Prima di esaminare le novità giurisprudenziali sul punto e le ultime modifiche legislative sul tema, si vorrebbe invitare ad approfondire la differenza etimologica e sostanziale fra il termine moratoria ed il termine rateizzazione o pagamento rateale.
Con il termine moratoria, nel linguaggio giuridico, si dovrebbe intendere la sospensione della scadenza delle obbligazioni, disposta con provvedimento legislativo, in via eccezionale e con riferimento a eventi straordinari, tali da turbare il normale svolgimento dei rapporti economici e sociali. La moratoria dovrebbe rappresentare un rinvio, un differimento, una sospensione del pagamento o dell’obbligo.
A riguardo, a livello normativo si può richiamare il D.L. n. 83/2012 (convertito con L. n. 134/2012), che all’art. 26 prevede la sospensione per dodici mesi del pagamento della quota capitale dei finanziamenti ed espressamente si intitola “Moratoria delle rate di finanziamento dovute dalle imprese concessionarie di agevolazioni” o ancora l’art. 65 del D.L. 104/2020, che si intitola appunto “Proroga moratoria per le PMI ex articolo 56 del decreto-legge n. 18 del 2020” e prevede la sospensione dei pagamenti per le imprese colpite dalla epidemia COVID. La sospensione dei pagamenti, qualificata appunto come moratoria, è stata confermata e prorogata dalla Legge di bilancio per il 2021 (L. n. 178/2020) all’art. 1 commi 248 e 249. Anche la Suprema Corte, con la sentenza n. 729/2019[2], qualifica espressamente la moratoria quale esenzione dal pagamento per un tempo determinato.
La funzione della moratoria, quale sospensione del pagamento, pertanto, dovrebbe essere quella di concedere al debitore un periodo determinato di tempo nel quale riorganizzare i flussi attivi in funzione del miglior soddisfacimento dei creditori. In tale prospettiva la moratoria dei crediti privilegiati, quale rinvio-sospensione del pagamento degli stessi, si può ritenere ben distinta dalla rateizzazione del pagamento integrale dei crediti medesimi, ai sensi e per gli effetti dell’art. 7 comma 1 ed dell’art. 8 comma 1 della legge 3/2012, ove si prevede espressamente la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma, potendosi declinare le scadenze e le modalità di pagamento dei crediti nella maniera più funzionale alla migliore soddisfazione dei creditori secondo le oggettive possibilità del debitore.
Assimilare la moratoria alla rateizzazione del pagamento integrale del debito, vorrebbe dire snaturare la struttura e la funzione della moratoria, quale sospensione/esenzione temporanea dal pagamento, contraddicendo la ratio e lo stesso spirito della legge 3/2012, rendendo di fatto residuale e quasi del tutto inutilizzabile lo strumento dell’accordo di ristrutturazione con continuità aziendale o del piano del consumatore, imponendo una rateizzazione assolutamente breve - 12 mesi - a scapito degli stessi interessi dei creditori, che ben potrebbero valutare conveniente ricevere il pagamento dell’intero credito rateizzato, piuttosto che liquidare i beni del debitore. In una fase di crisi, come quella affrontata in un procedimento di sovraindebitamento, una rateizzazione che potesse durare solamente un anno, a fronte di debiti quasi sempre con scadenza ultradecennale, equivarrebbe chiaramente a non concedere alcuna rateizzazione.
Si potrebbe osservare ancora come l’ambito di qualificazione giuridica della moratoria, quale sospensione/esenzione temporanea dal pagamento, difficilmente possa sovrapporsi a quello di pagamento integrale, anche se rateizzato, del credito, essendo la moratoria e la rateizzazione istituti giuridici con natura giuridica e causa distinte, dal momento che la moratoria non potrebbe mai rappresentare un pagamento, mentre la rateizzazione risulta essere a tutti gli effetti un pagamento dell’obbligazione.
Un piano del consumatore o un accordo di ristrutturazione del debito con continuità aziendale ben potrebbero, inoltre, prevedere sia un periodo di moratoria, quale sospensione dei pagamenti (magari anche solo per gli interessi passivi o il solo capitale) a cui potrebbe seguire un pagamento rateale dell’intera somma dovuta, anche maggiorata di eventuali interessi, combinando quindi la moratoria-sospensione del pagamento con il pagamento rateale.
Tenendo a mente questo spunto di riflessione, possiamo ora ripercorrere le principali pronunce giurisprudenziali sul tema esposto. In una fase antecedente alla recente riforma, una parte della Giurisprudenza (cfr. Cass. 4451/2018), aveva assunto una posizione intransigente sul punto, con una piena sovrapposizione dei due termini – rateizzazione e moratoria -. Tale interpretazione avrebbe comportato verosimilmente, se fosse stata ulteriormente coltivata e condivisa, al blocco di buona parte delle procedure di sovraindebitamento. Imporre ad un soggetto già in grave difficoltà il pagamento in un solo anno dei crediti privilegiati, rappresentati per lo più da crediti derivanti da mutui ipotecari e quindi da rapporti di durata di una certa consistenza, voleva dire di fatto impedire allo stesso soggetto di accedere alla procedura medesima. Nella maggioranza dei casi, infatti, il debitore virtuoso con una procedura di sovraindebitamento ha come obbiettivo proprio quello di mantenere in essere il pagamento delle rate del debito ipotecario o rimodulare il medesimo in termini di riscadenzamento delle rate, allo scopo di pagare i propri debiti, ma al contempo salvare il proprio patrimonio immobiliare, almeno in parte, almeno il bene rappresentato dalla abitazione principale o dal cespite essenziale per la propria attività.
In questa prospettiva il dettato dell’art. 8 diviene uno strumento in più, utile al buon esito del piano: la possibilità di prevedere una moratoria, intesa quale sospensione del pagamento delle rate in conto capitale e/o interessi per il termine massimo di un anno, può risultare assai utile a rimettere in carreggiata il debitore, ad aiutarlo a ricalibrare i flussi attivi necessari per l’adempimento del piano.
Intendere la moratoria alla stregua di una semplice dilazione, imponendo la rateizzazione ammissibile in un solo anno, trasformerebbe invece l’art. 8 in una sorta di ghigliottina inesorabile, accompagnando il debitore direttamente alla liquidazione del patrimonio. D’altro canto, non si vede il motivo - la ratio - che dovrebbe imporre di interrompere un rapporto obbligatorio in bonis, come potrebbe essere un mutuo ipotecario, con regolari pagamenti delle rate alle scadenze previste ed anche in caso di un rapporto obbligatorio di durata, nel quale il debitore risulti in parte inadempiente, perché in ritardo con il pagamento delle rate, tale rapporto potrebbe essere rimodulato dalla procedura di sovraindebitamento, prevedendone, nei termini previsti dal piano, l’integrale pagamento.
Volendo valutare l’alternativa liquidatoria, stante il fisiologico e pesante deprezzamento del bene alienato in fase di liquidazione, sarà quasi sempre preferibile la via del piano da sovraindebitamento, che preveda la piena soddisfazione del creditore ipotecario e nel quale il debitore sarà spronato a rispettare il piano ad ogni costo, ben sapendo che l’alternativa liquidatoria imporrebbe la perdita del bene immobile da liquidare, molto spesso rappresentato dalla propria abitazione. Per questa via, a ben vedere, si attua lo stesso meccanismo virtuoso rappresentato dalla conversione del pignoramento che permette, se rispettato, ad entrambe le parti di avere piena soddisfazione delle proprie ragioni: al creditore di rientrare interamente del proprio credito, comprensivo di tutte le spese e degli interessi, al debitore di salvare il proprio bene dalla aggressione del creditore, avendo la possibilità di pagare il credito con una modalità che concretamente gli permetta di adempiere alle proprie obbligazioni, pur se in difficoltà, trattandosi appunto di una rateizzazione del credito e non di una moratoria - sospensione del pagamento.
Si richiamano, a conferma di tale possibile ricostruzione, le recenti sentenze della Suprema corte.
La decisione della Suprema Corte, Cass., Sez. I, n. 17834/2019[3], riguarda una proposta di accordo di composizione della crisi, senza continuità aziendale, nella quale si era proposto di proseguire il pagamento del credito ipotecario secondo le scadenze pattuite, mantenendo in essere il piano di ammortamento del mutuo ipotecario della durata di 16 anni. La decisione della Suprema Corte valorizza al massimo grado il principio di libertà delle forme di ristrutturazione e soddisfazione del credito espresso dall’art. 8 comma 1, richiamando la giurisprudenza formatasi in tema di concordato preventivo, in riferimento all’art. 186-bis secondo comma lett. c LF, dichiarando ammissibile una dilazione pluriennale del pagamento dei creditori ipotecari, ferma restando la necessità di assicurare agli stessi il voto. La stessa Corte precisa, inoltre, che anche per il piano del consumatore possano essere previste appropriate forme di manifestazione di volontà cui associare la tutela del creditore. La Corte conclude sottolineando come siano i creditori a dover valutare la convenienza della proposta, implicante i pagamenti dilazionati, rispetto a possibili alternative di soddisfacimento.
Si vuole qui evidenziare un’ulteriore decisione della Suprema Corte, Cass., Sez. I, n. 27544/2019[4], che riguarda un piano del consumatore, per il quale si era proposto di pagare il credito ipotecario in 12 anni. La Corte richiama espressamente il principio espresso dalla sentenza n. 17834/2019, secondo il quale negli accordi di ristrutturazione dei debiti e nei piani del consumatore, è possibile prevedere la dilazione del pagamento dei crediti prelatizi anche oltre il termine di un anno dall’omologazione previsto dalla L. n. 3 del 2012, art. 8, comma 4, ed al di là delle fattispecie di continuità aziendale, purché si attribuisca ai titolari di tali crediti il diritto di voto a fronte della perdita economica conseguente al ritardo con cui vengono corrisposte le somme ad essi spettanti o, con riferimento ai piani del consumatore, purché sia data ad essi la possibilità di esprimersi in merito alla proposta del debitore. La Corte si sofferma anche sul punto, forse maggiormente controverso, della durata del piano, 12 anni appunto, chiarendo esaustivamente quali siano gli interessi in gioco ed il loro delicato equilibrio, sottolineando come non possa aprioristicamente escludersi che gli interessi del creditore risultino meglio tutelati con un piano del consumatore, che pur preveda una dilazione di significativa durata (anche superiore ai 5-7 anni), piuttosto che per mezzo della vendita forzata dei beni del patrimonio del debitore. La Corte prosegue enucleando chiaramente la questione: ogniqualvolta il piano preveda il pagamento integrale del debito, tale soluzione potrà ben essere valutata favorevolmente dai creditori, ben sapendo gli stessi che il patrimonio del debitore, aggredibile tramite esecuzione forzata, molto spesso non risulta in grado di soddisfare integralmente le loro ragioni, tenuto conto di quanto gravano nelle esecuzioni forzate gli oneri e costi delle procedure e le endemiche ed inevitabili svalutazioni dei cespiti liquidati. Prosegue la Corte: “si pensi alla vendita forzata dell’unico bene di rilievo il cui valore sia pari od inferiore all’ ammontare dei debiti. Come è noto, infatti, con la vendita all’incanto, ed in particolare quella di beni immobili, è difficile ricavare una somma maggiore o pari al valore di stima degli stessi, ma anzi, generalmente, il creditore ottiene una somma anche inferiore (spesso di molto) rispetto a tale valore, sia perché gli offerenti alle aste si avvalgono sovente della facoltà, prevista dall’art. 571 c.p.c., comma 2, di offrire un corrispettivo ridotto fino ad un quarto rispetto al prezzo base, sia a causa della decurtazione dei costi della procedura dal ricavato.”
La Corte, ancora, evidenzia e valorizza la ratio della legislazione in tema di sovraindebitamento, sottolineando come l’adozione di un’interpretazione eccessivamente restrittiva, che neghi l’ammissibilità di piani di durata ultra quinquennale, rischi di minare l’effettività di tali strumenti, mal conciliandosi con il processo in atto a livello Europeo di cambiamento della cultura giuridica a favore della logica del salvataggio e della seconda possibilità (second chance), rammendando come la legge n. 3 del 2012 sia stata introdotta non soltanto sulla spinta delle istituzioni Europee, ma anche al fine di arginare il fenomeno, particolarmente avvertito all’interno del nostro Paese, ossia il ricorso al mercato dell’usura da parte di imprenditori o consumatori sovraindebitati. A tal proposito si veda anche la relazione illustrativa alla L. n. 3 del 2012, in cui si annovera, tra le finalità della legge, quella “di evitare inutili collassi economici con la frequente impossibilità di soddisfacimento dei creditori ma, soprattutto, con il ricorso al mercato dell’usura e, quindi, al crimine organizzato”.
Infine, la Corte si sofferma sul principio della convenienza, che deve essere necessariamente oggetto di valutazione da parte dei creditori, richiamando la Cassazione n. 17834 del 2019: “Sono, difatti, i creditori a dover valutare se, in simili ipotesi, un piano del tipo di quello indicato, implicante pagamenti dilazionati, sia, o meno, conveniente a fronte delle possibili alternative di soddisfacimento.” Tale principio sembra essere dirimente sulla questione: il pagamento dilazionato non può essere tout court assimilato ad una soddisfazione non integrale del credito ed in ogni caso tale valutazione deve essere oggetto di esame esclusivamente da parte del ceto creditorio.
L’ulteriore decisione conforme della Suprema Corte, Cass., Sez. I, n. 17391/2020[5], riguarda una proposta di accordo di composizione della crisi, senza continuità aziendale, nella quale si era proposto di proseguire a pagare il credito ipotecario in cinque anni dalla omologazione.
Per la Suprema Corte gli accordi di ristrutturazione dei debiti, come pure i piani del consumatore, possono prevedere una dilazione del pagamento dei crediti prelatizi, purché ai titolari di tali crediti sia attribuito il diritto di voto. La dilazione, anche se di lunga durata, infatti, non pone un problema di fattibilità giuridica, ma influisce soltanto sulla valutazione di convenienza per i creditori.
Sono i creditori gli unici a dover valutare se una proposta implicante pagamenti dilazionati sia o meno conveniente rispetto alle possibili alternative di soddisfacimento.
Da ultimo, preme qui sottolineare la decisione della Suprema Corte, Cass., Sez. VI, n. 22291/2020[6], che si riferisce ad un piano del consumatore con una durata ultraventennale. Nel piano proposto il credito ipotecario viene ripagato secondo il piano di ammortamento previsto dal mutuo stesso. Si conferma così la massima che “negli accordi di ristrutturazione dei debiti e nei piani del consumatore è possibile prevedere la dilazione del pagamento dei crediti prelatizi anche oltre il termine di un anno dall’omologazione previsto dall'art. 8, co. 4, della L. n. 3/2012, ed al di là delle fattispecie di continuità aziendale, purché si attribuisca ai titolari di tali crediti il diritto di voto, a fronte della perdita economica conseguente al ritardo con cui vengono corrisposte le somme ad essi spettanti o, con riferimento ai piani del consumatore, purché sia data ad essi la possibilità di esprimersi in merito alla proposta del debitore.”
Tale assunto non solo conferma quanto già indicato - la possibilità di voto per i creditori privilegiati pagati oltre l’anno - ma aggiunge qualcosa di specifico ed innovativo per il piano del consumatore, che non prevede la fattispecie del voto, lasciando agli stessi creditori la facoltà di esprimersi sulla proposta di dilazione oltre l’anno dall’omologa del piano: in questo caso si potrebbe pensare, appunto, ad un termine fissato dal Giudice ai creditori per esprimere in forma scritta eventuali osservazioni alla proposta di dilazione.