Per effetto del richiamo effettuato dall’art. 182 l. fall. alla disciplina della liquidazione fallimentare, la vendita dell’intero complesso aziendale o di singoli rami del medesimo che, giusto il disposto del comma 2 dell’art. 105 l. fall., deve essere effettuata nelle modalità indicate dall’art. 107 l. fall. in tema di procedure competitive e nel rispetto dei requisiti di forma previsti dall’art. 2556 c.c., può avvenire tra l’altro anche attraverso il conferimento dell’azienda stessa o di un suo ramo in una o più società, eventualmente di nuova costituzione, come previsto dall’art. 105, comma 8, l. fall.
È noto che mediante il conferimento in natura del complesso produttivo, il soggetto conferente – nella specie il debitore concordatario – ottiene, trattandosi di un apporto a titolo di capitale, quale corrispettivo di detto trasferimento, un certo quantitativo di azioni della società conferitaria o una quota di partecipazione in quest’ultima. La suddetta previsione normativa dettata nell’ambito della legge fallimentare non può, tuttavia, prescindere da un necessario coordinamento con le altre disposizioni di diritto comune che in materia di società di capitali – siano esse società a responsabilità limitata (art. 2464 c.c.) ovvero per azioni (art. 2346 c.c.) – impongono tra l’altro che il valore degli apporti non possa mai essere complessivamente inferiore dell’ammontare globale del capitale sociale.
Con l’entrata in vigore della riforma del diritto societario del 2004, la perfetta coincidenza tra l’importo del conferimento e la corrispondente quota di partecipazione assegnata dalla società conferitaria a fronte di quest’ultimo si è, infatti, spostata dal versante di ogni singolo socio, al pari di ciò che avveniva nella previgente disciplina, a quello dell’intera collettività dei soci[110]. Poiché ad assumere rilevanza è l’equivalenza tra il valore dell’apporto complessivo e l’ammontare della quota di partecipazione al capitale sociale attribuita al soggetto conferente, il debitore concordatario potrà dunque procedere al conferimento di aziende o di rami delle stesse che hanno in realtà anche un rilievo economico negativo – in quanto determinato da un surplus delle passività “aggregate” rispetto alle attività trasferite – vedendosi comunque assegnato, in considerazione dell’esistenza di un avviamento, una certa quota di capitale sociale nella società conferitaria, a patto che vi siano altresì uno o più soggetti che effettuino un conferimento ricevendo una quota di partecipazione al capitale sociale della conferitaria meno che proporzionale rispetto all’entità dell’apporto[111].
Tra l’altro, pure il rinvio disposto in tema di conferimento d’azienda o di un suo ramo alle norme inderogabili della Sezione II rubricata ‹‹Della vendita dei beni›› e quindi agli artt. da 105 a 108-ter l. fall. – che per taluni rappresenta un modello funzionale per la successiva vendita avente lo scopo di migliorare i risultati di soddisfacimento per il ceto creditorio[112] – non dovrebbe, pur con la dovuta prudenza che la singolarità della fattispecie impone, essere incompatibile con la sussistenza di una obbligatoria procedura competitiva volta a selezionare in via preliminare, rispetto al conferimento stesso, il soggetto conferitario e, pertanto, destinatario dell’apporto.
Trasferendo il complesso produttivo mediante conferimento, il debitore corre, però, il rischio di procrastinare il momento conclusivo della liquidazione degli asset, sostituendo a beni primari (l’azienda) beni secondari (la quota o le quote della società conferitaria), scambiando cioè un attivo prontamente realizzabile con quote o azioni di società di capitali che comunque dovranno essere convertite in denaro in un secondo tempo rispetto alla loro emissione. Ciò non appare, d’altra parte, sempre di ostacolo ad una celere liquidazione dell’attivo concordatario. Sul differente fronte dei vantaggi, è indubbio che attraverso tale particolare modalità di liquidazione sia possibile procedere, in modo alquanto flessibile, alla vendita delle partecipazioni in più tranche rivolgendosi a soggetti diversi, superando così le difficoltà connesse all’individuazione di un unico acquirente in grado di corrispondere l’intero prezzo a fronte della vendita unitaria del complesso produttivo[113].
Sennonché l’art. 182 l. fall., nel richiamare l’art. 105, comma 4, l. fall., si limita a prevedere l’esonero da responsabilità del destinatario del complesso produttivo per i soli casi delle cessioni d’azienda, nulla in particolare disponendo con riguardo al conferimento di quest’ultima. L’art. 105, comma 8, l. fall., infatti, esclude da responsabilità ex art. 2560 c.c. l’alienante in ipotesi di conferimento del complesso produttivo unicamente qualora ad esso vengano “aggregate” determinate passività oggetto di accollo da parte del soggetto conferitario. Tuttavia, poiché in ordine a questa fattispecie è qui possibile richiamare le varie considerazioni svolte nel paragrafo che precede in tema di “cessione in blocco”, è preferibile ora concentrare l’attenzione sulla mancata disciplina in forma derogatoria rispetto alla regola di diritto comune che prevede invero la responsabilità del cessionario per i debiti inerenti all’esercizio dell’azienda trasferita[114].
Di fronte a questa lacuna assiologica dell’ordinamento concorsuale[115], è d’obbligo chiedersi se l’interprete possa colmare l’evidente disattenzione del legislatore attraverso un meccanismo di applicazione analogica al caso relativo al conferimento dell’azienda o di un suo ramo delle disposizioni vigenti in materia di cessione della medesima. Ciò sul presupposto che entrambe le fattispecie paiono condividere la stessa ratio finalizzata ad attuare e a concretizzare la liberazione del soggetto destinatario del complesso produttivo dalla responsabilità – prevista come regola generale dall’art. 2560 c.c. – in occasione dei trasferimenti in seno alle procedure concorsuali, allo scopo di agevolare le vicende circolatorie di detti asset a vantaggio del ceto creditorio.
Peraltro, tra le tecniche di integrazione del diritto orientate a colmare lacune l’argomento analogico (o a simili) non interviene tanto sul significato di una disposizione (attività interpretativa), quanto piuttosto crea invero una disciplina nuova non riconducibile ad alcuna normativa già preesistente, «né come suo significato, né come sua conseguenza logica»[116]. A tal proposito è stato, infatti, specificato che fra la situazione regolata dalla norma e quella non prevista dalla stessa deve sussistere una evidente comunanza di caratteri e devono essere proprio tali elementi ad aver determinato – in qualità di ratio legis – l’elaborazione della disciplina della fattispecie disciplinata: detto diversamente, gli episodi simili si tramuterebbero, per l’appunto, in casi identici una volta eliminati gli aspetti giuridici trascurabili[117]. Nella circostanza che ci occupa è evidente come sia del tutto irrilevante che la vicenda circolatoria si configuri quale cessione o in termini di conferimento. In entrambe le ipotesi il profilo essenziale è esclusivamente che il trasferimento avvenga nell’ambito di una procedura concorsuale; aspetto questo che costituirebbe il carattere comune e determinante per la creazione di una disciplina della cessione in senso opposto rispetto alla disposizione contenuta nell’art. 2560, comma 2, c.c.
Tuttavia, prima di concludere per un’estensione dell’art. 105, comma 4, l. fall. anche al conferimento d’azienda, poiché l’art. 14 delle Preleggi inibisce che si possano applicare per analogia le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali, la ricerca deve innanzitutto essere indirizzata a comprendere se il disposto che esonera, in campo fallimentare e concordatario, il cessionario da responsabilità per i debiti inerenti all’azienda ceduta costituisca espressione di una norma speciale e, in quanto tale, suscettibile di analogia ovvero eccezionale, per la quale, invece, l’applicazione dell’argomento a simili non parrebbe di immediata evidenza.
Ma la difficoltà di rinvenire nell’art. 105, comma 4, l. fall. una disposizione speciale in rapporto all’art. 2560, comma 2, c.c. è del tutto evidente. La prima non è infatti dotata di quel tratto distintivo che permette al diritto speciale di costituire una specificazione, vale a dire «il prolungamento o la continuazione» del diritto generale[118]. La norma dettata per disporre le conseguenze della cessione d’azienda o di uno dei suoi rami all’interno delle procedure concorsuali si pone in realtà in rapporto di eccezione rispetto a quella che sancisce la responsabilità che nasce in capo al cessionario in conseguenza del trasferimento: se quest’ultima dispone, come regola generale, l’estensione della responsabilità del cessionario per i debiti anteriori all’alienazione contratti dal cedente, la prima rappresenta una rottura di tale logica, collocandosi anzi in antitesi con essa, proprio in ragione del fatto che espressamente esclude la responsabilità dell’acquirente in maniera opposta rispetto a quanto prevedrebbe la norma del Codice civile. In altri termini, l’art. 105, comma 4, l. fall. si sostanzia in uno ius eccezionale o singolare in confronto al diritto comune, venendo in rilievo un’ipotesi nella quale la disposizione meno ampia esclude integralmente l’operatività di quella più vasta sostituendo a questa qualcosa di diverso[119]. La previsione di diritto singolare o eccezionale non specifica la norma generale né aggiunge elementi alla disciplina di essa, ma regola il caso alla stessa sottratto in maniera del tutto diversa, sì che la prima non costituisce un completamento o una specificazione della seconda «ma un’interruzione della sua conseguenzialità logica»[120].
Seguendo tale ragionamento, la dottrina già da tempo non ha mancato di osservare che, se, da un lato, la regolamentazione speciale non si pone in contrapposizione con i principi e non li paralizza poiché incompatibili «ma li specifica e li differenzia adattandoli», quella eccezionale o singolare costituisce invece, nel caso di cui si occupa, «un’interruzione della conseguenzialità logica e politico-legislativa dei principi» oltre che «una deviazione dalle sue direttive generali» tale da porsi con essa in contrasto e da neutralizzarla[121]. Nel tipo di rapporto regola eccezionale-regola generale le due norme si trovano tra di loro in conflitto, delimitando la norma singolare il campo di applicazione di quella generale, poiché se entrambe presentano aspetti in comune con riguardo agli elementi di fatto, tuttavia ognuna di esse dispone per i medesimi diverse conseguenze giuridiche[122]. Nell’ipotesi che ci occupa, infatti, se è certamente vero che l’art. 2560 c.c. e l’art. 104, comma 4, l. fall. delineano un’identica situazione di fatto – la cessione dell’azienda – gli stessi collegano però a tale fatto giuridico risvolti antitetici, dato che la norma codicistica sancisce la responsabilità patrimoniale del cessionario per i debiti precedenti il trasferimento, mentre la disciplina concorsuale al contrario la esclude.
Nonostante l’art. 105, comma 4, l. fall. costituisca una disposizione eccezionale rispetto all’art. 2560, comma 2, c.c., e come tale in linea di principio non applicabile analogicamente, è però in letteratura largamente condivisa l’opinione secondo la quale il divieto di analogia non sarebbe assoluto, ben potendo una norma eccezionale estendersi a fattispecie simili, sebbene nell’ambito della medesima ratio e, pertanto, in corrispondenza di casi per i quali si riscontra lo stesso motivo di singolarità su cui si fonda, per l’appunto, la regola eccezionale[123].
L’approccio scettico di coloro che ritengono che l’analogia sia impedita in tema di leggi eccezionali non appare, infatti, condivisibile[124]. Affermare che l’applicazione dell’analogia sia una operazione (ampiamente, se non addirittura totalmente) discrezionale[125] equivale a rigettare il principio che vi possa essere un’interpretazione maggiormente plausibile rispetto alle altre. E anche l’esclusione del ricorso all’analogia con riguardo alle norme eccezionali, da taluni sostenuta[126], si giustifica in considerazione, da un lato, dell’impostazione di detto indirizzo secondo il quale lo ius singulare sarebbe una sorta di “privilegio” che esula dal sistema, costituendo eccezione ai principi fondamentali del diritto generale o speciale, posto che il medesimo si pone in collisione con essi, e, dall’altro, di un ampliamento del campo del diritto speciale e per converso di un restringimento di quello dello jus eccezionale; sì che una volta superata, come si ritiene di fare, una tale premessa il suddetto limite di applicazione estensiva non appare certo invalicabile.
Nel negare l’analogia limitatamente al caso in cui «il rapporto controverso sia da considerare singolare» ovvero «“a fattispecie esclusiva”», la dottrina ha diversamente ammesso l’operatività della stessa qualora essa riguardi «norme solo relativamente eccezionali», ossia disposizioni che, seppur derogatorie di una regola generale, costituiscono a propria volta previsioni generali nel campo in cui sono state dettate[127]. E ciò è quanto accade alla norma contenuta nell’art. 105, comma 4, l. fall. che oltre al fallimento trova applicazione anche al concordato preventivo per espresso rinvio all’art. 182 l. fall., quali procedure concorsuali di natura giudiziaria, e, stante il disposto dell’art. 63, comma 5, d.lgs. n. 270/1999, pure all’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi.
Inoltre si osservi come l’art. 2560, comma 2, c.c. non rappresenti neppure una norma principio assunta dall’interprete alla stregua di un postulato generale dell’ordinamento, potendosi invero qualificare in termini di mera regola generale rispetto a cui viene sottratta la vicenda circolatoria dell’azienda in ambito concorsuale; deroga che, per l’appunto, in sua assenza consentirebbe l’applicazione della disposizione codicistica della responsabilità patrimoniale del cessionario.
D’altra parte lo stesso art. 2560 c.c., nel prevedere che a fronte di determinate obbligazioni sia chiamato a rispondere altresì un soggetto differente da quello che le ha in origine contratte, introduce anch’esso una eccezione al principio generale che si ricava nel nostro sistema dall’art. 2740 c.c., secondo cui «il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri»; espressione questa che in realtà equivale ad affermare che ad essere esposto, sotto il profilo patrimoniale, alle conseguenze giuridiche negative discendenti all’inadempimento delle obbligazioni è sempre colui che le ha assunte. Ciò consente di ricondurre, quindi, l’art. 2560 c.c. nell’alveo delle disposizioni generali dettate in materia di cessione d’azienda e non fra i principi apicali dell’ordinamento, sì che pure sotto questo profilo una norma, qual è l’art. 105, comma 4, l. fall. che fa eccezione alla prima non può che definirsi eccezionale in senso lato ed essendo tale nulla osta a che essa sia suscettibile di applicazione analogica[128].
In effetti, anche la legge eccezionale ha una propria ratio e la sua estensione a fattispecie non previste è ragionevole che possa avvenire limitatamente alle ipotesi per le quali valga il medesimo motivo di eccezionalità che l’ha originata[129]. In sostanza, riscontrare l’eadem ratio, pur non essendo un evento frequente, non è del tutto impossibile: in definitiva, pure le eccezioni possono, a loro volta, enunciare una “regola generale” in un determinato campo applicativo[130], e così accade nel caso qui preso in considerazione dell’art. 105, comma 4, l. fall.