Al primo dei quattro fondamentali obiettivi della proposta di direttiva sono dedicate le disposizioni contenute nel Titolo II e nel Titolo V.
Il Titolo II, intitolato alle azioni “revocatorie” (alle quali, per le ragioni che si diranno, meglio calzerebbe il nome di “azioni d'inefficacia”), si apre con due disposizioni che, molto nettamente, tracciano i contorni dell'armonizzazione ricercata dall'Unione in questo complesso ambito del diritto concorsuale[8]. Si tratta di un’armonizzazione “minima”, volta ad assicurare che, al ricorrere di precise circostanze, «gli atti giuridici pregiudizievoli per la massa dei creditori, compiuti in un momento precedente l'apertura di una procedura d'insolvenza, possano venir dichiarati inefficaci» (art. 4). Tali circostanze, prosegue la norma, sono quelle «descritte nel Capitolo secondo del presente Titolo», cioè dagli artt. 6, 7 e 8.
Fuori dai casi stabiliti da tali disposizioni, gli atti del debitore, pur pregiudizievoli per la massa dei creditori, rimangono “revocabili” soltanto nella misura, e con le conseguenze, stabilite dai diritti nazionali applicabili, come si evince anche dalla previsione, contenuta nell'art. 5, secondo cui «la Direttiva non impedisce agli Stati membri di adottare o mantenere disposizioni relative all'inefficacia (voidness), all'impugnabilità (voidability), all'ineseguibilità (unenforceability) di atti pregiudizievoli per la massa dei creditori, nel contesto di procedure d'insolvenza, là dove tali disposizioni assicurino alla massa maggior protezione rispetto a quelle contenute nel Capitolo secondo».
In sostanza, la proposta non cala sugli Stati membri una disciplina uniforme e organica delle revocatorie, bensì mira a fissare un livello minimo, comune a tutti gli ordinamenti dell'Unione, di protezione della massa creditoria, imponendo agli Stati membri di restringere la portata di esenzioni previste dal diritto nazionale se e in quanto incompatibili con la direttiva; di ampliare le fattispecie di “revocabilità” fissate dalla legge nazionale se più ristrette di quelle designate dagli artt. 6, 7 e 8; di allineare le condizioni cui è subordinata la “revocabilità” di un atto nel diritto nazionale (periodo sospetto, necessità della prova della scientia decoctionis etc.) a quelle cui sottostà la “revocabilità” di un atto dello stesso tipo secondo la direttiva, se queste ultime ne agevolino l'esperimento.
L'intento dichiarato della Commissione è di rinvigorire le azioni “d'inefficacia”, facendone uno strumento di prim'ordine per rimpinguare gli attivi delle procedure, e assicurare, in tal modo, una più consistente soddisfazione dei creditori. L'entrata in vigore della proposta determinerebbe, inoltre, un ulteriore, importante effetto, non dichiarato dalla Commissione: erodere l'efficacia della controversa norma di conflitto contenuta nell'art. 16 del Reg. (UE) 2015/848[9], a mente del quale sull'atto pregiudizievole alla massa non si riversano le conseguenze dettate dalla lex concursus se la legge applicabile all'atto “revocando” (la lex contractus, spesso convenuta a bella posta dalle parti), ne decreti l'inoppugnabilità, purché si tratti della legge di uno Stato membro. Infatti, delimitando uno “spazio minimo di revocabilità” comune a tutti gli Stati membri, e facendo perciò giustizia di qualsiasi forma di esenzione incompatibile con tale delimitazione, la proposta di direttiva riduce le possibilità che l'accipiens si trovi una legge nazionale più indulgente, al riparo della quale mettere l'atto pregiudizievole alla massa.
Venendo brevemente alle fattispecie di “revocabilità” obbligatoria, la proposta disciplina partitamente:
a) gli atti che realizzano un trattamento preferenziale nei confronti di taluni creditori (art. 6);
b) gli atti a titolo gratuito o a prestazioni manifestamente sperequate (art. 7);
c) gli atti dolosamente compiuti in pregiudizio ai creditori (art. 8).
Fra gli atti che comportano un trattamento preferenziale nei confronti di taluni creditori (pagamenti, costituzione di garanzie o altri diritti di prelazione), l'art. 6 distingue ulteriormente, secondo che siano compiuti in maniera “congrua” («in the owed manner», come si esprime il par. 2) o “incongrua”[10]; secondo, cioè, che si tratti di atti comunque dovuti (si può pensare al pagamento di debiti scaduti, o all'accensione di garanzie al ricorrere di circostanze previste, fin dall'origine, dal contratto di finanziamento), ovvero di atti anomali (pagamenti di debiti immaturi, dationes in solutum e altri pagamenti con mezzi anormali[11]).
Nel primo caso, l'art. 6, par. 2, stabilisce che l'atto è revocabile se ricorrono, cumulativamente, le seguenti condizioni:
a) che l'atto sia stato compiuto nel periodo sospetto, ossia fino a tre mesi prima dalla presentazione della domanda di apertura della procedura d'insolvenza[12], ovvero in pendenza del procedimento di apertura;
b) che il creditore favorito sapesse, o avesse potuto sapere usando l'ordinaria diligenza, che il debitore «non era più in grado di onorare le proprie obbligazioni scadute» (la scientia decoctionis), ovvero della pendenza, nei suoi confronti, di un procedimento prodromico alla dichiarazione d'insolvenza. Nel secondo caso (pagamenti e costituzioni di garanzie “incongrui”), a norma dell'art. 6, par. 1, lo stato soggettivo da ultimo descritto non è richiesto, essendo sufficiente che l'atto anomalo sia stato compiuto nel periodo sospetto.
Meno articolata è la disciplina relativa agli atti a titolo gratuito o a prestazioni sperequate («against no or a manifestly inadequate consideration», come recita la rubrica dell'art. 7), e degli atti in frode. Nella prima ipotesi, è sufficiente che l'atto sia stato perfezionato nel periodo sospetto, individuato nell'anno precedente la presentazione della domanda diretta alla dichiarazione d'insolvenza, nonché nel periodo successivo alla stessa. Nella seconda ipotesi, l'art. 8 richiede, oltre che il compimento nel periodo sospetto (esteso, questa volta, ai quattro anni precedenti l'inizio del procedimento prodromico), la conoscenza, in capo all'accipiens, «dell'intenzione del debitore di provocare un pregiudizio alla massa dei creditori» (un che di intermedio, sembrerebbe, fra la mera scientia damni, e la vera e propria compartecipazione alla dolosa preordinazione del debitore).
Oltre a quella delle fattispecie di “revocabilità”, anche la disciplina delle relative conseguenze è armonizzata. Gli artt. 9, 10 e 11 sono scanditi da previsioni concernenti:
a) gli effetti della dichiarazione d'inefficacia dell'atto nei rapporti fra l'accipiens e la massa;
b) gli effetti della mera “revocabilità” dell'atto sui diritti che ne scaturiscono;
c) i diritti dell'accipiens che ha subito la dichiarazione d'inefficacia;
d) gli effetti della dichiarazione d'inefficacia dell'atto o della mera “revocabilità” nei confronti dei successori dell'accipiens.
In merito agli effetti sub a), l'art. 9 stabilisce che l'atto dichiarato inefficace, quando la controparte del debitore non abbia ricevuto la prestazione, non possa «venir invocato per ottenere soddisfazione dalla procedura», sancendone quella che, a un primo sguardo, potrebbe qualificarsi come inopponibilità relativa. Nel caso in cui “l'azione d'inefficacia” sia stata invece promossa nei confronti di un accipiens, l'art. 9, par. 2, obbliga costui a ristorare la procedura “per l'intero” («in full») danno cagionato ai creditori, senza potersi valere della compensazione con suoi eventuali crediti nei confronti della massa (par. 5), e indipendentemente dal fatto che l'atto revocato gli abbia procurato un effettivo arricchimento (par. 2, ult. periodo).
Mentre gli effetti appena descritti derivano dal vittorioso esperimento dell'azione “d'inefficacia”, quello stabilito dall'art. 9, par. 3, discende dal semplice fatto che il titolo del diritto della controparte del debitore rientri fra gli atti “revocabili” ai sensi degli artt. 6, 7 e 8: è previsto che tale diritto debba prescriversi «in tre anni dalla data di apertura della procedura d'insolvenza». Anche se la norma non lo precisa (e sul punto tacciono anche i considerando), è da credere che la previsione di tale termine valga essenzialmente ad accorciare prescrizioni che sarebbero altrimenti destinate a verificarsi dopo tre anni dall'apertura della procedura, e non anche a riavviare il decorso di prescrizioni già maturate, o destinate comunque a verificarsi entro i tre anni dall'apertura. L'obiettivo di tale previsione sembra infatti quello di evitare che l'inerzia degli organi della procedura (magari sfociante nella consumazione delle revocatorie “in via d'azione”) avvantaggi l'accipiens, e, correlativamente, danneggi i creditori.
Quanto agli effetti sub c), l'art. 10, par. 1 stabilisce che «se e nei limiti in cui il beneficiario dell'atto dichiarato inefficace abbia ristorato la procedura del pregiudizio subito dalla massa per effetto di tale atto, rivivono tutte le pretese del beneficiario soddisfatte mediante l'atto dichiarato inefficace». La norma sembrerebbe riferirsi, in particolare, all'inefficacia dei pagamenti: una volta ristorato il danno, il creditore vedrà risorgere il proprio diritto. Il par. 2, d'altra parte, dà all'accipiens, la possibilità di ripetere la controprestazione effettuata al debitore in esecuzione dell'atto dichiarato inefficace, in natura o, se impossibile, per equivalente, insinuandosi al passivo nella veste di creditore concorsuale (la cui pretesa, cioè «shall be deemed to have arisen before the opening of insolvency proceedings»).
Infine, con riguardo agli effetti nei confronti dei successori dell'accipiens, l'art. 11 estende loro gli effetti di cui all'art. 9:
a) quando si tratti di un erede o un successore a universale, incondizionatamente;
b) quanto si tratti di un successore a titolo particolare nelle situazioni giuridiche scaturenti dall'atto («individual successor of the other party to the legal act that has been declared void»), a condizione che il successore fosse al corrente del fatto che l'acquisto del suo dante causa era “revocabile” (o potesse sincerarsene usando l'ordinaria diligenza).
La predisposizione di una disciplina armonizzata degli effetti giuridici associati alle fattispecie di “revocabilità obbligatoria” sopra osservate segna l'ingresso, nel diritto eurounitario, di una categoria civilistica nuova, i cui contorni possono non combaciare perfettamente con quelli, diversi fra loro, degli statuti dell'atto suscettibile di revocatoria dettati dai diritti nazionali. Si può parlare di “revocatorie speciali”, o meglio (in maniera più neutra) di “azioni di inefficacia”. Si assisterà, verosimilmente, a una riedizione degli sviluppi che hanno interessato altre categorie di matrice europea (si pensi, soprattutto, a quella delle nullità “di protezione” in materia consumeristica), la cui progressiva definizione ad opera della Corte di Giustizia è stata in larga misura guidata dalla ratio di fondo che ne hanno giustificato l'introduzione. Tale ratio, nel nostro caso, coincide con la necessità di assicurare alla massa dei creditori concorsuali la massima protezione e soddisfazione.
Si tratta di un'innovazione di cui è difficile, per il momento, stimare esattamente l'impatto, che appare tuttavia dirompente se si presta attenzione a un dettaglio tutt'altro che marginale: in base alla proposta di direttiva, suscettibili di essere dichiarati inefficaci sono, in via generale, gli «atti giuridici» (legal acts), che l'art. 2, lett. f, definisce come «qualsiasi comportamento umano, commissivo od omissivo, produttivo di effetti giuridici». Sul punto, il considerando 6 rimarca che «l'ambito degli atti giuridici impugnabili in conformità delle regole armonizzate sulle revocatorie dev'essere inteso nella maniera più ampia, inclusiva di qualsiasi comportamento umano produttivo di effetti giuridici. Il principio della par condicio creditorum impone che fra tali atti siano annoverate le omissioni, essendo indifferente che il pregiudizio per i creditori scaturisca da un'azione o da un'omissione delle parti dell'atto». Si può già notare come questa nuova categoria dell'“inefficacia” sia capace di tracimare oltre i confini delle revocatorie, e di invadere il campo tradizionalmente riservato ad altri mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale. In questo senso, il seguito del considerando 6 è eloquente: «È indifferente che il debitore rinunci espressamente a un suo diritto o trascuri di esercitarlo, lasciando che si prescriva. Inoltre, fra le omissioni i cui effetti dovrebbero poter essere posti nel nulla andrebbero annoverate l'omessa impugnazione di un provvedimento giudiziale o amministrativo, o l'inerzia nella registrazione di titoli di proprietà intellettuale». Sarà interessante osservare se, e come, questo considerando sarà invocato dalla Corte di Giustizia per riplasmare e conformare alla nuova categoria fattispecie attualmente sottoposte a regimi diversi dalla revocatoria (l'azione surrogatoria, e forse anche l'opposizione di terzo revocatoria).
Armonizzata, infine, è la disciplina delle esenzioni. La proposta ne prevede due. La prima concerne i soli atti che realizzano un trattamento preferenziale ai creditori, che potranno essere esentati soltanto al ricorrere delle condizioni dettagliate all'art. 6, par. 3[13]. Importa sottolineare che, qualora un atto ricada nelle fattispecie di “revocabilità obbligatoria” descritte dall'art. 6, par. 1 e 2, qualsiasi esenzione prevista dal diritto nazionale incompatibile con quelle dettate dal par. 3 sarà priva di effetto.
La seconda esenzione è prevista dall'art. 12, a mente del quale le disposizioni del Titolo II non toccano gli artt. 17 e 18 della Direttiva “Insolvency”, che esentano da revocatoria la finanza “nuova” e “interinale”, e delle «operazioni che sono ragionevoli e immediatamente necessarie per le trattative sul piano di ristrutturazione». Sono dunque fatte salve le norme nazionali che recepiscono tali disposizioni, come l'art. 166, co. 3, lett. e) e f), CCII.
Quanto agli aspetti processuali delle “azioni d'inefficacia”, la proposta tocca esclusivamente taluni profili relativi all'onere della prova, tralasciando altri aspetti pur di rilievo, come la legittimazione ad agire e i termini di prescrizione e decadenza. La Commissione non avrebbe potuto fare altrimenti, se non cimentandosi in un'impresa di armonizzazione difficilissima. Infatti, la proposta di direttiva esige che, a certe condizioni, gli effetti dell'azione o dell'omissione del debitore debbano poter essere rimossi a beneficio della massa; ma le vie processuali attraverso le quali questi effetti possono essere posti nel nulla possono divergere non solo da ordinamento a ordinamento, ma anche in funzione della natura dell'atto commissivo e dell'omissione pregiudizievoli. In merito all'onere della prova, invece, quando la proposta richiede che l'accipiens sia a conoscenza, a seconda dei casi, del dissesto del debitore, della pendenza nei suoi confronti di un procedimento prodromico, ovvero della sua intenzione di nuocere alla massa, specifica ogni volta che tale stato soggettivo debba presumersi in capo alle «parti correlate» (parties closely related to the debtor)[14], ossia alle «persone, fisiche o giuridiche, con accesso privilegiato a informazioni riservate sugli affari del debitore» (art. 2, lett. q, che correda la definizione di un elenco esemplificativo). Il considerando 12, opportunamente, puntualizza che tale presunzione è vincibile con la prova della buona fede soggettiva dell'accipiens.
Assai meno ambiziosa e incisiva è l'armonizzazione delle regole concernenti i doveri di comportamento degli amministratori al cospetto del dissesto della società. Gli artt. 36 e 37, che esauriscono il contenuto del Titolo V, si limitano a imporre agli Stati membri l'obbligo di presidiare con la responsabilità civile il dovere degli amministratori di richiedere tempestivamente (cioè, entro tre mesi dall'emersione del dissesto) l'apertura di una procedura d'insolvenza a carico della società.
Si tratta indubbiamente di una delle misure di minor impatto della direttiva, considerato che, nella maggior parte degli ordinamenti europei, l'inerzia già consente, in base ai principi generali sulla responsabilità civile, d'imputare agli amministratori, a titolo di colpa o negligenza, il danno sofferto dalla massa[15]. La proposta mira in ogni caso a dissipare ogni dubbio, qualificando espressamente questa precisa condotta quale fonte di responsabilità.
La cautela mostrata dal legislatore europeo è comprensibile, attesa la notevole difficoltà di costruire regole armonizzate in questa complessa materia, nella quale, oltretutto, s'intersecano discipline che esulano dalle competenze normative delle istituzioni dell'Unione (particolarmente, il diritto penale dell'economia). Nondimeno, la proposta compie un passo avanti non trascurabile rispetto alla Direttiva “Insolvency”, la quale, si ricorderà, prevedeva soltanto che gli Stati membri imponessero agli amministratori di prendere le iniziative necessarie ad evitare l'insolvenza e tutelare gli interessi dei creditori, senza specificare in che modo l'inosservanza di tale dovere dovesse essere sanzionato (art. 19)[16].
Vistosa è l'assenza di un'esatta definizione dei destinatari dell'obbligo di domandare tempestivamente l'apertura della procedura d'insolvenza. L'omissione è voluta, come si deduce dal considerando 32, nel quale si raccomanda agli Stati membri di approntare una definizione quanto più ampia possibile, tale da includere non soltanto gli amministratori formalmente investiti, ma anche coloro che, di fatto, detengono le redini della società[17].
Mancano, infine, disposizioni in merito ai profili processuali delle azioni di responsabilità. Non è una lacuna di poco conto, considerato che questi rimedi rappresentano, oramai, il principale strumento di ricostituzione degli attivi delle procedure.