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L’attestazione dei piani di risanamento in continuità: quali novità?

Riccardo Ranalli, Dottore Commercialista in Torino

20 Marzo 2024

L’Autore, dopo aver raccomandato all’attestatore l’autovalutazione della sussistenza dei requisiti soggettivi, si domanda quali cambiamenti del percorso di attestazione dei piani di risanamento derivino dal Codice nei principali strumenti di regolazione della crisi. Lo fa fornendo stimoli al professionista tratti dall’ampliamento del contenuto minimo del piano ed illustrando gli ambiti del giudizio di fattibilità, con particolare riguardo alla sostenibilità economica dell’impresa. Egli individua nella Lista di Controllo il percorso per giungervi in modo argomentato e propone un approccio controllabile per rilevare il riequilibrio finanziario. Si sofferma infine sul rispetto delle regole relative alla distribuzione del valore, in relazione alla quale propone all’attestatore di considerare il fattore “tempo” ed affronta la modalità di determinazione del valore effettivo del patrimonio riservato ai soci. 
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1 . Premessa metodologica: l’attestazione nel caso della continuità aziendale
Come noto, l’elemento centrale dell’attestazione del piano di risanamento è la sua fattibilità; essa è richiesta per consentire ai creditori, in primo luogo, di esprimere il proprio consenso in via informata. L’attestazione di veridicità dei dati aziendali, richiesta espressamente dalla norma, appare solo funzionale alla fattibilità del piano. 
Con il Codice la portata dell’attestazione si è arricchita per effetto dell’introduzione del contenuto minimo del piano di risanamento. Il che si riflette sull’oggetto della valutazione da parte dell’attestatore. Invero, i principi di attestazione già richiedevano al professionista di esprimersi su alcuni punti contenuti nelle disposizioni del Codice relative ai piani di risanamento: ci si riferisce alle cause della crisi, alle strategie di intervento, ai tempi di realizzazione delle azioni anche ai fini del monitoraggio della fase esecutiva. Vi sono però alcune novità nel nuovo portato normativo, la più rilevante delle quali è l’indicazione nel piano delle iniziative da adottare nel caso di scostamento tra gli obiettivi e la situazione in atto.  
Quanto alla nozione di fattibilità, non può non osservarsi che l’art. 56, in materia di attestazione dei piani di risanamento, richiama la “fattibilità economica”; nel caso di accordi di ristrutturazione, l’art. 57 invece si limita ad enunciare la “fattibilità” del piano. L’apparente differenza terminologica non comporta conseguenze concrete, in quanto è giustificata dalla possibilità di impiego dello strumento dell’accordo di ristrutturazione anche per finalità liquidatorie, come lo dimostra la condizione posta dalla lett. b) del comma 2 dell’art. 61 per gli accordi ad efficacia estesa. In una situazione liquidatoria, infatti, si svuota di significato l’esigenza del ripristino dell’equilibrio economico-finanziario e dunque è improprio il riferimento alla fattibilità economica del piano. 
L’assonanza della fattibilità economica con la sostenibilità economica dell’impresa, contenuta all’art. 87 per l’attestazione dei piani in continuità aziendale, è marcata. Al punto che ci si deve domandare se dalle nuove formulazioni derivino conseguenze sulla portata dell’attestazione dei piani in continuità aziendale nei diversi strumenti di composizione della crisi. 
Per rispondere alla domanda occorre affrontare la nozione di sostenibilità economica dell’impresa e quella di riequilibrio finanziario. 
2 . I requisiti dell’attestatore
Prima di affrontare il contenuto del piano e le verifiche dell’attestazione in funzione del giudizio di fattibilità, occorre però soffermarsi sui requisiti di professionalità e di indipendenza che deve possedere l’attestatore. Da essi infatti dipende l’affidabilità del giudizio reso. 
Quanto ai requisiti di professionalità, il Codice, con scelta forse opinabile in quanto non in grado di catturare le professionalità occorrenti, richiede l’iscrizione del professionista all’albo di cui all’art. 356 CCII, i cui requisiti non valorizzano le attività di attestazione svolte in precedenza, né la competenza maturata nel campo nella gestione della crisi. Richiede inoltre che il professionista sia iscritto nel registro dei revisori. Egli deve infine possedere i requisiti soggettivi previsti dall’art. 2 CCII, sanciti dall’art. 2399 lett. a) c.c., e non deve trovarsi nelle situazioni di cui all’art. 2382 c.c. 
In ogni caso, è opportuno che il professionista svolga preventivamente un’autovalutazione in ordine alla propria professionalità (essa è richiamata dai Principi di attestazione approvati con delibera del CNDCEC del 16 dicembre 2020, §§ 2.2.2 e 2.2.3). Essa, ancorché non richiesta dalla norma, è volta ad accertare il concreto possesso delle competenze tecniche e delle disponibilità di tempo necessarie per lo svolgimento dell’incarico. È ben vero che il professionista può avvalersi di competenze esterne e farsi assistere, a proprie spese, da specialisti di settore, ma occorre comunque che egli sia in grado di valutarne criticamente l’operato. L’elevata specificità di taluni settori di attività richiede dunque che l’esperto abbia maturato un’adeguata conoscenza del settore; quest’ultima non potrebbe essere acquisita dal professionista solo in corso d’opera, considerati i tempi stringenti che egli deve assicurare, tenuto conto che la durata complessiva delle misure protettive è contingentata in un anno. 
Altrettanto rilevante è la disponibilità di tempo. Il professionista deve essere in grado di approfondire il dossier, esaminare le carte, garantire la propria presenza al tavolo delle trattative, valutare le conseguenze degli atti e dei pagamenti che gli vengono sottoposti, esprimere i pareri che gli vengono richiesti. Per farlo egli può avvalersi di propri collaboratori ma il tempo resta comunque un fattore critico. Tant’è che i Principi di attestazione espressamente richiedono all’attestatore, prima di assumere l’incarico, di valutare la propria disponibilità di tempo (§ 2.2.2). 
Accanto ai requisiti di professionalità si pongono quelli di indipendenza. Si tratta dei requisiti formali, di natura assoluta, specificamente indicati, ma anche dei requisiti sostanziali, di natura relativa, che gli permettono di esprimersi con indipendenza di giudizio e di essere affrancato da ogni possibile condizionamento od influenza del debitore o delle parti interessate. 
La norma di riferimento richiede che l’attestatore sia in possesso dei requisiti di indipendenza di cui all’art. 2399 c.c. lett. b) e c) per tutte le società del gruppo del debitore. La norma gli chiede poi di non essere legato all’impresa e alle altre parti interessate dall’operazione da rapporti di natura personale o professionale; inoltre egli, ed i soggetti con i quali è unito in associazione professionale, non devono avere prestato negli ultimi 5 anni attività di lavoro subordinato o autonomo in favore del debitore, non essere stati membri degli organi di amministrazione o di controllo dell’impresa, né avere posseduto partecipazioni in essa. 
Sotto il profilo dei requisiti formali di indipendenza, occorre osservare che, nei confronti delle altre parti interessate dall’operazione di regolazione della crisi e dell’insolvenza, e cioè dei creditori, degli ulteriori stakeholder (quali soci di minoranza, clienti, investitori, advisor) rilevano solo i rapporti di natura personale o professionale esistenti (ciò diversamente rispetto al debitore ed alle altre società del suo gruppo, nei cui confronti come si è visto, rilevano anche i rapporti intrattenuti nel quinquennio precedente e le cariche negli organi di amministrazione o controllo ricoperte). 
Accanto ai richiamati requisiti formali di indipendenza si pongono quelli sostanziali, di natura relativa, volti ad assicurare l’indipendenza di giudizio e l’estraneità ad ogni possibile condizionamento od influenza. L’attestatore è chiamato a verificarne, caso per caso, la loro sussistenza. La fonte dell’obbligo discende dall’art. 2399, lett. c), c.c., ma prima ancora dal ruolo dell’incarico che impone l’assenza di condizionamenti di qualsiasi forma, tali da pregiudicare in concreto la necessaria indipendenza per la libera formazione del giudizio. I condizionamenti in questione possono derivare da rapporti personali, economici, di credito e finanziari con l’impresa, le società da questa controllate o che la controllano o con quelle sottoposte a comune controllo, ovvero con coloro che hanno interesse all’operazione, quando tali rapporti rischino di essere pregiudicati dal giudizio che l’attestatore è chiamato a rendere, così come dalla presenza del rischio che venga compromesso il ritorno economico della sua attività professionale. 
I pregiudizi in questione potrebbero, altresì, derivare da situazioni di condizionamento psicologico nei confronti del debitore (e delle società da questo controllate o che lo controllano o sottoposte a comune controllo), ovvero di coloro che hanno comunque un interesse all’operazione; potrebbero, infine, derivare da rapporti di natura personale con tali soggetti, sempre se tali da impedire all’attestatore una serena espressione del proprio giudizio. In altre parole, non è pertanto sufficiente, in questi casi, l’esistenza di un rapporto professionale, patrimoniale o personale, ma occorre che esso sia in grado di incidere sulla libertà di giudizio dell’attestatore. 
Con riferimento alle sole terze parti (rectius, ai soggetti diversi dall’impresa, dalle sue controllanti, dalle sue controllate o dalle società sottoposte al comune controllo ed i creditori interessati) che hanno un interesse all’operazione e alle quali il professionista sia legato da rapporti di natura professionale, occorre inoltre che il loro interesse sia in contrasto con la obiettività del giudizio richiesto all’attestatore. Il che può verificarsi, ad esempio, allorquando le terze parti abbiano un interesse ad ottenere il giudizio favorevole dell’attestatore, pur in assenza dei presupposti per l’attestazione di veridicità dei dati aziendali, di fattibilità del piano e di idoneità della proposta ad assicurare un trattamento non deteriore dei creditori. Si verifica altresì quando le parti in questione abbiano interesse a che l’attestatore ometta di rilevare taluni elementi di criticità del piano o comunque informazioni rilevanti per l’espressione l’adesione consapevole da parte dei creditori. 
In ogni caso perché possa esservi un pregiudizio dei requisiti sostanziali di indipendenza occorre comunque, a parere di chi scrive, che le terze parti interessate abbiano un interesse confliggente con quello di un’obiettiva espressione dei giudizi richiesti al professionista. Non costituiscono, in via di principio, situazione di pregiudizio gli eventuali ruoli di componente di organi di controllo o dell’organismo di vigilanza di cui al d.lgs. 231/2001, e finanche di amministratore indipendente, presso una terza parte che ha interesse all’operazione, in quanto tali ruoli presuppongono essi stessi, per propria natura, la ricorrenza di una condizione di indipendenza nella realtà nella quale l’incarico è rivestito. E ciò a prescindere dalla magnitudo dell’interesse di cui è portatore l’ente presso il quale l’attestatore riveste tali cariche. 
Avendo tali requisiti natura relativa, essi, come già detto, devono essere accertati, caso per caso, attraverso un’autovalutazione da parte del professionista, consistente in una disamina puntuale dei rischi per l’indipendenza derivanti dai rapporti conclusi o in essere. Trattasi, in astratto, dei rischi per l’indipendenza derivanti da: (i) eventuali situazioni di interesse personale nei confronti del debitore, o di soggetti ad esso correlati, ovvero di possibili condizionamenti da parte degli stessi;  (ii) un’eventuale, eccessiva, confidenzialità con il debitore e con sue parti correlate; (iii) un eventuale rischio di auto-riesame di giudizi e valutazioni già rese a soggetti terzi rispetto al debitore, nel momento in cui l’attestatore sia stato chiamato a svolgere attività di verifica rispetto ai risultati di una prestazione svolta dallo stesso professionista, o da altro soggetto appartenente alla sua rete; (iv) eventuali attività lavorative svolte in precedenza presso una parte interessata, se da esse derivino aspettative di nuovi incarichi; (v) possibili influenze, anche solo psicologiche, e condizionamenti da parte degli advisors e dei legali del debitore, in particolare quando uno o più di questi soggetti presentino un interesse ad ottenere un giudizio favorevole da parte dell’attestatore. La categoria dei professionisti e degli advisor che operano nel settore della crisi d’impresa è assai circoscritta, per cui non è infrequente la presenza degli stessi professionisti e advisor, con ruoli anche diversi, su una molteplicità di dossier. Tale circostanza non impedisce però a priori al professionista di esercitare la propria funzione assicurando trasparenza ed indipendenza di giudizio. 
3 . Le finalità del piano di risanamento
Per poter indagare il contenuto dell’attestazione occorre muovere dalle finalità di un piano di risanamento, avendo presente che, mentre la composizione negoziata è compatibile con una situazione di mera difficoltà che potrà condurre ad una crisi, gli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza presuppongono quanto meno la presenza di uno stato di crisi [1]. Dal piano in continuità aziendale l’attestatore deve trarre, con un approccio razionale e condivisibile, l’attitudine delle intenzioni strategiche a rimuovere le cause dello stato di crisi o di insolvenza dell’imprenditore. L’art. 56, al pari del previgente art. 67 L. fall., chiede che il piano sia idoneo a consentire il risanamento dell’esposizione debitoria dell’impresa e ad assicurare il riequilibrio della sua situazione finanziaria. È l’equilibrio della situazione finanziaria al quale fanno riferimento l’art. 3, comma 3, lett. a) (in materia di adeguati assetti), l’art. 12, comma 1, e l’art. 25 quater, comma 1 (nell’ambito della composizione negoziata), l’art. 87, comma 1, lett. e) (per i concordati preventivi in continuità aziendale) e l’art. 284, comma 5 (per le composizioni della crisi di gruppo). 
L’attestatore, come già detto, è chiamato però ad esprimersi sulla fattibilità economica del piano; il che presuppone la continuità aziendale e il conseguimento della sostenibilità economica dell’impresa. Quest’ultima è la nozione introdotta dalla direttiva Insolvency (la viability of the business della direttiva), che ritroviamo sia all’art. 21, che all’art. 87, comma 3. Essa richiama due concetti: quello della sostenibilità e quello dell’economicità dell’impresa.  La sostenibilità presuppone una stabilità di stato: non sarebbe economicamente sostenibile un’impresa caratterizzata da un equilibrio incerto o fragile che non poggi sulla continuità aziendale espressa in termini sostanziali, cioè di stabilità nel tempo e non solo in termini convenzionalmente circoscritti ai dodici mesi successivi, propri dell’enunciato dei principi contabili. L’economicità presuppone invece l’attitudine alla creazione di ricchezza per tutti gli stakeholder
A ben vedere la sostenibilità economica ha plurime chiavi di lettura: quella sostenibilità del modello di business; quella della capacità di remunerare adeguatamente i fattori produttivi; quella della sostenibilità del debito attraverso flussi economici positivi. Comune a tutte è la capacità dell’impresa di stare sul mercato e di non esserne estromessa. 
La sostenibilità del modello di business, prima ancora che una situazione suscettibile di valutazioni parametriche, è una condizione di compatibilità della domanda con i costi di produzione. Essa deve essere valutata in base al posizionamento dei prodotti dell’impresa all’interno del ciclo di vita le cui singole fasi (introduzione, sviluppo, maturità, saturazione e declino) sono caratterizzate da una propria specifica combinazione tra l’intensità della domanda, gli investimenti necessari e la marginalità ritratta. 
La capacità di remunerare i fattori produttivi è altrettanto rilevante: chi mette a disposizione un fattore produttivo (sia esso costituito da capitale, da beni o da prestazione d’opera) ne pretende un ritorno che adeguato a fronte dei rischi associati e degli impieghi alternativi del fattore produttivo. Un esempio efficace è quello del capitale (proprio o di terzi). Il costo del capitale risente sia dei frutti ritraibili attraverso impieghi alternativi che del c.d. “premio per il rischio” di perdite.  Quanto maggiore è il rischio di perdite, tanto più elevata deve essere la remunerazione del capitale impiegato. Per i finanziamenti rilevano il merito di credito, il c.d. rating del prenditore, che determina il costo del capitale assorbito per il prestatore e quindi il tasso di interesse praticato. Per il capitale proprio, rilevano le prospettive dell’impresa e la capacità della stessa di creare un ritorno per l’investitore. 
Si tratta, a ben vedere, di considerazioni che valgono anche per tutti gli altri fattori produttivi, primo fra i tanti quello costituito dal capitale umano, fattore critico di successo, in particolare per un’impresa in crisi. 
La continuità aziendale è tale solo se comporta la creazione di valore nel tempo per gli stakeholder (gli investitori, i creditori finanziari, i fornitori di beni e servizi e i manager ed i lavoratori). In assenza di una remunerazione adeguata, il disequilibrio tra domanda ed offerta non tarderà a manifestarsi, impedendo all’impresa di continuare ad avvalersi dei contributori dei fattori produttivi. 
Solo se si ha presente tale aspetto si può comprendere come mai la più parte delle imprese che hanno completato apparentemente con successo una composizione della crisi abbiano in seguito dovuto avviare una trasformazione del proprio assetto proprietario con il trasferimento del controllo dell’impresa per dare corso ad aggregazioni orizzontali o verticali. 
La sostenibilità economica dell’impresa ha dunque un respiro assai più ampio rispetto al mero superamento tabellare dello stato di crisi e cioè al confinamento oltre i dodici mesi di una situazione di insostenibilità del debito: la regolazione della crisi, al pari del superamento delle situazioni di difficoltà anticipatorie della stessa di cui al comma 1 dell’art. 12, non comporta la mera procrastinazione della crisi. La crisi può dirsi superata solo quando sia convincente il ripristino della sostenibilità economica dell’impresa. Il che, a ben vedere, si pone sulla stessa lunghezza d’onda della “conservazione dei valori aziendali” che il comma 1 dell’art. 47 pone quale presupposto dell’ammissione della domanda di concordato in continuità.
4 . La nozione di fattibilità del piano
In caso di continuità aziendale, la fattibilità del piano attiene alla sfera delle finalità del risanamento. Si tratta di comprendere però in quali termini debba essere reso il giudizio di fattibilità. 
Nell’affrontare il tema, sotto il profilo aziendalistico, ci si deve soffermare sul fatto che gli eventi futuri sono sempre privi del connotato della certezza. A maggior ragione lo l’evoluzione di un organismo vitale e dinamico, quale è l’azienda, che è, di per sé, mutevole e suscettibile di scostamenti in continuo. Il piano d’impresa è costituito dalla rappresentazione del programma di interventi e dalla miglior stima allo stato dei suoi effetti. L’andamento dell’azienda è necessariamente inciso quanto meno da variabili esogene, e come tali non controllabili da parte dell’impresa, dalle quali dipendono le grandezze elementari del piano. Esso è però anche inciso dagli scostamenti tra la programmazione “a tavolino” di un’intenzione strategica e delle azioni che da essa dipendono e la loro attuazione concreta. Ha quindi senso che il legislatore abbia fatto ricorso al lemma della “fattibilità”, tale essendo la fase iniziale comune ad ogni progetto nella quale si valutano gli elementi che permettono di stabilire se e come le attività previste dal progetto stesso possono essere realizzate (Enciclopedia Treccani – voce “Fattibilità”). 
La Cassazione, nella sentenza Sezioni Unite n. 1521/2013[2], nell’affrontare nel previgente quadro normativo il tema della fattibilità economica con riferimento al concordato preventivo, la definì come la “prognosi circa le possibilità di realizzazione della proposta (e, dunque, del piano ad essa sottostante) nei termini prospettati”, precisando che il giudizio deve essere reso in termini di “probabilità di successo del piano” e ha ad oggetto anche “i rischi inerenti” lo stesso. 
La questione è se, per effetto del Codice, sia cambiato qualcosa rispetto al passato in ordine al significato da attribuire alla nozione di fattibilità. Per meglio inquadrare il tema non si può sottacere, da una parte, che la direttiva Insolvency, dopo aver previsto che la sostenibilità economica deve essere assicurata[3] (art. 4, par. 1),  si premura di precisare, al par. 3, che “Gli Stati membri possono mantenere o introdurre una verifica di sostenibilità economica nel diritto nazionale, purché tale verifica abbia la finalità di escludere il debitore che non ha prospettive di sostenibilità economica”, confermandolo nel giudizio di omologazione (art. 10, par. 3: “Gli Stati membri assicurano che l’autorità giudiziaria … abbia la facoltà di rifiutare di omologare il piano di ristrutturazione che risulti privo della prospettiva ragionevole di impedire l’insolvenza del debitore o di garantire la sostenibilità economica dell’impresa”)Non dovrebbe dunque essere accertata la prospettiva di sostenibilità economica ma solo esclusa l’assenza della stessa. A ben vedere, si tratta della stessa differenza che si pone, in ambito di revisione contabile, tra la positive assurance e la negative assurance: nella prima il giudizio è dedotto in via diretta dal compendio informativo, nella seconda è reso quando non sono emersi elementi incoerenti con il giudizio di fattibilità.  
Il che è in linea sia con quanto previsto all’art. 7, che introduce la disamina prioritaria delle domande di regolazione della crisi o dell’insolvenza con strumenti diversi dalla liquidazione giudiziale se il piano “non sia manifestamente inadeguato a raggiungere gli obiettivi prefissati”, che con quanto previsto dall’art. 47, che sancisce l’inammissibilità del piano di concordato in continuità se esso “è manifestamente inidoneo alla conservazione dei valori aziendali”. Lo è anche con la lett. g) del comma 1 dell’art. 112 che prevede che, in sede di omologazione di un concordato preventivo, la fattibilità vada “intesa come non manifesta inattitudine a raggiungere gli obiettivi prefissati”. 
Alla luce di quanto sopra, la formula del giudizio di fattibilità del piano di risanamento, quale emerge da una lettura coordinata delle diverse disposizioni, ha tre diversi ambiti concentrici che dovrebbero essere tutte affrontate dal professionista ed esplicitate nel suo giudizio. 
Un primo ambito attiene al fatto che il piano “non sia privo di ragionevoli prospettive” di impedire o di superare un’insolvenza (art. 112, comma 1, lett. f) ed art. 87, comma 3).  Si tratta di escludere la presenza di uno stato di insolvenza già ad esito della regolazione della crisi e dell’insolvenza. Il che è previsto esplicitamente in caso di concordato in continuità ma vale ovviamente in tutti i piani di risanamento. 
Un secondo ambito, più ampio, è quella della “non manifesta inattitudine" a raggiungere gli obiettivi prefissati (art. 112, comma 1, lett. g) ed art. 7, comma 2, lett. b) e dunque il riequilibrio della situazione che, per le ragioni esposte, è sia finanziario che economico. Il solo riequilibrio economico[4] non è adeguato in quanto non è sufficiente che l’impresa disponga di flussi gestionali stabilmente positivi, ma occorre che essi siano in grado di sostenere il debito che residua dalla regolazione della crisi e dell’insolvenza. Si tratta di un obiettivo il cui raggiungimento non è immediato, in quanto richiede che si realizzino gli effetti delle azioni industriali; tant’è che la lett. c) dell’art. 56 e la lett. e) dell’art. 87 chiedono espressamente che il piano rechi specifica indicazione dei “tempi necessari per assicurare il riequilibrio della situazione”. Invero, i piani di risanamento possono essere di ristrutturazione aziendale o di ristrutturazione del debito.  I primi incidono sui flussi al servizio del debito, i secondi sul debito riscadenzandolo, stralciandolo o consolidandolo. I piani di mera ristrutturazione del debito che non necessitano di una ristrutturazione aziendale comportano l’istantaneo raggiungimento del riequilibrio finanziario. Si tratta però di fattispecie rare. Di solito nei piani di risanamento interagiscono le due leve: quella della rimodulazione del debito e della generazione di flussi economici positivi incrementali. La presenza della seconda comporta il differimento del momento del riequilibrio finanziario che, però deve essere comunque previsto entro l’orizzonte di piano, con i noti vincoli della sua ampiezza temporale che tutti i principi (sia quelli contabili che quelli di attestazione) pongono in 3-5 anni. 
Vi è però un terzo ambito che ricomprende i precedenti due. Si tratta della sostenibilità economica dell’impresa, e cioè la cennata sua capacità di sostenere il proprio business remunerando i fattori produttivi e creando valore nel tempo[5] in misura tale da ripagare il rischio assunto dai suoi stakeholder. Il giudizio reso dall’attestatore in ordine alla viability of the business costituisce dunque un elemento del compendio informativo per consentire ai creditori di esprimere il proprio consenso in modo consapevole con una corretta percezione del rischio inerente.
5 . I presupposti dell’attestazione di fattibilità e l’attestazione di veridicità
Il giudizio di fattibilità nei tre diversi ambiti concentrici testé richiamati non può prescindere dall’accertamento della contestualizzazione del piano con la situazione in essere. In tale ottica si pone il giudizio di veridicità dei dati aziendali richiesto all’attestatore dall’art. 56 e dal comma 3 dell’art. 87. Esso è funzionale all’attestazione di fattibilità; quest’ultima trova, infatti, i propri presupposti logici nella appropriatezza e adeguatezza informativa, nella coerenza delle argomentazioni e delle conclusioni con i profili di fatto e segnatamente con la situazione di fatto dell’impresa. 
L’appropriatezza e l’adeguatezza informativa comportano l’esigenza di individuare e selezionare le informazioni utili per l’espressione del giudizio. Giacché l’attestatore non è materialmente in grado, per ragioni di tempo, di condurre un controllo sostanziale, anche solo campionario, di tutte le informazioni disponibili, egli deve preliminarmente ripercorrere il modello di business e, nel vagliare criticamente le cause della crisi anche attraverso i dati storici e le interviste delle funzioni aziendali, focalizzare la propria attenzione sui fattori maggiormente critici al fine di escludere la presenza di elementi incoerenti con il giudizio di fattibilità [6]. Sotto questo profilo, sarebbe opportuno che l’attestazione recasse sempre una convincente giustificazione del percorso di selezione degli elementi informativi per individuare quelli critici. 
Il giudizio di fattibilità, fondato su informazioni appropriatamente selezionate, necessita di una preliminare valutazione della loro affidabilità con un esame di veridicità. Occorre osservare che la funzionalità della verifica di veridicità rispetto al giudizio di fattibilità comporta approcci significativamente diversi nel concordato liquidatorio rispetto al caso del concordato in continuità. Nel primo, oggetto dell’attestazione di veridicità sono i dati contabili afferenti al debito e agli attivi liquidabili; nel secondo invece, assumono rilevanza non solo i “dati contabili” ma anche i “dati aziendali”. Ancorché i Principi di attestazione si dilunghino sulla revisione dei dati contabili, essi precisano che “L’Attestatore valuta la veridicità dei dati accolti nel piano, della documentazione allegata al Piano e degli elementi necessari alla sua predisposizione” (§ 4.3.1). Se questo è vero, in caso di continuità aziendale la disamina è necessariamente estesa ad ogni altro dato extra-contabile rilevante per il confezionamento del piano; ci si riferisce, ad esempio, al portafoglio ordini, al tasso di fidelizzazione e di abbandono della clientela, alle grandezze del ciclo di conversione in cassa, ai principali indicatori gestionali. 
Il giudizio espresso dal professionista non può, in ogni caso, essere assimilato a quello rilasciato dal revisore legale, anche in considerazione del fatto che esso difetta dell’elemento di continuità nell’attività di controllo e revisione, proprio dell’attività del revisore legale[7]. Il giudizio di veridicità dei dati aziendali non va inteso nel senso di verità oggettiva o nel senso di rappresentazione veritiera e corretta della situazione contabile dell’impresa ma solo in via funzionale[8]  al giudizio di fattibilità. 
Ne consegue che l’attività di verifica della base dati è diversamente articolata a seconda delle dimensioni dell’impresa, del suo assetto amministrativo-contabile e dell’ambiente di controllo. L’attestatore dunque adotterà, a seconda della dimensione del sistema del controllo interno implementato dall’impresa, verifiche dirette (“sostanziali”) dei dati (anche se solo su base campionaria) o verifiche di mero processo e precisamente della struttura del processo della formazione e della rilevazione dei dati. L’approccio adottato dall’attestatore è comunque di tipo “risk based”, nel senso che egli è chiamato a definire le proprie procedure di verifica sulla base della valutazione del rischio di errori significativi che il sistema di controllo adottato dall’impresa non sia in grado di prevenire o intercettare. La comprensione dei controlli adottati dall’impresa per mitigare i rischi significativi è, dunque, determinante per impostare l’attività di verifica e individuare la natura, l’ampiezza e la tempistica delle procedure da adottare. 
Fondamentale sotto questo profilo è il preliminare accertamento della sussistenza del requisito dell’adeguata organizzazione dell’impresa, quanto meno nei termini minimi di cui al par. 1 della Lista di Controllo particolareggiata introdotta dal decreto dirigenziale previsto dall’art. 13 della quale si riferirà più oltre. Essa, a ben vedere, si fonda su tre distinti pilastri costituiti dagli uomini, dai processi e dagli strumenti. 
Il pilastro dell’aspetto umano si sostanzia in un corretto collocamento ed in una adeguata strutturazione delle funzioni aziendali; esso presuppone chiari ruoli e responsabilità nel rispetto del fondamentale principio della separazione e della contrapposizione tra le funzioni aziendali ed in particolare tra le funzioni esecutive e quelle di controllo. Sotto questo profilo l’attestatore esamina l’organigramma ed il funzionigramma dell’impresa e valuta anche l’autorevolezza dei responsabili delle funzioni di controllo. 
Il pilastro dei processi attiene invece all’insieme delle procedure e delle regole interne agite, volte ad individuare le informazioni disponibili, a raccoglierle e a definirne la loro fruizione, assicurandone l’affidabilità. Sotto questo profilo è fondamentale che l’attestatore, prima di accingersi alla selezione delle informazioni, richieda e prenda in esame il disegno complessivo delle procedure esistenti. 
Il pilastro degli strumenti implica l’impiego di sistemi informativi funzionali ad assicurare in continuo la disponibilità di dati affidabili che, come tali, debbono essere caratterizzati da un livello qualitativo adeguato (il c.d. data quality). Un’informazione è, infatti, fruibile solo se disponibile in continuo, senza ricorrere a interventi manuali eccessivi che, come tali, presenterebbero margini di errore e l’esigenza di una fase di controllo. Sotto questo profilo, il data quality risulterebbe implicito al sistema di information technology adottato quando esso renda disponibili informazioni complete (è completo il dato che non trascuri informazioni rilevanti), accurate (è accurato il dato se il sistema non ha in precedenza generato errori significativi) e appropriate (è appropriato il dato quando è utile allo scopo e coerente con le ipotesi sottostanti al modello utilizzato e con rischi ai quali è esposta l’impresa). 
In presenza di un assetto organizzativo adeguato, è sufficiente che l’attestatore svolga una ricognizione dell’esistenza e dell’efficacia dei richiamati presidi, eventualmente rafforzando tale ricognizione con i test specifici ritenuti più opportuni. A seconda del giudizio di affidabilità del sistema organizzativo, tali test potrebbero essere anche soltanto di processo e non necessariamente di sostanza. 
Quando sia in tutto o in parte carente un adeguato livello di data quality delle informazioni su cui si fonda il piano, l’attestatore prima di proseguire è chiamato ad adottare adeguati rimedi, quali misure di contingency opportunamente dimensionate. In altre parole, la carenza di veridicità non impedisce il giudizio di fattibilità ma comporta l’assunzione di opportune cautele, a condizione che la loro entità sia adeguata rispetto alla carenza riscontrata. 
La rappresentata funzionalità del dato aziendale al giudizio di fattibilità, se per un verso circoscrive il perimetro della verifica ai dati rilevanti per il piano, per altro verso comporta l’esigenza che l’attestatore non si limiti ad esprimere il proprio giudizio sulla base dei dati storici ma tenga anche conto dell’andamento aziendale corrente. Il che è maggiormente rilevante quando tra la data di riferimento della c.d. spalla del piano[9]  e il momento del rilascio dell’attestazione sia trascorso un intervallo temporale significativo, al punto che costituirebbe un’omissione informativa rilevante non dare evidenza di una deriva negativa dell’andamento aziendale, se già in atto, rispetto al piano. Chi scrive è, infatti, consapevole che molto spesso l’insuccesso del risanamento deriva dalla dilatazione dei tempi di completamento della negoziazione o dell’iter in presenza di un deterioramento in atto, cagionato dalla fragilità dell’impresa nel periodo interinale, che non è intercettato in corso d’opera.
6 . Come può essere raggiunto il giudizio di fattibilità?
Occorre ricordare che il processo di attestazione trova un insieme di regole nei Principi di attestazione emanati dal CNDCEC. Con riferimento al giudizio di fattibilità del piano tali Principi sono peraltro anteriori alle modifiche portate al CCII in sede di attuazione della Direttiva Insolvency. In base a tali principi, l’attestatore è invitato a pronunciarsi sulla presenza nel piano di risanamento di un sistema di KPI (Key Performance Indicator) per il monitoraggio nella sua fase di esecuzione (§ 6.7.3). All’attestatore può essere richiesto di verificare l’intervenuto raggiungimento del riequilibrio finanziario al termine del piano o anche prima e del risanamento dell’esposizione debitoria (§ 9.1.5). Invero tale risanamento non deve essere inteso come estinzione del debito, ma è raggiunto con la rinegoziazione e la remissione in termini del debitore; esso non presuppone l’estinzione del debito nell’orizzonte temporale del piano e ben può residuare un debito al termine a condizione che i creditori abbiano accettato una dilazione maggiore[10]. I Principi infine richiedono che l’attestatore verifichi il ripristino del capitale sociale ad esito dell’omologa in uscita dalla sospensione della regola “ricapitalizza o liquida” (§ 6.5.14). 
Tali Principi, per quanto condivisibili, sono integrati e in parte superati dalle novità introdotte in sede di recepimento della direttiva Insolvency, sia con riferimento al contenuto del piano che per l’introduzione della Lista di Controllo di cui si è fatto cenno, che costituisce il riferimento normativo per la redazione di tutti i piani di risanamento (art. 5 bis, comma 2). La Lista di Controllo consente, infatti, un approccio sistematico nella valutazione dell’affidabilità del piano attraverso la valutazione di coerenza dell’intero processo seguito nella sua redazione. Per quanto la Lista di Controllo sia ad uso dell’imprenditore, per la corretta “redazione del piano di risanamento”, e ad uso dell’esperto della composizione negoziata, “per l’analisi della sua coerenza”, e pur se le domande contenute in essa costituiscono mere “indicazioni operative per la redazione del piano”, l’attestatore non può esimersi dall’impiegarla per esprimere il proprio giudizio di fattibilità. 
D’altronde, come recita la premessa della Lista di Controllo, “la redazione del piano di risanamento è un processo” le cui fasi sono analiticamente descritte nella stessa. Il piano è innanzitutto un iter logico che, partendo dallo stato dell’impresa e dalle sue cause, consente di individuare le iniziative per superare lo stato di crisi. La vera essenza del piano è, infatti, l’indicazione di che cosa si intende fare nella conduzione dell’impresa e la descrizione di come si intende farlo. La conversione di tali indirizzi in stime quantitative è solo successiva e discende dalla definizione della fondamentale parte programmatico-qualitativa del piano. Non potrebbe essere qualificato come un piano, di risanamento o anche solo d’impresa, la mera stima delle grandezze prognostiche contenute in un insieme di tabelle, ancorché accompagnate da argomentazioni descrittive. 
La credibilità delle iniziative previste ed il loro effetto sono dunque implicite rispetto al processo seguito. Al punto che sarebbe sufficiente all’attestatore, per pervenire al giudizio di fattibilità, ripercorrere in via critica il contenuto della Lista di Controllo attagliandolo alla realtà specifica, ponendo in essere le conseguenti necessarie verifiche. 
Il processo di redazione del piano si sviluppa in cinque fasi successive. In primo luogo, la cennata valutazione della sussistenza dei necessari requisiti di organizzazione interna. Quindi la rilevazione della situazione in essere (costituita sia dalla base dati che dall’andamento aziendale), alla quale fa seguito la fase dell’individuazione delle strategie di intervento atte a rimuovere le cause della crisi. Solo a questo punto può essere svolto l’esercizio della proiezione dei dati finanziari e la misurazione dei flussi che possono essere destinati al servizio del debito, attraverso un percorso che si articola in sottofasi successive. Completa il processo la quinta fase costituita dal risanamento dell’esposizione debitoria attraverso la formulazione delle proposte rivolte alle parti interessate (la c.d. “manovra finanziaria”). Le cinque fasi sono il contenuto di altrettanti corrispondenti paragrafi della Lista di Controllo, ai quali fa seguito un sesto paragrafo recante le specificità in caso di un gruppo di imprese. 
Vi sono alcuni passaggi chiave nella Lista di Controllo sui quali è opportuno che l’attestatore si soffermi. 
In primo luogo, nel piano il lettore deve poter trovare la risposta ad una semplice domanda: “le strategie di intervento e le iniziative industriali individuate dall’imprenditore appaiono appropriate per il superamento delle cause della crisi?” (punto 3.9 della Lista di Controllo). Il fatto che la valutazione di credibilità preceda la fase delle proiezioni dei flussi finanziari rafforza la considerazione che l’idoneità di un piano di risanamento si fondi in primo luogo sui suoi elementi qualitativi. È questo il punto focale dell’intero processo che deve essere rispettato sia nel caso di redazione di un piano d’impresa, che nella mera individuazione delle intenzioni strategiche. Ci si riferisce a: il “progetto di piano di risanamento redatto secondo le indicazioni della lista di controllo … e le iniziative che [l’imprenditore] intende adottare” di cui al comma 3, lett. b), dell’art. 17 ed alle “strategie d’intervento” del comma 2, lett. c), dell’art. 56 e del comma 1, lett. b), dell’art. 87. 
Affinché la risposta alla domanda chiave sulla credibilità del piano e sulla appropriatezza delle intenzioni strategiche sia convincente occorre che il piano presenti forti collegamenti con le specificità dell’impresa (costituite dal modello di conduzione del business e dai fattori che consentono la creazione del valore) olche che con le cause della crisi. La risposta deve apparire chiaramente atta, quanto meno potenzialmente, a rimuovere queste ultime (v. le domande di cui al par. 3 della Lista di Controllo). 
Altro passaggio rilevante è quello contenuto al punto 4.8 della Lista di Controllo che richiede una “verifica di ragionevolezza della redditività prospettica”, prima dell’effetto delle iniziative, sulla base della coerenza dei principali KPI con il loro andamento storico, motivando eventuali differenze tra l’incidenza del margine operativo lordo atteso sui ricavi e i benchmark di mercato disponibili. 
Il processo di confezionamento del piano non si esaurisce con la sua redazione. Occorrerà, infatti, condurre il monitoraggio della sua implementazione e la valutazione degli scostamenti (punto 1.3 della Lista di Controllo); si tratta di un presupposto fondamentale per il risanamento che deve già sussistere al momento del rilascio del piano e che diventa uno strumento di governance dell’impresa, contribuendo alla creazione del valore ed alla mitigazione del rischio. L’attestatore non potrebbe non esprimersi dunque sulla corretta individuazione degli strumenti di monitoraggio (compresi gli indicatori chiave gestionali - KPI) e sulla adozione di misure per il loro impiego. Il punto è oggi enfatizzato alla cennata lett. f) dell’art. 56 e alla lett. i) dell’art. 87 che prevedono l’indicazione nel piano delle iniziative da adottare nel caso di scostamenti tra gli obiettivi e la situazione in atto. Gli inevitabili scostamenti in fase di esecuzione del piano, dei quali già si è detto, saranno valutati nella loro rilevanza individuando i parametri critici e le loro soglie oltre le quali occorre intervenire. 
7 . Le analisi di completezza del piano
Un passaggio fondamentale dell’attività dell’esperto è la constatazione della puntuale indicazione nel piano degli elementi che la norma ne prevede quale suo contenuto minimo necessario. Se nella legge fallimentare il contenuto del piano di risanamento era per lo più solo accennato, con il Codice esso è stato definito in modo compiuto. In appresso vengono esaminate le informazioni che devono essere contenute nel piano. 
La situazione dell’impresa. L’attestatore come già detto è chiamato ad esprimersi sulla situazione dell’impresa in quanto imprescindibile punto di partenza del risanamento. L’art. 56, lett. a), e l’art. 87, lett. a), prevedono che nel piano di risanamento sia data rappresentazione della situazione in cui versa l’impresa. Essa è costituita dalla situazione economico-finanziaria e patrimoniale di partenza: si tratta sia della c.d. “spalla del piano” che dell’andamento corrente dell’impresa. La “rilevazione della situazione contabile e dell’andamento corrente” è affrontata nel par. 2 della Lista di Controllo e ad essa l’estensore del piano può fare riferimento per la raccolta ordinata delle informazioni. Si tratta di un presupposto informativo del piano in difetto del quale l’attestatore non potrebbe che ravvisare la violazione del disposto dell’art. 4, comma 2, lett. a), recante il dovere dell’imprenditore di “illustrare la propria situazione in modo completo, veritiero e trasparente, fornendo tutte le informazioni necessarie e appropriate rispetto alle trattative avviate … e allo strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza prescelto”.  
Le cause della crisi.  La lett. b) dell’art. 56 e la lett. b) dell’art. 87 chiedono che il piano rechi la descrizione della crisi (o dell’insolvenza) e l’individuazione delle sue cause. Alla descrizione della crisi si rivolge il punto 3.1 della Lista di Controllo e all’individuazione delle sue cause sono dedicati i successivi punti 3.2 e 3.3. La descrizione dello stato della crisi non può non affrontare l’entità della stessa; il che comporta che l’imprenditore valuti la gravità del proprio stato, la complessità degli obiettivi aziendali del percorso che si accinge a intraprendere e la difficoltà del risanamento. Si tratta delle finalità perseguite dal test pratico di cui all’art. 13: “il test consente di misurare il grado di difficoltà del percorso che l’imprenditore dovrà affrontare per il risanamento e in che misura il successo dell’operazione dipende dall’adozione di iniziative in discontinuità rispetto al passato” (così il decreto dirigenziale 21 marzo 2023 di cui all’art. 13). Il test sollecita, infatti, l’imprenditore ad una valutazione consapevole sulla situazione dell’impresa, attraverso il rapporto causa-effetto delle due grandezze fondamentali costituite dal debito che deve essere servito e dai flussi che l’impresa è in grado di porre al suo servizio, imponendogli di analizzare la possibilità di influire su ciascuna di esse. L’attestatore, che è chiamato ad approfondire, in via autonoma e con spirito critico, le cause della crisi e la complessità del risanamento, prescindendo dalla narrativa contenuta nel piano, può avvalersi del test per avvalorare l’iter logico seguito che lo ha condotto a ritenere adeguate le strategie di intervento individuate dal debitore. 
Le strategie di intervento.  Le strategie di intervento di cui alla lett. c) dell’art. 56 e alla lett. b) dell’art. 87 costituiscono il nucleo centrale di tutti i piani d’impresa ed in particolare di quelli di risanamento, in quanto indicano le linee che, secondo l’imprenditore, dovrebbero consentire il risanamento. Un piano di risanamento deve essere fondato su linee guida chiare e razionali, condivisibili da parte di un lettore informato, coerenti con la situazione di fatto dell'impresa e del contesto in cui opera. Le strategie di intervento devono essere concrete, riferirsi alla situazione specifica ed essere convincenti. Di tale concretezza delle prospettive di risanamento l’attestatore deve dare atto[11]. Piani decontestualizzati, che si riferiscono ad intenzioni strategiche stereotipate, prive di marcata aderenza alla realtà, mancano della funzionalità necessaria. È sistematico un piano che descrive la situazione attuale e quella che costituisce l’obiettivo, riferendosi alle principali aree di attività dell'azienda, ai processi operativi più significativi, alla struttura organizzativa e manageriale, alle risorse disponibili e alle obbligazioni in essere. La premessa della Lista di Controllo dà chiara evidenza di ciò: “Il piano di risanamento deve muovere dalla situazione in cui versa l’impresa e dalle sue cause, individuate in modo realistico. Le strategie di intervento devono attagliarsi ad essa e consentire di rimuovere le difficoltà in essere”. Ad esse si rivolgono i punti 3.4 e 3.9 della Lista di Controllo. 
I tempi necessari per il riequilibrio della situazione economico-finanziaria. Come già detto, in un’impresa in crisi è frequente che il riequilibrio finanziario venga raggiunto con gradualità, solo ad esito delle eventuali iniziative industriali adottate. Il piano deve indicare il tempo occorrente per raggiungere l’equilibrio economico-finanziario. In considerazione del fatto che il tempo costituisce una variabile critica ed un fattore ulteriore di rischio connesso alle possibilità di cambiamento di contesto, il riequilibrio deve essere raggiunto entro il termine in cui le previsioni mantengono un’adeguata affidabilità. Si tratta del cennato orizzonte temporale massimo del piano che i principi contabili pongono in 5 anni, salvo eccezioni adeguatamente giustificate (§ 33 IAS 36 e § 23 OIC 9). In appresso si rappresenterà un percorso che consente all’attestatore di esprimere un giudizio circostanziato e controllabile sull’individuazione prognostica del riequilibrio finanziario. 
L’indebitamento. In una situazione di crisi occorre porre rimedio alla insostenibilità del  debito. Il coinvolgimento dei creditori è un elemento comune dei piani di risanamento, ancorché con differenze dipendenti dalle specificità dei singoli strumenti. Di qua l’esigenza di una chiara ed articolata rappresentazione dell’indebitamento, con separata indicazione dei creditori coinvolti (a seconda dello strumento, i creditori aderenti o i creditori interessati dal piano) e dei creditori non coinvolti (a seconda dello strumento, i creditori estranei o i creditori non interessati dal piano). La materia è affrontata ai punti 5.4 e 5.5 della Lista di Controllo. 
Gli apporti di nuova finanza. L’esigenza della separata indicazione degli apporti di nuova finanza incide sotto il profilo del rischio per i restanti creditori e per i titolari dell’equity. I creditori sono esposti all’aggravamento del rischio non solo per effetto della prededuzione riconosciuta alla nuova finanza (che tra l’altro non spetta nel caso di piano di risanamento di cui all’art. 56), ma anche semplicemente per l’aggravamento della leva finanziaria e conseguentemente del debito da servire. Non a caso il Legislatore ne ha richiesto l’indicazione alla lett. e) comma 2 dell’art. 56 ed alla lett. g), comma 1,  dell’art. 87. La seconda disposizione richiede, in particolare, che siano anche rappresentate le ragioni per cui gli apporti sono necessari per l’attuazione del piano, trattandosi di informazioni che il tribunale valuterà in sede di omologazione, ai sensi dell’art. 112, comma 1, lett. f), per ravvisare l’effettiva necessità di nuovi finanziamenti e l’assenza di ingiustificato pregiudizio da essi derivante per i creditori.  Non rilevano ai fini dell’esposizione al rischio dei creditori gli apporti a fondo perduto o gli apporti in capitale sociale, a condizione che i creditori non siano soddisfatti mediante la conversione in capitale (salvo casi particolari, in cui il capitale riservato a fronte degli apporti di nuova finanza non sia postergato rispetto a quello assegnato ai creditori). La  Lista di Controllo affronta il tema della nuova finanza al punto 5.5, fermo restando che l’attestatore dovrà valutare la concretezza della possibilità di conseguire gli apporti previsti nel piano. 
I tempi delle azioni da compiersi.  Come già detto, l’esecuzione del piano richiede il suo monitoraggio nella fase esecutiva. Perché esso sia possibile occorre in primo luogo la scansione temporale degli interventi previsti, affinché possa essere valutato il loro il grado avanzamento e quello di realizzazione delle azioni conseguenti. Di qua l’indicazione alla lett. f) dell’art. 56 dei tempi delle azioni da compiersi al fine di consentirne la verifica della realizzazione; tale indicazione corrisponde a quanto previsto alle lett. e) ed f) dell’art. 87. L’attestatore non potrà non pretenderlo, e potrebbe utilmente introdurre nel proprio documento una tavola sinottica che renda agevole la fase del monitoraggio. 
Gli interventi di rimedio a fronte degli scostamenti rispetto agli obiettivi pianificati. Come già detto gli scostamenti rispetto al piano sono normali ed inevitabili. Si tratta di eventi fisiologici dipendenti anche dai rischi ai quali è esposto il piano. Da qui l’esigenza che, ai sensi della citata lett. f) dell’art. 56 e della lett. i) dell’art. 87, vengano individuati nel piano gli obiettivi critici (in termini di KPI) e le soglie del livello ammissibile dei loro scostamenti superate le quali emerge l’esigenza di interventi di rimedio. Si tratta, a ben vedere, dell’esito dell’analisi di sensitività[12] recante l’indicazione dei livelli di allerta (soft warning), al cui verificarsi dovranno essere attuate azioni di mitigazione, e del punto di rottura  della fattibilità del piano (hard warning), al cui verificarsi dovranno essere introdotte, senza indugio, modifiche sostanziali dello stesso o dovrà essere adottato un ulteriore strumento di regolazione della crisi o dell’insolvenza. Il vaglio critico da parte dell’attestatore è lo strumento che consente alle parti interessate di percepire il rischio inerente prima di aderire alla proposta a loro rivolta dall’imprenditore. 
Il piano industriale ed i suoi effetti su quello finanziario. Non va sottovalutata nemmeno la distinzione tra il piano industriale ed il piano finanziario che emerge dalla lett. g) dell’art. 56 e dalla lett. e) dell’art. 87. Essa evoca il percorso contenuto nella Lista di Controllo nella quale si sancisce una gerarchia e un iter logico nella costruzione dei numeri del piano che muovono dalla stima economica e dalle iniziative industriali (punti da 4.1.1 a 4.1.8 e da 4.3 a 4.10 della Lista di Controllo) per pervenire alla declinazione finanziaria delle iniziative previste  (punti 4.1.9. e 4.11). 
8 . L’attestatore di fronte al rischio inerente
L’incertezza che caratterizza inevitabilmente gli eventi prognostici espone il piano di risanamento a molteplici rischi, alcuni di carattere esogeno (rischi di mercato, rischi di modifiche regolamentari), altri di carattere endogeno (rischi di perdita di risorse chiave, rischi di esecuzione delle iniziative in discontinuità). 
Il processo di pianificazione deve affrontare sia il tema della misurazione del rischio che quello della sua gestione; se ne è fatto cenno in precedenza. Si tratta di due momenti distinti del processo sui quali l’attestatore deve esprimersi: la misurazione del rischio presuppone sia l’individuazione degli elementi di incertezza e di volatilità ai quali è esposto il piano, che la determinazione dei loro effetti sulla sostenibilità finanziaria ed economica dell’impresa; la gestione del rischio consiste invece nella fissazione dei livelli di allerta oltre i quali è prevista l’attivazione di azioni di rimedio e di contingency plan
Lo strumento di misurazione dei fattori di rischio è l’analisi di sensitività condotta sugli elementi che comportano, con maggiore probabilità, conseguenze sulla fattibilità del piano. La sua finalità è duplice: i) quella di dimostrare la capacità di sostenere l’integrale pagamento dei creditori estranei (o della parte vincolante della proposta concordataria) anche al verificarsi di rischi che presentano una probabilità di avveramento non remota; ii) quella di assicurare un’adeguata informativa ai creditori e alle parti interessate coinvolte, in relazione alle conseguenze derivanti dai fattori di rischio, per consentire loro di aderire in via informata alle proposte del debitore. 
Gli elementi predittivi sono caratterizzati da uno spettro di probabilità di avveramento che è estremamente ampio. A fianco di eventi caratterizzati da una elevata probabilità di avveramento vi possono essere eventi confinati nell’ambito delle mere ipotesi[13]. Un esempio aiuta a comprendere il tema. Le previsioni di vendita che si fondano su ordini già in portafoglio o su rapporti con clienti stabili caratterizzati da volumi costanti, presentano un grado di incertezza contenuto e hanno un’elevata probabilità di realizzarsi. Per contro, le vendite previste in un mercato nel quale l’impresa non è ancora presente sono caratterizzate da un livello di rischio elevato. 
Le analisi di sensitività muovono dalla probabilità di avveramento del rischio e misurano le sue conseguenze. Nella loro conduzione, la misurazione diretta delle conseguenze della variazione di un parametro (ad esempio, il costo delle materie prime) deve essere sorretta da una valutazione del rischio inerente ad esso (nell’esempio, il rischio di aumento dei prezzi della materia prima, il rischio di oscillazione dei cambi ai quali sono ancorati i prezzi delle materie prime ovvero il rischio di mancato raggiungimento della produttività attesa degli impianti in termini di contenimento degli scarti). È inoltre opportuno che l’analisi di sensitività muova dalle variabili primarie incise dallo specifico fattore di rischio per valutarne gli effetti sulle variabili derivate; una simulazione che si basa direttamente sulle variabili derivate non consentirebbe, infatti, di apprezzare le conseguenze del rischio. Qualche esempio aiuta a comprendere. Se il rischio è quello del riposizionamento al ribasso dei prezzi di vendita per effetto di un calo della domanda, occorre misurarne gli effetti in termini di Margine Operativo Lordo (MOL), di Capitale Circolante Netto (CCN) e di Free Cash Flow from Operations. Condurre però l’analisi di sensitività ipotizzando direttamente un ribasso del MOL e della CCN, giustificandola acriticamente con il rischio di una riduzione dei prezzi (o più in generale dei ricavi), senza dare evidenza del nesso eziologico tra l’evento (il ribasso dei prezzi in una certa misura) e l’effetto (la conseguente riduzione del MOL o della CCN), non consen
te di misurare il grado di sensibilità del piano ai fattori di rischio individuati. Oltretutto, la variazione della grandezza primaria (prezzi di vendita) quasi mai si ripercuote linearmente sulla grandezza derivata (MOL e CCN): ad esempio, la riduzione dei prezzi di vendita, riducendo l’entità delle vendite, ha un corrispondente impatto in riduzione sullo stock dei crediti commerciali con un corrispondente miglioramento del fabbisogno di CCN nel momento in cui si verifica la variazione. 
Le analisi di sensitività dovrebbero inoltre essere combinate tenendo conto della reciproca correlazione (o decorrelazione) dei diversi fattori di rischio. 
Il punto chiave introdotto dal Codice è costituito dalla gestione del rischio. Essa necessita dalla individuazione del cennato “punto di rottura” della variabile primaria soggetta al fattore di rischio che costituisce il punto limite oltre il quale il piano diventa non più fattibile ed occorre intervenire. Il punto di rottura costituisce il presupposto del monitoraggio consapevole dell’esecuzione del piano. La sua individuazione costituiva già una best practices del processo attestativo, previsto dai Principi di Attestazione (§§ 6.6.6., 6.7.4. e 6.9.4.). Il Codice ora ne chiede l’indicazione nel piano: si tratta (per coerenza con quanto indicato al punto 4.8 della Lista di Controllo) di KPI atti a misurare i fattori di rischio critici per la sostenibilità economica dell’impresa. Costituisce invece solo un’opportunità l’individuazione di livelli di allerta dei KPI anticipatori del livello di rottura. Sono i cennati soft limits  che quando raggiunti richiedono da parte dell’organo amministrativo interventi di mera mitigazione del rischio, anche solo in termini di aumento della frequenza del monitoraggio. 
Quanto invece al “punto di rottura”, e cioè gli hard limits di cui sopra, il piano può prevedere che al suo raggiungimento vengano adottati specifici interventi di rimedio già previamente individuati nel piano stesso oppure da individuarsi al bisogno da parte dell’organo amministrativo. Solo nel primo caso l’attestatore dovrà pronunciarsi sulla loro adeguatezza teorica e sulla concreta capacità dell’impresa di adottarli, fermo restando che egli deve pronunciarsi comunque sulla presenza (o sul disegno) di tempestivi strumenti di monitoraggio atti a misurare con la periodicità opportuna i KPI in questione, al fine di intercettare tempestivamente il superamento delle soglie di rilevanza. 
Inerente al tema della gestione del rischio vi è quello dei parametri finanziari convenuti con il sistema bancario. Si tratta dei c.d. covenants al cui superamento l’impresa decade contrattualmente dal beneficio del termine, salvo negoziare di volta in volta misure di tolleranza (waiver). A ben vedere i covenants  sono di fatto volti,  attraverso l’esigenza del rimedio delle cennate misure di tolleranza, ad introdurre un obbligo di monitoraggio contrattuale ulteriore. In tale ottica essi non costituiscono “punti di rottura” della fattibilità, quanto piuttosto strumenti che richiedono, per la concessione del waiver, nuovamente il coinvolgimento dei creditori finanziari[14] per il riesame della situazione. È dunque opportuno che l’attestatore li legga in tale ottica, nonostante dalla loro violazione possa derivare un impatto in termini di going concern del quale dovrà essere data evidenza nell’informativa finanziaria.
9 . Il giudizio sul riequilibrio finanziario
Come già detto, il piano in continuità deve recare i tempi di raggiungimento del riequilibrio finanziario dell’impresa e l’attestatore, nell’esprimere il giudizio di fattibilità, non può non pronunciarsi sull’idoneità del piano ad assicurarlo. La fattibilità del piano presuppone la sostenibilità del debito a regime. Perché il piano possa dirsi fattibile occorre comunque che esso conduca, non oltre il termine del suo orizzonte temporale, ad una situazione di equilibrio finanziario. Deve trattarsi di un equilibrio stabile e non precario che, come tale, deve poggiare su un equilibrio economico (quanto meno in termini di Margine Operativo Lordo[15]).
Perché l’equilibrio finanziario possa essere ravvisato occorre che lo stock del debito sia sostenibile e rimborsabile in un numero di anni coerente con il settore di attività, avendo riguardo alla stabilità dei flussi[16] e alla fase del ciclo di vita del prodotto dell’impresa. 
Ci si deve allora domandare in che cosa consista una situazione di equilibrio finanziario. Un momento di utile riflessione può essere tratto dal disposto dell’art. 2467 c.c., norma che – seppur a diverso fine e, precisamente, per escludere la postergazione dei finanziamenti erogati dai soci nelle società a responsabilità limitata e, per via del richiamo operato dall’art. 2497 quinquies c.c., nei gruppi – declina il significato di equilibrio finanziario in termini di rapporto tra l'indebitamento e il patrimonio netto, con la precisazione che l'anomalia (e, quindi, la conseguenza della postergazione ex lege) del finanziamento può essere desunta dall’indice c.d. di indebitamento (leverage), costituito dal rapporto tra i debiti finanziari e i mezzi propri. Al riguardo, se è vero che la dottrina aziendalistica ha individuato misure di normalità, di attenzione e di criticità del rapporto di leverage, è altrettanto vero che non ha senso parlare di livelli assoluti, rivelatori di un indebitamento “eccessivo”. Infatti, ad uno stesso rapporto di indebitamento può corrispondere una situazione di equilibrio finanziario (ad esempio, per una realtà che produce rilevanti flussi di cassa e che è esposta a rischi contenuti), così come una di disequilibrio (ad esempio, per imprese che drenano liquidità e presentano, in prospettiva, rilevanti incertezze). Sia il rapporto di leverage Debt/Equity che quello di PFN/EBITDA sono indicatori sintetici e statici, che, per sorreggere la verifica del riequilibrio finanziario attraverso un percorso logico-argomentativo, dovrebbero essere analizzati alla luce delle specificità aziendali, nonché dei rischi ai quali i flussi reddituali e finanziari sono esposti, di modo che, per esempio, possa essere apprezzato il grado di elasticità dei costi rispetto ai ricavi.
Piena contezza di ciò pare aver avuto anche il Legislatore nella misura in cui, diversamente da quanto previsto all’art. 2412 c.c. per l’emissione dei prestiti obbligazionari, si è astenuto dal fissare un limite assoluto del livello di indebitamento[17]. Anzi, l’articolo 2467 c.c. prevede esplicitamente che, per la postergazione in esame, la valutazione debba essere svolta “in considerazione del tipo di attività esercitata dalla società” – sottolineando così la valenza relativa dell’indicatore quantitativo – ed equipara a tale valutazione la sussistenza di un elemento qualitativo che, mirando ad acclarare se la società versi in una “situazione finanziaria (…) nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento”, si traduce in una sorta di valutazione del merito di credito. 
Si tratta a questo punto di individuare un iter logico convincente che permetta di giungere ad un giudizio controllabile. 
È necessaria una premessa: ogni variazione di Capitale Circolante Netto (CCN) incide sui flussi di cassa (generandone un assorbimento, in caso di crescita dei volumi, e un rilascio, nel caso di calo dei volumi medesimi)[18]; di talché è assai opportuno che il sostegno del debito venga misurato in una situazione astratta di neutralità dei volumi e di crescita nulla del valore della produzione (situazione c.d. di steady state, ovvero di stato stazionario relativo all’anno di piano nel quel è condotta la misurazione). Tale soluzione, infatti, consente, da un lato, di evitare di alterare il dato a regime con grandezze volatili (quali sono le variazioni di CCN) e, sotto diverso profilo, di assumere il mantenimento dell’indebitamento finanziario autoliquidante unicamente attraverso il pagamento dei relativi interessi. 
Sulla base delle considerazioni svolte, per la rilevazione del riequilibrio finanziario occorre stimare, a regime, i flussi finanziari liberi che residuano dopo gli investimenti di mero mantenimento dell’apparato produttivo ed il pagamento degli oneri finanziari sul debito autoliquidante e delle imposte sul reddito. Sulla base di tali flussi, adottando, in via figurata, un processo amortizing, è possibile agevolmente stimare in quanti anni avrebbe luogo il rimborso del restante debito finanziario (comprensivo del debito scaduto o di quello concorsuale) sulla base di un tasso di interesse normale di mercato, che tenga conto dello stato dell’impresa e del suo merito di credito[19]. Il tasso di interesse applicato deve infatti, come già detto, essere in grado di remunerare adeguatamente il capitale di terzi alla luce dei rischi ai quali è esposto il prestatore. 
Il metodo di calcolo proposto, esperito nelle singole annualità del piano, consente all’attestatore di esprimersi in modo controllabile sul momento del raggiungimento dell’equilibrio finanziario. 
L’approccio suggerito permette anche di affrontare in modo argomentato un caso che frequentemente si pone sul tavolo delle rinegoziazioni del debito: la presenza di una rata bullet nell’ultimo anno di piano. I creditori finanziari, infatti, sono restii ad accettare rimborsi del debito in tempi particolarmente lunghi che eccederebbero le facoltà deliberative degli organi deliberanti. Ebbene, seguendo l’approccio descritto l’attestatore è in grado di esprimere il giudizio di riequilibrio finanziario anche nel caso in cui si rendesse necessario, in via prognostica, il riscadenzamento della rata finale. 
10 . I giudizi dell’attestatore in relazione alla distribuzione del valore ed al trattamento dei creditori
L’attestatore è anche chiamato a rendere una serie di giudizi in relazione alla distribuzione del valore ed al trattamento dei creditori. Ci si riferisce, ovviamente, in primo luogo al caso del concordato in continuità aziendale ed al giudizio preventivo afferente al trattamento di ciascun creditore non deteriore rispetto a quello che egli riceverebbe in caso di liquidazione giudiziale ed al più generale rispetto delle regole di distribuzione del valore. Ma ci si riferisce anche agli accordi di ristrutturazione ad efficacia estesa ed al fatto che i creditori “trascinati”, nel caso di liquidazione giudiziale, non ricevano un trattamento superiore. Analogo giudizio è infine richiesto in caso di transazione fiscale. Ci si riferisce infine anche al giudizio del raggiungimento della soglia di soddisfazione (del 30% ridotta al 20% in caso in cui il debitore abbia preventivamente ed utilmente fatto ricorso alla composizione negoziata) che impedisce le proposte concorrenti. 
Il piano di cui all’art. 87 deve recare il valore di liquidazione giudiziale e le prospettive di realizzo delle azioni risarcitorie e recuperatorie esperibili, comprese le azioni eventualmente proponibili solo in caso di apertura della liquidazione giudiziale, quali le azioni revocatorie. L’indicazione di tale valore occorre anche negli accordi di ristrutturazione ad efficacia estesa (ai sensi dell’art. 61, comma 1, lett. d), nonché in caso di transazione fiscale per effetto dell’art. 63, comma 2 bis, e dell’art. 88, comma 2 bis). 
Nella domanda di concordato debbono essere inoltre precisate le ragioni per le quali la proposta concordataria è preferibile rispetto alla liquidazione giudiziale. In questo contesto l’attestatore ripercorrerà le valutazioni del debitore, tenendo criticamente conto delle ragioni di convenienza rappresentate, e perverrà in via autonoma ad esprimere il proprio giudizio. 
Il valore di liquidazione giudiziale non può non tenere conto delle ragionevoli prospettive di realizzo delle azioni esperibili, ovviamente al netto delle relative spese. Tra queste vi rientrano le azioni di responsabilità nei confronti degli organi e del revisore, la cui valutazione deve essere condotta avendo riguardo al loro operato, per il quale l’attestatore potrà avvalersi di forensics affidati a professionisti terzi indipendenti, ed alla loro capacità patrimoniale. 
I giudizi dell’attestatore in ordine al trattamento sono da svolgere in termini differenziali e cioè comparando la proposta con l’esito stimato della liquidazione giudiziale sulla base delle poste patrimoniali e del loro valore di realizzo alla data di presentazione della domanda, intendendosi per tale solo la domanda finita e non il ricorso con riserva di presentare la proposta di cui al comma 1 dell’art. 44. 
Chi scrive ritiene che in tale comparazione assuma rilevanza anche il fattore tempo e cioè il momento in cui i creditori otterrebbero le risorse della recovery liquidatoria. Quand’anche si tratti di approccio che raramente viene adottato dai professionisti chiamati ad attestare il piano, il riferimento a valori nominali che prescindono dal momento del loro realizzo non appare adeguato per assicurare un’informativa compiuta ai creditori, in quanto non permette di apprezzare il tempo trascorso tra l’assunzione dell’obbligo ad eseguire il pagamento e la sua concreta effettuazione, nonostante nel frattempo si verifichi un cambiamento del potere d’acquisto del denaro. Attribuendo rilevanza giuridica al solo valore nominale della moneta si riverserebbe sul creditore il rischio della perdita del potere di acquisto. Sarebbe dunque opportuno che l’attestatore, quanto meno per assicurare un’informativa compiuta, tenesse conto, accanto al principio nominalistico, anche dei valori attuali applicando tassi di attualizzazione coerenti con l’esposizione al rischio. Le conseguenze di tale informativa non appaiono comunque al momento adeguatamente esplorate dalla dottrina (e meriterebbero un dibattito), anche in conseguenza di un periodo straordinariamente lungo caratterizzato da assenza di pressioni inflazionistiche e da tassi risk free prossimi allo zero.
In ogni caso, rispetto al regime previgente, il valore di liquidazione giudiziale assume ulteriore rilevanza nel concordato in continuità, trattandosi della linea di confine tra la absolute priority rule e la relative priority rule. In considerazione della criticità di tale valore, l’attestatore è chiamato a svolgere gli opportuni approfondimenti e, a tal fine, potrà rivolgersi ad esperti terzi per la determinazione del valore e del tempo di realizzo dei singoli beni, nonché del compendio aziendale la cui cessione è ben possibile anche nel corso della liquidazione giudiziale. Il valore di liquidazione del patrimonio in sede di liquidazione giudiziale è infatti comprensivo dell’eventuale maggior valore realizzabile nella medesima sede dalla cessione dell’azienda in esercizio, non necessariamente ad esito di un esercizio provvisorio, essendo in taluni casi possibile la cessione dell’azienda a prescindere da esso.
In ogni caso di ricorso a competenze esterne, è fondamentale che l’attestatore strutturi adeguatamente lo scope of work degli incarichi affidati agli esperti estimatori, sul cui esito egli è comunque chiamato a svolgere un adeguato vaglio critico.
Per la conduzione della determinazione del trattamento in caso di liquidazione giudiziale, l’attestatore non potrà prescindere dall’ordine dei privilegi e dalla presenza di privilegi speciali e sotto questo profilo dovrà valutare criticamente quanto contenuto nella domanda e nella proposta. Un elemento incidentale rilevante è comunque costituito dalle prededuzioni maturate in pendenza della riserva di cui all’art. 44.
La proposta concordataria e quella di accordo di ristrutturazione ad efficacia estesa possono richiedere all’attestatore valutazioni complesse nel caso in cui siano previsti earn-out per i creditori, l’assegnazione di azioni o di strumenti finanziari partecipativi. Per essi l’attestatore si esprimerà in termini di probabilità/rischio di conseguimento dei flussi e valore di mercato dello strumento finanziario. Valgono a questo riguardo le regole relative alla determinazione del valore economico del capitale ad esito dell’omologazione, volte alla quantificazione del valore riservato ai soci. In tali situazioni, la stima della soddisfazione dei creditori non può prescindere dall’attualizzazione dei flussi prospettici tenendo conto anche del premio per il rischio adeguatamente parametrato al grado di fattibilità del piano rilevato dallo stesso attestatore. 
Con particolare riferimento al valore riservato ai soci, sia l’art. 87, sia l’art. 210 quater nulla richiedono all’attestatore; ciò non toglie che tale valore assuma una rilevanza estrema nel concordato in continuità aziendale. La determinazione del valore effettivo delle partecipazioni dei soci costituisce, infatti, un ganglio fondamentale del compendio informativo in relazione al quale l’attestatore, che ha approfondito il profilo della fattibilità del piano e dunque dei rischi inerenti allo stesso, non può astenersi dal pronunciarsi. Il valore effettivo, dice il comma 2 dell’art. 210 quater, è quello conseguente all’omologazione e dunque quello ad esito degli stralci concordatari e non può che essere determinato sulla base del piano di cui all’art. 87 e della relativa attestazione di fattibilità. 
Si tratta di un valore che è assolutamente coerente rispetto al valore determinato in base ai principi contabili interni (OIC 9) ed internazionali (IAS 36) per rilevare il valore d’uso dei cespiti. Tali principi prevedono che esso sia calcolato sulla base dei flussi finanziari futuri risultanti dal piano, applicando tassi di attualizzazione che tengano conto del costo del capitale e del premio per il rischio inerente. I flussi finanziari in questione sono risultanti dal piano di cui all’art. 87, estrapolando, come previsto dai principi contabili internazionali, le proiezioni per gli anni successivi sulla base dei dati dell’ultimo anno di piano, considerando un tasso di crescita a regime coerente con l’impresa ed il settore in cui opera. Quanto al premio per il rischio, esso è assunto sulla base del grado di fattibilità del piano riscontrato dall’attestatore e sarà tanto più contenuto rispetto a quello di settore quanto maggiore è la prudenza usata nel confezionamento del piano. Infatti, i tassi di settore sono quelli di mercato e come tali riferibili ad una media probabilità di avveramento delle grandezze prognostiche di piano; viceversa, i principi di redazione dei piani di risanamento (CNDCEC Principi di Redazione dei Piani di Risanamento § 13.1.4), per la determinazione dei flussi liberi al servizio del debito, suggeriscono l’adozione di scenari che presentino una probabilità di avveramento più elevata rispetto alla media.
11 . Conclusioni
Da quanto sopra pare emergere che l’intervento più innovativo del Codice in tema di attestazione di fattibilità non lo si ritrova in una disposizione specifica ma deriva dall’insieme delle nuove norme. Da esse emerge che il piano di risanamento è l’esito di un processo che il professionista non può non ripercorrere; il che gli consente di esprimere i propri giudizi in modo argomentato e convincente evitando che restino confinati nell’area del meramente possibile. Nel contempo, la portata informativa dell’attestazione si accresce con le valutazioni sul contenuto nel piano compresa quella sull’esposizione al rischio dei creditori, anche ed in particolare in presenza di nuova finanza, e, nel concordato preventivo in continuità aziendale, sul rispetto in concreto delle regole della distribuzione del valore.
A tali fini, la Lista di Controllo di cui all’art. 13, per effetto del comma 2 dell’art. 5 bis, diviene un riferimento necessario per i lavori dell’attestatore, al pari dell’arricchimento del contenuto del piano introdotto dagli art. 56 e 87.
Si rende a questo riguardo opportuna una considerazione operativa. È improbabile che il piano di risanamento sia strutturato con una puntuazione corrispondente al cennato portato di legge o con uno sviluppo articolato secondo i paragrafi ed i singoli punti della Lista di Controllo. Alcuni di essi necessitano, infatti, di trattazione congiunta, mentre la trattazione distinta di altri può essere incompatibile con la modalità espositiva adottata dal redattore. Sotto questo aspetto, dovrebbe essere di ausilio l’attestatore, che, a beneficio del lettore del piano, potrebbe utilmente esprimersi sulla completezza del documento, eventualmente ricorrendo anche ad una tavola di riconciliazione del contenuto della norma di riferimento con quello della Lista di Controllo.

Note:

[1] 
La nozione di crisi è ora enunciata alla lett. a) del comma 1 dell’art. 2 in termini aziendalisticamente fruibili: “inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte alle obbligazioni nei successivi dodici mesi”; sino a quando non emerga la crisi le difficoltà dell’impresa e gli squilibri economici e finanziari si sostanziano in uno stato di mera pre-crisi.  
[2] 
In Il Caso.it, sez. Giurisprudenza, 8401 – 28/01/2013. 
[3] 
Ensuring” nella versione inglese. 
[4] 
Che può essere efficacemente misurato in termini di NOPAT (risultato operativo netto dopo le imposte) opportunamente normalizzato, in quanto indicativo della capacità di produrre flussi al servizio del debito. 
[5] 
M. Fabiani, Introduzione ai principi generali e alle definizioni del codice della crisi, in Il Fall., 2022, 1181. 
[6] 
Era stata ad esempio ritenuta carente l’attestazione di fattibilità quando non fornisce ai creditori informazioni necessarie per comprendere le conseguenze degli eventi probabilistici (Trib. Udine, 5 maggio 2022, in Dirittodellacrisi.it). 
[7] 
Come evidenziato dai Principi di attestazione (§ 4.3.3), le “procedure da svolgere” non costituiscono una revisione contabile completa ma neppure una revisione limitata e non comportano l’espressione di un giudizio professionale sulla situazione patrimoniale redatta sulla base della contabilità aziendale posta alla base del piano, ma sono esclusivamente finalizzate all’espressione del giudizio di fattibilità del piano nel suo insieme. 
[8] 
In termini analoghi si esprimeva la Commissione Crisi e Risanamento D'impresa del CNDCEC, nel documento “Osservazioni sul contenuto delle relazioni del professionista nella composizione negoziale della crisi d'impresa”, 23 febbraio 2009, ove si legge: “Sul punto non si può non concordare con chi, in dottrina, ha ritenuto che non tutti i dati raccolti dall’imprenditore debbano essere oggetto «del necessario visto di autenticità da parte del professionista», dovendo l’indagine essere limitata esclusivamente a quelli sui cui il piano si fonda. Infatti, secondo l’orientamento in esame l’estensione del perimetro dei dati aziendali oggetto di attestazione di veridicità non solo non troverebbe alcun fondamento nelle disposizioni di legge, ma si tradurrebbe altresì in «una non applicabilità pratica del disposto normativo»”, tenuto conto dell’incompatibilità tra l’ampiezza dell’ambito di indagine e la limitatezza del tempo a disposizione per il completamento dell’incarico.
[9] 
In ogni caso, l’attestatore deve svolgere verifiche di follow up e di aggiornamento ogni qualvolta venga modificata la data di riferimento della base dati aziendali già oggetto di verifica. 
[10] 
A. Solidoro, Piani di risanamento nel nuovo Codice della crisi e dell’insolvenza, in Crisi e risanamento n. 39/2020, p. 25.
[11] 
Il tema della concretezza delle prospettive di risanamento è sottolineato a più riprese nella composizione negoziata (art. 17 comma 5; art. 21, comma 1); non è invece richiamato negli altri strumenti ma si deve ritenere comunque sottostante al giudizio di fattibilità. Lo si ritrova invece nel Testo Unico delle Società Pubbliche (TUSP di cui al D.Lgs. 175/2016) allorquando esso affronta i piani di risanamento delle società pubbliche (art. 14, comma 4: “comprovata sussistenza di concrete prospettive di recupero dell’equilibrio economico”). 
[12] 
La Lista di Controllo reca, ai punti 3.7 e 5.2-5.3, indicazioni particolareggiate al riguardo. 
[13] 
Il grado di ragionevolezza dei dati previsionali è affrontato nell’International Standard on Assurance Engagements (ISAE) 3400 “The Examination of Prospective Financial Information”, emesso dall’IFAC - International Federation of Accountants. Tale documento rappresenta lo standard di riferimento per i revisori in merito all’attività di verifica dei dati e dei piani previsionali. 
[14] 
App. Firenze 18 marzo 2016 in materia di accordi di ristrutturazione, aveva rilevato che è ragionevole ritenere che "i creditori che hanno sottoscritto il piano di ristrutturazione evidentemente ci credano, tanto da avere sopportato consistenti sacrifici per vararlo, mentre quelli che vi sono rimasti estranei non perdono suo tramite alcun mezzo di tutela ed in qualunque momento, cessata la breve moratoria accordata dalla legge [n.d.a. di 120 giorni], potrebbero liberamente far valere le proprie ragioni, al limite anche in direzione di uno sbocco concorsuale". 
[15] 
Si può discutere se si debba o meno tenere conto degli ammortamenti e se sia corretto assumere il Margine Operativo Netto. Invero, l’equilibrio sussiste quando il debitore sia in grado di sostenere gli investimenti di mantenimento; sulla base di questa considerazione è ragionevole ritenere che l’equilibrio debba essere ricercato senza tenere conto della sola parte dell’ammortamento di cespiti al quale non corrispondono nuovi investimenti di mero mantenimento. Ad esempio, l’avviamento pagato costituisce un investimento iniziale che non necessita di essere rinnovato nel tempo e come tale non comporta alcun fabbisogno finanziario prospettico ed anzi genera un vantaggio in termini di risparmio d’imposta (conseguente alla deducibilità fiscale della relativa quota di ammortamento). La grandezza concettualmente più precisa per tenere conto di tali considerazioni è il free cash flow from operations.
[16] 
È ben diverso il tempo di rimborso del debito finanziario accettabile per una impresa del settore utility, caratterizzata da una minore volatilità dei flussi, rispetto a quello di imprese operanti in settori ad alta volatilità, quali le realtà operanti nel settore fashion.
[17] 
G. Zanarone, Finanziamenti dei soci, in Della società a responsabilità limitata, Tomo I, Giuffrè, 2010, 440.
[18] 
Fanno eccezione le realtà caratterizzate da cicli di cassa invertiti in cui gli incassi dei ricavi antecedono il pagamento dei costi (ad esempio la grande distribuzione o il settore dei trasporti aerei, navali e ferroviari).
[19] 
Non rileva a tal fine il tasso convenuto nell’accordo con i creditori, in quanto alterato dalle trattative per il risanamento. Occorre pertanto rifarsi (ancorché in via prognostica) a tassi che non scontino le agevolazioni concesse dai creditori bancari aderenti. Nell’effettuazione del calcolo, peraltro, qualora non si ricorra al NOPAT, il tasso di interesse deve essere assunto al netto dello scudo fiscale e cioè del risparmio d’imposta che deriva dalla deducibilità degli interessi.

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