A questo stadio della ricerca occorre tentare di sciogliere l’interrogativo riguardante il significato da attribuire alla espressione “mancanza di adesione dell’amministrazione”, che potrebbe ricomprendere o meno anche il diniego. Difatti, se ad una interpretazione semanticamente restrittiva alla ‘mancanza di adesione’, dovrebbe riferirsi la sola assenza di adesione, è indubbio che, di fatto, un assenso manca anche quando vi è un diniego.
La questione ha delle evidentissime ricadute pratiche: se si seguisse l’impostazione più stringente, all’imprenditore che si vedesse opposto un diniego ingiustificato rispetto ad una proposta di transazione più vantaggiosa rispetto alla liquidazione, rimarrebbe la sola impugnazione, essendogli precluso l’intervento diretto del giudice in sede di domanda di omologazione.
È chiaro quindi che, in questo caso, le oscillazioni interpretative siano foriere di sostanziose conseguenze pratiche, considerato anche quanto l’economia e la speditezza processuali possano incidere sulla già complessa situazione del contribuente, tanto che la differenza tra un intervento diretto in sede di domanda di omologazione e una impugnazione appare particolarmente dirimente.
Sciogliere l’interrogativo sulla “mancanza di adesione” comporta inevitabilmente una riflessione sul fondamento del potere del giudice ove agisca ex artt. 180 comma 4 o 182 bis comma 4.
Le ipotesi in campo, allo stato attuale, appaiono sostanzialmente due e ricostruiscono le attribuzioni del giudice sulla base dei paradigmi del potere concorrente ovvero sostitutivo[10].
Procedendo con ordine, riguardo la prima delle due possibilità, bisogna sottolineare che nell’ambito di un accordo di ristrutturazione, il silenzio di un creditore è perfettamente ammissibile e non esprime una “non decisione”. Ciò rileva perché, parlare di potere concorrente, implica che all’inerzia dell’amministrazione non sia possibile attribuire alcun significato, tanto da essere necessario l’intervento di un altro soggetto, il giudice, per colmare il suddetto vuoto decisionale.
Nell’accordo in parola, di contro, al silenzio è da riconnettersi una decisione, ovvero la volontà del creditore di rimanere estraneo all’accordo stesso, assimilabile quindi ad un diniego.
In altre parole, il giudice non colmerebbe alcun vuoto, ma surrogherebbe una decisione – il diniego – benché sia stato espresso attraverso il silenzio.
In prima battuta, quindi, può registrarsi una maggiore assimilabilità delle attribuzioni del giudice al potere sostitutivo: al fine di tirare le fila del discorso, però, occorre preventivamente interrogarsi ed individuare la cornice giuridica nella quale si innesterebbero le attribuzioni del giudice.
Il dato da cui prendere le mosse potrebbe, ad opinione degli scriventi, essere esemplificato dagli artt. 1 comma 2 bis L. 241/1990 e 10, comma 1 L. 212/2000 (lo ‘Statuto dei diritti del contribuente’): entrambe le disposizioni affermano che i rapporti tra pubblica amministrazione e cittadino, ovvero tra amministrazione finanziaria e contribuente, sono improntati ai principi della collaborazione e della buona fede.
Nonostante queste disposizioni siano normalmente declinate in senso programmatico possono, però, assumere anche carattere performativo, soprattutto se efficacemente rapportate a specifici contesti sistematici: in questo senso possono offrire un efficiente raccordo con la elaborazione, chiaramente giuscivilistica, sulla buona fede contrattuale nei rapporti interprivati.
La regolazione dei reciproci rapporti tra amministrazione finanziaria e contribuente, in altre parole, ove di carattere negoziale o pseudonegoziale, reca con sé anche una certa riferibilità – benché “mediata” dall’art. 10 dello Statuto dei diritti del contribuente – degli artt. 1175, 1337, 1358, 1360 e 1375 c.c., che determinano che la buona fede e la correttezza permeino persistentemente i rapporti tra le parti, accompagnando dalla fase delle trattative anche la costruzione e l’esecuzione del contratto.
Perciò, in considerazione dell’apprezzabile quantum di negozialità della proposta di trattamento dei crediti tributari e contributivi e dell’istituto dell’accordo di ristrutturazione, appare consequenziale ritenere ivi operativi i sopramenzionati articoli del codice civile. Inoltre, le attribuzioni del tribunale in sede di omologa dell’accordo in “mancanza di voto” dell’Agenzia potrebbero astrattamente ritenersi espressione concreta di quel presidio costituito dai doveri di buona fede e correttezza.
In altri termini, il giudice, attraverso l’omologa ex artt. 180 comma 4 e 182-bis comma 4, verificherebbe, attuandoli, quei presupposti giuridici che ne vincolerebbero l’accoglimento, esercitando in via integrativa e declinandoli nel caso concreto, quei doveri di correttezza e buona fede a cui devono essere improntati i rapporti tra Agenzia e contribuente, rafforzati anche dalla applicabilità delle disposizioni civilistiche richiamate.
Così tratteggiato il potere del tribunale non sarebbe né concorrente, né propriamente sostitutivo, bensì integrativo-correttivo, traendo significato e coadiuvato dalla sfaccettatura performativa della buona fede ‘integrativa’ e della leale collaborazione.
In questo ecosistema giuridico è pertanto logico e naturale ricomprendere nella “mancanza di adesione” anche il diniego decisivo[11] per il raggiungimento delle maggioranze, che alla luce di quanto evidenziato si rivela contrario ai doveri di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1, comma 2 bis L. 241/1990 e 10, comma 1, della L. 212/2000.
Quanto ipotizzato, tuttavia, non è in principio esente da critiche, stante l’operazione di “raccordo” tra la buona fede ‘civilistica’ e gli accordi di ristrutturazione che potrebbe trovare un ostacolo difficilmente superabile nel più recente orientamento della Corte di Cassazione (Cass., sez. I, 12 aprile 2018, n. 9087), ove considera l’istituto in oggetto quale avente natura concorsuale e non negoziale.
Il tema è ben più ampio, poiché coinvolge l’ultradecennale dibattito sulla negozialità degli accordi di ristrutturazione, che, per economia espositiva non è in questa sede possibile affrontare in maniera compiuta. Tornando al fulcro della questione, il punto di partenza è costituito dalla menzionata Cass., sez. I, 12 aprile 2018, n. 9087, che così si esprime: “la sfera della concorsualità può essere oggi ipostaticamente rappresentata come una serie di cerchi concentrici, caratterizzati dal progressivo aumento dell’autonomia delle parti man mano che ci si allontana dal nucleo (la procedura fallimentare) fino all’orbita più esterna (gli accordi di ristrutturazione dei debiti), passando attraverso le altre procedure di livello intermedio, quali la liquidazione degli imprenditori non fallibili, le amministrazioni straordinarie, le liquidazioni coatte amministrative, il concordato fallimentare, il concordato preventivo, gli accordi di composizione della crisi da sovraindebitamento degli imprenditori non fallibili, gli accordi di ristrutturazione con intermediari finanziari e le convenzioni di moratoria […] Restano all’esterno di questo perimetro immaginario solo gli atti interni di autonoma riorganizzazione dell’impresa, come i piani attestati di risanamento e gli accordi di natura esclusivamente stragiudiziale che non richiedono nemmeno un intervento giudiziale di tipo omologatorio”.
Riassumendo, pertanto, l’immagine che quivi è delineata della concorsualità è rappresentabile attraverso una serie di cerchi concentrici, dove l’orbita più esterna è occupata proprio dagli accordi di ristrutturazione: ciò significa che, pur appartenendo all’“universo” della concorsualità, l’istituto in esame presenti questo carattere in una gradazione particolarmente sfumata.
Non può ignorarsi, difatti, che all’affievolimento della natura concorsuale dell’accordo di ristrutturazione, corrisponda una quota parte di negozialità: pur non essendo un tratto dominante, contribuisce comunque ad influenzarne la natura.
Più nello specifico, infatti, risultano elementi ineliminabili e di “negozialità”, l’assenza della nomina di un commissario, di un giudice delegato o la costituzione di un comitato di creditori, il mantenimento in capo al debitore della gestione dell’impresa, dalla quale non viene estromesso, né vincolato o controllato negli atti che pone in essere.
Trattasi quindi di connotazioni che, pur non mutando la natura degli accordi, risultano parte del relativo “patrimonio genetico”: è proprio questo substrato di negozialità che può costituire e rilevare quale base per ritenere l’inquadramento concorsuale dell’istituto come non ostativo all’applicazione della c.d. ‘buona fede civilistica’, soprattutto in funzione di significante in relazione all’art. 10, comma 1, L. 212/2000.