Saggio
La gestione delle recenti crisi bancarie italiane, tra aiuti di stato e leggi speciali*
Leonardo Monico, Dottore in Giurisprudenza
11 Marzo 2024
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Sommario:
1 . La disciplina europea degli aiuti di Stato al settore bancario
1.1 . La base giuridica e le Comunicazioni al settore bancario
1.2 . Gli aiuti di Stato nella Bank Recovery and Resolution Directive
2 . Le crisi bancarie italiane
2.1 . I pubblici bail-outs, dal decreto Sindona al Fondo interbancario di tutela dei depositi
2.3 . Lo scenario italiano post Tercas e la ricerca di soluzioni ad hoc
2.3.1 . La risoluzione delle c.d. “quattro banche”
a . Dalla crisi all’amministrazione straordinaria
b . Il D.Lgs. 16 novembre 2015, n. 180 e il procedimento di risoluzione ad hoc
i . Il sindacato del giudice amministrativo
ii . La querelle sulla responsabilità degli enti ponte
iii . L’azione legale contro la Commissione europea
2.3.2 . La ricapitalizzazione precauzionale di Monte dei Paschi di Siena
b . Il decreto-legge 23 dicembre 2016, n. 237
c . La ricapitalizzazione precauzionale ad hoc
2.3.3 . La liquidazione coatta amministrativa di Banca Popolare di Vicenza e di Veneto Banca
a . Dalle operazioni “baciate” allo stress test del 2014
b . L’intervento del Fondo Atlante e le decisioni del Single Resolution Board
c . Il decreto-legge 25 giugno 2017, n. 99 e la liquidazione coatta amministrativa ad hoc
Entrambe le categorie in questione sono subordinate all’approvazione da parte della Commissione europea nell’ambito della disciplina sugli aiuti di Stato dell’Unione [46], che, ex art. 2, par. 1, n. 53, BRRD, è la “disciplina istituita dagli articoli 107, 108 e 109 TFUE e i regolamenti e tutti gli atti dell’Unione, compresi orientamenti, comunicazioni e avvisi, stabiliti o adottati” in base ai suddetti articoli. È in questa maniera che viene operato un diretto rinvio alla Banking Communication e ai principi e criteri lì enunciati, sebbene, giova ricordarlo, in base alla giurisprudenza della Corte di Giustizia essa si ponga formalmente come semplice atto di self-regulation. Se, da una parte, alcuni di tali criteri sono ripresi nella direttiva, quali, ad esempio, la necessità che il piano di riorganizzazione aziendale adottato nell’ipotesi di bail-in debba essere compatibile, in caso di concessione di aiuti di Stato, con il piano di ristrutturazione da sottoporre alla Commissione, altri, invece, presentano significative divergenze rispetto alla Comunicazione del 2013. È il caso dei requisiti per la compatibilità dell’aiuto di Stato: ex art. 37, par. 10, BRRD, infatti, il ricorso agli strumenti pubblici di stabilizzazione finanziaria è condizionato al previo write-down di capitale e bail-in di passività ammissibili, per un importo minimo pari all’8% delle passività totali; la Banking Communication, invece, richiede un burden-sharing di ampiezza assai minore, in percentuali non predeterminate e, in ogni caso, riguardante i soli titoli di capitale. L’obbligo di cui alla BRRD, invero, è qualificato come un obbligo assoluto e non derogabile [47], neppure quando sproporzionato o per ragioni di stabilità finanziaria, eccezioni che sono invece contemplate nella Comunicazione sul settore bancario e, soprattutto, nella giurisprudenza della Corte di Giustizia. Il criterio interpretativo seguito nel caso Kotnik, infatti, sottende la doverosa osservanza del principio generale di proporzionalità come canone guida dell’azione amministrativa delle istituzioni dell’Unione [48], canone che è del tutto disatteso dalla lettera della norma. “La presenza di questi vincoli rende, di fatto, l’obiettivo della stabilità finanziaria impossibile da realizzare nel contesto di una crisi generalizzata in cui l’applicazione del bail-in in sé sarebbe fonte di rischi sistemici. Ciò è del tutto distonico rispetto al quadro generale” [49] disegnato dalla stessa BRRD, improntato alla prevenzione del contagio e alla tutela della stabilità complessiva del sistema finanziario.
Quanto al ruolo svolto dalla Commissione europea nell’ambito del Meccanismo unico di risoluzione, dispone l’art. 19, par. 1, reg. SRM, il quale stabilisce che “se l’azione di risoluzione prevede la concessione di aiuti di Stato o di aiuti del Fondo, non si procede all'adozione del programma di risoluzione finché la Commissione non abbia adottato una decisione favorevole o condizionata in merito alla compatibilità con il mercato interno del ricorso a tali aiuti pubblici”. Solo in circostanze eccezionali, peraltro, il singolo Stato membro può chiedere al Consiglio, che delibera all’unanimità [50], di considerare compatibile l’uso del fondo, in deroga alle valutazioni della Commissione. Ancora: l’art. 44, par. 12, BRRD, in tema di esclusioni discrezionali di talune passività dal perimetro del bail-in, stabilisce che, “qualora l’esclusione richieda un contributo del meccanismo di finanziamento della risoluzione (…) la Commissione può (…) vietare o chiedere di modificare l’esclusione proposta (…) al fine di preservare l’integrità del mercato interno, senza pregiudicare l’applicazione, da parte della Commissione, della disciplina degli aiuti di Stato dell’Unione”.
Secondo la Commissione di inchiesta sul sistema bancario e finanziario la crisi di MPS è riconducibile all’avvio di una strategia di acquisizioni e aggregazioni sul mercato del tutto azzardata: il riferimento è alla fumosa acquisizione del gruppo Antonveneta, allora di proprietà di Banco Santander, al prezzo esorbitante di 9 miliardi, deliberata dal management dell’istituto senese nel novembre 2007 per accrescere la competitività sul mercato e in assenza di un’accurata, prudente e reale due diligence[161]. Per condurre l’operazione a termine e rispettare (sulla carta) i coefficienti patrimoniali minimi imposti dalla normativa sulla vigilanza, la banca dovette procedere ad un rafforzamento patrimoniale, come peraltro richiesto anche da Palazzo Koch, realizzato attraverso l’emissione di strumenti ibridi e subordinati per 2 miliardi, un finanziamento ponte per 1,95 miliardi e, soprattutto, due consistenti aumenti di capitale per complessivi 6 miliardi. Trattasi della complessa c.d. operazione “FRESH”, attraverso la quale MPS realizzò uno dei due aumenti di capitale pari ad 1 miliardo, riservandolo alla banca d’affari statunitense JP Morgan. Quest’ultima sottoscrisse le azioni ordinarie emesse da MPS per complessivi 950 milioni, reperendo la liquidità necessaria attraverso il collocamento sul mercato di strumenti finanziari ibridi convertibili in azioni MPS (i c.d. FRESH o Floating Rate Equity-linked Subordinated Hybrid) emessi da un’altra banca, la Bank of New York, per l’importo di 1 miliardo. D’altro canto, la Fondazione MPS, non volendo diluire l’entità della propria partecipazione, assunse il proposito di seguire tutti gli aumenti di capitale deliberati, ma, in assenza delle ingenti risorse occorrenti, si lasciò guidare da un management di dubbia eticità, il quale non esitò a ricorrere ad operazioni del tutto poco trasparenti, per di più celate alle autorità, che finirono per accollare alla stessa banca l’onere reale degli aumenti deliberati. Infatti, la Fondazione MPS, pur sprovvista della liquidità necessaria, decise di partecipare anche al prestito FRESH per complessivi 490 milioni, tramite la stipula di ulteriori strumenti derivati (sono i contratti di c.d. TROR o Total Rate of Return Swap[162]), con cui finì per indebitarsi con il sistema finanziario.
Nel giugno 2012 Monte dei Paschi di Siena si trovò, dunque, nella condizione di non poter colmare la deficienza di capitale con iniziative autonome (anche per l’invadente presenza, quale convitato di pietra, della Fondazione MPS pervicacemente intenzionata a non perdere il controllo dell’istituto) e fu pertanto costretta a richiedere misure di supporto governativo per realizzare una ricapitalizzazione, poi attuata con il decreto-legge 27 giugno 2012, n. 87[171] che scongiurò l’apertura di una procedura di amministrazione straordinaria o di liquidazione coatta amministrativa attraverso il ricorso ai c.d. Monti bond o Nuovi strumenti finanziari[172], creati ad hoc. A fronte della presentazione di un piano di ristrutturazione, la Commissione europea approvò infine la ricapitalizzazione, ottenuta con l’emissione di Monti bond per complessivi 3,9 miliardi, di cui 1,9 per il rimborso dei c.d. Tremonti bond già in essere[173]. Successivamente, a seguito della contabilizzazione di 24,5 miliardi di rettifiche sui crediti deteriorati e in vista della necessità di rimborsare i NSF, l’istituto senese deliberò un ulteriore aumento di capitale, realizzato nel luglio 2014 per 5 miliardi. In vista dell’avvio del Single Supervisory Mechanism previsto per quell’anno, inoltre, fu condotto il Comprehensive Assessment dei bilanci delle principali banche dell’area euro, comprensivo degli stress tests[174], in seguito ai quali emersero per MPS ulteriori deficienze di capitale al netto del rafforzamento patrimoniale appena concluso, pur riconducibili unicamente allo scenario avverso di stress, colmate dall’istituto senese con un ennesimo aumento di capitale di 3 miliardi, nel maggio 2015[175].
A conclusione delle considerazioni effettuate sul caso MPS, per risolvere il quale lo Stato italiano ha complessivamente stanziato 20 miliardi (sic!), non ci si può esimere dal sottolineare come oggigiorno, seppur con margini di autonomia maggiormente ridotti dalla corposa disciplina sugli aiuti di Stato e dall’ampia discrezionalità della Commissione europea in tema, “il bail-out pubblico, con risorse provenienti dai tax-payers, è ancora possibile e, anzi, costituisce una strada quasi obbligata se emerga l’esigenza di preservare la stabilità del sistema”[189] in base alla deroga prevista dall’art. 107, par. 3, lett. b), TFUE.
Note: