona dell’OCC il ruolo di vigilante e di vigilato, almeno per quanto riguardo le attività di collaborazione nella liquidazione, ma a questa circostanza la pratica potrà ovviare riconoscendo in sede di omologa maggiori poteri di controllo al giudice delegato sulle attività di liquidazione demandate all’organismo, ovvero ipotizzando, almeno per compendi più significativi, la designazione di un collegio di gestori della crisi da parte del referente con attribuzione di compiti diversificati (art. 2 co. 1 lett. f) d.m. 202/2014).
Occorre ora soffermarsi sulle modalità di svolgimento delle attività liquidatorie.
Nonostante l’art. 13 l.s. nulla preveda al riguardo, la dottrina e la giurisprudenza edita sul punto non hanno mai dubitato sulla necessità di applicare alle vendite previste dall’accordo o dal piano del consumatore, ove affidate al liquidatore, la disciplina delle procedure competitive in considerazione sia della natura concorsuale delle procedure di sovraindebitamento, sia perché indubbiamente si tratta di vendite di natura coattiva[30].
Del resto l’art. 13 co. 3 l.s. riconosce al giudice delegato poteri tipici della disciplina di tali vendite, quali la cancellazione del pignoramento eventualmente trascritto sui beni, delle iscrizioni relative ai diritti di prelazione, nonché di ogni altro vincolo compresa la trascrizione dei decreti di cui all’art. 10 co. 1 e 12 bis co. 3 l.s.[31] 
Consegue a quanto sopra che il liquidatore potrà ben avvalersi delle facoltà previste dall’art. 107 l.f., optando per la vendita deformalizzata competitiva, ovvero per quella nelle forme del codice di procedura civile, affidando l’incarico a soggetti specializzati (si pensi ai gestori delle vendite per il caso di asta telematica).
Meno probabile è che la vendita possa proseguire in sede esecutiva, laddove vi siano procedure pendenti, salvo ciò non sia espressamente previsto nell’accordo o nel piano, atteso che l’art. 13 co. 1 l.s., nell’attribuire in via esclusiva al liquidatore la disponibilità dei beni pignorati e delle somme incassate sembra escludere la modalità di liquidazione mediante subentro nelle procedure espropriative individuali[32].
Del resto la ratio posta alla base della disciplina del subentro nelle procedure esecutive individuali, che, oltre alle evidenti economie processuali, è principalmente quella di avvantaggiare l’intera massa degli effetti protettivi anticipati del pignoramento anteriore, è meno avvertita nelle procedure di sovraindebitamento, la cui apertura presuppone proprio l’assenza di atti in frode compiuti anteriormente. 
Dalla natura coattiva delle vendite in questione discende senza dubbio l’applicabilità di una serie di disposizioni conseguenti quali:
a) la possibilità per il giudice (ma non per il liquidatore in assenza di espressa previsione normativa) di sospendere la vendita, d’ufficio o su istanza di parte, “qualora ricorrano gravi e giustificati motivi”, atteso peraltro che proprio a questa facoltà sembra riferirsi l’inciso finale dell’art. 12 co. 3 l.s., da ritenersi perciò nonostante la lettera della norma riferibile anche al piano del consumatore;
b) la possibilità di sospendere la vendita in presenza di serie offerte migliorative, tanto più se espressamente previsto dal bando di gara, e sempre che non si sia fatto ricorso alla vendita senza incanto nelle forme del codice di rito[33];
c) le regole sostanziali: quali l’inopponibilità all’aggiudicatario dei diritti di terzi non opponibili alla massa (art. 2920 c.c.), ovvero la limitazione della garanzia del terzo aggiudicatario per vizi redibitori (art. 2922 c.c.), salvo il caso di aliud pro alio
d) le regole procedurali relative all’incameramento della cauzione in caso di mancato versamento del saldo prezzo (art. 587 c.p.c.);[34]
e) le deroghe al divieto di vendita privatistica previste per il caso di vendite forzate nell’ipotesi di immobili abusivi (art. 46 d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e art. 40 co. 2 l. 28 febbraio 1985, n. 47) e catastalmente non conformi (art. 29 co. 1bis l. 27 febbraio 1985, n. 52).
Più complesso è il caso delle vendite privatistiche che pure il piano potrebbe prevedere, affidandole direttamente alla mano del debitore proponente ed individuando ex ante il soggetto acquirente.
A tale riguardo occorre a ben vedere distinguere a seconda che l’obbligo di contrarre e trasferire il bene ad un determinato acquirente sia derivante dalla stipula anteriore di contratti preliminari opponibili alla procedura, ovvero derivi dalle previsioni dell’accordo o del piano.
Nel primo caso nulla quaestio quando sia il debitore stesso a voler dar corso alla conclusione del definitivo mettendo a disposizione dei creditori il corrispettivo, trattandosi di ordinaria esecuzione di un obbligo contrattuale.
In caso contrario deve prendersi atto della mancanza di una disposizione normativa che preveda la sospensione automatica degli effetti dei contratti pendenti (come nel caso del fallimento), ovvero la facoltà di sospensione o scioglimento su richiesta del debitore (come nel caso del concordato preventivo).
Deve allora convenirsi con coloro che, nell’escludere la libera facoltà di scioglimento da parte del debitore o del liquidatore, sostengono l’applicazione al preliminare di vendita immobiliare delle ordinarie regole negoziali, compresa la possibilità per il promissario acquirente di chiedere l’esecuzione in forma specifica ai sensi dell’art. 2932 c.c., anche quando la relativa domanda giudiziale non sia stata anteriormente trascritta, e purché la trascrizione del contratto ai sensi dell’art. 2645 bis c.c. preceda quella del decreto ex art. 10 co. 1 l.s. o quella di omologa del piano del consumatore, equiparati all’atto di pignoramento[35].
Naturale conseguenza della natura privatistica di questo tipo di vendita dovrebbe essere il divieto di cancellazione giudiziale delle formalità iscritte o trascritte sul bene, potendo semmai ragionarsi della necessità di trascrizione del decreto ex art. 10 co. 1 l.s. o di quello di omologa del piano del consumatore, trattandosi di beni la cui cessione non è prevista dal piano, ma dovuta ad un preciso obbligo contrattuale anteriore[36].
Ben diverso è il caso di vendita prevista dal piano in favore di soggetto già individuato, atteso che trattandosi di attività strumentale a perseguire le finalità della procedura di sovraindebitamento, essa sarà senz’altro soggetta alle disposizioni sulle vendite competitive, con conseguente onere per il debitore di dar luogo ad una stima che attesti la congruità del corrispettivo, nonché ad adeguate forme di pubblicità che consentano la presentazioni di concorrenti offerte irrevocabili d’acquisto, secondo un meccanismo analogo a quello dell’art. 163 bis l.f.
Non diversamente dovrà ragionarsi per il caso di presentazione, anche dopo l’omologa, di offerte c.d. bloccate, con le quali sia manifestato interesse all’acquisto dei beni compresi nel piano da parte di soggetti terzi.
In senso opposto potrebbe invero opinarsi che la legge non fa rinvio esplicito, nel testo vigente, alla disciplina delle vendite competitive, diversamente da quanto invece prevede l’art. 14 nonies l.s. per quelle effettuate dal liquidatore nominato nell’ambito della procedura di liquidazione del patrimonio, sicché l’autonomia negoziale del debitore non subirebbe alcuna limitazione. Tale soluzione porrebbe però il problema di stabilire se in caso di vendita puramente privatistica sia possibile ottenere dal giudice delegato la cancellazione delle formalità pregiudizievoli[37].
Il Codice della Crisi ha definitivamente chiarito, nel testo novellato dal d.l. 147/2020, che alle vendite e alle cessioni previste dal piano provvede il debitore, tramite procedure competitive, anche avvalendosi di soggetti specializzati, sotto il controllo e con la collaborazione dell’OCC, sulla base di stime effettuate, salvo il caso di beni di modesto valore, da parte di operatori esperti, assicurando adeguate forme di pubblicità, la massima informazione e partecipazione degli interessati.
Va notato che non è stata però pedissequamente richiamata la disciplina delle vendite nella liquidazione giudiziale, alle quali il legislatore riformatore ha inteso applicare una sorta di modello unitario a contenuto in gran parte vincolato, prevedendo la necessaria adozione dell’ordinanza giudiziale e l’applicazione di uno schema per larghi tratti conforme, in particolare per le vendite immobiliari, a quello vendita telematica previsto dal codice di rito.
Per contro nelle procedure di sovraindebitamento è ben possibile avvalersi di modalità di liquidazione semplificate e maggiormente deformalizzate, in cui la gara non presuppone necessariamente l’ordinanza giudiziale e potrà ben concludersi, anche in caso di vendite immobiliari, con la stipula di un atto notarile in luogo del decreto di trasferimento.
Da ultimo va annotato che l’art. 7 co. 1 l.s. prevede la possibilità che il patrimonio del debitore sia affidato ad un gestore per la liquidazione, la custodia e la distribuzione del ricavato ai creditori, da individuarsi, anche in tal caso, in un professionista in possesso dei requisiti di professionalità ed indipendenza di cui all’art. 28 l.f.
La nomina del gestore per la liquidazione è affidata al giudice così come quella del liquidatore ex art. 13 l.s., ma diversamente da quest’ultimo assume competenze ben più ampie, estese senz’altro alle azioni di recupero crediti, alla prosecuzione di giudizi pendenti e alla distribuzione del ricavato fra i creditori secondo le regole della par condicio.
Si tratta, dunque, di figura affine a quella del liquidatore giudiziale del concordato con cessione di beni ed appare maggiormente compatibile con le ipotesi in cui le proposte di accordo o di piano prevedano l’integrale cessio bonorum[38].
Secondo alcuni autori il liquidatore per la gestione del patrimonio del debitore è figura che può assumere le vesti giuridiche di un vero e proprio trustee, al quale sarebbe trasferita la stessa titolarità dei beni e dei diritti ceduti (mediante segregazione patrimoniale), ma con obbligo di gestirli in conformità alla proposta ed al piano, ferma restando la permanenza in capo al debitore della proprietà e disponibilità di beni estranei alla procedura (ad esempio l’azienda in esercizio in caso di accordo in continuità o la casa di abitazione e i beni essenziali per la vita in caso di piano del consumatore).
Ebbene, l’utilizzo del trust nell’ambito delle procedure di soluzione della crisi di impresa sconta il limite rappresentato dalla clausola di salvaguardia contenuta nell’art. 15 lett. e) della Convenzione dell’Aja del 1° luglio 1985, secondo cui il riconoscimento di un trust regolato dalla legge straniera non potrà in ogni caso porsi in contrasto con norme di legge inderogabili per volontà delle parti, quali quelle in materia di “protezione di creditori in casi di insolvibilità”.
Inoltre non pare del tutto indispensabile una siffatta complessa fattispecie una volta chiarito che il vincolo di destinazione imposto dall’omologa al patrimonio del debitore ne preclude l’aggressione da parte di ogni creditore, compresi quelli aventi titolo o causa posteriore (i c.d. prededucibili) e con la sola eccezione dei titolari di crediti impignorabili.
Con il CCI viene meno la figura del gestore per la liquidazione, così come, per quanto sopra esposto, quella del liquidatore giudiziale, ma ciò non esclude che l’autonomia negoziale del debitore possa portarlo all’individuazione di analoga figura deputata alla gestione e liquidazione dei beni offerti per la soddisfazione dei creditori, sia pure sotto il necessario controllo dell’OCC.
5.3 . Il ruolo del giudice delegato
Qualche cenno va fatto ai poteri spettanti al giudice delegato nella fase esecutiva.
Si è già detto nel precedente paragrafo di quello, connaturato al carattere forzoso delle vendite, di cancellazione delle formalità pregiudizievoli, nonché di quello di provvedere alla revoca e sostituzione del liquidatore (e naturalmente per analogia anche del gestore per la liquidazione).
Occorre qui soffermarsi sull’ulteriore funzione attribuita al giudice delegato dall’art. 13 co. 2 l.s., secondo periodo, consistente nella decisione delle contestazioni che hanno ad oggetto la violazione di diritti soggettivi.
Al fine di ben delimitare il perimetro di tale funzione giurisdizionale - da esercitarsi verosimilmente nell’ambito di un procedimento camerale e previa instaurazione del contraddittorio fra le parti interessate - deve tenersi conto della collocazione sistematica della norma, inserita nel comma secondo relativo all’esecuzione dell’accordo.
Escluso che il legislatore intendesse riferirsi alle vertenze di annullamento, risoluzione e revoca, successivamente regolate, deve allora condividersi la tesi secondo cui abbia inteso, invece, attribuire al giudice delegato le decisioni inerenti le attività di liquidazione e distribuzione del ricavato delle vendite.
Spettano dunque senz’altro al giudice delegato le controversie relative al corretto operato del liquidatore giudiziale o del gestore per la liquidazione, comprese le impugnazioni degli atti che scandiscono le diverse fasi della procedura di vendita, nonché quelle relative alla corretta graduazione dei creditori nei piani di riparto redatti dal debitore o dal liquidatore a cui siano eventualmente affidati.
Di particolare importanza è a tal fine l’esercizio dei poteri c.d. conformativi che spettano al giudice in sede di omologa, avendo egli la possibilità di integrare le disposizioni del piano, ove lacunose, anche al fine di prevenire successive liti, sia riguardo alla disciplina delle autorizzazioni che il liquidatore dovrà richiedere per il compimento degli atti della liquidazione e per la nomina di eventuali ausiliari, sia alle modalità di redazione ed approvazione dei progetti di ripartizione dell’attivo, sia agli accantonamenti di somme destinate alla soddisfazione dei crediti contestati o condizionali[39].
Devono invece, analogamente a quanto ritenuto per il concordato preventivo, ritenersi preclusi i poteri di accertamento sull’entità e la natura (chirografaria o privilegiata) dei crediti concorsuali, ovvero sul riconoscimento della prededucibilità. 
Poiché, infatti, le due procedure di sovraindebitamento in esame non prevedono alcuna attività di verifica del passivo, deve convenirsi che ogni questione inerente l’an o il quantum delle pretese creditorie o le prelazioni che eventualmente le assistano è riservata ad un giudizio ordinario di cognizione.
E’ pacifico del resto che le contestazioni di crediti, ove incidenti sulla legittimazione del creditore ad opporsi all’omologa, sul raggiungimento delle maggioranze per l’approvazione dell’accordo o sulla previsione cautelativa di accantonamenti, sono suscettibili di esame solo incidentale nel giudizio di omologa, sicché a fortiori deve escludersi che nella fase esecutiva il giudice possa comporle con decisione avente valenza di giudicato, anche solo endoconcorsuale [40]. 
Resta inteso che gli atti del giudice delegato dovranno essere suscettibili di reclamo al Collegio ai sensi dell’art. 739 c.p.c. entro dieci giorni dalla comunicazione se resi nei confronti di una sola parte o dalla notificazione se dati nei confronti di più parti. 
Difatti, pur non essendo previsto uno specifico strumento di impugnazione, deve ritenersi applicabile all’impugnativa degli atti del giudice delegato la disciplina del rito camerale, specificamente richiamata del resto dall’art. 11 co. 5 l.s. per il caso del decreto che pronuncia la cessazione di diritto per mancato pagamento dei debiti verso le pubbliche amministrazioni nel termine di novanta giorni dalla scadenza e di mancato pagamento di crediti impignorabili ex art. 12 co. 4 l.s.[41].
Il Codice della Crisi ha eliminato negli artt. 71 e 81, relativi alla fase esecutiva rispettivamente della ristrutturazione del debito del consumatore e del concordato minore, ogni riferimento ai poteri decisionali del giudice delegato, ma ciò non può assolutamente intendersi come devoluzione di una qualsivoglia vertenza sulle attività di liquidazione e di ripartizione dell’attivo alla giurisdizione ordinaria, tanto più quando le prime siano inserite nell’ambito delle procedure competitive e le seconde esercitate nei limiti delle disposizioni conformative contenute nel decreto di omologa.
Si ritiene che tali poteri giurisdizionali connotino tutte le procedure concorsuali giunte in fase esecutiva e del resto, nel caso del concordato minore, tale conclusione risulterebbe avallata dal rinvio alla disciplina del concordato preventivo sancita, sia pure in termini di compatibilità, dall’art. 74 co. 4 CCI.
A conferma di quanto sopra è stato anzi segnalato che la riforma offre al giudice delegato uno strumento fondamentale per la soluzione dei conflitti insorti fra il debitore ed i creditori in merito alla completa e corretta esecuzione del piano, ovvero la diffida di adempimento prevista specularmente per le due procedure dagli artt. 71 co. 5 e 81 co. 5 CCI.
A mente delle richiamate norme l’autorità giudiziaria, in ogni fase dell’esecuzione (non essendo più l’istituto, dopo il correttivo, collocato nell’ambito della sola procedura di rendiconto) potrà indicare al debitore gli atti necessari per l’esecuzione del piano ed assegnare un termine per il loro compimento, eventualmente prorogabile su istanza, la cui eventuale inosservanza, come vedremo, può comportare la revoca anche d’ufficio dell’omologazione nelle forme previste dal successivo art. 72 CCI [42]. 
6 . I rimedi all’inadempimento non imputabile e le modifiche della proposta e del piano
È possibile che circostanze sopravvenute incidano in misura rilevante sulle prospettive di attuazione della proposta, rendendone impossibile l’adempimento per causa non imputabile al debitore. 
In tali casi si rompe l’equilibrio sinallagmatico che regge la fase esecutiva dell’accordo e del piano (vizio funzionale della causa).
La proposta non può essere infatti più adempiuta perché il piano è divenuto inattuabile, non lasciando alcun margine di apprezzamento al debitore per apportarvi variazioni, nel senso specificato al paragrafo tre, che siano utili e funzionali a consentire il rispetto delle percentuali e dei tempi di soddisfazione del ceto creditorio.
Ciascun creditore è dunque legittimato a proporre domanda di risoluzione dell’accordo (art. 14 co. 2 l.s.), ovvero di cessazione degli effetti del piano del consumatore (art. 14 bis co. 2 lett. b) l.s.) per impossibilità sopravvenuta.
Pur essendo analoga la disciplina dei due istituti, va notata la distinzione terminologica usata dal legislatore, che ben può causare confusione, ma che si spiega in considerazione del fatto che al solo accordo, stante la sua spiccata negozialità, il legislatore ha ritenuto applicabile l’istituto civilistico della risoluzione, preferendo parlare per il piano del consumatore di cessazione degli effetti.
Tale iniziativa risolutoria, inoltre, diversamente da quella di cui parleremo nel successivo paragrafo, parrebbe proponibile anche prima che l’inadempimento si sia concretizzato, laddove appunto le circostanze sopravvenute abbiano reso già certo o altamente probabile che l’accordo o il piano del consumatore non possano essere attuati.[43] 
È verosimile che il verificarsi delle condizioni per l’esperimento della suindicata tutela sarà reso noto ai creditori dall’OCC, chiamato ad una continua vigilanza sull’esecuzione ed a relazionare su qualsivoglia evento o circostanza che pregiudichi la realizzazione degli obiettivi proposti. 
Non essendo stata fornita una nozione specifica di impossibilità non imputabile, la dottrina ha fatto ricorso all’analogia iuris, equiparando la fattispecie a quella di impossibilità sopravvenuta parziale della prestazione, ex art. 1464 c.c.
Ne consegue che le circostanze impeditive addotte dal debitore a sostegno della richiesta di modifica della proposta dovranno essere: a) sopravvenute[44]; b) non prevedibili al momento dell’omologa; c) non imputabili[45].
È nel solco della manutenzione dell’accordo e del piano divenuto ineseguibile per fatti non imputabili al debitore che si colloca la tutela del debitore che abbia subito un peggioramento delle proprie condizioni economiche a causa della crisi dovuta all’emergenza pandemica da Covid-19[46]. 
Al di fuori della suddetta peculiare e tuttavia estremamente attuale ipotesi, occorre chiedersi quando si possa effettivamente sostenere che le cause dell’inadempimento siano non addebitabili al debitore.
Declinando i principi espressi dalla giurisprudenza in materia di impossibilità sopravvenuta per adattarli alla particolare tipologia del negozio di gestione della crisi da sovraindebitamento, si potrà sicuramente includere il caso in cui, a causa di provvedimenti normativi o amministrativi successivi all’omologa e non prevedibili ex ante, né dovuti a violazioni di legge imputabili al debitore, i beni ceduti siano divenuti in tutto o in parte incommerciabili o abbiano perso di valore.
Analogamente, laddove il debitore abbia messo a disposizione una parte del reddito, anche la perdita incolpevole del lavoro o di parte della retribuzione dovrà rientrare nella nozione in commento.[47]
Secondo un’interpretazione più estensiva anche la crisi del mercato che rendono non realizzabile il valore di stima originario dei beni ceduti dovrebbero poter consentire l’accesso allo strumento della modifica della proposta, sempre che il debitore abbia diligentemente operato per favorirne la monetizzazione.
Nel mentre la mancata prestazione di garanzie e nuova finanza potrà dirsi scusabile e dunque consentire la modifica della proposta solo ove si tratti di fatto imputabile in via esclusiva alla condotta di soggetti terzi la cui attività economica non sia strettamente connessa con quella del debitore.
Da ultimo si segnala una pronuncia che ha attribuito valenza di causa incolpevole anche al successivo accertamento di crediti originariamente contestati ovvero pretermessi, situazione alla quale dovrebbe peraltro ovviarsi ex ante mediante predisposizione di una adeguato fondo rischi che consenta di evitare la sopravvenuta inattuabilità del piano, sicché l’assenza di una siffatta previsione potrebbe ben considerarsi ragione di imputabilità dell’inadempimento.[48] Vi è peraltro da ricordare che l’occultamento del passivo laddove dipeso da dolo o colpa grave è motivo di annullamento dell’accordo o di revoca del piano del consumatore.
La risoluzione è possibile nel caso in esame solo su iniziativa di parte e mai d’ufficio e presuppone il deposito di apposito ricorso redatto con l’assistenza tecnica necessaria di un legale.
Onde scoraggiare l’inerzia dei creditori interessati è stabilito che l’esercizio dell’azione de qua è soggetto a decadenza ove siano decorsi sei mesi dalla scoperta delle ragioni che determinano l’impossibilità sopravvenuta, ovvero comunque un anno dalla scadenza del termine fissato per l’ultimo adempimento previsto dall’accordo o dal piano del consumatore.
Il rito è camerale e monocratico[49], sicché esso è necessariamente deformalizzato sia nella fase assertiva che istruttoria, salvo l’obbligo del giudice di adottare ogni atto necessario ad assicurare il pieno contraddittorio con il debitore e gli eventuali controinteressati.
Il giudizio è definito con decreto motivato, reclamabile al Collegio ai sensi dell’art. 739 c.p.c. entro dieci giorni dalla sua notificazione. Del Collegio non può far parte il giudice che ha reso il provvedimento. Non è previsto, diversamente dall’art. 137 l.f., il litisconsorzio necessario del garante, per cui la sua assenza non dovrebbe determinare nullità della pronuncia di risoluzione.
La particolarità della fattispecie in esame, caratterizzata dalla cessazione degli effetti dell’omologa per fatti non ascrivibili alla condotta del debitore, rende ragione di due particolari tutele che il legislatore ha voluto accordare all’inadempiente incolpevole, entrambe mirate a preservare gli effetti esdebitativi della procedura di sovraindebitamento e che rendono la disciplina in disamina differente da quella che sarà esposta nel successivo paragrafo.
La prima cautela è la possibilità offerta al debitore di evitare la risoluzione dell’accordo o la cessazione degli effetti del piano apportando modifiche alla proposta
Di tale fattispecie si occupa l’art. 13 co. 4 ter l.s.
Si ritiene che la facoltà di modifica possa essere esercitata sia in via preventiva, indipendentemente dalle iniziative dei creditori, sia in via successiva, allo scopo di reagire e di neutralizzare le azioni di risoluzione dell’accordo o di cessazione degli effetti del piano del consumatore promosse dai creditori ai sensi dell’art. 14 co. 2 l.s. e dell’art. 14 bis co. 2 lett. b) l.s.
E’ naturale che, in tale stato di cose, la conservazione del sinallagma fra la rinuncia dei creditori ad esigere una parte del loro credito e la controprestazione resa dal debitore nei limiti delle proprie possibilità patrimoniali impone un nuovo sindacato di convenienza e dunque la procedura dovrà necessariamente retroagire alla fase ante omologa, come chiarito dall’inciso “si applicano le disposizioni di cui ai paragrafi 2 e 3 della presente sezione”[50].
Altra tutela offerta al debitore incolpevole è che, anche in caso di accoglimento della domanda di risoluzione dell’accordo o di cessazione degli effetti del piano, il giudizio non potrà mai esitare nella conversione in liquidazione del patrimonio, giusta quanto previsto dall’art. 14 quater co. 1 l.s ultimo periodo.
La disposizione che impedisce il transito alla procedura liquidatoria in caso di non imputabilità dell’inadempimento assume carattere generale, sicché deve ritenersi applicabile, in assenza di colpa del debitore, anche alle ipotesi di risoluzione di diritto dell’accordo o di cessazione di diritto degli effetti del piano previste, rispettivamente, dall’art. 11 co. 5 l.s. e 14 bis co. 1 l.s., per il caso di mancato pagamento entro novanta giorni dei debiti contratti nei confronti delle pubbliche amministrazioni e degli enti titolari di crediti assistenziali e previdenziali, nonché dagli artt. 11 co. 4 l.s. 12 ter co. 4 l.s., per il caso del mancato pagamento dei crediti impignorabili[51].
Il Codice della crisi, nel quadro di una generale semplificazione della materia, unifica gli istituti della risoluzione per inadempimento non imputabile dell’accordo e di cessazione degli effetti del piano del consumatore per inadempimento non imputabile assoggettandoli ad un comune procedimento di revoca, regolato dagli artt. 72 e 82 CCI in modo oramai sostanzialmente unitario dopo le modifiche apportate al testo originario dal correttivo (d.lgs. 147/2020).
Il rito applicabile è sempre di natura camerale, ma si conclude, sia in caso di rigetto che di accoglimento della domanda con sentenza anziché con decreto.
Il citato decreto correttivo ha inoltre stabilito che la detta sentenza è reclamabile ai sensi dell’art. 51 CCI con ricorso da proporre entro trenta giorni alla Corte d’Appello. 
Dovrebbe conseguirne, stante anche l’eliminazione di ogni riferimento alla reclamabilità dinanzi Collegio, che il giudizio di primo grado debba essere trattato dal Tribunale in composizione collegiale, con deroga alla natura essenzialmente monocratica dell’intero procedimento[52].
Più complesso è il tema della legittimazione a proporre la domanda, atteso che al riguardo la normativa riformata, anche qui a seguito del correttivo, si limita ad un rinvio pedissequo alle disposizioni sulla revoca per frode (“il giudice provvede allo stesso modo”), con conseguente estensione dell’iniziativa ad ogni interessato, nonché al Pubblico Ministero[53].
Innovativa è la facoltà del giudice di provvedere d’ufficio, ipotesi che trae ragione verosimilmente dagli accresciuti poteri di vigilanza riconosciuti all’OCC, nonché dalla necessità avvertita di evitare che la carenza di iniziativa dei creditori a fronte di già consolidati inadempimenti possa protrarre una situazione di incertezza incidente sulle facoltà dei creditori di agire in executivis.
Il termine decadenziale per la presentazione del ricorso diviene unico ed è fissato, con il correttivo, alla decorrenza del semestre dalla data di presentazione della relazione finale dell’OCC[54]. 
Il Codice della Crisi sembra riproporre anche l’istituto della modifica della proposta per inattuabilità non imputabile del piano, sia pure con minor chiarezza rispetto al testo dell’art. 13 co. 4 ter l.s., dagli artt. 72 co. 2 (per la ristrutturazione dei debiti del consumatore) e 82 c. 2 (per il concordato minore) CCI.
Le richiamate norme, così come novellate dal decreto correttivo, innestano la disciplina della modifica nell’alveo del procedimento di revoca dell’omologazione per inattuabilità del piano, non dissimilmente da quanto fa il vigente art. 13 l.s., ma individuano quale oggetto della modifica non la proposta, in cui si sostanzia la prestazione del debitore, bensì il piano che ne è un mero strumento esecutivo.
Ebbene se l’inattuabilità è concetto sovrapponibile a quello di impossibilità sopravvenuta utilizzato dall’art. 13 co. 4 ter l.s., l’omissione di ogni riferimento alla proposta nel CCI fa sorgere il ragionevole dubbio che il debitore impossibilitato per causa a lui non imputabile avrà, nel vigore della riforma, unicamente la possibilità di individuare nuove risorse, inizialmente non necessarie ed eventualmente esterne al patrimonio del debitore o derivanti dalla liquidazione di beni di cui era stata in precedenza scelta la conservazione, ma non di modificare i tempi e le percentuali di soddisfazione del ceto creditorio. Questo spiegherebbe anche l’assenza di ogni riferimento nelle citate norme alla retrocessione della procedura alla fase di omologa ed alla possibilità di contestazione da parte dei creditori.
Infine, ritengo che anche dopo l’entrata in vigore della riforma, non sarà consentita la conversione in liquidazione controllata quando l’inadempimento del piano di ristrutturazione dei debiti del consumatore o del concordato minore sia dipeso da ragioni non imputabili al debitore, e ciò per ragioni sistematiche, nonostante la lettera della legge sembri ammettere la conversione senza distinzioni in ogni caso di “inadempimento” (artt. 73 e 83 CCI).
7 . I rimedi all’inadempimento imputabile e la conversione nella procedura liquidatoria
La risoluzione dell’accordo (art. 14 co. 2 l.s.) e la cessazione degli effetti del piano del consumatore (art. 14 bis co. 2 lett. b l.s.) si verificano a maggior ragione all’ipotesi di inadempimento imputabile al debitore.
Anche in questo caso il legislatore ha preferito adottare, per ragioni identiche a quelle viste nel paragrafo precedente, una denominazione diversa per due istituti, ma la disciplina che li regola è del tutto sovrapponibile. 
Secondo un orientamento pressoché unanime non ogni inadempimento è di per sé causa di risoluzione, ma soltanto quello che risulti di non scarsa importanza in ossequio al disposto dell’art. 1455 c.c., ritenuto applicabile alla fattispecie in esame per analogia iuris, stante il carattere negoziale delle procedure di accordo e piano del consumatore.
Meno agevole è l’adeguamento del limite dell’importanza dell’inadempimento alle caratteristiche di questi istituti, caratterizzati da una struttura plurisoggettiva e da una funzione economico sociale peculiare, vale a dire quella di garantire il miglior soddisfacimento dei creditori rispetto all’alternativa liquidatoria del patrimonio.
La giurisprudenza ha chiarito che il concetto di importanza dell’inadempimento è sganciato da qualsiasi riferimento sia alla colpa del debitore, sia all’interesse del singolo creditore.
Non vi è dubbio che la risoluzione debba essere pronunciata quando l’esecuzione residua del piano non consenta comunque ragionevolmente di soddisfare neppure in parte i creditori chirografari, atteso che ne sarebbe irrimediabilmente compromessa la causa concreta, ovvero l’idoneità a soddisfare in misura non irrisoria ciascun dei crediti anteriori.
Al di là di questa ipotesi limite, il sindacato del giudice in tema di risoluzione per inadempimento dovrebbe consistere in una prognosi postuma consistente nel valutare quale giudizio i creditori avrebbero espresso sulla proposta nell’ipotesi in cui avessero conosciuto ab initio lo scenario venutosi a prospettare nel corso della sua esecuzione[55].
È dunque doveroso considerare il profilo oggettivo della distonia fra l’adempimento promesso e la concreta possibilità di soddisfo del ceto creditorio anche in ottica prospettica, attribuendo rilevanza non solo alle percentuali di soddisfazione effettivamente realizzabili all’attualità, ma altresì al ragionevole rispetto dei tempi di pagamento originariamente fissati, posto che la misura della soddisfazione del ceto creditorio è misurata anche dai tempi di realizzo.
Altro importante parametro di riferimento è poi il confronto sempre possibile, soprattutto nelle procedure di continuità, con l’alternativa liquidatoria, posto che la prosecuzione delle attività di impresa nel caso dell’accordo o la conservazione di alcune attività patrimoniali in capo al consumatore nel piano intanto si giustifica solo in quanto sia ancora possibile contare sulle utilità aggiuntive promesse[56].
La valutazione dell’importanza dell’inadempimento è invece ultronea e non dovrà pertanto compiersi nelle ipotesi di risoluzione di diritto regolate dagli artt. 11 co. 5 l.s. e 14 bis co. 1 l.s., per il caso di mancato pagamento entro novanta giorni dei debiti contratti nei confronti delle pubbliche amministrazioni e degli enti titolari di crediti assistenziali e previdenziali, ovvero dagli artt. 11 co. 4 l.s. 12 ter co. 4 l.s., per il caso del mancato pagamento dei crediti impignorabili, posto che la gravità è in tal caso già presunta ex ante dal legislatore.
Sempre necessaria è invece l’indagine sull’imputabilità dell’inadempimento soprattutto a fronte della richiesta di modifica della proposta avanzata dal debitore.
È stato infatti chiarito che l’eccezione de qua è ammissibile nel solo caso di impossibilità sopravvenuta non imputabile, la cui dimostrazione incombe sul debitore stesso, chiamato a superare la presunzione di responsabilità sancita dall’art. 1218 c.c.
Quanto al termine di decadenza ai fini dell’esperimento dell’azione in esame è anche in questo caso fissato in sei mesi dalla scoperta e, in ogni caso, non oltre un anno dalla data della scadenza del termine fissato per l’ultimo adempimento.
Per scoperta deve intendersi la conoscenza che il creditore abbia avuto in modo sufficientemente certo dell’inadempimento del debitore.
A tale riguardo potrà assumere rilevanza la comunicazione ai creditori delle irregolarità commesse dal debitore ad opera dell’OCC.[57]
Non si ravvisano profili di peculiarità della fattispecie sotto il profilo procedurale rispetto a quelli già esaminati nel precedente paragrafo.
La risoluzione dell’accordo o la cessazione degli effetti del piano per inadempimento colpevole ha quale sua potenziale conseguenza, su istanza del debitore o di uno dei creditori, la conversione della procedura in liquidazione del patrimonio (art. 14 quater co. 1 l.s. secondo periodo).
Il Codice della Crisi ha ricondotto all’istituto della revoca tutte le ipotesi di inadempimento, compreso quello imputabile, sia esso relativo al piano di ristrutturazione dei debiti del consumatore che al concordato minore, avendo peraltro cura di prevedere un unico termine semestrale per la presentazione della domanda di risoluzione decorrente non già alla scoperta o all’ultimo adempimento, espressioni entrambe sia pure in diversa misura foriere di incertezze applicative, ma dal deposito della relazione finale dell’OCC.
Del tutto identiche alla già esaminata disciplina della risoluzione per inattuabilità piano sono le disposizioni in tema di legittimazione attiva, di revocabilità d’ufficio, di rito applicabile e di impugnazione del provvedimento di accoglimento o diniego della domanda.
Merita autonoma trattazione, tuttavia, la speciale ipotesi di risoluzione prevista specularmente dal comma due degli artt. 72 (per il piano di ristrutturazione) e 82 (per il concordato minore). 
È previsto che al momento del deposito della relazione finale dell’OCC il giudice delegato, eventualmente su sollecitazione di uno o più creditori a cui la stessa sia già stata comunicata, potrà rilevare la mancata integrale esecuzione del piano ed assegnare al debitore un termine per il compimento degli atti necessari al suo completamento.
Il suddetto termine è prorogabile su istanza del debitore stesso, da presentare anteriormente alla sua scadenza. La norma non specifica né il lasso temporale massimo concedibile al debitore, che ovviamente sarà rimesso al prudente apprezzamento del giudice e varierà a seconda dell’importanza del ravvisato inadempimento, né l’eventuale ulteriore prorogabilità, fermo restando, secondo una regola processuale generale, che la proroga non dovrebbe mai superare la durata del termine originario.
Decorso il suddetto termine e perdurando l’inadempimento il giudice, d’ufficio o su istanza di parte, revocherà l’omologa.
Il Codice della Crisi prevede che in tutti i casi di revoca per inadempimento i creditori o il pubblico ministero (salva naturalmente la generale legittimazione in proprio del debitore) possono chiede la conversione del piano di ristrutturazione o del concordato minore in liquidazione controllata (artt. 73 e 83 co. 2 CCI).
È da ritenere che l’espressione inadempimento, pur generica, non sia estesa al caso di inattuabilità del piano, ovvero di inadempimento derivante da impossibilità sopravvenuta, ma soltanto a quella qui in esame di inadempimento colpevole, come già avviene nella vigente normativa.[58]
Vi è infine da chiedersi se, a fronte dell’inadempimento, sia possibile ai creditori agire non già per la revoca della procedura, ma per l’adempimento delle prestazioni promesse dal debitore (azione di adempimento)
Il tema, non affrontato espressamente né dalla l. 3/2012, né dal Codice della Crisi, si pone all’attenzione dell’interprete in virtù del rinvio fatto dall’art. 74 co. 4 CCI alla disciplina del concordato preventivo per tutto quanto non previsto nella regolamentazione del concordato minore.
Ebbene, fra le norme di possibile applicazione vi sarebbe l’art. 118 co. 4 CCI che riconosce ai creditori una sorta di azione di ottemperanza il cui accoglimento consente al tribunale di sostituire al debitore il commissario giudiziale attribuendo a quest’ultimo i poteri necessari a provvedere in suo luogo. La difficoltà di applicare una siffatta disposizione al concordato minore è da ascrivere principalmente al diverso ruolo dell’OCC il quale, assumendo una funzione collaborativa nell’esecuzione del piano, dovrebbe già anteriormente essersi adoperato per l’individuazione di possibili soluzioni[59].
8 . La revoca del decreto di omologa per frode e conversione in procedura liquidatoria
Gli artt. 14 e 14 bis l.s. dettano, infine, il quadro di tutele previsto per il caso di scoperta nella fase esecutiva di atti fraudolenti commessi dal debitore che inficiano il decreto di omologa e ne impongono la caducazione.
Anche in questo caso è stata utilizzata una terminologia non uniforme per descrivere l’istituto in argomento: nel caso dell’accordo si è utilizzata la nozione negoziale di annullamento, mentre nel caso del piano del consumatore quella processualistica di revoca. Nondimeno la disciplina nei due casi è del tutto sovrapponibile.
I casi di annullamento/revoca dell’accordo o del piano sono tipici e costituiscono un numerus clausus, come certificato dalla chiosa “non è ammessa alcuna altra azione di annullamento”, ovvero: a) doloso o gravemente colposo aumento del passivo; b) dolosa o gravemente colposa diminuzione del passivo; c) dolosa o gravemente colposa sottrazione di una parte rilevante dell’attivo; d) dolosa o gravemente colposa dissimulazione di una parte rilevante dell’attivo; e) dolosa simulazione di attività inesistenti.
Va subito notato che si tratta di fattispecie non del tutto coincidenti con quelle previste dall’art. 186 l.f. (che a sua volta rinvio all’art. 137 l.f.) in materia di annullamento del concordato preventivo, laddove non si fa alcun riferimento alle condotte sub b) e sub e).
E tuttavia il riferimento, nelle sole procedure di sovraindebitamento, anche alla diminuzione del passivo e alla simulazione dell’attivo come causa di impugnazione del decreto di omologa si spiega in ragione dell’assenza nella fase di omologazione di ogni minima attività di inventariazione dei beni e di accertamento della consistenza dei debiti elencati dal ricorrente, non rientranti fra i compiti demandati all’OCC attestatore.
Altra peculiarità rispetto alla normativa concordataria è la rilevanza attribuita non solo al dolo, elemento psicologico che dovrebbe sorreggere ogni condotta ritenuta fraudolenta, ma anche alla colpa grave, a dimostrazione di una più pregnante tutela del ceto creditorio, verosimilmente dovuta ai particolari meccanismi di coartazione della volontà di quest’ultimo (silenzio assenso e cram down per i contrari o i pretermessi nell’accordo, non contestazione e cram down per gli opponenti nel piano del consumatore).
L’estensione della tutela per i creditori si comprende agevolmente ove si riconduca la fattispecie dell’impugnazione dell’omologa per fatto doloso del debitore alla categoria civilistica dell’annullamento per dolo determinante (causam dans) e quella dell’impugnazione dell’omologa per fatto gravemente colposo a quella dell’annullamento per errore vizio.
Ove si segua questa impostazione è evidente che il creditore potrà ottenere la caducazione degli effetti esdebitativi in modo più agevole rispetto a quanto avviene nel concordato preventivo, non essendo necessario dimostrare che l’erroneo affidamento dei creditori nell’attuabilità e convenienza del piano è dipeso da una condotta volontaria del debitore, bensì sufficiente la prova della mera riconoscibilità dell’errore da parte di quest’ultimo laddove avesse prestato anche una diligenza minima (colpa grave)[60]. 
Nel solo caso della simulazione dell’attivo è richiesto che il debitore abbia agito con dolo, ma ciò pare più che altro derivare dalla necessaria volontarietà di una siffatta condotta.
È stato anche osservato che la lettera della norma non consente di affermare con assoluta sicurezza che la colpa grave possa assistere anche le condotte di sottrazione o dissimulazione dell’attivo, le quali paiono intrinsecamente dolose[61].
È certo che la caducazione dell’omologa non potrà giammai derivare da vizi che non siano imputabili al debitore (si pensi al caso di aumento del passivo dovuto ad indebite richieste del creditore o ad errori commessi dall’OCC nell’attestazione del piano), salvo che egli non ne fosse a conoscenza e se ne fosse avvantaggiato (art. 1439 co. 2 c.c.), potendo diversamente essi rilevare, laddove scoperti successivamente all’omologa quale causa di risoluzione ex nunc per inattuabilità e salvo modifica della proposta.
La ratio sottesa allo strumento impugnatorio in esame è la rimozione degli effetti di un provvedimento esdebitativo concesso sulla base di una falsa rappresentazione della realtà che ha dunque viziato la formazione del consenso dei creditori.
Ne consegue che la condotta del debitore deve essere sufficientemente grave, tale cioè da assumere portata decettiva, nel senso che essa abbia impedito ai creditori di conoscere una consistenza patrimoniale o una situazione debitoria che, se note, avrebbero portato ad un differente giudizio sulla fattibilità economica e sulla convenienza del piano.
Il termine di decadenza per proporre la domanda di annullamento è fissato in sei mesi dalla scoperta ed in ogni caso non oltre due anni (in luogo dell’anno previsto per l’azione di risoluzione) dalla scadenza del termine fissato per l’ultimo adempimento.
L’iniziativa spetta esclusivamente ai creditori, ivi compresi quelli pretermessi, mentre non è attribuita legittimazione all’OCC, diversamente da quanto accade nel concordato preventivo in cui la domanda può essere proposta dal commissario giudiziale. 
Il procedimento è regolato dal rito camerale, come precisato dall’art. 14 co. 5 l.s., e prevede il litisconsorzio del solo debitore, ma, diversamente da quanto previsto per l’annullamento del concordato preventivo, non quello necessario del garante.
Quanto alla composizione dell’organo giudicante, si ritiene anche in questo caso che la norma non richieda la competenza collegiale, ciò che pare evidente ove si consideri che il reclamo avverso il provvedimento di accoglimento o reiezione della domanda di annullamento andrà proposto al Tribunale in composizione collegiale.[62]
In caso di annullamento dell’accordo o di revoca del piano del consumatore per i fatti sin qui esaminati il Tribunale, solo su istanza del debitore o di uno dei creditori, converte la procedura in liquidazione del patrimonio.
Il Codice della Crisi riconduce anche l’azione di annullamento fin qui descritta alla categoria generale della revoca del piano di ristrutturazione dei debiti e del concordato minore, dettando un’unitaria disciplina sia pure affidata per ragioni sistematiche a due separate e speculari disposizioni (artt. 72 e 82 CCI).
Queste le principali novità che la riforma quando in vigore introdurrà.
La prima è l’estensione della legittimazione ad ogni interessato, oltre che al Pubblico Ministero, nonché la possibilità che l’iniziativa sia assunta anche d’ufficio (su segnalazione dell’OCC o di qualsiasi altro soggetto).
La seconda è che il termine di decadenza per la presentazione della domanda è unico e pari ad ai sei mesi successivi alla presentazione della relazione finale dell’OCC, da comunicarsi opportunamente a tutti i creditori.
Questo termine potrebbe dunque essere decorso mentre la fase esecutiva è ancora in corso laddove il giudice abbia assegnato al debitore il termine di cui agli artt. 71 co. 5 e 81 co. 5 CCI per integrare l’esecuzione del piano.
È stato d’altro canto osservato che tale previsione finisce per allungare troppo i termini per la proposizione della domanda, slegandolo dalla scoperta e dunque consentendo condotte ingiustificatamente inerti dei creditori che abbiano avuto contezza delle cause di possibile revoca dell’omologa.
Ma il principale fattore di discontinuità rispetto alla pregressa disciplina è l’apertura dell’elenco delle cause di impugnazione, non più chiuso, ma esteso a qualsiasi atto diretto a frodare le ragioni dei creditori.
Vi al riguardo da chiedersi se la “frode esecutiva” sia un qualcosa di diverso da quella che il giudice è chiamato a verificare in sede di omologa del piano di ristrutturazione (art. 69 co. 1 CCI) o del concordato minore (art. 77 co 1 CCI) e se dunque debba trattarsi di atti successivi o comunque non conosciuti alla data dell’omologazione[63].
Al riguardo deve opinarsi che il decreto di omologa sia provvedimento decisorio idoneo al giudicato (essendo suscettibile di reclamo al collegio), sicché senz’altro esso è idoneo a coprire il dedotto ed il deducibile laddove non oggetto di impugnazione.
Sembra dunque che gli atti proditori atipici idonei a provocare la revoca nella fase dell’esecuzione siano solo quelli successivamente compiuti dal debitore e scoperti dall’OCC o dai creditori, sempre che abbiano arrecato o possano arrecare grave pregiudizio ai creditori.
La novità non dovrebbe comportare un’estensione delle tutele già previste per il caso di atti e pagamenti difformi dal piano, essendo previsto che questi ultimi, siano essi assistiti da intento fraudolento o meno, possano essere segnalati al giudice per l’apertura anche officiosa del procedimento di revoca.
Piuttosto l’inserimento degli atti in frode fra le cause revocatorie consente senza dubbio di anticipare temporalmente la tutela fino a comprendere ogni atto, anche soltanto tentato o preparatorio, che sia finalizzato a rendere il piano inattuabile o a ridurre in misura rilevante il grado di soddisfazione dei creditori.
Anche a seguito della riforma, infine, la conversione in procedura liquidatoria sarà possibile, a seguito di revoca dell’omologa per atti in frode, sia su istanza del debitore sia su istanza dei creditori o del pubblico ministero (ma giammai d’ufficio o su richiesta di altri interessati).
9 . La stabilità degli effetti prodotti dall’omologa
Resta da esaminare il tema delle conseguenze della caducazione del provvedimento di omologa dell’accordo o del piano in conseguenza del suo annullamento o dell’inadempimento del debitore, sia esso imputabile o non imputabile.
La disciplina è comune a tutti i casi esaminati, sicché la diversa natura del provvedimento caducatorio, incidente nel caso di annullamento sulla causa genetica del rapporto e nel caso della risoluzione sulla causa funzionale, non incide sulle conseguenze che ne derivano, assumendo carattere prevalente un principio comune a tutte le procedure concorsuali, quello della conservazione degli atti compiuti nel corso del loro svolgimento.
A tale principio rispondono gli artt. 14 co. 4 l.s. (per l’accordo) e 14 bis co. 5 l.s. (per il piano), secondo cui il venir meno dell’accordo o dell’omologa del piano del consumatore non pregiudica i diritti acquistati dai terzi di buona fede.
Il riferimento alla buona fede del terzo riprende la disciplina dei contratti (artt. 1445 e 1458 c.c.), ed è assente nelle altre procedure concorsuali. 
L’art. 140 co. 3 l.f. (ritenuto applicabile anche al concordato preventivo), prevede soltanto che i creditori anteriori, senza distinzione, possano trattenere quanto già riscosso in esecuzione del concordato annullato o risolto, ma nulla aggiunge a proposito degli acquisti compiuti da terzi, potendosi ben ricavare la piena efficacia di questi ultimi, sempre se conformi alla proposta e al piano e dunque non revocabili, dalla libera disponibilità del patrimonio che permane in capo al debitore; d’altra parte l’art. 18 co. 15 l.f., sancisce, in caso di revoca del fallimento, che sono salvi gli effetti di tutti gli atti legalmente compiuti dagli organi della procedura, non attribuendo alcun rilievo allo stato soggettivo degli acquirenti di beni e diritti.
Per contro nelle procedure di accordo e piano del consumatore i creditori o i terzi non potranno trarre alcun beneficio dalla procedura venuta a cessare quando abbiano agito in collusione con il debitore o comunque in mala fede.
E’ evidente che nei confronti di tali soggetti potranno essere assunte, dal liquidatore in caso di conversione, ex art. 14 decies co. 2 l.s., o dai creditori, con azione revocatoria ordinaria, iniziative recuperatorie di beni ed altre attività trasferiti in esecuzione del piano quand’anche ad esso conformi.
Quanto all’effetto dell’esdebitazione, vale a dire il principale beneficio che il debitore ricava dall’integrale esecuzione della procedura di sovraindebitamento, non vi è dubbio che esso è caducato ab imis, con reviviscenza integrale delle originarie ragioni creditorie e venir meno della falcidia proposta, salva l’efficacia ed irripetibilità dei pagamenti ricevuti dai creditori quando conformi al piano.
Della sorte di quelli ricevuti in difformità si è invece già detto nel paragrafo tre.
Dalla giurisprudenza in materia di concordato preventivo deve ricavarsi la sopravvivenza delle garanzie prestate da terzi, posto che nell’iniziativa di questi ultimi finalizzata all’assunzione della garanzia è ontologicamente implicito il rischio dell’insuccesso come evento speculare, sicché non è ipotizzabile il venir meno di essa proprio nel momento patologico della risoluzione, dovuta all’inadempimento dell’imprenditore o del garante. L’escussione delle garanzie potrà, sia pure nei limiti della percentuale concordataria (posto che essa segna il limite della responsabilità del garante), essere fatte valere dai singoli creditori e non già dal liquidatore, pure in caso di conversione in liquidazione del patrimonio, ritenuto privo di legittimazione[64].
Ultima notazione va fatta riguardo al divieto di azioni esecutive.
Poiché, come detto, il pactum de non petendo in executivis è la controprestazione che si esige dai creditori nelle more dell’integrale esecuzione della proposta, deve concludersi che l’inibitoria in questione viene definitivamente meno, sia per i creditori anteriori che per quelli posteriori, così come del resto sancito espressamente dall’art. 12 co. 4 l.s. primo inciso, norma da intendersi applicabile anche al piano del consumatore.
Quanto alla sorte dei crediti prededucibili va anzitutto rammentato che essi conservano la preferenza su quelli concorsuali, ma solo in caso di consecuzione della procedura di liquidazione del patrimonio, giusta quanto stabilito dall’art. 14 duodecies co. 2 l.s.
Viceversa il beneficio è escluso in caso di risoluzione della procedura di sovraindebitamento dell’imprenditore per sopravvenuto fallimento. In questa peculiare ipotesi, infatti, l’art. 12 co. 5 l.s. consente la conservazione della prededuzione esclusivamente a vantaggio di coloro che abbiano prestato finanziamenti in funzione o in esecuzione dell’accordo omologato.

Note:

[1] 
La Corte di Cassazione ha in più occasioni rimarcato la natura concorsuale delle procedure di sovraindebitamento. In un recente arresto (Cass. 3 luglio 2019, n. 17834, è stato ad esempio affermato che “sebbene la I. n. 3 del 2012 non contenga un esplicito richiamo all'art. 55, secondo comma, legge fall., resta che la regola per cui tutti i crediti anteriori si considerano scaduti alla data dell'apertura della procedura deve trovare applicazione anche rispetto all'accordo di composizione della crisi da sovraindebitamento (ovvero al piano del consumatore), attesa la comune natura di procedura caratterizzata dal crisma della concorsualità, per quanto rivolta (l'accordo) agli imprenditori non fallibili e (il piano del consumatore) ai soggetti in condizione di insolvenza cd. civile”. 
[2] 
Il D.Lgs. 26 ottobre 2020, n. 147, noto come correttivo del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza, nell’apportare modifiche al D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, ha da ultimo infine sancito espressamente l’applicazione della disciplina delle procedure competitive alle vendite eventualmente previste dal piano di ristrutturazione del debito del consumatore (che prenderà il posto del vigente piano del consumatore) e dal piano di concordato minore (che prenderà il posto del vigente accordo di composizione della crisi), stabilendo che ad esse provvede il debitore, anche avvalendosi di soggetti specializzati, sotto il controllo e con la collaborazione dell’OCC, previa stima del valore dei beni, condivisa con l’organismo, con adeguate forme di pubblicità ed assicurando il rispetto dei principi di massima informazione e partecipazione degli interessati.
[3] 
La giurisprudenza in materia di concordato preventivo, procedura nella quale vige analoga disposizione (art. 167 co. 2 l.f.), addirittura anticipata alla fase “prenotativa” (art. 161 co. 7 l.f.) assente invece nelle procedure di sovraindebitamento, ha chiarito il significato da attribuirsi alla sanzione di inefficacia degli atti di straordinaria amministrazione, nozione inclusiva dei pagamenti in violazione della par condicio, compiuti senza autorizzazione giudiziale, evidenziando che essa attribuisce al curatore in caso di successivo fallimento, la possibilità di ottenere la declaratoria di inefficacia con esiti recuperatori per la massa (cfr. Trib. Lucca, 27 gennaio 2017, n. 216, www.ilcaso.it, che richiama sul punto Cass. 12 gennaio 2007, n. 578; la giurisprudenza di legittimità esclude invece che gli atti non autorizzati, inclusi i pagamenti siano di per sé idonei, nel concordato preventivo, a determinare la non ammissione o la revoca della procedura occorrendo invece verificarne in concreto il carattere fraudolento e l’effettiva lesione dell’interesse del ceto creditorio.
[4] 
Il testo del CCI, così come modificato dal decreto correttivo, è molto chiaro al riguardo laddove sancisce che “il debitore è tenuto a compiere ogni atto necessario a dare esecuzione al piano omologato”, ponendo fine al dibattito che, giustamente, evidenziava l’equivocità dell’originaria formulazione degli artt. 71 e 81 nella parte in cui, giungendo ad escludere il diritto al compenso dell’OCC in caso di mancata approvazione del rendiconto, finivano con l’attribuire al primo persino il rischio della mancata esecuzione della proposta per fatto imputabile al debitore. Sottolineava l’incoerenza sistematica dello scenario descritto F. ROLFI, Il concordato minore, in Il nuovo sovraindebitamento, Torino, 2019, 213.
[5] 
In questo senso sembra, sia pure sotto forma di obiter dictum, opinare la Corte di Cassazione (sent. 29 novembre 2005, n. 26036 e ord. 7 giugno 2016, n. 11660) laddove, con riferimento al concordato preventivo, evidenzia che il pagamento di un debito anteriore compiuto in frode ai creditori è sanzionabile solo con la revoca ex art. 173 l.f. o con l’azione ex art. 167 co. 2 l.f. esperibile dal curatore nel successivo fallimento, non esistendo nella fase concordataria un ufficio legittimato al suo esercizio. L’art. 14 decies l.s., nel testo modificato dal d.l. 137/2020 (conv. in L. 176/2020), attribuisce al liquidatore nominato con il decreto di apertura della liquidazione del patrimonio la legittimazione ad esercitare le azioni dirette a far dichiarare inefficaci gli atti compiuti dal debitore in pregiudizio dei creditori, secondo le norme del codice civile. Sebbene il riferimento sia alla revocatoria ordinaria, ritengo che fra le azioni esperibili vi sia senz’altro quella finalizzata a dar attuazione al disposto dell’art. 13 co. 4 l.s.
[6] 
In questi termini P. BOSTICCO, Esecuzione dell’accordo e le ipotesi di risoluzione ed annullamento, in Il piano di risanamento attestato e il nuovo sovraindebitamento, Milano, 2014, 183.
[7] 
In senso contrario alla tesi esposta nel testo v. P. BOSTICCO, op. cit., 210.
[8] 
L’art. 16 co. lett. d) l.s. si riferisce ai soli pagamenti e non agli atti difformi, i quali potrebbero invece rientrare nella fattispecie della successiva lett. f), il cui contenuto ampio dovrebbe estendersi ad ogni altra condotta, omissiva e commissiva, inottemperante alla proposta di accordo di piano del consumatore omologata. I reati descritti si configurano come di pericolo, atteso che non è necessario ai fini del loro perfezionamento il verificarsi dell’evento di danno per i creditori; l’elemento psicologico è il dolo generico, ovvero la consapevolezza e volontarietà dei pagamenti difformi o degli atti od omissioni che si sostanziano nel mancato rispetto dei contenuti del piano. Non riguarda la fase esecutiva, ma quella anteriore conclusa dall’omologa, la fattispecie della lett. e) relativa al caso di aggravamento della posizione debitoria, atteso che la rilevanza della fattispecie presuppone che la procedura di sovraindebitamento sia ancora in corso, ovvero non sia stato ancora emesso il decreto di omologa che appunto ne determina la chiusura. Sul tema L. GIARRATANA, La responsabilità penale del debitore e dei componenti dell’OCC, dei componenti dell’OCRI, per i reati previsti dal codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Evoluzione degli organi della crisi d’impresa, a cura di M. MONTELEONE, p. 1204 ss.
[9] 
Vale la pena citare per analogia, sia pure riferito alla procedura di accordo di ristrutturazione di cui all’art. 182 bis l.f., l’orientamento espresso da Trib. Terni, 4 luglio 2011, su Fallimento 2012, 205 ss., con nota di M. ARATO, Modifiche all’accordo di ristrutturazione dei debiti e nuovo controllo giudiziario. Secondo il giudice ternano “se si tratta di modifiche secondarie, che, cioè, non pregiudicano la corretta e tempestiva esecuzione dell’accordo, ovvero l’attuabilità e la capacità dello stesso di assicurare il pagamento dei creditori estranei, non è richiesta né un’ulteriore asseverazione, né un’ulteriore omologa”.
[10] 
Si ritiene che della sospensione disposta dal giudice del sovraindebitamento il giudice dell’esecuzione debba limitarsi a prendere atto con provvedimento ex art. 623 c.p.c., trattandosi di sospensione necessaria assunta in altro ambito (cfr. Trib. Nola, 4/05/2017, inedita).
[11] 
Quanto ricavato nelle procedure esecutive pendenti, siano esse mobiliari o immobiliari, dovrà essere restituito alla massa dei creditori, salvi gli effetti delle eventuali aggiudicazioni medio tempore intervenute. Più discussa è la questione della recuperabilità all’attivo della procedura di sovraindebitamento dei crediti assegnati in sede di pignoramento presso terzi. Ove l’assegnazione sia parificata, infatti, alla cessione del credito (pro-solvendo) e sia intervenuta anteriormente all’apertura del concorso, potrebbe sostenersi l’assegnatario è subentrato al debitore sicché il credito non fa più parte del patrimonio di quest’ultimo. Contra, Trib. Salerno 19 aprile 2021, www.dirittodellacrisi.it , in materia di liquidazione del patrimonio, ha ritenuto inopponibili alla massa i pagamenti eseguiti dal terzo pignorato in favore dell’assegnatario successivamente all’apertura del concorso dei creditori, poiché lesivi della par condicio creditorum; nonché Trib. Mantova, 22/06/2011, su www.ilcaso.it, in materia di concordato preventivo. Ma di recente Cass. 15 febbraio 2021, n. 3850, ha sostenuto la legittimità del pagamento eseguito dal terzo pignorato in favore del creditore assegnatario benché eseguito dopo l’ammissione del debitore alla procedura di concordato preventivo, atteso che il concordato non produce lo spossessamento e pertanto non è invocabile al fine di considerare inefficaci i pagamenti eseguiti dal debitor debitoris in favore dell’assegnatario il disposto dell’art. 44 l.f. Il Trib. Livorno, 30/03/2021, www.ilcaso.it, preso atto dell’irragionevolezza di un sistema normativo che, pur consentendo al sovraindebitato di falcidiare e ristrutturare debiti derivanti da contratti di finanziamento con cessione del quinto, in cui analogo è il meccanismo di soddisfazione del creditore (art. 8 co. 1 bis l.s.), non prevede analoga facoltà per il caso di crediti assegnati in data anteriore al deposito della proposta di piano del consumatore, ha sollevato da ultimo questione di legittimità costituzionale dell’art. 8 co. 1 bis l.s.
[12] 
L’inciso è stato aggiunto dal d.l. 137/2020 conv. in L. 176/2020, al fine di diradare ogni incertezza circa l’inclusione nel perimetro della prededuzione dei crediti spettanti ai professionisti incaricati dal debitore per assisterlo nella predisposizione del piano di sovraindebitamento.
[13] 
Si rammenta, per identità di ratio, la pronuncia del Trib. Modena 1/06/2017, citata su www.sovraindebitamento.org, che, sul presupposto della natura eccezionale del privilegio processuale riconosciuto dall’art. 41 co. 2 TUB al creditore fondiario, come tale non applicabile alla procedura di liquidazione del patrimonio ex art. 14 ter l.s. ha respinto l’istanza di prosecuzione dell’espropriazione immobiliare formulata da una banca. In senso analogo il recente decreto del Trib. Udine, 26/02/2021, su www.ilcaso.it, di apertura della liquidazione del patrimonio.
[14] 
Nel senso indicato v.si C. TRENTINI, in ilcaso.it, Crisi d’Impresa e Insolvenza, 14 febbraio 2019, p. 14 e ss.
[15] 
La formula di riportata all’art. 8 co. 1 quater l.f. “l’organismo di composizione della crisi attesta che il credito garantito potrebbe essere soddisfatto integralmente con il ricavato della liquidazione del bene effettuata a valore di mercato e che il rimborso delle rate a scadere non lede il diritto degli altri creditori” pare costituire un corollario del principio espresso dall’art. 7 co. 1 l.s., a sua volta precipitato della par condicio creditorum, da cui si ricava che la conservazione di un bene sottoposto ad ipoteca o a pegno è consentita purché il debitore abbia la possibilità di reperire aliunde (cioè da beni o attività diverse da quelle oggetto della prelazione) risorse per lo meno equivalenti al suo valore residuo in caso di liquidazione (art. 7 co. 1 l.s.). Consegue che ogni risorsa endopatrimoniale eccedentaria (rispetto a quel valore) che sia destinata al creditore munito di una prelazione speciale è giustificabile solo in caso di integrale pagamento dei creditori aventi privilegio generale mobiliare (c.d. absolute priority rule). In senso contrario a quanto sostenuto nel testo va considerato quanto espresso da A. CRIVELLI, cit., p. 71, secondo cui invece in caso di inadempimento del debitore al pagamento delle rate del mutuo secondo le scadenze dovrebbe conseguire la possibilità per il creditore ipotecario di “promuovere esecuzione individuale sul bene suddetto, mentre continuerebbe ad essere vincolato a non eseguire sui beni oggetto del piano”.
[16] 
È da escludere la possibilità di una conversione d’ufficio in liquidazione del patrimonio, come ben si evince dall’art. 14 quater l.s., secondo periodo, che assimila l’ipotesi in esame a quella di conversione successiva alla risoluzione per inadempimento, e ciò nonostante ai fini della risoluzione di diritto prevista dall’art. 11 co. 5 l.s. non sia richiesta affatto l’iniziativa dei creditori. Resta inteso che l’istanza di conversione potrà provenire da ogni creditore, eventualmente intervenuto nel procedimento (ma non dell’OCC), anche se diverso dalle amministrazioni e dagli enti rimasti insoddisfatti.  Sulla necessità che l’inadempimento sia imputabile ai fini della conversione cfr. Trib. Ancona 16/03/2021, www.ilcaso.it. Non pare possa destare particolari dubbi, invece, la questione relativa al termine rilevante per la declaratoria di cessazione degli effetti, posto che il dies a quo per la decorrenza dei novanta giorni è individuato non nella scadenza originaria dei pagamenti (che potrebbe peraltro essere di molto anteriore alla presentazione della domanda), ma nella scadenza prevista dal piano.
[17] 
Il meccanismo procedurale descritto non opera invece più, dopo la novella del dicembre 2020, per i tributi costituenti risorse proprie dell’Unione europea, per l’imposta sul valore aggiunto e le ritenute operate e non versate, imponendo dunque alle amministrazioni finanziarie di ricorrere all’ordinaria procedura di risoluzione per inadempimento.
[18] 
È il caso esaminato da Trib. La Spezia 28 febbraio 2019 cit., richiamato da A. NAPOLITANO in Sovraindebitamento, accordo di composizione della crisi, piano del consumatore e liquidazione, in Fallimento, 2/2021, 253.
[19] 
Il medesimo dibattito si era già proposto in materia di concordato preventivo: Trib. Reggio Emilia, 24 giugno 2015, www.ilcaso.it , ha sostenuto che il divieto di azioni esecutive permane nella fase esecutiva del concordato anche dopo la scadenza dei termini per l’adempimento della proposta, potendo il creditore solo chiedere la risoluzione del concordato e la dichiarazione di fallimento; in senso contrario v. Trib. Velletri, 2 novembre 1988, in Dir. Fall., 1989, 757, secondo cui dopo il termine previsto per l’adempimento del concordato i creditori riacquistano automaticamente il potere di agire in via esecutiva. Per una disamina attenta del tema cfr. P. GOBIO CASALI, L’ampiezza del divieto di azioni esecutive nel concordato preventivo, su www.judicium.it.
[20] 
Il d.m. 24 settembre 2014, n. 202, emanato in attuazione dell’art. 15 co. 3 l.s., stabilisce che le funzioni di OCC sono svolte dal c.d. gestore della crisi, organo monocratico o in casi particolari collegiale, definito come la persona fisica designata dal referente dell’Organismo ed in possesso di requisiti di professionalità (art. 4 co. 5 d.m.) che ne consentono l’iscrizione in apposito elenco inserito nel registro degli organismi autorizzati alla gestione della crisi, onorabilità (art. 11 co. 8 d.m.) e indipendenza (art. 11 co. 3 d.m.). Egli svolge la prestazione professionale, che l’ordinamento richiede essere altamente specializzata, personalmente (art. 12 d.m.) e può avvalersi dell’opera di ausiliari. Sebbene la nomina del gestore della crisi spetti in base al citato regolamento agli OCC, articolazioni interne di uno degli enti pubblici individuati dalla legge e dal regolamento (Comuni, Province, Città Metropolitane, Regioni, Istituzioni universitarie pubbliche, Camere di commercio, Ordini professionali di avvocati, commercialisti ed esperti contabili, e notai) stabilmente destinate all’erogazione del servizio di gestione della crisi da sovraindebitamento, l’art. 15 co. 9 l.s. prevede che le medesime funzioni possano essere affidate dal debitore ad un professionista o ad una società di professionisti in possesso dei requisiti di cui all’art. 28 l.f., ovvero ad un notaio nominati in sede giudiziale. Non essendo chiarito dalla norma da ultimo citata se essa abbia una valenza solo transitoria, ovvero applicabile fino all’istituzione nel circondario del Tribunale competente delle suindicate articolazioni, si è posta la questione del carattere alternativo dei due meccanismi di designazione. La Corte di Cassazione, ord. 8 agosto 2017, n. 19740, ha chiarito, tuttavia, che la necessaria specializzazione dei gestori della crisi ed il riferimento, contenuto nell’art. 7 co. 1 l.s., agli OCC di cui al successivo art. 15 quali soggetti deputati a prestare ausilio nella predisposizione del piano fanno propendere per la tesi secondo cui la nomina giudiziale è consentita solo fino a quando nel circondario dell’ufficio competente sia mancata la costituzione degli organismi di composizione della crisi con iscrizione di essi nell’apposito registro tenuto presso il Ministero della Giustizia (così anche Trib. Vicenza, 31/10/2017 www.ilcaso.it ; Trib. Rimini, 14/12/2017 www.ilcaso.it). Il CCI diraderà, quando in vigore, ogni possibile dubbio interpretativo stabilendo, all’art. 68, che la nomina da parte dell’autorità giudiziaria è possibile “se nel circondario del tribunale competente non vi è un OCC”.
[21] 
R. CUONZO, Diritto privato degli istituti preconcorsuali, Torino, 2016, 231 ss., nel commentare criticamente la mancanza di un sorvegliante (protector) nella fase esecutiva degli accordi di ristrutturazione dei debiti previsti dall’art. 182 bis l.f., ha non a caso richiamato come possibile riferimento per una riforma dell’istituto la normativa in materia di insolvenza del debitore civile, che appunto affida all’OCC il compito di vigilare sull’esatto adempimento dell’accordo o del piano comunicando ai creditori ogni eventuale irregolarità.
[22] 
Secondo S. PACCHI, Organismo di composizione della crisi, in Evoluzione degli organi della crisi d’impresa, a cura di M. MONTELEONE, Milano, 2021, 984, l’aver affidato la legge ad un referente qualificato, costituito presso l’Organismo, la nomina del gestore della crisi costituisce un limite evidente all’autonomia negoziale del debitore fin dalla predisposizione della proposta e del piano, ma rappresenta il necessario punto di equilibrio fra le garanzie di efficacia ed economicità della procedura e l’ineliminabile tutela del ceto creditorio.
[23] 
I regolamenti di autodisciplina degli OCC prevedono che la rinuncia è consentita al gestore della crisi solo per gravi e giustificati motivi.
[24] 
Nell’originaria stesura il CCI aveva previsto che l’OCC dovesse, tanto nella procedura di ristrutturazione del debito del consumatore che in quella di concordato minore, presentare al giudice delegato il rendiconto finale della gestione. La prima lettura delle disposizioni che regolavano questo procedimento, nella parte in cui si prevedeva la possibilità per il giudice di non approvare il rendiconto a causa della mancata integrale esecuzione del piano da parte del debitore ed addirittura di negare all’OCC, sia pure solo facoltativamente, il compenso pattuito in caso di mancata approvazione, aveva suscitato non poche perplessità fra i primi commentatori, essendo evidente che si finiva in tal modo per rendere il professionista incaricato addirittura responsabile dell’esecuzione del piano, così compromettendo anche le esigenze di terzietà ed indipendenza che comunque connotano la funzione di vigilanza. Per un’analisi approfondita F. ROLFI, op. cit., 206 ss., il quale parla di “singolare sovrapposizione di ruoli del debitore e dell’O.C.C.”. Il decreto correttivo ha eliso ogni riferimento alla disciplina del rendiconto giudiziale, evitando di snaturare il vincolo pur sempre negoziale che lega l’OCC al debitore nelle procedure de quibus, sicché essa residua nel solo caso di liquidazione del patrimonio, in cui il liquidatore, pur coincidendo di regola con l’OCC già designato, è tuttavia di nomina giudiziale.
[25] 
Per contro è noto che nel concordato preventivo non può esservi coincidenza fra il commissario giudiziale ed il liquidatore nominato in caso di cessione di beni, atteso che il liquidatore deve essere immune da ogni conflitto di interessi (art. 28 co. 2 l.f.), condizione che verrebbe ad essere invece integrata dal cumulo della funzione gestoria con quella di sorveglianza sull’adempimento del concordato (Cass. 18 gennaio 2013, n. 1237).
[26] 
Dunque anche se il pignoramento sia stato trascritto successivamente al deposito della proposta, ma antecedentemente all’operatività dell’inibitoria giudiziale al compimento di attività esecutive. Così G. MINUTOLI e R. D’AMORA, La fase esecutiva dell’accordo, in Sovraindebitamento e usura, a cura di M. FERRO, Milano, 206 ss.
[27] 
Secondo Cass. 15 luglio 2011, n. 15699, in materia di concordato preventivo, l’indicazione nominativa del liquidatore contenuta nella proposta non vincola il Tribunale in sede di omologa quando il professionista da incaricare non possegga i requisiti di indipendenza e professionalità di cui all’art. 28 l.f.; la pronuncia valorizza la previsione dell’art. 182 l.f. secondo cui la nomina spetta all’autorità giudiziaria solo se la proposta “non dispone diversamente”, e tuttavia la mancanza nell’art. 13 l.s. di analoga previsione, che pone una gerarchia fra le disposizioni negoziali e quelle giudiziali, dovrebbe far condividere la tesi esposta nel testo di un’assoluta libertà del giudice delegato nella scelta dell’organo liquidatorio anche quando il professionista indicato dal debitore sia in possesso dei requisiti di legge.
[28] 
Così anche G. MINUTOLI e R. D’AMORA, op. cit., p. 210.
[29] 
Non potranno esservi dunque liquidatori giudiziali, ma nemmeno, a mio giudizio, liquidatori volontari, atteso che, ai sensi dell’art. 65 CCI nelle procedure di sovraindebitamento le funzioni di liquidatore sono in ogni caso svolte dall’OCC.
[30] 
Va segnalato, però, che, mentre l’art. 14 nonies co. 2 l.s. fa espresso richiamo alle procedure competitive ed ai principi che regolano queste ultime - preventiva stima, pubblicità, massima informazione e partecipazione - nulla dice al riguardo l’art. 13 l.s. per le procedure di sovraindebitamento alternative alla liquidazione. E tuttavia va rammentato quanto espresso da Cass. 26 novembre 1993, n. 11729, con riferimento alle vendite c.d. ad offerte private previste dalla legge fallimentare ante riforma, secondo cui “il carattere giudiziale e coattivo non dipende dalla modalità adottate per la liquidazione dell’attivo fallimentare, ma dall’essere l’atto inserito in un procedimento concorsuale, quale momento necessario per il conseguimento delle finalità espropriative”.
[31] 
Correttamente Trib. Rimini, 2 agosto 2019, www.ilcaso.it, chiarisce che l’ordine di cancellazione non può precedere il compimento dell’atto dispositivo, quand’anche l’acquisto del bene sia finanziato con mutuo ipotecario da iscrivere sul bene oggetto del trasferimento (art. 585 co. 3 c.p.c.), ma dovrà seguire la stipula dell’atto traslativo.
[32] 
Va segnalato sul punto il decreto del Trib. Rimini, 27/06/2019, www.ilcaso.it, il quale, nell’omologare un accordo di composizione della crisi e nell’esercizio di poteri conformativi, ha disatteso la proposta del debitore di procedere alla vendita di quote immobiliari nell’ambito delle procedure esecutive già pendenti, previa nomina di un liquidatore chiamato a spiegare intervento, assumendo l’incompatibilità di un siffatto subentro con la disciplina dell’art. 13 l.s. nella parte in cui affida al liquidatore la disponibilità esclusiva dei beni ed impedisce la prosecuzione delle esecuzioni forzate. In senso contrario F. ANGELI, Il consumatore nel nuovo processo esecutivo, in Il consumatore e la riforma del diritto fallimentare, a cura di E. LLAMAS POMBO, L. MEZZASOMA, U. RANA, V. RIZZO, p. 236. L’a. osserva che il subentro nelle procedure esecutive pendenti è un’opportunità per il liquidatore, atteso che in questo caso la legge consente, in deroga ai divieti sanciti in materia di vendita privata di immobili catastalmente difformi (art. 29 co. 1bis l. 27 febbraio 1985, n. 52).
[33] 
Cfr. al riguardo Cass. 11 aprile 2018, n. 9017, che sancisce l’incompatibilità del potere di sospensione con lo svolgimento delle operazioni liquidatorie immobiliari nelle forme della vendita senza incanto secondo il codice di rito. Estende tale divieto di sospensione alla vendita telematica sincrona mista di cui al d.m. 32/2015 il decreto del Trib. Avellino 19 marzo 2021, su www.dirittodelalcrisi.it. Va segnalato che il CCI oggi limita notevolmente la possibilità di sospensione delle vendite in caso di offerte di rincaro, non più consentendo tale facoltà al curatore e, sempre in ossequio al principio di stabilità che informa la disciplina, riducendo notevolmente il potere del giudice delegato, al quale si richiede una motivazione rafforzata ogni volta che l’aggiudicazione sia avvenuta ad un prezzo non inferiore al 75 % di quello base.
[34] 
Sulla questione v. Cass. 20 novembre 2019, n. 30200, che ritiene consentito anche nelle procedure deformalizzate l’incameramento della cauzione a titolo di penale quando il mancato versamento del saldo sia imputabile a fatto e colpa dell’aggiudicatario. Nella specie la possibilità di incameramento della cauzione era prevista dal bando e dunque la Suprema Corte non è dovuta occuparsi in generale dell’applicazione della disciplina dell’art. 587 c.p.c. alle procedure competitive.
[35] 
Secondo la Cass. 19 dicembre 2016, n. 26102, infatti “gli effetti della trascrizione del preliminare, ai sensi dell'art. 2645-bis, comma 1, c.c. si estendono anche alle trascrizioni di pignoramenti o sequestri ed alle iscrizioni di ipoteche giudiziali, con la conseguenza che queste, qualora siano successive alla trascrizione del preliminare, sono inopponibili al promissario acquirente, alle condizioni, per gli effetti e nei limiti di cui allo stesso art. 2645-bis c.c., commi 2 e 3, c.c”. Valgono ovviamente pur sempre i limiti temporali di cui all’art. 2645 bis co. 3 c.c.
[36] 
Va tuttavia ricordato che, con riferimento alle vendite compiute dal curatore fallimentare in forma privatistica, mediante adempimento del preliminare di compravendita, la giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto corretto l’esercizio del potere di cancellazione delle formalità pregiudizievoli (in specie ipoteca volontaria) da parte del giudice delegato, attribuendo al creditore ipotecario la possibilità di soddisfarsi con preferenza sul corrispettivo versato dal promissario acquirente e gli eventuali acconti pagati al promittente venditore in bonis (Cass. 8 febbraio 2017, n. 3310). Trib. Torino, 11/11/2019 in www.ilcaso.it , con riferimento ad operazioni di vendita immobiliare previste dall’accordo di composizione della crisi, ha ritenuto che siano applicabili, pur in assenza di espressa previsione normativa, le regole della procedura competitiva alle attività demandate al liquidatore; nello stesso provvedimento, sia pure a mo’ di obiter dictum, l’ufficio precisa che la cancellazione delle formalità pregiudizievoli presuppone proprio che la vendita si eseguita nelle forme descritte, che fanno rinvio all’art. 107 l.f., poiché viceversa, in caso di vendita privatistica non sarà possibile assumere analogo provvedimento. Quanto alla necessità di trascrizione dei decreti ex art. 10 co. 1 e 12 bis co. 3 l.s. essa sembra essere esclusa dalle stesse norme citate, che, diversamente dall’art. 166 co. 2 l.f., limitano la pubblicità de qua ai soli beni immobili o mobili registrati ceduti o affidati a terzi, con esclusione, dunque di quelli preservati in capo al debitore.
[37] 
Non parrebbe escluderlo l’art. 13 co. 3 l.s., nella parte in cui subordina l’accoglimento della richiesta di cancellazione alla sola verifica di conformità dell’atto dispositivo alle previsioni dell’accordo o del piano (oltre che alla residua possibilità di pagamento dei crediti impignorabili).
[38] 
In questi termini P. BOSTICCO, op. cit., 207 ss.
[39] 
A tale ultimo riguardo può essere utile citare Cass. 24 maggio 2018, n. 12965, che riconoscendo agli accordi di ristrutturazione natura di procedura concorsuale ha ad essi esteso la disciplina del concordato preventivo in materia di crediti contestati. La natura concorsuale delle procedure di sovraindebitamento consente di estendere anche ad esse analoghe considerazioni.
[40] 
In questa direzione muove l’unanime giurisprudenza in materia di concordato preventivo, che riserva ad un giudizio ordinario di cognizione ogni vertenza relativa all’accertamento dell’esistenza dei crediti e dei privilegi che eventualmente li assistano (Cass. 8 gennaio 2019, n. 208; Cass. 25 settembre 2014, n. 20298; Cass. 18 agosto 1998, n. 8116; Cass. 17 giugno 1995, n. 6859). Cionondimeno si ritiene possibile che l’elenco dei creditori, come rettificato dal commissario giudiziale e cristallizzato dopo il giudizio di omologa, possa subire modifiche non solo all’esito degli accertamenti giudiziali definitivi, ma anche in presenza di circostanze univoche, quali la definizione della lite in sede transattiva, la rinuncia parziale o totale al credito da parte del titolare, il rinvenimento di documentazione comprovante la già intervenuta estinzione della pretesa creditoria.
[41] 
In termini dubitativi circa l’impugnabilità dei decreti del giudice delegato resi in fase esecutiva, C. CRACOLICI e A. CURLETTI, Il reclamo nelle procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento, in www.diritto.it. Gli a. segnalano la mancanza di una norma che preveda la reclamabilità degli atti del g.d. in sede esecutiva, ma evidenziano del pari che proprio l’art. 13 co. 4 ter l.s. aprirebbe la strada alla reclamabilità laddove rinvia, anche nel corso dell’esecuzione ed in caso di modifiche della proposta, alle norme sul procedimento di omologa dell’accordo e del piano.
[42] 
In questi termini, A. CRIVELLI, op. cit., p. 123 e ss., il quale sostiene che tutti i provvedimenti del giudice delegato riguardanti diritti soggettivi dovranno essere ritenuti reclamabili ai sensi dell’art. 124 CCI.
[43] 
Così P. BOSTICCO, op. cit., 213.
[44] 
Contra F. ROLFI, op. cit., 213, il quale osserva che limitare la disciplina della risoluzione per impossibilità al verificarsi di circostanze sopravvenute che rendono il piano non fattibile vuol dire precludere ai creditori di far valere, ex post ed al di fuori dei casi di annullamento per frode, l’inattuabilità originaria della proposta laddove determinata da circostanze ignote al momento dell’omologa e poi conosciute. Ritengo che, ove si ritenesse applicabile una simile limitazione alla fattispecie in esame e neppure fosse possibile ricorrere ad altro rimedio risolutorio, ritenendosi il fatto non imputabile al debitore, dovrebbe allora ipotizzarsi l’esperibilità dello strumento revocatorio di cui all’art. 395 co. 2 e 3 c.p.c. avverso il decreto di omologa, con attribuzione della competenza all’organo collegiale. Sicuramente interessante perché collocato in questa zona grigia il caso esaminato da Trib. Perugia, 11 aprile 2018, inedito e citato da C. BOITI, Il piano del consumatore nella giurisprudenza, in Il consumatore e la riforma del diritto fallimentare, op. cit., p. 279; il Tribunale umbro ha ritenuto che la clausola del piano con la quale si prevedeva la soddisfazione dei creditori mediante datio in solutum, integrando un vero e proprio contratto che richiede il consenso del creditore, non avrebbe potuto operare in assenza di adesione, divenendo in tal caso giuridicamente non fattibile, di guisa che, laddove come nella specie sia intervenuta l’omologa, occorrerà disporne la revoca. Nel caso specifico si è dunque valorizzata una causa di impossibilità preesistente, non rilevata in sede di omologa, quale motivo di sopravvenuta inattuabilità del piano.
[45] 
A. CRIVELLI, Ristrutturazione dei debiti del consumatore, in Il Nuovo sovraindebitamento, Torino, 2019, 131.
[46] 
Nel senso indicato nel testo v. Trib. Napoli, 3 aprile 2020, su www.ilcaso.it , che, dopo aver lucidamente evidenziato l’inapplicabilità del disposto dell’art. 13 co. 4 ter l.s. nella fase anteriore all’omologa, ha ritenuto di poter egualmente accogliere l’istanza di differimento dei termini di esecuzione del piano del consumatore rispetto alla proposta originaria, in specie depositata nelle more fra la celebrazione dell’udienza e la decisione sull’omologazione, senza dover rimettere i creditori in termini per sollevare eventuali contestazioni, posto che la richiesta del consumatore incapace di dare esecuzione al piano per causa non imputabile dovuta al rispetto delle misure di contenimento dettate dal D.L. 17 marzo 2020, n. 18 (c.d. Cura Italia) è da ritenersi sempre valutabile in ogni fase del procedimento (nella specie il debitore era stato collocato in cassa integrazione con decurtazione del 20 % dello stipendio mensile). Va anche ricordato che, in sede di conversione del D.L. 8 aprile 2020, n. 23 (con L. 5 giugno 2020, n. 40), il legislatore ha esteso anche alle procedure di sovraindebitamento alternative alla liquidazione del patrimonio e già in fase di esecuzione il beneficio (già previsto per i concordati preventivi e gli accordi di ristrutturazione omologati) della proroga semestrale dei termini di adempimento aventi scadenza successiva al 23 febbraio 2020. Va ricordato al riguardo fra i primi provvedimenti che hanno fatto applicazione della proroga semestrale in una procedura di piano del consumatore Trib. Napoli Nord, 17 aprile 2020, su www.ilcaso.it.
[47] 
È l’ipotesi presa in esame da Trib. Napoli, 3 aprile 2020, citato nella precedente nota.
[48] 
Trib. La Spezia 28/02/2019, www.ilcaso.it, che, con ampia analisi della fattispecie di accertamento posteriore di crediti pretermessi o stimati in misura inferiore, distingue a seconda che il debitore sia in grado di assicurare un pagamento corrispondente alle previsioni di soddisfazione originaria, ritenendo in tal caso che il giudice possa direttamente omologare l’accordo di composizione come modificato senza sottoporlo nuovamente al voto, ovvero non sia in grado di assicurare le stesse utilità, nel qual caso occorrerà retroagire alla fase anteriore con accordo novativo che ricomprenda anche i crediti maturati posteriormente e dunque estranei al primo accordo.
[49] 
Si pone la questione della composizione dell’organo giudicante, risolvendola con l’affermazione della competenza monocratica, Trib. Bari, 13 febbraio 2021, www.dirittodellacrisi.it.
[50] 
Una peculiare ipotesi di impossibilità sopravvenuta della proposta è quella valutata da Trib. La Spezia, 28 febbraio 2019, cit. in nota 47, in relazione all’ipotesi di mutamento della massa passiva post omologa dovuta all’accertamento di un maggior credito rispetto a quello considerato in sede di voto dell’accordo di composizione della crisi. Secondo il giudice ligure i creditori possono in tal caso chiedere la risoluzione dell’accordo qualora il debitore non sia in grado di apportarvi modifiche formulando una nuova proposta, così di fatto considerando non imputabile la fattispecie descritta. Viene anche evidenziato che, per effetto della modifica, la procedura retroagisce alla fase anteriore e nella massa dovranno essere compresi anche i crediti posteriori, oltre che gli interessi maturati su quelli anteriori chirografari fra la data di sospensione degli effetti dell’accordo, conseguente all’iniziativa dei creditori, e quella della proposta novativa. Secondo Trib. Mantova, 3 febbraio 2020, su www.ilcaso.it, qualora il debitore chieda una modifica della proposta ai sensi dell’art. 13 co. 4 ter l.s. va disposta la convocazione delle parti affinché esse, e in particolare i creditori, possano interloquire al riguardo.
[51] 
In questi termini Trib. Ancona, 16/03/2021, www.ilcaso.it, che in un caso di inadempimento di debiti qualificati, dopo aver dichiarato la cessazione di diritto dell’efficacia degli accordi in precedenza omologati, ha indagato sull’imputabilità dell’inadempimento al fine di poter accogliere l’istanza di conversione della procedura in liquidazione del patrimonio proposta da un creditore.
[52] 
Una conferma a tale impostazione si trae invero dall’art. 50 bis co. 2 c.p.c. che stabilisce di regola la composizione collegiale dell’organo giudicante nei procedimenti camerali salvo non sia altrimenti disposto.
[53] 
Se l’iniziativa del Pubblico Ministero pare agevolmente giustificarsi nel caso del concordato minore, per le sue evidenti affinità con il concordato preventivo, mentre nel caso della ristrutturazione del debito dei consumatori è stata spiegata dai primi commentatori in considerazione dell’interesse pubblico connesso all’esdebitazione e quindi all’adempimento del relativo piano. Così A. CRIVELLI, op. cit., 129. S. ALECCI, Profili procedimentali della ristrutturazione dei debiti del consumatore, 176, sottolinea che l’istituto della revoca d’ufficio o su istanza del pubblico ministero sottende la tutela dell’ordine pubblico economico e del paradigma concorrenziale.
[54] 
Prima della riforma il predetto termine veniva fatto decorrere dall’approvazione del rendiconto e tuttavia, potendo il giudice non approvare il rendiconto in caso di mancata integrale esecuzione del piano, la domanda avrebbe finito con il poter essere proposta sine die.
[55] 
In questi termini P. BOSTICCO, op. cit., 214.
[56] 
Contra Trib. Bari, 13/02/2021 cit., secondo cui invece rileva la sola sussistenza dell’inadempimento di non scarsa importanza, non essendo consentita nel giudizio di risoluzione alcuna ulteriore indagine sulla convenienza della proposta rispetto all’alternativa liquidatoria. E’ invece pressoché unanime in giurisprudenza l’orientamento, supportato anche dal formante giurisprudenziale in materia di risoluzione del concordato preventivo (v. Cass. 13 luglio 2018, n. 18738), che l’inadempimento del debitore va valutato nella sua dimensione e consistenza e rapportato non solo agli obblighi verso il singolo creditore che agisce in risoluzione, ma a quelli complessivamente assunti nell’accordo (in tema di piano del consumatore Trib. Catania, 1/05/2019 inedita).
[57] 
Trib. Catania, 14/05/2018, inedita, dà espressamente rilievo a questo elemento informativo, giustamente distinguendo il caso di comunicazione dell’informativa ai creditori da quello del mero deposito della relazione dell’OCC nel fascicolo informatico del procedimento, il cui contenuto non può presumersi noto al singolo creditore. Altro interessante precedente in materia è quello del Trib. Nola 29/03/2021, inedita, in cui si fa riferimento all’inidoneità di un primo ricorso per risoluzione presentato dal medesimo creditore e poi non coltivato ad interrompere il decorso del termine decadenziale semestrale, con la conseguenza che quello successivamente proposto oltre il termine deve intendersi tardivo, vista la conoscenza antesemestrale dell’inadempimento risultante ex actis dalla presentazione della precedenza domanda.
[58] 
Così F. ROLFI, op. cit., 220, il quale oltre ad escludere che l’istanza di conversione possa essere formulata in caso di inattuabile del piano per fatto non imputabile al debitore, evidenzia altresì che in ogni caso l’iniziativa del Pubblico Ministero dovrebbe essere ammessa solo in caso di inadempimento del debitore che rivesta la qualifica di imprenditore, stante il necessario coordinamento della norma con l’art. 268 CCI.
[59] 
In questi termini T. MARRI, I poteri di controllo del Tribunale nel concordato minore, in La riforma del sovraindebitamento nel codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, a cura di E. PELLECCHIA e L. MODICA, Pisa, 2020, 272.
[60] 
Consegue a quanto sopra che è necessaria la valorizzazione nel piano di poste passive potenziali anche quando il debitore intenda disconoscerle, potendo essere integrata la fattispecie della gravemente colposa diminuzione del passivo quando, anche in considerazione dell’entità della posta passiva, il debitore avrebbe potuto, prestando una diligenza anche inferiore alla media, avvedersi della necessità di informare il ceto creditorio. Con riferimento al particolare caso di debiti derivanti dalla prestazione di fideiussioni deve ritenersi preclusa al debitore la pretermissione della relativa esposizione, trattandosi di debiti attuali ed esistenti, quand’anche accessori rispetto ad un’altrui obbligazione principale e benché il debitore principale continui regolarmente ad onorare il proprio debito (sul tema Trib. Avellino 30/04/2021, inedita). Il Trib. Milano, 23/09/2019, inedita, ha pronunciato l’annullamento di un accordo di composizione della crisi su richiesta del curatore del fallimento di una società di cui il sovraindebitato era amministratore unico, giungendo a valorizzare fra le poste passive pretermesse ingenti crediti risarcitori derivanti da atti di mala gestio.
[61] 
P. BOSTICCO, op. cit., 212.
[62] 
In senso contrario P. BOSTICCO, op. cit., 212, secondo cui la competenza collegiale, pur anomala rispetto alla struttura monocratica della procedura, si giustifica in quanto al procedimento di annullamento è attribuita valenza di giudizio di impugnazione del decreto di omologa.
[63] 
Ricco è il dibattito in merito al significato da attribuire al concetto di atto in frode nella fase ante omologa. Secondo alcuni interpreti occorrerebbe distinguere fra la procedura di piano del consumatore, in cui l’accesso al beneficio dell’esdebitazione presuppone la meritevolezza, e quella di accordo di composizione, in cui l’accertamento della frode non attiene ai requisiti soggettivi di accesso, ma va indagata solo al momento dell’omologa (art. 10 co. 5 l.s.), con la conseguenza che in tale procedura, anche per affinità con il concordato preventivo, dovrebbe aversi riguardo non all’atto in sé in quanto dannoso per i creditori, ma al suo occultamento da parte del debitore quando idoneo a sviare la formazione della volontà dei creditori (atto decettivo). Nel senso indicato Trib. Pescara, 25 settembre 2020, www.dirittofallimentaresocieta.it; contra e dunque per la comune valenza della nozione di atto in frode quale atto in sé dannoso per il ceto creditorio anche se reso noto ab initio, v. Trib. Milano 18 novembre 2016, www.ilcaso.it, e Trib. Monza 21/11/2018, www.ilcaso.it, secondo cui non avrebbe neppure rilevanza il termine di prescrizione dell’azione revocatoria. Per un’attenta analisi del tema e dell’incidenza delle novità introdotte dalla l. 176/2020 sulla soluzione della questione, v. T. NIGRO, Atto in frode nel sovraindebitamento con diverse declinazioni, www.eutekne.info.
[64] 
Così Cass. 18 febbraio 1997, n. 1482, che applica analogicamente al concordato preventivo la disciplina dell’art. 140 co. 3 l.f. in materia di concordato fallimentare. Conf. Cass. 30 dicembre 2005, n. 28878.

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