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Saggio

Le vendite nel concordato preventivo*

Luca Mandrioli, Docente a contratto di diritto delle crisi d’impresa Università di Modena e Reggio Emilia

1 Aprile 2022

*Lo scritto è stato redatto in occasione del corso P21091 della Scuola Superiore della Magistratura ed è in corso di pubblicazione nei Quaderni della Scuola.
Il saggio è stato altresì sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
L’Autore affronta funditus il tema della liquidazione dei beni nelle procedure di concordato preventivo, affrontandone le varie criticità e ricostruendo il quadro in chiave sistematica.
Riproduzione riservata
1 . La liquidazione dei beni nel concordato preventivo e la sua evoluzione storica: cenni
Nell’ambito del moderno diritto concorsuale, ed in particolare in materia di composizione concordata della crisi d’impresa, il concetto di liquidazione dei beni ha subito nel tempo una profonda rivisitazione. Rispetto all’originaria legge fallimentare del 1942, a decorrere dalla decretazione d’urgenza del marzo 2005 e a seguito dei successivi interventi normativi si è assistito ad un notevole ampliamento del raggio d’azione della regolamentazione in esame e ciò non solo in considerazione della maggiore organicità con la quale viene oggi disciplinata la liquidazione dell’attivo concordatario ma anche con riguardo ai beni interessati dalla conversione in denaro, essendo stata introdotta una compiuta normativa avente ad oggetto il trasferimento del complesso produttivo; aspetto, quest’ultimo, in precedenza assolutamente trascurato e del tutto omesso dal legislatore, sebbene la vendita dell’azienda fosse già considerata in linea di principio ammissibile[1].
Inizialmente, infatti, nella versione antecedente le suddette modificazioni, l’art. 182 l. fall. (prev.) si limitava a disporre che, se il concordato consisteva nella cessione dei beni e non disponeva diversamente, il Tribunale nominava nella sentenza di omologazione ‹‹uno o più liquidatori e un comitato di tre o cinque creditori per assistere alla liquidazione›› e determinava inoltre ‹‹le altre modalità della liquidazione››. In un siffatto contesto, secondo l’orientamento prevalente, allorquando la procedura potesse essere inquadrata nella versione di cui all’art. 160, comma 2, n. 2, l. fall. (prev.) – valeva a dire nel caso in cui la valutazione di tutti gli asset del debitore avesse fatto fondatamente ritenere che i creditori chirografari avrebbero potuto essere soddisfatti in misura non inferiore al 40% – la cessione concordataria veniva per lo più ricondotta al generale schema di cui all’art. 1977 ss. c.c. dettato in tema di cessione dei beni ai creditori, risolvendosi – senza provocare per l’imprenditore la perdita della titolarità dei beni e della legittimazione all’esercizio delle azioni relative alle attività cedute – in una sorta di mandato irrevocabile conferito agli organi della procedura a che questi, nell’interesse dei creditori, gestissero e liquidassero il patrimonio del debitore concordatario, essendo la liberazione di quest’ultimo subordinata al soddisfacimento dei medesimi con ciò che si fosse ricavato dalla vendita[2].
Peraltro, anche nel fallimento gli artt. 106 e 108 l. fall. (prev.) si limitavano a disciplinare – rinviando soprattutto alle norme del Codice di procedura civile – le sole alienazioni di beni mobili e quelle di beni immobili, rimettendo, quanto alle prime, alla discrezionalità del Giudice delegato la possibilità di procedere alla vendita ad offerte private o alla vendita in massa, ossia considerando più beni in modo unitario.
Nella rinnovata visione della liquidazione concorsuale il legislatore ha invece ritenuto opportuno dedicare gran parte della disciplina a regolamentare, in aggiunta alla conversione in denaro di singoli asset, pure il trasferimento del complesso produttivo, financo in esercizio – dedicando altresì ampia attenzione alle vicende circolatorie delle “cessioni aggregate” caratterizzate dall’aggiunta di passività alle attività da cedere – anche mediante conferimento dell’azienda o di un suo ramo. Del pari, è stata introdotta una normativa positiva per le vendite che consente, tra gli altri aspetti, una competizione volta a realizzarsi al di fuori delle norme del Codice di rito e che richiama quelle “più fresche” predisposte per la procedura competitiva nel fallimento[3]. Il che permette di far assumere alle alienazioni concordatarie natura tipica, vale a dire di modello di operazione economica definita dalla legge e da questa regolato[4], i cui elementi fondanti e la relativa disciplina si rinvengono nell’art. 182 l. fall. che determina le norme applicabili ai rapporti contrattuali appartenenti al tipo vendita concordataria; con la conseguenza che, in ipotesi di incompatibilità tra le previsioni dettate dal Codice civile e quelle delineate dalla legge fallimentare, saranno le prime a soccombere per dare prevalenza alle seconde. 
A ciò si aggiunga come, mentre la legge fallimentare del 1942 aveva in origine collocato le regole delle cessioni dei beni in ambito concordatario unicamente nella fase esecutiva della procedura, ovverosia in quella dedicata a dare attuazione alla proposta depositata dal debitore e – successivamente alla votazione da parte del ceto creditorio – omologata dal Tribunale, con l’intervento della c.d. “mini-riforma” della legge fallimentare avvenuto nel 2015 il legislatore abbia invero ritenuto possibile una estensione delle medesime altresì alle precedenti fasi che caratterizzano il processo concordatario, privilegiando l’aspetto della tempestività della vicenda circolatoria, soprattutto per ciò che concerne l’azienda ed i suoi rami. Attraverso il d.l. 27 giugno 2015, n. 83, recante «Misure urgenti in materia fallimentare, civile e processuale civile e di organizzazione e funzionamento dell’amministrazione giudiziaria», poi convertito con modificazioni dalla l. 6 agosto 2015, n. 132, l’impostazione della disciplina della trasformazione in denaro degli asset del debitore concordatario finalizzata al miglior soddisfacimento del ceto creditorio ha, infatti, subito numerosi cambiamenti, i quali hanno investito, da un lato, il coordinamento tra l’art. 182 l. fall. e gli artt. da 105 a 108-ter l. fall. e, dall’altro, per l’appunto, l’anticipazione della previsione riguardante le cessioni dei beni anche ad un momento antecedente l’omologazione della proposta concordataria.
Queste embrionali considerazioni conducono immediatamente a comprendere come il fenomeno delle vendite di beni in ambito concordatario presenti numerosi tratti particolarmente complessi, con la conseguenza che ragioni espositive impongono di limitare il presente contributo, al fine di non travalicare i suoi confini, ai principi di diritto che governano le menzionate alienazioni, alla loro natura giuridica e alla regolamentazione degli effetti che le stesse producono, specie in relazione ai trasferimenti d’azienda, decisamente preferiti dal legislatore rispetto alle cessioni atomistiche, senza peraltro tralasciare i profili relativi alla pubblicità ed alla diffusione di informazioni ai potenziali soggetti interessati all’acquisto del bene oggetto del procedimento di conversione in denaro.
2 . Il richiamo alla disciplina degli artt. da 105 a 108-ter l. fall.
Con le modifiche apportate dalla suddetta decretazione d’urgenza, l’art. 182 l. fall. –rubricato, in modo asettico e generico[5], “Cessioni” – ha assunto, come si avrà modo di meglio cogliere nel prosieguo, la configurazione di una vera e propria disciplina generale di riferimento per le vendite di beni attuate nel corso di tutte le fasi che contraddistinguono il concordato preventivo[6].
Restano escluse dal suo campo di applicazione le sole alienazioni che, inserite all’interno di un piano concordatario in continuità aziendale, costituiscono oggetto tipico dell’impresa, in quanto eseguite dal debitore nell’esercizio dell’attività economica. La vendita di merci, come pure quella di prodotti finiti, o la sostituzione di macchinari o impianti del processo produttivo con altri di nuova generazione ovvero ancora le cessioni di crediti commerciali integrano fattispecie che, se effettuate con la finalità di dar corso ad atti nell’ambito dell’attività economica svolta dall’imprenditore, non ricadono nella sfera di azione delle vendite concordatarie in senso stretto. Si assiste così al tramonto della visione maggiormente tradizionale, secondo la quale la liquidazione di beni appartenenti al patrimonio del debitore costituisce l’unica soluzione per il soddisfacimento del ceto creditorio, e, al contempo, al riconoscimento della possibilità per il debitore medesimo di porre in essere, in alternativa all’attività liquidatoria disgregativa del complesso produttivo, una conservazione dello stesso allo scopo di trarre le somme necessarie ad adempiere alla proposta concordataria attraverso i flussi finanziari che si ricavano dalla continuazione dell’attività economica – c.d. continuità diretta – ovvero che si rinvengono dal realizzo in sede di cessione dell’azienda o di un suo ramo in esercizio – c.d. continuità indiretta – o in ipotesi di conferimento del complesso produttivo e successiva vendita delle azioni o quote ricevute a seguito di detto apporto. In conseguenza di ciò nessuna ragione giustifica l’applicazione alle vendite di beni o di crediti realizzate nel normale esercizio dell’impresa delle modalità e delle forme tipiche delle liquidazioni di beni delle procedure concorsuali, nelle quali invero l’intervento penetrante dell’autorità giudiziaria e la deroga alle disposizioni civilistiche in tema di alienazioni privatistiche è motivata dalla suddetta necessità di destinarne il ricavato direttamente al soddisfacimento delle pretese del ceto creditorio.
Da quanto sin qui esposto riesce facile convincersi che ai fini dell’operatività dell’art. 182 l. fall. a rilevare non è tanto la natura dell’asset liquidato – bene o credito che sia – quanto la circostanza che non si tratti di una alienazione che avvenga in occasione dell’esercizio dell’impresa del debitore concordatario, essendo per di più irrilevante che la procedura concordataria sia caratterizzata da un piano liquidatorio ovvero da uno in continuità aziendale. Nell’alveo delle regole delle vendite concordatarie rientra, infatti, tanto l’ipotesi di concordato liquidatorio – dovendosi intendere per beni oggetto di cessione l’intero o una parte del patrimonio del debitore[7] – quanto il caso di alienazione con finalità di dismissione di asset non strategici per la prosecuzione dell’impresa nel concordato in continuità aziendale, poiché non più funzionali all’esercizio dell’attività economica[8], ovvero la vicenda circolatoria del complesso produttivo o un suo conferimento nel rispetto dell’art. 186-bis l. fall. 
Peraltro, è d’uopo rammentare che già la previgente formulazione dell’art. 182, comma 4, l. fall. – nella sua versione antecedente le modifiche apportate dall’ultimo intervento riformatore del 2015 – nel richiedere l’autorizzazione del comitato dei creditori per le vendite di aziende e rami di esse, beni immobili e altri beni iscritti in pubblici registri, nonché per le cessioni di attività e passività aziendali e di beni o rapporti giuridici individuabili in blocco, non aveva certo inteso circoscrivere il proprio perimetro applicativo ai soli concordati aventi carattere meramente liquidatorio – implicanti una disgregazione dell’azienda, essendo i singoli asset a essa appartenenti atomisticamente ceduti allo scopo di garantire il soddisfacimento del ceto creditorio – ma contemplava anche quelli connotati da un piano c.d. “conservativo”, finalizzato alla preservazione del valore del complesso produttivo e al suo trasferimento “in esercizio”. In altri termini, per come strutturata, la sopra ricordata regolamentazione lasciava spazio all’interprete di estenderne l’operatività ben oltre il raggio d’azione dei concordati preventivi liquidatori, e ciò soprattutto se si considerava che, in tema di continuità aziendale, l’art. 186-bis l. fall. non escludeva – come non esclude ancora oggi – che, in ordine alla cessione o al conferimento dell’azienda in esercizio, potesse, e possa, dispiegare i propri effetti, laddove compatibile, proprio il disposto dell’art. 182 l. fall.
In definitiva, quella concernente quest’ultimo precetto è definibile alla stregua di una trasversalità applicativa che, se nel vigore della previgente disciplina poteva essere solo il frutto di una ragionevole interpretazione sistematica, a decorrere dal 2015 è divenuta una certezza alla luce del comma 5 del sopra citato art. 182 l. fall., il quale richiama l’operatività degli artt. da 105 a 108-ter l. fall. – laddove compatibili – per tutte le vendite, le cessioni e i trasferimenti legalmente posti in essere dopo il deposito della domanda di concordato preventivo, a prescindere dalla tipologia – liquidatorio o in continuità aziendale – del piano che accompagna la proposta negoziale[9].
Difatti, a costituire una vera e propria “norma faro” per tutte le alienazioni di beni di cui al procedimento concordatario è il suddetto comma 5 dell’art. 182 l. fall., che trova per l’appunto inderogabilmente applicazione sia nei concordati preventivi caratterizzati da un piano liquidatorio, sia con riguardo alle alienazioni di beni non funzionali alla prosecuzione dell’impresa e ai trasferimenti dell’azienda in esercizio compiuti nel rispetto dell’art. 186-bis l. fall.[10], trattandosi di previsione normativa dall’evidente contenuto imperativo e non derogabile. Tale ultimo assunto può inoltre trovare conferma, qualora ve ne fosse ancora bisogno, nella circostanza in base alla quale, con riguardo alla disposizione in commento, non è stato riprodotto quell’inciso – incluso invero nel comma 1 dell’art. 182 l. fall. – che, nell’affermare il principio secondo cui «se il concordato consiste nella cessione dei beni e non dispone diversamente», finisce in realtà per attribuire – limitatamente alla procedura concordataria caratterizzata da un piano liquidatorio – natura suppletiva al contenuto normativo in esso contemplato volto alla nomina dei liquidatori, del comitato dei creditori e alla determinazione delle modalità della liquidazione.
Sennonché, proprio il suddetto rinvio operato dall’art. 182, comma 5, l. fall. a ciò che viene dettato in tema di liquidazione nel fallimento consente a questo punto di porre l’attenzione sulla portata della estensione degli effetti coattivi delle vendite forzate agli atti di cessione aventi una forma privatistica o negoziale e, in particolare, in ordine all’individuazione di un insieme di regole che renda più efficiente e tempestiva la circolazione dei beni e dell’azienda, ammettendo che le alienazioni possano avvenire altresì nella fase ante omologazione. Ma prima di far ciò occorre soffermarsi brevemente sul regime pubblicitario delle vendite concordatarie a cui sarà dedicato il paragrafo che segue, nel quale si farà uso del più volte richiamato rinvio alle norme fallimentari, allo scopo di porre rimedio a una evidente svista del legislatore rispetto alla disciplina della pubblicità delle cessioni dei beni in sede di concordato preventivo in continuità aziendale.
3 . L’estensione delle forme di pubblicità previste dal Codice di rito
L’applicazione, sempre più diffusa, delle modalità telematiche al processo civile ha finito negli anni per interessare anche le procedure concorsuali e segnatamente gli atti di alienazione. La c.d. “mini-riforma” del giugno 2015, determinando una evidente opera di restyling dell’art. 182 l. fall., ha in effetti onerato il Tribunale di disporre, in sede di decreto di omologa, che il liquidatore effettui la pubblicità prevista ex art. 490, comma 1, c.p.c. per gli atti esecutivi sul portale web del Ministero della Giustizia in un’area denominata Portale delle vendite pubbliche, unica per tutto il territorio nazionale, e che fissi il termine entro il quale la stessa deve essere attuata. 
Il suddetto intervento riformatore, che si unisce a quello compiuto in relazione all’art. 107, comma 1, ultimo periodo, l. fall.[11], nel garantire il giusto coordinamento fra tale norma e il più volte citato art. 182 l. fall., ha reso le forme di pubblicità approntate dal Codice di rito per le vendite pubblicistiche utilizzabili pure in relazione ai trasferimenti di beni effettuati all’interno di un concordato preventivo e ciò con l’intento di ottenere un miglior risultato in termini di attivo realizzato per il ceto creditorio. L’art. 490 c.p.c. ha, difatti, assegnato al Portale delle vendite pubbliche la funzione di generale strumento di pubblicità per le alienazioni forzate, imponendo altresì al comma 2 – che peraltro non si estende alle cessioni concordatarie – l’obbligatoria divulgazione di esse sui siti web identificati con decreto dal Ministro della Giustizia ex art. 173-ter disp. att. c.p.c. – qualora i beni mobili siano di valore superiore ad euro 25.000 e in ogni caso per i beni immobili – e, nell’ipotesi in cui lo disponga il giudice, la pubblicazione stessa anche sui quotidiani[12]. In particolare, la pubblicazione sul Portale delle vendite pubbliche ha sostituito, a decorrere dal 19 febbraio 2018, la pubblicità legale delle vendite giudiziarie attuata sino ad allora attraverso il mezzo dell’affissione all’albo del Tribunale.
Per quanto riguarda le procedure concorsuali, l’obbligatorietà della pubblicità sul Portale concerne dunque le vendite competitive di cui all’art. 107, comma 1, l. fall., quelle ex art. 107, comma 2, l. fall. effettuate dal Giudice delegato in forza del richiamo alle regole del codice di procedura civile, le alienazioni competitive disposte in base all’art. 163-bis l. fall.[13] nonché, infine, le cessioni dei beni ai sensi dell’art. 182 l. fall., atteso che tale ultima previsione rinvia agli artt. da 105 a 108-ter l. fall. in quanto compatibili[14].
Con ogni evidenza, la ratio di tale norma ruota attorno alla necessità di offrire, in sede di vendita concorsuale, condizioni di parità informativa oltre che di uguaglianza a ciascun soggetto che abbia intenzione di partecipare alla competizione ed aggiudicarsi i beni oggetto di cessione[15]. Detto diversamente, il legislatore ha ritenuto adeguata la modalità di pubblicità tramite la piattaforma telematica del Portale delle vendite pubbliche, la quale, essendo idonea ad assicurare ‹‹una maggiore accessibilità delle informazioni››, costituisce il necessario presupposto per una valida ed efficace competitività tra i soggetti potenzialmente interessati[16]. 
Tuttavia l’art. 182, comma 1, l. fall., nell’imporre il ricorso al suddetto mezzo pubblicitario, prevede che la disposizione in esame trovi applicazione ‹‹se il concordato consiste nella cessione dei beni››, omettendo di pronunciarsi in relazione alle vendite e ai conferimenti d’azienda in esercizio o di suoi rami ovvero alle cessioni di beni non funzionali all’impresa effettuate nell’ambito di un concordato in continuità aziendale. Nonostante il silenzio del legislatore, una estensione della suddetta regola pubblicitaria anche alle alienazioni nel concordato preventivo di cui all’art. 186-bis l. fall. può agevolmente evincersi dal fatto che l’art. 182, comma 5, l. fall. rinvia all’art. 107 l. fall., in quanto compatibile, e dalla circostanza che questo, a propria volta, dispone – con riferimento alla procedura maggiore di fallimento – che l’organo amministrativo dell’esecuzione collettiva effettui la pubblicità prevista dall’art. 490, comma 1, c.p.c. per la vendita e per gli altri atti di liquidazione posti in essere in esecuzione del programma di liquidazione degli asset aziendali.
 Sennonché, l’ampliamento dell’adempimento pubblicitario del Portale delle vendite pubbliche anche alle cessioni di beni realizzate all’interno dei concordati in continuità aziendale solo apparentemente comporta una perfetta sovrapposizione dei termini di durata della pubblicità. Difatti, mentre il contenuto dell’art. 182, comma 1, l. fall., nel richiamare l’art. 490, comma 1, c.p.c., nulla afferma in merito all’arco temporale in cui la vendita deve essere oggetto di pubblicità, essendo la sua determinazione decisa dal Tribunale in sede di omologazione, al contrario l’art. 182, comma 5, l. fall., nel disporre il rinvio al procedimento competitivo nel fallimento, implicitamente stabilisce che per quanto concerne il concordato preventivo il liquidatore o il debitore concordatario effettuino la pubblicità delineata dal Portale delle vendite pubbliche almeno trenta giorni precedenti l’inizio della procedura competitiva. Peraltro, quest’ultimo riferimento deve identificarsi, ad avviso di chi scrive, non con il giorno in cui si terrà il procedimento competitivo di selezione dell’aggiudicatario, ma, se precedente, con la data di deposito delle offerte da parte degli interessati, la quale costituisce il momento iniziale del procedimento stesso caratterizzato da una evidente natura di fattispecie a formazione progressiva. 
  La sussistenza di un differente termine ultimo – nel primo caso da fissarsi a cura dell’autorità giudiziaria e nel secondo individuato dalla legge nel trentesimo giorno antecedente il procedimento competitivo – non pare di facile giustificazione. Una possibile ratio alla base di una tale diversità potrebbe ricavarsi dalla specifica natura del piano. Sotto questo profilo potrebbe non essere inverosimile ritenere che il legislatore abbia lasciato ampia discrezionalità al Tribunale in ordine alla fissazione del dies a quo per l’esecuzione dell’adempimento pubblicitario, qualora il piano concordatario consista nella cessione dei beni e sia sostanzialmente di tipo liquidatorio, rinviando invece, nell’ambito del concordato che si caratterizzi per un percorso in continuità aziendale, in tema di cessione oppure di conferimento di aziende in esercizio o di suoi rami ovvero in ipotesi di alienazione di beni non funzionali all’esercizio dell’impresa, ad un termine non inferiore ad almeno trenta giorni prima dell’inizio del procedimento competitivo. La circostanza che la regolamentazione della vendita in sede di decreto di omologa sia propria solo del concordato liquidatorio potrebbe aver spinto l’estensore della legge a fissare una durata non inferiore a trenta giorni per la pubblicazione del bando di gara, quale termine minimo per una effettiva competitività che possa permettere a tutti i soggetti potenzialmente interessati di parteciparvi muniti di un quadro cognitivo completo e idoneo a consentire di concorrere in maniera paritetica.
A prescindere da un siffatto ragionamento, resta da esplorare la questione se il termine dei trenta giorni fissato dall’art. 107, comma 1, l. fall. possa essere derogato allorquando il rispetto dello stesso si riveli pregiudizievole per gli interessi dei creditori[17]. A tal proposito, in presenza di circostanze del tutto singolari ed eccezionali, si dovrebbe poter ipotizzare un’eventuale sua disapplicazione, ferma restando ovviamente la necessaria autorizzazione del Giudice delegato che potrà abbreviare tale termine qualora l’attesa pregiudichi per l’appunto i risultati della liquidazione comportando conseguentemente una compressione del miglior soddisfacimento del ceto creditorio. Tuttavia una siffatta conclusione non potrà mai porsi in contrasto con la necessità che lo svolgimento della procedura competitiva avvenga in tempi eccessivamente ristretti e tali da pregiudicare una vera competizione tra i potenziali interessati[18].
Per completezza, occorre infine precisare che, se con riferimento al processo esecutivo l’omessa pubblicazione dell’avviso di vendita sul Portale delle vendite pubbliche comporta, ai sensi dell’art. 631-bis c.p.c. – introdotto dalla “mini-riforma” del 2015 – l’estinzione del medesimo, nessuna espressa regola è dettata per le vendite nel concordato preventivo. Né è ipotizzabile, in questa sede, richiamare l’art. 36 l. fall. – che peraltro in astratto sarebbe configurabile unicamente per il concordato che preveda la cessione di beni e quindi sostanzialmente caratterizzato da un piano liquidatorio – stante il silenzio dell’art. 182, comma 2, l. fall. che nel rinviare, in tema di disposizioni applicabili al liquidatore, alle norme dettate per il curatore fallimentare in quanto compatibili non menziona lo stesso art. 36 l. fall.[19]. È evidente come questo non possa che leggersi come una precisa scelta del legislatore di escludere tale ultimo precetto da una sua applicazione per rinvio, e ciò in forza del noto brocardo ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit. La conclusione non può che rinvenirsi nell’intervento sospensivo del procedimento competitivo da parte del Giudice delegato in base all’art. 108 l. fall. – norma richiamata a propria volta dall’art. 182, comma 5, l. fall. – laddove ricorrano gravi e giustificati motivi, ferma restando la sanzionabilità della condotta omissiva tanto del liquidatore – nel concordato con cessione dei beni – quanto del debitore concordatario, nella proposta negoziale contraddistinta da un piano in continuità aziendale.
4 . La natura coattiva delle vendite concordatarie a forma negoziale
Proseguendo nella disamina dei principali aspetti relativi al menzionato richiamo applicativo operato dall’art. 182 l. fall. agli artt. da 105 a 108-ter l. fall., è d’uopo notare come l’estensione del raggio di azione di queste ultime due disposizioni – dettate in materia di cessioni che avvengono nel fallimento – anche alle vendite concordatarie finisca per rafforzare e determinare con maggior sicurezza rispetto alla previgente disciplina la propagazione ad esse degli effetti coattivi tipici delle alienazioni forzate.
Difatti, benché le vendite concordatarie non siano qualificabili come coattive in senso stretto[20], non avvenendo contro la volontà del debitore oltre che a seguito di un provvedimento giurisdizionale[21], è da accogliersi quell’indirizzo in forza del quale alle stesse non possono, tuttavia, negarsi gli effetti caratteristici dei trasferimenti forzati, dato che le medesime realizzano la garanzia che contraddistingue la responsabilità patrimoniale, in considerazione altresì della assorbente circostanza che l’atto di trasferimento è inserito in un contesto concorsuale[22].
Se così è, non sussiste quindi dubbio che la mancata attribuzione del carattere privatistico alle vendite concordatarie, oltre a dotarle di quella particolare stabilità che si evince inequivocabilmente dal disposto dell’art. 2929 c.c., esclude l’applicazione sia della disciplina prevista dagli artt. 1483 ss. c.c. in tema di evizione – determinando, invero, l’estensione di quella dettata, per i beni oggetto di espropriazione forzata, dall’art. 2921 c.c. – sia quella riguardante la garanzia per vizi della cosa alienata e la relativa impugnazione della vendita per causa di lesione, le quali sarebbero per l’appunto inoperanti stante il disposto rispettivamente dei commi 1 e 2 dell’art. 2922 c.c.
Le alienazioni concordatarie restano invece attratte a quei rimedi tipici delle vendite negoziali azionabili in caso di aliud pro alio ove il bene ceduto sia privo delle qualità determinanti per svolgere la funzione economico-sociale a cui è destinato e si riveli per tale ragione inservibile rispetto all’utilizzo che ne aveva determinato l’acquisto[23]. In particolare si è, infatti, consolidato nel tempo il principio di diritto in virtù del quale la vendita di un bene totalmente diverso da quello stipulato si configura solo allorquando la res aggiudicata, sulla quale sia caduta incolpevolmente l’offerta, sia priva delle qualità fondamentali per svolgere la propria funzione economico-sociale oppure non sia conforme all’uso che ha costituito elemento determinante per l’offerta dell’aggiudicatario o ancora rientri in un genere differente rispetto a quello indicato nel provvedimento che ne aveva disposto la vendita, venendo in tal caso meno il nucleo essenziale e l’oggetto stesso del trasferimento forzato. D’altra parte, neppure alla vicenda in esame dovrebbe negarsi quel principio generale sancito dal Supremo Collegio[24], secondo cui, nella vendita forzata, pur non essendovi un incontro di consensi tra il giudice e la parte offerente – in quanto l’atto di autonomia privata non è compatibile con l’esercizio della funzione giurisdizionale – l’offerta di acquisto all’asta rappresenta comunque il postulato negoziale per l’atto giurisdizionale della vendita, sì che alla stessa risultano applicabili le norme codicistiche laddove non incompatibili con la natura dell’alienazione coattiva.
A dissipare i restanti dubbi che potrebbero legittimamente nutrirsi riguardo alla suddetta conclusione, volta ad estendere la natura coattiva a vendite dai connotati formali sostanzialmente privatistici o negoziali, militano una serie di ulteriori considerazioni. Innanzitutto la neutralità della forma rispetto agli effetti. A tal proposito, sarebbe sbagliato riconoscere una perfetta correlazione tra i due citati aspetti in modo tale da attribuire sempre e solo conseguenze giuridiche contrattuali quando le alienazioni avvenissero sulla base di forme privatistiche e diversamente effetti coattivi esclusivamente a fronte di vendite pubblicistiche. Che un simile ragionamento sia del tutto infondato si evince dalla sussistenza di talune fattispecie già presenti nel nostro ordinamento giuridico, quali le vendite a mezzo commissionario di cui all’art. 532 ss. c.p.c. – laddove è indubitabile che alle forme contrattuali corrispondano gli effetti tipici dei trasferimenti forzati[25] – e le alienazioni nell’ambito della procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, che si caratterizzano per un ruolo estremamente marginale del giudice e per una ampia libertà di forme, come previsto dall’art. 62, d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270, ma per cui è stato comunque sostenuto che gli effetti sprigionati siano coattivi[26].
Per di più, che non si tratti di casi sporadici e isolati ovvero di una eccezione al sistema emerge anche dalle considerazioni espresse dalla prevalente dottrina, nella parte in cui è incline ad ammettere che la distinzione tra forma ed effetti consente di attribuire natura coattiva a vendite strutturate nella versione negoziale[27]. E ciò è quanto affermato più nello specifico, in ambito concordatario: il ricorso a forme e tecniche negoziali non esclude affatto la produzione di effetti, quali quelli che discendono dagli artt. 2919 ss. c.c., tipici delle vendite poste in essere in un contesto di esecuzione forzata[28].
In realtà, se, da un lato, tanto la forma dell’atto di disposizione del bene concordatario quanto la designazione dell’aggiudicatario nel rispetto di un procedimento competitivo ex art. 107 l. fall. appaiono del tutto irrilevanti per determinare la riconducibilità della vendita concordataria al paradigma dei trasferimenti coattivi, dall’altro alquanto decisivo è il fatto che la vendita sia incardinata in una sede concorsuale che attribuisce all’alienazione di beni effettuata con strumenti privatistici natura ed effetti non comunemente tali. Affine a tale conclusione è la posizione assunta dalle Sezioni Unite del Supremo Collegio[29], le quali hanno ricondotto la fase esecutiva del concordato preventivo con cessione dei beni ad una categoria più ampia di procedimenti di esecuzione forzata, intesi in senso lato, al pari della procedura fallimentare, statuendo in proposito che sono ricompresi nel complesso degli atti di giurisdizione esecutiva i provvedimenti emessi dal Giudice delegato in attuazione delle disposizioni del decreto di omologazione del concordato preventivo in tema di vendita dei beni del debitore ceduti ai creditori, qualora essi assolvano a una finalità corrispondente a quella degli analoghi provvedimenti adottati nell’ambito della liquidazione fallimentare. Secondo la Suprema Corte la suddetta conclusione sarebbe confermata dall’accostamento che si rinviene tra le funzioni del liquidatore e quelle del curatore fallimentare in ordine alle attività di liquidazione dei beni del debitore sottoposto a procedura concorsuale[30]. Ne consegue che, pur qualora ad alienare i beni (rectius, cederli al fine di conseguire il soddisfacimento del ceto creditorio) fosse il debitore concordatario, la vendita avverrebbe in ogni caso all’interno di un contesto proceduralizzato dai dettami del concordato omologato e soggetto a controlli pubblici; aspetto questo di per sé sufficiente a sciogliere il nodo dell’estensione alle alienazioni concordatarie degli effetti coattivi. 
D’altra parte, pure il tentativo da taluni condotto di paventare una degradazione delle vendite che avvengono in occasione di una procedura – nella specie fallimentare – ad alienazioni di natura privatistica allorquando le stesse non si svolgano più innanzi al Giudice delegato[31] non ha sortito particolare successo. Ad una siffatta argomentazione è stato agevole replicare che anche nella disciplina in vigore prima della riforma organica della legge fallimentare del 2006 le vendite di beni mobili e quelle a offerte private – in relazione alle quali non si dubitava dell’appartenenza al paradigma dei trasferimenti forzati – non avevano luogo davanti all’autorità giudiziaria, sì che l’osservazione in questione non può ritenersi decisiva[32]. Tutt’al più, alla partecipazione dell’autorità giudiziaria al procedimento di alienazione potrebbe riconoscersi un certo rilievo nel caso in cui si ritenesse di aderire a quell’orientamento che ha tratto l’essenza coattiva del trasferimento nonostante l’assenza di un decreto di trasferimento o di una ordinanza di vendita dalla sussistenza di una autorizzazione del Giudice delegato in conformità al programma di liquidazione[33].
Sennonché, l’obbligo di avvertimento in relazione alla vendita di beni immobili o di beni mobili iscritti in pubblici registri ai creditori ipotecari o muniti di privilegio prima del completamento delle operazioni di trasferimento di cui all’art. 107, comma 3, l. fall. – giustificato dall’estinzione della garanzia a seguito dell’alienazione e dalla conseguente messa nelle condizioni di poter far valere sulle somme ricavate il loro diritto di credito[34] – si rivela del tutto persuasivo nell’attribuzione alle vendite fallimentari della natura forzata[35]. Detta affermazione viene ancor più avvalorata dalla circostanza che si assiste alla purgazione delle iscrizioni e delle trascrizioni pregiudizievoli ex art. 108, comma 2, l. fall., che trova fondamento nell’intento di favorire la vendita del bene, in quanto all’acquirente viene assicurata la cancellazione di tutti i vincoli esistenti, evitandosi in tal modo che questi possano originare altri ed ulteriori processi esecutivi[36]. 
In conclusione, sul presupposto che resta ancor oggi prevalente la tesi secondo la quale le alienazioni fallimentari hanno natura coattiva[37], il rinvio disposto dall’art. 182, comma 5, agli artt. da 105 a 108-ter l. fall., come in precedenza affermato, rafforza il convincimento secondo il quale tra le parti contraenti e in relazione alla sfera negoziale si applicano le norme del diritto dei contratti mentre le regole dell’esecuzione forzata riguardano gli effetti che le medesime producono[38]. In definitiva, nonostante alle origini di tali alienazioni vi sia un provvedimento giudiziale, qual è il decreto di omologa o altro eventuale decreto dell’autorità giudiziaria che autorizza il procedimento competitivo orientato alla ricerca ed alla selezione dell’aggiudicatario, l’impianto tratteggiato è ora alquanto chiaro: la forma delle vendite concordatarie resta pur sempre quella di un negozio privatistico in cui si assiste all’incontro delle manifestazioni di volontà tra il debitore in procedura – o, per le cessioni dei beni, il liquidatore nominato ai sensi dell’art. 182 l. fall. in sua rappresentanza – che, quale titolare del bene, trasferisce il relativo diritto di proprietà e il terzo acquirente, il quale, prestando l’assenso, acquista la titolarità del bene medesimo.
L’assetto finale, volto ad attribuire il diritto di proprietà al compratore e la corrispondente perdita in capo al debitore cedente, viene quindi raggiunto tramite un procedimento che non risponde allo schema classico dello scambio di proposta e accettazione e potrà essere più o meno complesso, essendo incardinato in una procedura concorsuale che, attuando la responsabilità patrimoniale, necessita di particolari controlli ad opera degli organi a tutela e garanzia del ceto creditorio, ma gli effetti che l’alienazione produce non potranno che essere quelli tipici della vendita forzata, nonostante l’innesto di aspetti tipici della contrattazione privata. Da ciò restano tuttavia esclusi – al pari di quanto in precedenza osservato[39] – le vendita di beni realizzate in esecuzione di un piano in continuità aziendale nell’ambito della normale attività economica dell’impresa, trovando per le stesse applicazione non solo le forme puramente volontarie del contratto di compravendita ma anche gli effetti dei comuni negozi di diritto privato.
5 . Le cessioni di beni “anticipate” rispetto alla fase dell’esecuzione del concordato
Rispetto all’impostazione del concordato preventivo ricalcata sul modello del processo di espropriazione forzata, nell’ambito del quale la vendita e la conversione in denaro dei beni offerti al ceto creditorio avvengono nel corso della fase esecutiva del procedimento, l’introduzione dell’art. 182, comma 5, l. fall. consente una possibile anticipazione temporale delle cessioni concordatarie, rendendole ammissibili anche prima del giudizio d’omologazione ex art. 180 l. fall.[40].
Ad una siffatta disciplina di diritto positivo si è per vero giunti dopo una serie di accese dispute e di tormentate interpretazioni. Già sotto il vigore della vecchia legge fallimentare era in realtà stata avvertita la necessità, soprattutto per alimentare le speranze di permanenza in vita dell’impresa, di non rinviare oltre modo il trasferimento dei beni ed in particolare del complesso produttivo. Sennonché, mentre in un primo momento le pronunce rese in argomento dal Supremo Collegio avevano sollevato qualche perplessità in relazione all’accoglimento di un tale principio implicante la definitiva perdita dei beni da parte del debitore concordatario[41], successivamente la giurisprudenza di merito ha progressivamente assunto una posizione di maggior apertura facendo propria l’opposta tesi propensa all’ammissibilità delle cessioni dei beni nella fase antecedente l’omologazione della procedura in funzione del soddisfacimento del ceto creditorio[42]. Del tutto favorevole è invero sempre stato l’indirizzo della prevalente dottrina che si è interrogata sull’ammissibilità delle vendite concordatarie non solo dopo l’entrata in vigore della decretazione d’urgenza del marzo 2005 ma anche in precedenza, ossia vigente la vecchia procedura modellata sulla falsariga della legge fallimentare del 1942[43].
Che oggi l’art. 182, comma 5, l. fall. trovi applicazione tanto alle cessioni di beni che avvengono in quella fase della procedura dedicata all’esecuzione della proposta formulata dal debitore, approvata dal ceto creditorio e omologata dal Tribunale – collocata per la verità al di fuori del processo in senso stretto – quanto a quelle c.d. “anticipate” ovverosia che hanno luogo ante omologazione del concordato, ivi comprese le alienazioni che sono realizzate pendente la c.d. “riserva”, si ricava agevolmente dal tenore letterale del precetto de quo, il quale si riferisce per l’appunto alle vendite poste in essere «dopo il deposito della domanda di concordato» o «in esecuzione di questo». A tal proposito, benché il legislatore della “mini-riforma” della legge fallimentare del 2015 abbia omesso di chiarire se per atti traslativi compiuti «dopo il deposito della domanda di concordato preventivo» debbano intendersi, oltre ovviamente a quelli avvenuti post omologa, unicamente gli atti effettuati a seguito del decreto di ammissione alla procedura di cui all’art. 163 l. fall. ovvero pure quelli realizzati durante il preconcordato, nessun ostacolo dovrebbe rinvenirsi nell’accogliere la soluzione maggiormente estensiva. La suddetta espressione contenuta nella norma in esame non deve, in effetti, essere interpretata attribuendole il significato per cui gli atti di cessione sono ammessi solo successivamente al deposito del ricorso comprensivo di piano, proposta e relazione di attestazione del professionista e, pertanto, una volta aperta la procedura con decreto del Tribunale pronunciato ai sensi dell’art. 163 l. fall., dal momento che nessuna disposizione della legge fallimentare identifica, in maniera esplicita, la domanda di concordato preventivo esclusivamente nella configurazione del ricorso accompagnato dalla proposta negoziale offerta al ceto creditorio e dal piano a essa sottostante, come sottolineato altresì dalla giurisprudenza di legittimità[44].
In particolare, il comma 5 dell’art. 182 l. fall. agevola il delicato compito di favorire una più efficiente e soprattutto tempestiva circolazione dei beni e dell’azienda, in modo tale da diminuire il divario temporale esistente fra le ragioni dell’economia – le quali richiedono che gli asset aziendali siano trasferiti celermente o, comunque, senza dover attendere la compiuta durata della procedura – e la ratio che governa le norme concorsuali, che mirano, anche prescindendo dal fattore tempo, ad assicurare la miglior soddisfazione del ceto creditorio. Peraltro, benché esuli dalle tematiche che si stanno affrontando, pare in ogni caso opportuno osservare come l’anticipazione di un trasferimento d’azienda dalla fase esecutiva a quella iniziale del concordato possa rendere meno frequente il ricorso alla figura dell’affitto d’azienda, con la positiva conseguenza di evitare i possibili inconvenienti creati da tale ultima modalità di conservazione del patrimonio del debitore quali, da un lato, l’eventualità – invero frequente – che l’affittuario, in ragione della temporaneità della conduzione in affitto dell’impresa, non dia corso agli investimenti che l’attività economica invero richiederebbe e, dall’altro, le problematiche connesse alla retrocessione dell’azienda precedentemente affittata, sia che tale passaggio avvenga prima della scadenza del termine finale del contratto sia che si verifichi in sede di cessazione del medesimo[45]. 
Una attenta lettura dell’art. 182, comma 5, l. fall. induce, tuttavia, a plurime riflessioni, le quali spaziano dalla definitiva separazione tra il contenuto negoziale della proposta concordataria ed il piano di ristrutturazione dei debiti, quale percorso strumentale alla realizzazione della stessa, all’estensione anche alle vendite concordatarie ante omologa degli effetti tipici delle cessioni aventi natura coattiva, essendo irrilevante la circostanza che tali alienazioni avvengano prima o durante la fase di esecuzione della proposta concordataria. E a tali aspetti non resta che porre attenzione nel prosieguo della trattazione.
6 . (Segue). I riflessi sulla votazione dei creditori: la necessaria scissione tra piano e proposta concordataria
Come già più volte affermato, l’art. 182 l. fall. trova applicazione alle vendite che avvengono in ogni fase del concordato preventivo. In un siffatto contesto, non può qui trascurarsi un altro tratto tipico delle cessioni di beni concordatarie discendente dal disposto dell’art. 182, comma 5, l. fall. nella parte in cui consente un trascinamento a ritroso, rispetto alla fisiologica fase di esecuzione del concordato, della loro operatività, quando le stesse si collocano nella “riserva” o quanto meno nel segmento temporale del processo concordatario che precede la votazione della proposta e del piano da parte dei creditori. 
È del tutto evidente che, se la vendita di beni è anteposta all’udienza ex art. 174 l. fall., ai creditori sarà inevitabilmente impedita la possibilità di esprimersi in merito a tale percorso di cessione, con la conseguenza che, qualora ad essere oggetto di trasferimento sia il complesso produttivo, la votazione non potrà che riguardare unicamente il contenuto della proposta negoziale, da intendersi questa – essendo per l’appunto già intervenuta la conversione in denaro degli asset principali – quale modificazione dell’originaria obbligazione in termini di ristrutturazione della pretesa creditoria e di modalità di soddisfacimento del debito ristrutturato. In forza di una più efficiente e tempestiva circolazione dei beni e dell’azienda si assiste, dunque, ad una compressione di taluni aspetti negoziali, ed in particolare alla privazione del ceto creditorio in ordine alla possibilità di esprimere il proprio gradimento ovvero il relativo diniego a proposito del percorso o anche solamente di taluni atti dello stesso sottostante all’oggetto della promessa concordataria.
Si verifica così una netta separazione tra la modalità qualitativa e quantitativa oltre che temporale di soddisfacimento dei creditori in senso stretto, ai quali la votazione non può mai essere sottratta, e determinati atti del percorso pianificato – finanche l’intero insieme delle attività attraverso cui il debitore propone di ottenere il concretizzarsi delle condizioni di adempimento della proposta – che invero possono essere anticipati. E ciò è possibile a prescindere non soltanto dal giudizio sul quale saranno chiamati ad esprimersi i creditori medesimi, ma anche dalle sorti future del processo concordatario, che potrà, se la vendita avviene pendente la fase c.d. di “riserva”, procedere verso l’ammissione e la successiva omologazione come pure arrestarsi in un qualsiasi momento precedente a causa di vari eventi – tra cui il mancato deposito del piano, della proposta e della relazione del professionista entro il termine di scadenza fissato dal Tribunale ovvero la decisione del debitore di virare verso il deposito del ricorso per l’omologa dell’accordo di ristrutturazione dei debiti – o a seguito della mancata ammissione al concordato del debitore oppure ancora per effetto di una revoca ex art. 173 l. fall. susseguente al decreto di cui all’art. 163 l. fall.
In questa nuova chiave di lettura una conseguenza appare, però, indubitabile: l’esistenza e la rilevanza giuridica del piano di concordato o di alcuni atti del medesimo non dipende più necessariamente dall’omologazione della procedura concorsuale, come si poteva affermare prima dell’intervento modificativo operato dalla “mini-riforma” del 2015. Al di là di una tale considerazione, resta comunque il fatto che una cessione di beni attuata precedentemente alla fase esecutiva del concordato integra pur sempre un atto di straordinaria amministrazione legalmente posto in essere a norma dell’art. 182 l. fall., ossia un intervento urgente che il giudice dovrà autorizzare ai sensi dell’art. 161, comma 7, l. fall. – se compiuto nel corso della c.d. “riserva” – ovvero ex art. 167, comma 2, l. fall. laddove sia da eseguirsi durante il processo di concordato e, pertanto, nel periodo di tempo intercorrente tra l’ammissione alla procedura e la definitività del decreto di omologa.
Ciò consente di svolgere due importanti riflessioni. La prima è diretta a sollevare il dubbio se attraverso la votazione, come poc’anzi asserito, della sola proposta i creditori finiscano implicitamente per approvare pure gli atti del piano già compiuti, in quanto risulterebbe non poco problematico accogliere il principio secondo cui il ceto creditorio stesso possa ratificare con il proprio giudizio un atto in precedenza autorizzato dal giudice a norma dell’art. 161, comma 7, l. fall., se avvenuto pendente la fase di “riserva” del concordato, ovvero, ai sensi e per gli effetti dell’art. 167 l. fall., laddove realizzato successivamente all’ammissione del debitore alla procedura di concordato preventivo. Vero è, all’opposto, che la votazione è oramai divenuta, nel tempo, un fenomeno che ha assunto, in ordine al contenuto espresso dal creditore e sintetizzato nella dichiarazione di voto favorevole o contrario di quest’ultimo, plurime graduazioni, potendo variare tra una fattispecie piena e completa quando il creditore stesso è chiamato a pronunciarsi sulla vicenda concordataria nel suo complesso e quindi comprensiva di proposta e piano concordatario, ed una serie di ipotesi dal perimetro maggiormente ristretto che possono oscillare sulla base di una più o meno accentuata attività liquidatoria in forma anticipata, fino a raggiungere la soglia minimale costituita solamente dal giudizio in ordine alla proposta negoziale.
In secondo luogo, a ben vedere, all’autorizzazione del giudice pare doversi riconoscere proprio una funzione surrogatoria della mancata votazione del ceto creditorio[46], che affonda la propria ratio nell’approccio al fallimento delle imprese e all’insolvenza suggerito dalla Raccomandazione della Commissione UE 12 marzo 2014, n. 2014/125/UE, la quale, al punto n. 7), precisa che «la procedura di ristrutturazione non dovrebbe essere lunga né costosa e dovrebbe essere flessibile in modo che se ne possano eseguire più fasi senza l’intervento del giudice», il ricorso al quale «dovrebbe limitarsi ai casi in cui è necessario e proporzionato per tutelare i diritti dei creditori e terzi eventuali». Del pari, la più recente Direttiva (UE) n. 2019/1023 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019[47] riguardante i quadri di ristrutturazione preventiva, l’esdebitazione, le interdizioni e le misure volte ad aumentare l’efficacia delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione (la quale ha modificato la Direttiva (UE) n. 2017/1132 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 14 giugno 2017 sulla ristrutturazione e sull’insolvenza) ha previsto al punto n. 29 che al fine di «promuovere l’efficienza e ridurre ritardi e costi, i quadri nazionali di ristrutturazione preventiva dovrebbero contemplare procedure flessibili» e che, tranne «per i casi in cui la presente direttiva preveda la partecipazione obbligatoria delle autorità giudiziarie o amministrative, gli Stati membri dovrebbero poter limitare la partecipazione di tali autorità alle situazioni in cui essa sia necessaria e proporzionata, tenendo pur sempre conto, tra l’altro, dell’obiettivo di tutelare i diritti e gli interessi dei debitori e delle parti interessate così come dell’obiettivo di ridurre i ritardi e i costi delle procedure».
Ciò è esattamente quanto si verifica nel caso che ci occupa, ove l’intervento autorizzativo del giudice in relazione all’atto di alienazione del bene da compiersi in una fase antecedente rispetto a quella fisiologica di esecuzione della procedura risponde all’evidente fine di proteggere gli interessi del ceto creditorio. Sulla base delle indicazioni del legislatore comunitario, all’autorità giudiziaria sembrerebbe, quindi, doversi considerare traslata, in precise e ben individuate circostanze – tra le quali rientra anche quella che si sta ora analizzando – la valutazione di convenienza che di regola appartiene al ceto creditorio. D’altra parte, se il trasferimento avviene a fronte di un corrispettivo congruo, nel pendolo tra la conservazione del valore dell’impresa e la tutela dei creditori non dovrebbero sussistere spazi di lamentela da parte di questi ultimi qualora, pur essendo stata sottratta loro l’approvazione dell’atto di cessione, il ricavato della liquidazione dell’asset costituisca il miglior realizzo rispetto a quello che sarebbe verosimilmente stato ottenibile attendendo l’esecuzione del concordato. 
7 . L’alienazione del complesso produttivo e la deroga alla responsabilità patrimoniale del cessionario
Come noto, l’art. 2560, comma 2, c.c. dispone che nel trasferimento di un’azienda commerciale risponde dei debiti inerenti all’esercizio del complesso produttivo ceduto anteriori alla cessione anche l’acquirente qualora essi risultino dai libri contabili obbligatori. L’indirizzo oggi maggioritario ritiene che la disposizione in esame sia destinata ad operare esclusivamente in relazione alle posizioni meramente debitorie – i c.d. debiti in «sé soli considerati» – e non anche con riferimento alle obbligazioni derivanti da «posizioni contrattuali non ancora definite, in cui il cessionario sia subentrato», le quali restano diversamente disciplinate dall’art. 2558 c.c., che regolamenta la successione dell’acquirente nei contratti sinallagmatici stipulati per l’esercizio dell’azienda[48].
Del tutto condivisibile è l’opinione di chi individua nella norma in commento una responsabilità ex lege in capo al compratore «per il caso in cui i debiti non passano»[49], vale a dire per i debiti «“non assunti dall’acquirente”», la cui iscrizione nei libri contabili che la legge impone di tenere[50] rappresenta – in forza dell’orientamento prevalente – un «elemento costitutivo»[51]. La ragione che sta alla base dell’art. 2560, comma 2, c.c. è, infatti, quella di tutelare i creditori dinanzi alla vendita di ciò che – secondo quanto accade con maggior frequenza – rappresenta la parte più consistente del patrimonio del debitore e sulla quale i primi hanno verosimilmente fatto affidamento e ripongono le proprie aspettative di soddisfazione[52]; ne consegue che la responsabilità del compratore per i debiti aziendali trova la propria ratio unicamente nella circostanza che un soggetto ha acquistato proprio quella componente più rilevante del patrimonio dell’obbligato, vale a dire l’azienda, e non già nella qualifica soggettiva di imprenditore del compratore medesimo[53]. In altri termini, con la suddetta previsione il legislatore vuole evitare che, dopo la cessione dell’azienda, la garanzia patrimoniale del debitore – nota al creditore poiché costituita per l’appunto dal complesso aziendale – finisca per essere trasformata in denaro e pertanto in un bene fungibile di più agevole circolazione e, per tale motivo, difficilmente aggredibile.
La situazione che si viene a creare a fronte dello strumento predisposto dall’ordinamento si caratterizza, dunque, per un ampliamento della garanzia patrimoniale, dovendosi rigettare quel diverso tentativo di ricostruzione dogmatica secondo il quale il trasferimento sarebbe giustificato dalla natura propter remdelle obbligazioni aziendali che, come tali, circolerebbero «naturalmente col bene a cui aderiscono»[54]. Differentemente da queste – in cui il soggetto passivo del rapporto obbligatorio si determina in virtù della titolarità del diritto reale di proprietà o di godimento su un determinato bene[55] – nel caso di specie non si assiste ad una perdita per il cedente del vincolo obbligatorio[56] e ad un corrispondente acquisto di esso da parte del cessionario – al pari di ciò che effettivamente avviene nelle obbligazioni reali, caratterizzate da un mutamento dei soggetti del rapporto in seguito alla vicenda circolatoria della res – ma si verifica l’aggiunta al cedente di un nuovo soggetto responsabile, ossia l’acquirente, essendo necessario per la liberazione del primo una espressa manifestazione in tal senso ad opera del creditore.
Individuata in ciò la ratio posta alla base dell’art. 2560, comma 2, c.c. e supponendo l’operatività della stessa anche in ambito concorsuale, deve però prendersi atto fin da subito che proprio la norma che vorrebbe porsi a tutela dei creditori, se applicata nella sua integralità, finirebbe ben presto e paradossalmente per diventare il principale ostacolo alla cessione e conseguentemente al soddisfacimento degli interessi dei medesimi, in quanto essa scoraggerebbe i soggetti potenzialmente interessati ad avvicinarsi all’acquisto dell’azienda. È, a tal proposito, evidente che, in assenza di una deroga alla suddetta regola della responsabilità del cessionario d’azienda, in sede concordataria l’effetto che si verificherebbe sarebbe non già protettivo bensì pregiudizievole per la massa dei creditori, posto che si verrebbe a creare la seguente situazione: o l’acquirente pagherebbe per l’azienda una somma di denaro inferiore rispetto al suo reale valore, poiché la stessa sarebbe decurtata dell’importo dei debiti di cui è chiamato a rispondere il soggetto subentrante nella titolarità del bene o, peggio ancora, un potenziale interessato potrebbe essere addirittura dissuaso a dar corso all’acquisto, dato che rischierebbe, dopo la corresponsione del prezzo, di vedersi aggredito dai creditori concorsuali per la parte di credito eventualmente insoddisfatta dalla procedura.
Pendente la vecchia legge fallimentare del 1942, all’esonero da un siffatto regime di responsabilità patrimoniale del cessionario si era in realtà pervenuti non tanto in forza di convincenti argomentazioni giuridiche[57], quanto piuttosto in considerazione del fatto che non si sarebbe mai potuto accostare una regola come l’art. 2560, comma 2, c.c. ai trasferimenti d’azienda realizzati all’interno di una procedura concorsuale, al pari di quella concordataria, ponendosi la suindicata responsabilità in contrasto con i principi che governavano quest’ultima[58]. Difatti, con particolare riferimento alla sede concordataria, si riteneva che l’incompatibilità del disposto dell’art. 2560, comma 2, c.c. con le cessioni di aziende o di rami d’azienda ivi effettuate fosse essenzialmente da riconnettersi all’operatività dei principi del concorso[59], nonché alla circostanza che, se si fosse ammessa l’efficacia del suddetto precetto, i creditori avrebbero finito per godere di un privilegio incompatibile con la natura e le funzioni del concordato, in quanto i medesimi avrebbero potuto chiedere all’acquirente dell’azienda il pagamento di quella parte del loro credito non soddisfatta dal concordato stesso, come se quest’ultimo non vi fosse mai stato[60]. A ciò si era poi aggiunta l’osservazione che, poiché le vendite effettuate in ambito concorsuale si svolgevano sotto il controllo degli organi della procedura, non si riscontrava neppure l’esigenza – da sempre alla base della responsabilità concorrente dell’acquirente d’azienda – di proteggere i creditori dal pregiudizio derivante da una vendita a prezzo vile o dal pericolo di dispersione del corrispettivo di cessione ad opera del debitore[61]. L’accollo dei debiti nella sfera patrimoniale del cessionario avrebbe inoltre verosimilmente comportato da parte di quest’ultimo l’integrale soddisfacimento di taluni creditori, quelli per l’appunto il cui credito fosse sorto a seguito della gestione dell’impresa del cedente, con evidente violazione della par condicio creditorum[62].
In maniera maggiormente approfondita era anche stato affermato che in sede concorsuale un siffatto accollo non avrebbe potuto spiegare i propri effetti per una serie di ragioni giuridiche. Innanzitutto, considerando che nei rapporti interni, salvo diversa convenzione, i debiti aziendali finivano per gravare sull’alienante, se a pagare fosse stato il cessionario questi avrebbe potuto agire in regresso facendo valere le proprie pretese sulla procedura quale credito prededucibile, con evidente vantaggio dei creditori aziendali a danno degli altri. In secondo luogo, pure qualora si fosse voluto propendere per un indirizzo differente, disconoscendo detto diritto di regresso, era inevitabile che l’acquirente avrebbe pagato un prezzo decurtato dell’ammontare dei debiti aziendali e, ancora una volta, ciò avrebbe favorito i creditori dell’azienda rispetto alla restante componente del ceto creditorio[63].
È solo a seguito del d.lgs. correttivo 12 settembre 2007, n. 169 – che ha introdotto all’art. 182 l. fall. il comma 5 in forza del quale alle vendite concordatarie «si applicano gli articoli da 105 a 108-ter in quanto compatibili» – che sono state in realtà eliminate tutte le incertezze in ordine alla presunta responsabilità dell’acquirente dell’azienda o di un suo ramo oggetto di cessione in sede di esecuzione concordataria[64]. L’art. 105, comma 4, l. fall. è oggi chiarissimo nell’escludere da responsabilità il cessionario per i debiti relativi all’esercizio delle aziende cedute, «sorti prima del trasferimento», eccetto il caso in cui i contraenti abbiano voluto derogarvi, al pari di quanto avviene nelle “cessioni aggregate”[65]. Tra l’altro, l’espressione di cui è avvalso l’estensore della disposizione in esame – pur nella sua formulazione interruttiva e di deviazione dalla regola generale propria delle norme eccezionali[66] – non è perfettamente sovrapponibile a quella impiegata dall’art. 2560 c.c.: nella prima non opera il rinvio alle scritture contabili del cedente – il cui parametro non sempre risulta di facile interpretazione e applicazione[67] – che si rinviene invero nella seconda, essendo stato utilizzato il solo criterio temporale, riferito al complesso produttivo, prima del trasferimento, che permette di ricomprendere nell’esonero in modo chiaro ed inequivocabile e a prescindere dall’iscrizione nei libri contabili obbligatori[68] non solo i debiti cristallizzati alla data di pubblicazione del ricorso di cui all’art. 161 l. fall. nel Registro delle Imprese ma anche quelli sorti successivamente per effetto della continuità aziendale; crediti questi ultimi che non soggiacciono alle regole dell’obbligatorietà del concordato omologato e del divieto di azioni esecutive di cui rispettivamente agli artt. 184 e 168 l. fall.
Restano invece applicabili alle vendite concordatarie le disposizioni in ordine alla responsabilità del cessionario stabilite dall’art. 2112 c.c. per i debiti nei confronti dei lavoratori dipendenti[69]. Pur non essendo questa la sede per affrontare in modo compiuto una problematica così peculiare – la quale meriterebbe un necessario approfondimento che finirebbe per esulare dal diritto concorsuale coinvolgendo sempre più gli aspetti giuslavoristici ed in particolare i rapporti tra il contenuto dell’art. 47 l. 28 dicembre 1990, n. 428[70] e quello di cui all’art. 105, comma 3, l. fall.[71] – vale la pena ora ricordare come sia del tutto condivisibile la prospettazione che depone per l’inapplicabilità dell’art. 105, comma 4, l. fall. laddove esclude la responsabilità dell’acquirente in tema di debiti derivanti da rapporti di lavoro dipendente.
In aggiunta all’argomento testuale del mancato richiamo ad opera dell’art. 105 l. fall. alle regole della responsabilità solidale di cedente e cessionario di cui all’art. 2112 c.c. – che di per sé dovrebbe già essere sufficiente ad escludere l’intento di disciplinare, quanto ai rapporti di lavoro dipendente, la fattispecie del trasferimento coattivo d’azienda in forma derogatoria rispetto alla norma di diritto comune – milita un’altra considerazione assolutamente decisiva. La circostanza che per l’affitto d’azienda endoconcorsuale l’art. 104-bis, ultimo comma, l. fall. abbia espressamente previsto – in deroga a quanto stabilito dall’art. 2112 c.c. – che la retrocessione del complesso produttivo non determina la responsabilità della procedura per i debiti da lavoro dipendente sorti sino alla data di effetto della vicenda circolatoria inversa è alquanto eloquente: ove il legislatore avesse voluto dar corso ad una relazione sottrattiva tra due norme[72] – nel caso di specie di quella civilistica di cui all’art. 2112 c.c. a quella fallimentare ex art. 105 l. fall. – non avrebbe avuto esitazioni a farlo e lo avrebbe fatto in modo inequivocabile[73]. Se nel caso che ci occupa una siffatta manifestazione non può essere rinvenuta è, dunque, pacifico concludere che ciò sia avvenuto per una precisa scelta dell’estensore della norma. 
Tornando alla posizione di favore del cessionario, un ulteriore e decisivo contributo volto a rafforzare la sicurezza per il medesimo in tema di trasferimento d’azienda si è avuto con la successiva “mini-riforma” del 2015, la quale, nel riformulare la disposizione in commento, precisando che «alle vendite, alle cessioni e ai trasferimenti legalmente posti in essere dopo il deposito della domanda di concordato o in esecuzione di questo, si applicano gli articoli da 105 a 108-ter in quanto compatibili», non solo ha ribadito e confermato l’esclusione, attraverso il richiamo alla disciplina fallimentare, della responsabilità dell’acquirente per i debiti relativi all’esercizio delle aziende cedute sorti prima del trasferimento – “sterilizzando” in tal modo la responsabilità patrimoniale del cessionario sancita dal sopra richiamato art. 2560 c.c. – ma ha altresì esteso un siffatto precetto alle vendite di aziende poste in essere in una qualunque fase del processo di concordato.
La portata di tale ultima disposizione merita di essere enfatizzata, dal momento che, sino all’entrata in vigore del d.l. n. 83/2015, un simile esonero veniva generalmente riconosciuto unicamente con riguardo ai trasferimenti di complessi produttivi attuati durante la fase esecutiva del concordato preventivo, mentre non poche erano le perplessità circa una sua estensione alle alienazioni realizzate antecedentemente all’omologazione della procedura, dubitandosi della correttezza di quelle ricostruzioni ortopediche che giungevano a teorizzare l’applicabilità del dettato normativo di cui all’art. 182 l. fall. a ritroso rispetto all’inizio dell’attuazione del piano concordatario[74].
L’applicazione dell’art. 105, comma 4, l. fall. – che esclude la responsabilità dell’acquirente per tutti i debiti sorti in relazione al periodo precedente l’alienazione del complesso produttivo – «alle vendite, alle cessioni e ai trasferimenti legalmente posti in essere dopo il deposito della domanda di concordato» è di per sé stessa sufficiente a eliminare qualsiasi incertezza in ordine al fatto che, quand’anche anticipata rispetto alla fisiologica fase esecutiva, l’eventuale vicenda circolatoria dell’azienda non comporta, per il cessionario, alcuna responsabilità patrimoniale in ordine ai debiti ad essa inerenti anche se gli stessi risultano dai libri contabili obbligatori.
Nell’intento di rendere maggiormente sicuro per gli acquirenti il mercato delle aziende insolventi e allo scopo di consentire la realizzazione di un miglior soddisfacimento del ceto creditorio, il legislatore del 2015 ha così effettuato una scelta di fondo concedendo uno spazio sempre più ampio alla continuità indiretta, caratterizzata dalla prosecuzione dell’impresa in capo ad un soggetto economico nuovo e diverso rispetto al debitore concordatario, rafforzando l’utilizzo – attraverso una sua estensione altresì alla fase antecedente rispetto alla fisiologica esecuzione del piano e della proposta di concordato preventivo – della più potente tecnica di risanamento che il moderno diritto della crisi d’impresa conosca: il trasferimento dell’azienda depurata da tutti i suoi debiti e purgata da qualsiasi gravame[75].
8 . La liberazione dell’alienante dai debiti inerenti all’esercizio dell’azienda ceduta nella “cessione aggregata”
L’art. 105 l. fall., accanto alla vendita dell’intero complesso aziendale o di singoli rami, delinea, quale ulteriore modalità liquidatoria rispetto a quella atomistica, la cessione di «beni o rapporti giuridici individuabili in blocco». Per comprendere appieno la ratio di tale disposizione occorre innanzitutto chiarire il significato di quest’ultima espressione, mutuata dalla disciplina dei trasferimenti dei rami d’azienda appartenenti alle imprese bancarie[76]. In particolare, al fenomeno in commento viene attribuita la locuzione, convenzionalmente accolta dagli operatori del settore bancario, di “cessioni in blocco” o, più frequentemente, di “cessioni aggregate” al fine di individuare quelle situazioni nelle quali si procede al trasferimento di agglomerati di beni e/o di diritti identificabili in forza della loro omogeneità e ascrivibilità ad uno specifico affare o asset, che peraltro non sempre risultano riconducibili – stante la mancata circolazione, unitamente ai diritti e ai rapporti ceduti, di forza lavoro, beni materiali, locali o uffici – alla figura dell’azienda o di un suo ramo[77]. L’elemento caratterizzante la fattispecie in esame è quindi rappresentato dal trasferimento dell’organizzazione dei beni o dei rapporti giuridici nella sfera del cessionario in maniera tale che quest’ultimo possa essere dotato di quegli stessi strumenti essenziali che, in precedenza, consentivano al debitore cedente di esercitare l’attività economica[78]. 
Tuttavia, sulla scorta dei risultati raggiunti in argomento dalla letteratura scientifica, il suddetto concetto di “cessione aggregata” pare essersi oramai sedimentato. Da un lato in esso rientra l’ipotesi principe, costituita dall’alienazione dell’unità produttiva o di un suo ramo, tanto nella versione che già da tempo la dottrina ha definito, ai sensi dell’art. 2555 c.c., come l’impresa in quiete[79] o l’azienda inerte composta da un insieme di beni potenzialmente idonei all’esercizio dell’attività economica[80] – sul presupposto che l’azienda in atto o in movimento altro non sarebbe che l’impresa[81], quale attività economica organizzata in modo professionale dall’imprenditore per la produzione o lo scambio di beni e servizi[82] – quanto nella variante, in base a ciò che recita l’art. 186-bis l. fall., dell’azienda in esercizio[83], ponendo in quest’ultima circostanza il legislatore in evidenza il fatto che il «complesso strumentale inanimato» verrebbe collocato «in movimento»[84]. 
Dall’altro lato, nella medesima definizione è inoltre ricompresa una serie eterogena di fenomeni giuridici quali, a titolo esemplificativo, alienazioni di immobili gravati da mutui ipotecari o con relativi arredi, vendite di pacchetti di clienti o di merci in blocco, cessioni contestuali di rapporti creditori e debitori[85], nonché trasferimenti di rapporti giuridici inerenti a contratti di leasing[86].
Quanto allo specifico trasferimento di complessi aziendali che si caratterizzano, in aggiunta alla vicenda circolatoria di asset, per l’accollo di talune passività, da maggior tempo rispetto al settore concorsuale la vicenda in esame trova poi la propria regolamentazione all’interno della disciplina speciale bancaria, che all’art. 90 d. lgs. 1° settembre 1993, n. 385 (Tub) delinea la normativa delle c.d. “cessioni aggregate” in sede di liquidazione coatta amministrativa degli istituti di credito, introducendo la possibilità per questi ultimi di cedere, in qualsiasi stadio della procedura, le attività e le passività[87], l’azienda, i rami di essa oltre che i beni ed i rapporti giuridici individuabili in blocco[88]. Ma anche in questo campo le regole da seguire sono tutt’altro che definite e pacifiche. Nel dettaglio, da parecchi lustri si discute se con riguardo ai rami dell’azienda bancaria detta previsione normativa produca un accollo cumulativo[89] – stante il mancato rinvio al disposto dell’art. 58, comma 5, Tub che, in tema di “cessioni aggregate” da parte di imprese bancarie in bonis, limita la responsabilità del cedente[90], dal momento che, trascorso il termine di tre mesi dall’alienazione, il cessionario risponde in via esclusiva delle obbligazioni oggetto di “trasferimento” – oppure liberatorio in forza, diversamente, proprio dell’assenza di un espresso richiamo alla suddetta disposizione e in considerazione della sopravvivenza prolungata di determinati rapporti trasferiti, quali quelli discendenti dal saldo attivo di conto corrente bancario o di deposito intrattenuti con la clientela, che necessariamente implicherebbero una responsabilità protratta nel tempo in capo al cedente difficilmente accettabile[91].
Volendo ora addentrarsi maggiormente nella problematica del diritto concorsuale, è bene ricordare che, quanto al concordato preventivo, il comma 5 dell’art. 105 l. fall., nell’introdurre una delle più rilevanti novità rispetto alla previgente disciplina, ha effettivamente stabilito la possibilità di procedere alla cessione delle attività e delle passività dell’azienda o di suoi rami nonché di beni o rapporti giuridici individuabili in blocco. Anche in ambito concorsuale, al pari di quello bancario, lo scopo è stato quello di dare effettivamente corso, trasferendo il passivo, non tanto o non solo all’agevolazione del cessionario nel pagamento del prezzo, potendo questi confidare sull’adempimento dilazionato dei debiti accollati[92], quanto piuttosto alla prosecuzione del rapporto con un cessionario solvibile.
La qual cosa è ciò che si verifica allorquando unitamente al complesso produttivo l’acquirente si accolla la residua parte del debito ipotecario, ovvero taluni crediti prededucibili, o ancora quei debiti della continuità aziendale, tali poiché sorti per titolo o causa successiva all’apertura della procedura concorsuale, sebbene il caso più frequente sia quello relativo alle somme dovute ai lavoratori dipendenti a titolo di trattamento di fine rapporto[93]. In effetti, nonostante il disposto dell’art. 55 l. fall., richiamato dall’art. 169 l. fall. – secondo il quale tutti i crediti si considerano scaduti alla data di apertura di presentazione del concordato – al momento di alienazione dell’azienda l’esigibilità del relativo credito non si è ancora perfezionata, essendo la stessa invero rinviata alla cessazione del rapporto di lavoro. Tra l’altro, di recente il Supremo Collegio pare avere abbandonato il precedente indirizzo[94] volto a distinguere tra il tempo in cui nasce il diritto di credito al trattamento di fine rapporto – vale a dire anno dopo anno – e quello in cui lo stesso diviene esigibile – id est allo scioglimento del contratto – identificando in quest’ultimo evento l’istante in cui contestualmente si origina il diritto di credito e la sua pretesa esigibilità[95]. Se così fosse, si verrebbe a verificare, quanto al tema che ci occupa, una fattispecie in ogni caso di accollo ex lege di debiti, anche se futuri, da determinarsi sulla base della quota di maturazione disposta dall’art. 2120 c.c.
Sennonché tale “cessione in blocco” avviene a norma dell’art. 105, comma 5, l. fall. – salvo il caso dei rapporti di lavoro dipendente di cui si dirà nel prosieguo – «esclusa comunque la responsabilità dell’alienante prevista dall’articolo 2560 del codice civile». Il tenore letterale di quest’ultima formulazione non è rimasto privo di considerazioni. Nello specifico, con riguardo all’infelice espressione «comunque», non è mancato chi ha ritenuto che la stessa dovrebbe essere interpretata nel senso che l’alienante non risponderebbe delle passività aziendali esclusivamente nella circostanza in cui queste formassero oggetto di apposito accollo, dal momento che in assenza di un “trasferimento” di detti debiti sarebbe alquanto evidente che il creditore insinuato al passivo del fallimento – ovvero, per ciò che qui interessa, classificato tra i creditori destinatari della proposta concordataria – avrebbe diritto di soddisfarsi sul ricavato dalla vendita dei beni e dei diritti appartenenti all’attivo del debitore[96]. La qual cosa implicherebbe che, qualora si desse corso ad una “cessione aggregata”, il cessionario non potrebbe che rispondere delle sole passività rilevanti ai fini dell’operazione, in ordine alla totalità del fascio dei rapporti oggetto di alienazione, e ciò tanto nell’ipotesi in cui quest’ultima fosse integrale, vale a dire riguardasse l’intero complesso delle attività e delle passività, quanto laddove la medesima fosse parziale e quindi limitata a taluni beni acquisiti all’attivo della procedura e a determinati debiti del passivo da accollare.
In definitiva, nel richiamare il contenuto dell’art. 105, comma 5, l. fall., l’art. 182 l. fall. “sterilizzerebbe” e rimuoverebbe la responsabilità patrimoniale dell’alienante introducendo una deroga all’accollo cumulativo ex lege disposto dall’art. 2560, comma 1, c.c. in base al quale, in sede di cessione di un complesso produttivo commerciale, allo scopo di liberare l’alienante stesso dai debiti inerenti all’esercizio dell’azienda ceduta sorti prima di detto trasferimento, occorrerebbe l’espresso consenso dei creditori. Attraverso questo meccanismo il legislatore avrebbe, quindi, annullato il rischio incombente sul debitore concordatario di essere chiamato a rispondere nei confronti dei creditori qualora si dovessero verificare inadempimenti da parte dell’acquirente, nonostante il pagamento del prezzo della cessione del complesso produttivo fosse avvenuto al netto dell’ammontare dei debiti accollati. Tra l’altro, nel cercare di spiegare il perché di questa scelta, non si può qui trascurare il fatto che, diversamente, la permanenza di una responsabilità in capo al cedente concordatario potrebbe finire addirittura per avvantaggiare i “creditori trasferiti” i quali, oltre a rivolgere le proprie pretese verso il cessionario, avrebbero altresì diritto di essere soddisfatti dal debitore in procedura – fino a completa estinzione di quanto loro spettante – nel rispetto dell’art. 184 l. fall., in virtù del quale il concordato omologato sarebbe obbligatorio per tutti i creditori il cui titolo fosse sorto prima della pubblicazione del ricorso ex art. 161 l. fall. nel Registro delle Imprese.
La necessità di una siffatta impostazione che liberi il cedente concordatario dai debiti che passano al nuovo titolare è ancor più avvertita, in materia giuslavoristica, con riguardo al trattamento di fine rapporto dei lavoratori dipendenti o, più in generale, in relazione alle spettanze a questi ultimi dovute per il periodo precedente il passaggio di proprietà del complesso produttivo. Poiché ad essere esclusa in ipotesi di “cessione aggregata” è la sola responsabilità dell’alienante discendente dall’art. 2560 c.c.[97], qualora il rapporto di lavoro dipendente continui con l’acquirente il debitore concordatario non sarà liberato, in quanto a norma dell’art. 2112, comma 2, c.c. è espressamente previsto che il cedente e il cessionario siano ‹‹obbligati, in solido, per tutti i crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento››. 
È qui sufficiente evidenziare come la protratta responsabilità del cedente concordatario fino al termine del rapporto di lavoro con ciascun dipendente – giustificata tra l’altro dalla particolare qualità del creditore – potrebbe in astratto impedire un’esecuzione della proposta concordataria in tempi brevi, rischiando addirittura di prolungare la stessa oltre modo[98]. Al fine di ovviare a ciò, per il debitore in concordato sarà, tuttavia, sempre possibile ricorrere ad una trattativa assistita con le procedure conciliative di cui agli artt. 410 e 411 c.p.c. nel rispetto del combinato disposto degli artt. 2112, comma 2, c.c. e 2113 c.c., nell’intento di ottenere da ciascun lavoratore la liberazione del cedente dalle obbligazioni derivanti dai contratti di lavoro dipendente[99]. 
9 . (Segue). Il rispetto del principio di graduazione nell’accollo dei debiti da parte del cessionario
Già si è visto come in base all’art. 105, comma 4, l. fall., le parti possano disporre una ‹‹diversa convenzione››, la quale, in deroga alla regola generale dettata in tema di trasferimento del complesso produttivo nel concordato preventivo, consenta al cessionario di accollarsi – assumendone così la responsabilità – talune passività relative all’esercizio dell’azienda ceduta, con corrispondente immediata liberazione del cedente a norma del comma successivo del medesimo articolo. Resta ora da chiarire in che modo ciò possa avvenire, nonostante la sussistenza di una procedura concorsuale e la necessità di rispettare i principi del concorso oltre che la regola per cui il debitore deve eseguire la proposta concordataria omologata. 
Al fine di rispondere ad un siffatta problematica è bene soffermarsi sul contenuto dell’ultimo comma dello stesso art. 105 l. fall., secondo cui il legislatore ammette che il pagamento del prezzo di cessione possa avvenire anche mediante accollo di debiti da parte dell’acquirente, ma solo a condizione che non venga alterata la graduazione dei crediti[100]. 
L’argomento non può essere affrontato se non tenendo in considerazione l’evoluzione che ha avuto nel tempo la corrispondente disciplina delle “cessioni aggregate” di cui all’art. 90 Tub. Sul presupposto che sia sempre possibile – sebbene l’espressa previsione in forza della quale ‹‹il cessionario risponde comunque delle sole passività risultanti dallo stato passivo›› – limitare l’accollo del cessionario ad una componente soltanto dell’ammontare delle passività accertate[101], prima delle recenti modifiche normative intervenute sull’articolo in commento era stata prospettata la possibilità di fare ricorso ad un criterio “proporzionale” – la cui percentuale veniva determinata dal rapporto tra il passivo accollato e l’attivo trasferito – in base a cui gli importi insinuati a stato passivo sarebbero stati ridotti fino a concorrenza del valore dell’attivo. Tuttavia, tale soluzione portava con sé l’inconveniente che il creditore privilegiato non “trasferito” nell’ambito di una “cessione aggregata” parziale avrebbe rischiato poi di non trovare successivamente soddisfacimento sul realizzo degli altri beni oggetto della liquidazione quando, all’opposto, quello chirografario avrebbe ricevuto comunque un soddisfacimento, dandosi così luogo ad una palese violazione dei principi del concorso. Era allora stato ritenuto preferibile applicare il principio di “graduazione”, rispettoso invece di quanto disposto dall’art. 111 l. fall. e, all’interno della categoria dei creditori privilegiati, dell’ordine delle cause legittime di prelazione stabilite dal Codice civile e, più in generale, dalla legge[102]. Con riferimento all’art. 90 Tub., è solamente grazie alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 181/2015[103] che questa seconda opzione è stata pienamente accolta dal legislatore, mentre invero nel concordato preventivo la scelta – verosimilmente in considerazione dei dubbi nel frattempo sollevati dalla dottrina in ambito bancario – è subito ricaduta su tale ultima regola rispettosa del criterio di graduazione in tema di soddisfacimento delle obbligazioni concorsuali. 
La “cessione aggregata” comporta, infatti, l’adempimento ad opera del debitore dei debiti concordatari nei confronti di taluni creditori, quelli per l’appunto “passati” nella sfera del cessionario[104]. Nella sostanza il “trasferimento” di determinati debiti unitamente agli asset che compongono il complesso produttivo ceduto e il loro accollo da parte del cessionario si risolve in una fattispecie di parziale esecuzione della proposta concordataria né più né meno di quanto accadrebbe se il debitore avesse incassato il prezzo di vendita dell’azienda senza tener conto delle passività accollate e con tali flussi di denaro avesse proceduto al soddisfacimento di quella quota di debiti oggetto di assunzione da parte del terzo acquirente. In altri termini, la cessione del complesso produttivo viene a coincidere con l’esecuzione di una porzione della proposta concordataria, nel senso che l’accollo di cui sopra deve ritenersi una modalità “satisfattoria” dell’obbligazione ristrutturata, posto che il trasferimento della “cessione in blocco” equivale in realtà alla distribuzione di una corrispondente quota di attivo a favore del ceto creditorio con conseguente liberazione del debitore concordatario, il quale, stante il combinato disposto degli artt. 105 e 182 l. fall., non può più essere chiamato a rispondere delle passività che sono state accollate dal nuovo proprietario[105]. Ma affinché il tutto possa essere rispettoso dei principi delle procedure concorsuali è evidente come un siffatto accollo non possa che avvenire nel rispetto del suindicato principio di graduazione, in base al quale la distribuzione dell’attivo dovrebbe sempre avvenire pagando in via prioritaria ed assoluta i crediti prededucibili e successivamente i crediti privilegiati, secondo il modello delineato dall’art. 2777 c.c., residuando la restante parte delle somme realizzate per il soddisfacimento dei creditori chirografari in proporzione all’entità del loro originario credito.
Tuttavia, poiché la vendita dell’azienda nella sua composizione “in blocco” comporta il soddisfacimento del ceto creditorio “trasferito”, posto che l’accollo ha un effetto tanto liberatorio per il debitore concordatario che non è più chiamato a rispondere quanto di contestuale soddisfacimento per i suddetti creditori concordatari, è altresì lecito domandarsi se ciò comporti per il debitore l’onere di disporre un classamento riguardo ai “creditori aggregati”, venendo in considerazione un trattamento differenziato rispetto alla rimanente componente del ceto creditorio qualora questa sia invero soddisfatta attraverso un pagamento da parte del debitore stesso o altre modalità delineate nella proposta concordataria, integrandosi in una siffatta circostanza la previsione di cui all’art. 160, comma 1, lett. d), l. fall.[106]. È evidente che una simile problematica si dovrebbe porre solo se la cessione del complesso aziendale avvenisse successivamente all’ammissione dell’imprenditore al concordato preventivo, in quanto, nel caso in cui la vendita fosse anticipata alla fase della c.d. “riserva”, la proposta ed il piano da depositare nel termine fissato dal Tribunale dovrebbero limitarsi a dare atto dell’avvenuto trasferimento di taluni creditori nella sfera del cessionario, sebbene in questa ultima circostanza potrebbe non essere poi così immediato il riscontro del rispetto del precetto secondo cui l’accollo di debiti quale pagamento del prezzo è legittimo solo se non venga alterata la graduazione dei crediti.
Al di fuori della peculiare ipotesi in cui il trasferimento avvenga nella fase del preconcordato, in tutti gli altri casi mentre parrebbe ragionevole concludere per un siffatto obbligo di classamento con riferimento ai creditori chirografari, maggiori incertezze concernono la sorte di quelli privilegiati, laddove capienti, e di quelli prededucibili. La circostanza che entrambi siano privi del diritto di voto dovrebbe condurre ad escludere l’obbligo della necessità di predisporre una apposita classe, salvo che non si tratti per l’appunto di crediti privilegiati incapienti i cui titolari hanno diritto di partecipare alla votazione per la porzione di credito non soddisfatta dalla garanzia. 
Una volta raggiunte dette conclusioni non rimangono da svolgere che due ulteriori considerazioni. La prima, derivante dal fatto che, stando così le cose, il combinato disposto degli artt. 105 e 182 l. fall. finisce in realtà, a stretto rigore di norma, per determinare l’estinzione dell’obbligazione del debitore concordatario mediante liberazione dalla responsabilità dell’alienante per i debiti accollati, in assenza di qualsiasi elemento che assicuri in modo inequivocabile che il credito oggetto di accollo verrà effettivamente soddisfatto dal cessionario. Neppure qualora si volesse scorgere la necessità – nonostante il silenzio della disposizione in esame – di effettuare una valutazione preventiva circa l’affidabilità del cessionario nell’ottica di tutelare il ceto creditorio, questa potrebbe ritenersi sufficiente, non essendo peraltro chiaro in una simile circostanza a quali strumenti il creditore insoddisfatto potrebbe ricorrere, vale a dire se a quelli risolutivi dell’inadempimento concordatario ovvero solo a quelli che l’ordinamento riserva a fronte di una mancata esecuzione dell’obbligazione del debitore.
Con la “cessione aggregata” i creditori il cui credito è stato, sul versante passivo, oggetto di accollo non restano – stante l’effetto liberatorio di esso – assoggettati alla sfera dell’originario debitore concordatario e il loro soddisfacimento avverrà al di fuori del concordato e in virtù all’adempimento del cessionario. Si verifica così una particolare situazione nella quale tutte le pretese dei creditori non risultano adempiute in base ai risultati di una stessa procedura di realizzazione della garanzia patrimoniale, venendo invero taluni soddisfatti attraverso la sostituzione del debitore o, se si preferisce, sostanzialmente pagati dall’accollante in luogo del debitore accollato. Ma quest’ultimo aspetto non pare possa essere di ostacolo all’osservanza della disciplina del concordato preventivo di cui agli artt. 160 e ss. l. fall. In relazione al credito oggetto di “trasferimento”, solo apparentemente si configura – al pari di quanto si accennava poc’anzi – un adempimento estraneo al campo del concordato, posto che per mezzo di un simile evento il debitore concordatario si libera dando al creditore accollatario un nuovo debitore – id est l’accollante – essendo quella in esame una vicenda perfettamente riconducibile nella previsione di soddisfacimento del ceto creditorio ‹‹attraverso qualsiasi forma, anche mediante […] accollo›› di cui all’art. 160, comma 1, lett. a), l. fall., tant’è che si deve escludere che un eventuale inadempimento dell’accollante legittimi il creditore a chiedere la risoluzione del concordato preventivo. 
La seconda riflessione sorge invece da un interrogativo: fermo restando il rispetto del principio di graduazione, le c.d. “cessioni aggregate” sono compatibili con il più generale principio della par condicio creditorum? A parere di chi scrive, l’unico caso in cui è possibile dare una risposta pienamente affermativa alla questione, riscontrandosi la completa assenza di lesioni nel trattamento paritario di creditori appartenenti a una medesima categoria, è quello nel quale la “cessione in blocco” sia integrale e comprenda tanto l’intero l’attivo quanto l’intero passivo che caratterizza la procedura concorsuale[107]. È esclusivamente attraverso il trasferimento di tutti i debiti che si è in grado di rispettare pienamente e per ciascun credito non solo la corretta graduazione dei medesimi ma altresì un trattamento paritario tra creditori del medesimo grado, dato che l’intero ceto creditorio verrà soddisfatto attraverso l’accollo del debito da parte del cessionario. Sul presupposto che anche la diversa tempistica della liquidazione e di conseguenza della ripartizione dell’attivo finisca per incidere sul rispetto di tale principio, in tutte le restanti circostanze una lesione non potrà che essere inevitabile, nonostante il rispetto dell’ordine di graduazione dei crediti e della medesima percentuale di soddisfacimento in relazione ai creditori chirografari[108].
Sennonché una siffatta violazione parrebbe dal legislatore essere tollerata quando, in forza di un più rilevante obiettivo di maggior celerità della liquidazione e di conservazione del valore dell’impresa, essa non giunga ad alterare la graduazione dei crediti, con la conseguenza però che, in una tal fattispecie, il principio della par condicio creditorum finisce per essere se non “abbattuto” quanto meno decisamente “scalfito”. Ai fini del rispetto del principio di graduazione l’uniforme trattamento tra i creditori di un medesimo grado non rileva: la norma ammette che le pretese di questi ultimi non necessariamente debbano restare, al pari di ciò che si è poc’anzi osservato, all’interno della procedura e debbano essere fatte valere esclusivamente nei confronti dell’originario debitore e per di più nel medesimo istante, essendo adempimento della proposta concordataria anche l’accollo di debiti al pari di quanto prevede, come sopra accennato, la lett. a) dell’art. 160, comma 1, l. fall.
D’altra parte, il legislatore del diritto concorsuale moderno ha da tempo abituato gli interpreti ad accettare che il principio della parità di trattamento tra i creditori possa essere un dogma superabile, se solo si pone mente alla disciplina dei trattamenti differenziati tra crediti appartenenti a classi diverse o alla deroga prevista per il pagamento al di fuori del concorso dei creditori c.d. “strategici” di cui all’art. 182-quinquies l. fall. o ancora, più di recente, alla possibilità di proseguire nel pagamento rateizzato del mutuo ipotecario per effetto delle modifiche apportate dal d.l. n. 118/2021 e dalla successiva legge di conversione; aspetti questi che rendono oggi più legittima che mai l’affermazione secondo la quale si sta assistendo ad un progressivo declino della par condicio creditorum[109]ossia sempre più ad un concorso diseguale tra i vari creditori.
10 . Il trasferimento del complesso produttivo mediante conferimento d’azienda
Per effetto del richiamo effettuato dall’art. 182 l. fall. alla disciplina della liquidazione fallimentare, la vendita dell’intero complesso aziendale o di singoli rami del medesimo che, giusto il disposto del comma 2 dell’art. 105 l. fall., deve essere effettuata nelle modalità indicate dall’art. 107 l. fall. in tema di procedure competitive e nel rispetto dei requisiti di forma previsti dall’art. 2556 c.c., può avvenire tra l’altro anche attraverso il conferimento dell’azienda stessa o di un suo ramo in una o più società, eventualmente di nuova costituzione, come previsto dall’art. 105, comma 8, l. fall.
È noto che mediante il conferimento in natura del complesso produttivo, il soggetto conferente – nella specie il debitore concordatario – ottiene, trattandosi di un apporto a titolo di capitale, quale corrispettivo di detto trasferimento, un certo quantitativo di azioni della società conferitaria o una quota di partecipazione in quest’ultima. La suddetta previsione normativa dettata nell’ambito della legge fallimentare non può, tuttavia, prescindere da un necessario coordinamento con le altre disposizioni di diritto comune che in materia di società di capitali – siano esse società a responsabilità limitata (art. 2464 c.c.) ovvero per azioni (art. 2346 c.c.) – impongono tra l’altro che il valore degli apporti non possa mai essere complessivamente inferiore dell’ammontare globale del capitale sociale.
Con l’entrata in vigore della riforma del diritto societario del 2004, la perfetta coincidenza tra l’importo del conferimento e la corrispondente quota di partecipazione assegnata dalla società conferitaria a fronte di quest’ultimo si è, infatti, spostata dal versante di ogni singolo socio, al pari di ciò che avveniva nella previgente disciplina, a quello dell’intera collettività dei soci[110]. Poiché ad assumere rilevanza è l’equivalenza tra il valore dell’apporto complessivo e l’ammontare della quota di partecipazione al capitale sociale attribuita al soggetto conferente, il debitore concordatario potrà dunque procedere al conferimento di aziende o di rami delle stesse che hanno in realtà anche un rilievo economico negativo – in quanto determinato da un surplus delle passività “aggregate” rispetto alle attività trasferite – vedendosi comunque assegnato, in considerazione dell’esistenza di un avviamento, una certa quota di capitale sociale nella società conferitaria, a patto che vi siano altresì uno o più soggetti che effettuino un conferimento ricevendo una quota di partecipazione al capitale sociale della conferitaria meno che proporzionale rispetto all’entità dell’apporto[111].
Tra l’altro, pure il rinvio disposto in tema di conferimento d’azienda o di un suo ramo alle norme inderogabili della Sezione II rubricata ‹‹Della vendita dei beni›› e quindi agli artt. da 105 a 108-ter l. fall. – che per taluni rappresenta un modello funzionale per la successiva vendita avente lo scopo di migliorare i risultati di soddisfacimento per il ceto creditorio[112] – non dovrebbe, pur con la dovuta prudenza che la singolarità della fattispecie impone, essere incompatibile con la sussistenza di una obbligatoria procedura competitiva volta a selezionare in via preliminare, rispetto al conferimento stesso, il soggetto conferitario e, pertanto, destinatario dell’apporto.
Trasferendo il complesso produttivo mediante conferimento, il debitore corre, però, il rischio di procrastinare il momento conclusivo della liquidazione degli asset, sostituendo a beni primari (l’azienda) beni secondari (la quota o le quote della società conferitaria), scambiando cioè un attivo prontamente realizzabile con quote o azioni di società di capitali che comunque dovranno essere convertite in denaro in un secondo tempo rispetto alla loro emissione. Ciò non appare, d’altra parte, sempre di ostacolo ad una celere liquidazione dell’attivo concordatario. Sul differente fronte dei vantaggi, è indubbio che attraverso tale particolare modalità di liquidazione sia possibile procedere, in modo alquanto flessibile, alla vendita delle partecipazioni in più tranche rivolgendosi a soggetti diversi, superando così le difficoltà connesse all’individuazione di un unico acquirente in grado di corrispondere l’intero prezzo a fronte della vendita unitaria del complesso produttivo[113].
Sennonché l’art. 182 l. fall., nel richiamare l’art. 105, comma 4, l. fall., si limita a prevedere l’esonero da responsabilità del destinatario del complesso produttivo per i soli casi delle cessioni d’azienda, nulla in particolare disponendo con riguardo al conferimento di quest’ultima. L’art. 105, comma 8, l. fall., infatti, esclude da responsabilità ex art. 2560 c.c. l’alienante in ipotesi di conferimento del complesso produttivo unicamente qualora ad esso vengano “aggregate” determinate passività oggetto di accollo da parte del soggetto conferitario. Tuttavia, poiché in ordine a questa fattispecie è qui possibile richiamare le varie considerazioni svolte nel paragrafo che precede in tema di “cessione in blocco”, è preferibile ora concentrare l’attenzione sulla mancata disciplina in forma derogatoria rispetto alla regola di diritto comune che prevede invero la responsabilità del cessionario per i debiti inerenti all’esercizio dell’azienda trasferita[114]. 
Di fronte a questa lacuna assiologica dell’ordinamento concorsuale[115], è d’obbligo chiedersi se l’interprete possa colmare l’evidente disattenzione del legislatore attraverso un meccanismo di applicazione analogica al caso relativo al conferimento dell’azienda o di un suo ramo delle disposizioni vigenti in materia di cessione della medesima. Ciò sul presupposto che entrambe le fattispecie paiono condividere la stessa ratio finalizzata ad attuare e a concretizzare la liberazione del soggetto destinatario del complesso produttivo dalla responsabilità – prevista come regola generale dall’art. 2560 c.c. – in occasione dei trasferimenti in seno alle procedure concorsuali, allo scopo di agevolare le vicende circolatorie di detti asset a vantaggio del ceto creditorio.
Peraltro, tra le tecniche di integrazione del diritto orientate a colmare lacune l’argomento analogico (o a simili) non interviene tanto sul significato di una disposizione (attività interpretativa), quanto piuttosto crea invero una disciplina nuova non riconducibile ad alcuna normativa già preesistente, «né come suo significato, né come sua conseguenza logica»[116]. A tal proposito è stato, infatti, specificato che fra la situazione regolata dalla norma e quella non prevista dalla stessa deve sussistere una evidente comunanza di caratteri e devono essere proprio tali elementi ad aver determinato – in qualità di ratio legis – l’elaborazione della disciplina della fattispecie disciplinata: detto diversamente, gli episodi simili si tramuterebbero, per l’appunto, in casi identici una volta eliminati gli aspetti giuridici trascurabili[117]. Nella circostanza che ci occupa è evidente come sia del tutto irrilevante che la vicenda circolatoria si configuri quale cessione o in termini di conferimento. In entrambe le ipotesi il profilo essenziale è esclusivamente che il trasferimento avvenga nell’ambito di una procedura concorsuale; aspetto questo che costituirebbe il carattere comune e determinante per la creazione di una disciplina della cessione in senso opposto rispetto alla disposizione contenuta nell’art. 2560, comma 2, c.c.
Tuttavia, prima di concludere per un’estensione dell’art. 105, comma 4, l. fall. anche al conferimento d’azienda, poiché l’art. 14 delle Preleggi inibisce che si possano applicare per analogia le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali, la ricerca deve innanzitutto essere indirizzata a comprendere se il disposto che esonera, in campo fallimentare e concordatario, il cessionario da responsabilità per i debiti inerenti all’azienda ceduta costituisca espressione di una norma speciale e, in quanto tale, suscettibile di analogia ovvero eccezionale, per la quale, invece, l’applicazione dell’argomento a simili non parrebbe di immediata evidenza.
Ma la difficoltà di rinvenire nell’art. 105, comma 4, l. fall. una disposizione speciale in rapporto all’art. 2560, comma 2, c.c. è del tutto evidente. La prima non è infatti dotata di quel tratto distintivo che permette al diritto speciale di costituire una specificazione, vale a dire «il prolungamento o la continuazione» del diritto generale[118]. La norma dettata per disporre le conseguenze della cessione d’azienda o di uno dei suoi rami all’interno delle procedure concorsuali si pone in realtà in rapporto di eccezione rispetto a quella che sancisce la responsabilità che nasce in capo al cessionario in conseguenza del trasferimento: se quest’ultima dispone, come regola generale, l’estensione della responsabilità del cessionario per i debiti anteriori all’alienazione contratti dal cedente, la prima rappresenta una rottura di tale logica, collocandosi anzi in antitesi con essa, proprio in ragione del fatto che espressamente esclude la responsabilità dell’acquirente in maniera opposta rispetto a quanto prevedrebbe la norma del Codice civile. In altri termini, l’art. 105, comma 4, l. fall. si sostanzia in uno ius eccezionale o singolare in confronto al diritto comune, venendo in rilievo un’ipotesi nella quale la disposizione meno ampia esclude integralmente l’operatività di quella più vasta sostituendo a questa qualcosa di diverso[119]. La previsione di diritto singolare o eccezionale non specifica la norma generale né aggiunge elementi alla disciplina di essa, ma regola il caso alla stessa sottratto in maniera del tutto diversa, sì che la prima non costituisce un completamento o una specificazione della seconda «ma un’interruzione della sua conseguenzialità logica»[120].
Seguendo tale ragionamento, la dottrina già da tempo non ha mancato di osservare che, se, da un lato, la regolamentazione speciale non si pone in contrapposizione con i principi e non li paralizza poiché incompatibili «ma li specifica e li differenzia adattandoli», quella eccezionale o singolare costituisce invece, nel caso di cui si occupa, «un’interruzione della conseguenzialità logica e politico-legislativa dei principi» oltre che «una deviazione dalle sue direttive generali» tale da porsi con essa in contrasto e da neutralizzarla[121]. Nel tipo di rapporto regola eccezionale-regola generale le due norme si trovano tra di loro in conflitto, delimitando la norma singolare il campo di applicazione di quella generale, poiché se entrambe presentano aspetti in comune con riguardo agli elementi di fatto, tuttavia ognuna di esse dispone per i medesimi diverse conseguenze giuridiche[122]. Nell’ipotesi che ci occupa, infatti, se è certamente vero che l’art. 2560 c.c. e l’art. 104, comma 4, l. fall. delineano un’identica situazione di fatto – la cessione dell’azienda – gli stessi collegano però a tale fatto giuridico risvolti antitetici, dato che la norma codicistica sancisce la responsabilità patrimoniale del cessionario per i debiti precedenti il trasferimento, mentre la disciplina concorsuale al contrario la esclude.
Nonostante l’art. 105, comma 4, l. fall. costituisca una disposizione eccezionale rispetto all’art. 2560, comma 2, c.c., e come tale in linea di principio non applicabile analogicamente, è però in letteratura largamente condivisa l’opinione secondo la quale il divieto di analogia non sarebbe assoluto, ben potendo una norma eccezionale estendersi a fattispecie simili, sebbene nell’ambito della medesima ratio e, pertanto, in corrispondenza di casi per i quali si riscontra lo stesso motivo di singolarità su cui si fonda, per l’appunto, la regola eccezionale[123].
L’approccio scettico di coloro che ritengono che l’analogia sia impedita in tema di leggi eccezionali non appare, infatti, condivisibile[124]. Affermare che l’applicazione dell’analogia sia una operazione (ampiamente, se non addirittura totalmente) discrezionale[125] equivale a rigettare il principio che vi possa essere un’interpretazione maggiormente plausibile rispetto alle altre. E anche l’esclusione del ricorso all’analogia con riguardo alle norme eccezionali, da taluni sostenuta[126], si giustifica in considerazione, da un lato, dell’impostazione di detto indirizzo secondo il quale lo ius singulare sarebbe una sorta di “privilegio” che esula dal sistema, costituendo eccezione ai principi fondamentali del diritto generale o speciale, posto che il medesimo si pone in collisione con essi, e, dall’altro, di un ampliamento del campo del diritto speciale e per converso di un restringimento di quello dello jus eccezionale; sì che una volta superata, come si ritiene di fare, una tale premessa il suddetto limite di applicazione estensiva non appare certo invalicabile.
Nel negare l’analogia limitatamente al caso in cui «il rapporto controverso sia da considerare singolare» ovvero «“a fattispecie esclusiva”», la dottrina ha diversamente ammesso l’operatività della stessa qualora essa riguardi «norme solo relativamente eccezionali», ossia disposizioni che, seppur derogatorie di una regola generale, costituiscono a propria volta previsioni generali nel campo in cui sono state dettate[127]. E ciò è quanto accade alla norma contenuta nell’art. 105, comma 4, l. fall. che oltre al fallimento trova applicazione anche al concordato preventivo per espresso rinvio all’art. 182 l. fall., quali procedure concorsuali di natura giudiziaria, e, stante il disposto dell’art. 63, comma 5, d.lgs. n. 270/1999, pure all’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi.
Inoltre si osservi come l’art. 2560, comma 2, c.c. non rappresenti neppure una norma principio assunta dall’interprete alla stregua di un postulato generale dell’ordinamento, potendosi invero qualificare in termini di mera regola generale rispetto a cui viene sottratta la vicenda circolatoria dell’azienda in ambito concorsuale; deroga che, per l’appunto, in sua assenza consentirebbe l’applicazione della disposizione codicistica della responsabilità patrimoniale del cessionario. 
D’altra parte lo stesso art. 2560 c.c., nel prevedere che a fronte di determinate obbligazioni sia chiamato a rispondere altresì un soggetto differente da quello che le ha in origine contratte, introduce anch’esso una eccezione al principio generale che si ricava nel nostro sistema dall’art. 2740 c.c., secondo cui «il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri»; espressione questa che in realtà equivale ad affermare che ad essere esposto, sotto il profilo patrimoniale, alle conseguenze giuridiche negative discendenti all’inadempimento delle obbligazioni è sempre colui che le ha assunte. Ciò consente di ricondurre, quindi, l’art. 2560 c.c. nell’alveo delle disposizioni generali dettate in materia di cessione d’azienda e non fra i principi apicali dell’ordinamento, sì che pure sotto questo profilo una norma, qual è l’art. 105, comma 4, l. fall. che fa eccezione alla prima non può che definirsi eccezionale in senso lato ed essendo tale nulla osta a che essa sia suscettibile di applicazione analogica[128].
In effetti, anche la legge eccezionale ha una propria ratio e la sua estensione a fattispecie non previste è ragionevole che possa avvenire limitatamente alle ipotesi per le quali valga il medesimo motivo di eccezionalità che l’ha originata[129]. In sostanza, riscontrare l’eadem ratio, pur non essendo un evento frequente, non è del tutto impossibile: in definitiva, pure le eccezioni possono, a loro volta, enunciare una “regola generale” in un determinato campo applicativo[130], e così accade nel caso qui preso in considerazione dell’art. 105, comma 4, l. fall.
11 . L’effetto purgativo delle vendite concordatarie
È noto come il mero avvio di una procedura di concordato preventivo non faccia, di per sé, venire meno i diritti di prelazione posseduti da terzi sulle singole cose o sull’azienda nel suo complesso, né questi sono sterilizzati per effetto del decreto di omologa. Infatti, l’ipoteca non è incompatibile con i principi della fase esecutiva del processo concordatario, dal momento che risulta irrilevante che il trasferimento del bene oggetto di garanzia si collochi nell’ambito di un negozio privatistico o in sede di alienazione coattiva[131].
Nonostante ciò, però, qualora la cessione della res oggetto di gravame avvenga da parte di un soggetto (il debitore) sottoposto a procedura concorsuale, si assiste ad un effetto purgativo del vincolo iscritto sul bene: lo stesso risulta in realtà del tutto idoneo, tra le altre cose, ad impedire che il diritto di seguito possa operare nei confronti dell’acquirente anche se il creditore non sia stato completamente soddisfatto, di talché sulla cosa alienata il vincolo non sopravvive, venendo ad integrale estinzione. Detto diversamente, nel momento in cui la cosa gravata da ipoteca è venduta in seno alla procedura concorsuale, il legame tra la medesima e la garanzia risulta reciso e non si origina di certo un nuovo diritto di prelazione del creditore sulla res venduta[132]. 
Tuttavia, nell’intento di dotare di effetto purgativo le vendite poste in essere durante le varie fasi della procedura di concordato, il comma 5, secondo periodo, dell’art. 182 l. fall. stabilisce che, salvo diversa previsione contenuta nel decreto di omologazione, per gli atti a questo susseguenti, la cancellazione dei gravami che insistono sull’asset oggetto di alienazione è effettuata su ordine del giudice[133]. A tal proposito, corre però l’obbligo di osservare come il disposto in esame ometta di precisare che la cancellazione dell’iscrizione deve avvenire, al pari di quanto dettato per le vendite nell’ambito dell’esecuzione collettiva, subordinatamente alla riscossione del prezzo di cessione del bene gravato dal relativo vincolo.
Una siffatta mancanza non può, peraltro, essere letta quale volontà del legislatore di derogare alla generale regola dettata in tema di effetti purgativi dei beni sottoposti ad espropriazione forzata, essendo possibile traslare pure alle vendite concordatarie il principio secondo cui la cancellazione dei gravami è ammessa esclusivamente a condizione che sia avvenuto l’integrale incasso dell’importo della vendita, facendo a tal fine leva sull’espresso rinvio compiuto dall’art. 182, comma 5, l. fall. all’art. 108 l. fall. e nello specifico al comma 2 del medesimo. Il versamento integrale di tale corrispettivo costituisce, in effetti, presupposto necessario per l’emanazione del decreto di purgazione che potrà essere adottato, al pari di quanto avviene in campo fallimentare, dal Giudice delegato su istanza del debitore, non potendosi escludere che sia direttamente l’acquirente a presentare il relativo ricorso[134]. 
L’assenza di un espresso richiamo ai principi tipici del processo espropriativo che subordini la cancellazione del vincolo all’incasso del corrispettivo di cessione non è, tuttavia, l’unico problema interpretativo che suscita la lettura del disposto dell’art. 182, comma 5, secondo periodo, l. fall. Sul punto occorre rilevare che, qualora il bene gravato da prelazione venga ceduto successivamente all’omologazione della proposta concordataria, il giudice potrà, a fronte della corresponsione del prezzo di alienazione, disporre senza particolari ostacoli la cancellazione dei gravami, essendo gli organi della procedura tenuti a eseguire la proposta concordataria distribuendo la somma incassata a favore degli eventuali creditori beneficiari. In una simile fattispecie sarà infatti lo stesso decreto di omologa a rappresentare il “punto” di riferimento, indicando le modalità nell’osservanza delle quali dovrà avvenire, tra l’altro, anche la rimozione dei vincoli medesimi.
Se invece il debitore pone in essere una vendita c.d. “anticipata” rispetto alla fase esecutiva del concordato e, quindi, all’adempimento della proposta omologata in termini di soddisfacimento del ceto creditorio, lo scenario si colora di non poche criticità. L’incasso del corrispettivo di cessione non seguito dal pagamento del credito garantito o dalla promessa certa e assicurata che tale corresponsione avverrà sotto il controllo degli organi tribunalizi impedisce di realizzare la funzione che il gravame mira ad assolvere mediante la sua iscrizione sulla res oggetto di alienazione, ovverosia garantire al creditore, attraverso un “diritto di seguito”, l’adempimento del debitore, anche in caso di trasferimento del bene “vincolato”.
Difatti, sul tema, non può essere taciuta la problematica legata alla tutela del creditore che gode di un diritto di prelazione su una cosa oggetto di vendita da parte dell’imprenditore sottoposto a procedura concordataria in una fase anticipata rispetto a quella fisiologica di adempimento della procedura, dal momento che, dopo la cancellazione del gravame, il debitore potrebbe non soddisfare il creditore munito di prelazione oppure altri creditori potrebbero aggredire le somme rinvenute dall’alienazione del bene, promuovendo azioni esecutive o sequestri, così come la procedura concordataria potrebbe cessare prima della fase di adempimento della stessa senza la possibilità di un controllo ad opera degli organi di quest’ultima in ordine al soddisfacimento del soggetto garantito[135].
Osservato che la vendita anticipata – nella fase della riserva e, altresì, in quella post ammissione – è dotata di un potenziale effetto purgativo a fronte del disposto di cui all’art. 182, comma 5, l. fall., la dottrina si è interrogata se sia concretamente ipotizzabile una soddisfazione immediata del creditore privilegiato. Ma se ciò è stato da una parte in astratto prospettato, sulla scorta dell’orientamento della Suprema Corte – secondo il quale i pagamenti eseguiti dall’imprenditore ammesso al concordato preventivo, se effettuati in assenza di autorizzazione del Giudice delegato, non comportano la revoca automatica dell’ammissione alla procedura ex art. 173, ultimo comma, l. fall., qualora essi non siano diretti a frodare i creditori pregiudicando le chance di adempimento della proposta di concordato[136] – dall’altra non poche perplessità sono state sollevate in ordine alla circostanza che questa possa essere una soluzione praticabile: a causa della permanenza del rischio di revoca della procedura ed in ragione del fatto che non vi sono fondamenti giuridici solidi a sostegno della legittimità del pagamento anticipato, sarebbe preferibile, secondo questo indirizzo, costituire la somma realizzata dalla vendita del bene oggetto di garanzia in pegno a favore del creditore privilegiato[137]. 
A giudizio di altri, poi, la scelta di addivenire ad una soddisfazione anticipata del creditore privilegiato è stata invece rigettata, mettendosi in luce come una siffatta opzione non solo finirebbe per porsi in spregio al divieto di pagamento dei creditori ante procedura ma sarebbe altresì lesiva di quel principio che prevede di addossare le spese prededucibili sul ricavato del bene gravato da privilegio; spese che spesso nella fase iniziale del concordato non sono sempre facilmente individuabili, sì che una loro omissione consentirebbe al creditore munito di prelazione di godere di un trattamento migliore nel concordato preventivo in luogo di quanto accade in sede di esecuzione collettiva[138]. 
Un tentativo dogmaticamente più interessante di dotare di “sopravvivenza” il vincolo ipotecario è, d’altra parte, quello che ravvisa nella surrogazione reale il meccanismo offerto dall’ordinamento al fine di garantire detta efficacia non più sul bene originariamente gravato ma su quello diverso – il denaro – risultante dalla sua cessione[139]. La risposta all’interrogativo sarebbe, quindi, rinvenibile nella sussistenza nel nostro ordinamento giuridico di un principio generale – per l’appunto quello della c.d. surrogazione reale – in base a cui la sostituzione del vincolo reale si determina «ogniqualvolta un bene vincolato ad una prelazione venga “trasformato” in un altro»[140]. In ragione di ciò avverrebbe dunque un trasferimento del vincolo prelatizio sulle somme che il creditore privilegiato ha diritto di ottenere.
Ma l’indirizzo in esame non appare però del tutto convincente. Il vero problema non è solo quello di segregare temporaneamente le somme realizzate dalla vendita della res in attesa di poterle distribuire a favore del creditore privilegiato, ma soprattutto di garantire che in forza di ciò a quest’ultimo sia comunque assicurato un soddisfacimento prioritario, anche in ipotesi di fuoriuscita del debitore dalla procedura concordataria in cui è avvenuta la vendita dell’asset. È ben vero che pure in tema di vendita anticipata del bene oggetto di pegno all’art. 2795, comma 2, c.c. il legislatore regolamenta una fattispecie non molto dissimile da quella qui presa in considerazione, in cui il giudice dispone il deposito del prezzo a garanzia del credito, ma è altrettanto indiscutibile che, mentre nell’esecuzione forzata ciò rimane tale finché questa non cessa e per potersi estinguere occorre l’assenso, tra gli altri, del creditore garantito, diversamente nel concordato preventivo, una volta che il procedimento si interrompe, nessuna norma assicura che detto vincolo possa sopravvivere al di fuori del processo concordatario. Pertanto, nel caso che ci occupa, se di surrogazione si volesse parlare si dovrebbe ammettere che la stessa opererebbe sulla somma di denaro nonostante questa non sia nel possesso del creditore privilegiato, all’opposto di quanto accade con riguardo al pegno.
In secondo luogo, delle due l’una: o la surrogazione reale è l’espressione di un principio immanente del nostro ordinamento giuridico, in forza del quale quando il bene oggetto di prelazione si trasforma in una somma di denaro il vincolo si trasferisce su detto importo in modo tale, tra l’altro, che esso non si confonda con la restante parte del patrimonio del debitore, oppure il soddisfacimento di detto soggetto garantito non può che essere ricercato per altra via, posto che la creazione ad opera della surrogazione reale di un mero vincolo sulla somma di denaro si risolverebbe nella realizzazione di un effetto alquanto blando. Questo sarebbe infatti del tutto inidoneo a proteggere effettivamente il creditore dall’esecuzione forzata che su quella somma potrebbe essere intrapresa dai creditori della continuità oltre che dalla eventuale improcedibilità e, pertanto, dalla inesecuzione della proposta concordataria o dal mancato soddisfacimento del creditore privilegiato da parte del debitore una volta che il medesimo non fosse più assoggettato a procedura concordataria.
Stando così le cose e preso atto dell’insuccesso del tentativo di ricondurre la tutela del soggetto privilegiato, in caso di trasferimento anticipato del bene su cui insiste il suo diritto di garanzia, ad una qualche ipotesi di accantonamento della somma da destinare al suo soddisfacimento o ad una sorta di collaborazione del creditore stesso, o, ancora, ad una applicazione della costruzione dottrinale della surrogazione reale, non resta che un’unica soluzione percorribile: affermare che la cancellazione delle iscrizioni relative ai diritti di prelazione, nonché delle trascrizioni, dei pignoramenti e dei sequestri conservativi e di ogni altro vincolo non presuppone solo, come poc’anzi precisato, l’incasso del prezzo o la garanzia che ciò possa avvenire, ma anche l’implicito ed immediato pagamento – in deroga al divieto di soddisfacimento dei creditori concorsuali – del creditore prelatizio, ossia di colui a favore del quale il gravame è iscritto; pagamento, che non potrà che essere autorizzato ex art. 161, comma 7, l. fall., laddove effettuato nella fase della c.d. “riserva”, oppure nel rispetto della previsione di cui all’art. 167 l. fall., qualora disposto nel corso del processo di concordato.

Note:

[1] 
In passato, in assenza delle modifiche legislative intervenute negli anni ad agevolare le vicende circolatorie del complesso produttivo in esercizio, aveva enfatizzato l’importanza dell’affitto d’azienda quale strumento per consentire la conservazione economica produttiva dell’impresa F. Fimmanò, Fallimento e circolazione dell’azienda socialmente rilevante, Milano, 2000, 74 ss.
[2] 
Particolarmente vasta è la giurisprudenza che si era pronunciata sul punto. V., ex plurimis, Cass. 15 novembre 1958, n. 3722, in Giust. civ. mass., 1958, 1345; Cass. 13 giugno 1962, n. 1469, in Giust. civ. mass., 1962, 726 ss.; Cass. 26 febbraio 1965, n. 319, in Giust. civ. mass., 1965, 148; Cass. 16 giugno 1965, n. 1250, in Giust. civ. mass., 1965, 648; Cass. 22 gennaio 1970, n. 140, in Giust. civ. mass., 1970, 85; Cass. 27 giugno 1981, n. 4177, in Fallimento, 1981, 904; Cass. 28 marzo 1985, n. 2187, in Foro it., 1986, I, 172 ss., con nota di G. Meliadò, Trasferimento e ristrutturazione delle aziende in crisi: precisazioni di disciplina e distinzioni «ontologiche»; Cass. 15 dicembre 1991, n. 13626, in Fallimento, 1992, 470; Cass. 21 gennaio 1993, n. 709, in Dir. fall., 1993, II, 920 ss.; Cass. 21 febbraio 1995, n. 1909, in Riv. notariato, 1996, 1288 ss. ed in particolare 1295; Cass. 13 maggio 1998, n. 4801, in Fallimento, 1999, 383 ss.; Cass. 1° giugno 1999, n. 5306, in Fallimento, 2000, 486 ss.; Cass. 11 agosto 2000, n. 10738, in Fallimento, 2001, 781 ss., con commento di A. Patti, La legittimazione processuale del debitore nel c.p. con cessione dei beni tra titolarità (mantenuta) e disponibilità (trasferita) del patrimonio; Cass., S.U., 27 luglio 2004, n. 14083, in Fallimento, 2005, 131 ss., con commento di G. Lo Cascio, Concordato preventivo e prelazione convenzionale nella vendita di immobili. Per le sentenze di merito cfr., senza pretesa di esaustività, App. Milano 10 maggio 1963, in Foro it., 1963, I, 2010 ss.; App. Firenze 1° dicembre 1966, in Giur. toscana, 1967, 245 ss.; Trib. Roma 3 marzo 1983, in Fallimento, 1983, 1206; Trib. Roma 5 aprile 1983, in Dir. fall., 1983, II, 890 ss.; Trib. Foggia 26 maggio 1983, in Fallimento, 1983, 1207; Trib. Vercelli 23 maggio 1998, in Dir. fall., 1998, II, 890.
Maggiormente articolata era invece la lettura interpretativa offerta dalla dottrina, la quale aveva oscillato tra il riconoscere, nella suddetta figura della cessione dei beni ai creditori, lo schema del mandato – v. F. Ferrara jr.–A. Borgioli, Il fallimento5, Milano, 1995, 210; R. Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, III, Milano, 1974, 1804; M. Casanova, Risoluzione di concordato preventivo con cessione dei beni ai creditori, in Riv. dir. comm. e obbligazioni, 1963, I, 97 s., che in aggiunta aveva ravvisato «l’essenza» del negozio in «una forma di liquidazione convenzionale» – e l’individuare la sussistenza di una datio in solutum idonea a liberare immediatamente il debitore concordatario. Così U. Azzolina, Il fallimento e le altre procedure concorsuali2, III, Torino, 1961, 1590. Pareva collocarsi su una posizione non molto dissimile anche R. Miccio, La cessione dei beni nel concordato, Milano, 1953, 195, che aveva visto nell’effetto liberatorio della cessione l’elemento fondante che consentiva di far assumere al negozio il carattere reale stante ‹‹il trapasso della proprietà dei beni dal debitore ai cessionari››. Sulla ricostruzione dei poteri dei liquidatori attraverso il ricorso all’analogia con lo schema giuridico della cessione dei beni ai creditori di cui all’art. 1977 c.c., così avvicinandosi alla prima teoria, v. P. Pajardi, Manuale di diritto fallimentare5, a cura di M. Bocchiola-A. Paluchowski, Milano, 1998, 676. Con riguardo ai particolari aspetti della cessio bonorum e soprattutto all’utilizzo dello schema del mandato conferito dal debitore concordatario ai suoi creditori al fine di gestire la conversione in denaro dei beni cfr. pure, in epoca risalente, A. De Martini, La «cessio bonorum» nel concordato preventivo, in Riv. dir. comm. e obbligazioni, 1959, I, 85 ss., che aveva osservato come l’indirizzo in rassegna fosse andato definitivamente consolidandosi nei vari decisum della Suprema Corte, pur sussistendo tra gli studiosi del diritto un’ampia varietà di posizioni. Per una più articolata ricostruzione delle considerazioni svolte in letteratura si rinvia a G. Lo Cascio, Il concordato preventivo5, Milano, 2002, 676 ss., al quale si rimanda altresì per gli ulteriori riferimenti bibliografici.
[3] 
In termini di lunga marcia verso la competitività delle alienazioni di beni in campo concordatario si è pronunciato A. Crivelli, Studio n. 14-2020/E – La cessione di beni nel concordato - (Approvato dalla Commissione Esecuzioni Immobiliari e Attività Delegate il 17 febbraio 2020), in Studi e Materiali, 2020, 555 ss., al quale si rinvia per una approfondita disamina della figura dell’organo liquidatorio nella vendita concordataria, connotato da una natura pubblicistica.
[4] 
Di contrario avviso parrebbe essere, quanto meno limitatamente al concordato con cessione dei beni, G. Bozza, La fase esecutiva del concordato preventivo con cessione dei beni, in Fallimento, 2012, 768, che, in relazione a detta tipologia di procedura, si è espresso mettendo in evidenza la ‹‹profonda atipicità›› del procedimento in considerazione dell’abbandono dello schema della cessio bonorum privatistica.
[5] 
V. in tal senso G.M. Nonno, La concorrenza nel concordato preventivo: offerte competitive e cessioni, in Quotidiano giuridico, 10 luglio 2015, 5.
[6] 
L’osservazione non è sfuggita alla dottrina. In questa direzione v., ex plurimis, A. La Malfa, Le offerte concorrenti, in Aa.Vv., Fallimento, soluzioni negoziate della crisi e disciplina bancaria, opera diretta da S. Ambrosini, Bologna, 2017, 352; G.B. Nardecchia, La cessione competitiva dell’azienda, in Fallimento, 2017, 453; A. Crivelli, op. et loc. ult. cit. 
Per la giurisprudenza cfr., in proposito, Trib. Bolzano 17 maggio 2016, in Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 15129 - pubb. 02/06/2016; nonché Trib. Trento 6 luglio 2017, in Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 17704 - pubb. 18/07/2017.
[7] 
Così G. Bozza, op. ult. cit., 769.
[8] 
Conf. L. Panzani, La liquidazione dei beni nel fallimento e nel concordato, in Fallimento, 2017, 1133. 
[9] 
Sia permesso qui rinviare al mio scritto Le cessioni di beni ex art. 182 l. fall., in Aa. Vv., Fallimento, soluzioni negoziate della crisi e disciplina bancaria, opera diretta da S. Ambrosini, Bologna, 2017, 586 s.. 
L’estensione dell’art. 182 l. fall. ad ogni tipo di proposta concordataria è stata ammessa più di recente pure da Trib. Trento 6 luglio 2017, cit.
[10] 
Sul punto risulta essere parzialmente difforme la posizione assunta da Trib. Alessandria 18 gennaio 2016, in Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 14088 - pubb. 02/02/2016, a giudizio del quale l’art. 182 l. fall. non è stato ritenuto utilizzabile in relazione al concordato con continuità aziendale c.d. “indiretta” e a quello c.d. “misto” con prevalenza della componente di continuità. Il mancato riferimento, nel comma 5 dell’art. 182 l. fall., alla figura del liquidatore giudiziale ha inoltre condotto S. Ambrosini, Il nuovo concordato preventivo alla luce della «miniriforma» del 2015, in Dir. fall., 2015, 380, a reputare applicabile l’art. 182 l. fall. anche ai trasferimenti di beni non strumentali alla continuità aziendale ex art. 186-bis l. fall.
[11] 
Per entrambe le disposizioni (artt. 107 e 182 l. fall.) l’adempimento pubblicitario è divenuto obbligatorio a decorrere dal termine di trenta giorni dalla pubblicazione sulla G.U., avvenuta in data 20 gennaio 2018, delle c.d. specifiche tecniche del Portale delle vendite pubbliche. 
[12] 
V. A. Crivelli, Il portale delle vendite pubbliche e le vendite forzate telematiche nelle procedure concorsuali, in Fallimento, 2018, 402 ss., al quale si rinvia diffusamente per un maggior approfondimento sugli aspetti riguardanti il contributo di natura tributaria da versare per effettuare la pubblicità sul Portale delle vendite pubbliche e su quelli di natura funzionale concernenti la struttura di quest’ultimo.
[13] 
Alle quali, per completezza, si ricorda trova estensione anche l’art. 182 l. fall. laddove non contrastante con la regolamentazione tipica. Per un quadro ricognitivo sulle differenze intercorrenti fra la disciplina dettata dall’art. 163-bis l. fall., da un lato, e gli artt. 182 e 107 l. fall., dall’altro, si rinvia a F. Bortolotti-L. Mandrioli, Le offerte concorrenti nel concordato preventivo: la disciplina dell’art. 163 bis l. fall. (Parte I), in Fallimento, 2018, 1332, e ai riferimenti ivi citati.
[14] 
V. L. De Bernardin, Le novità in tema di vendite giudiziarie, in IlFallimentarista, 8 giugno 2018, 2
[15] 
Cfr. S. Leuzzi, Vendite telematiche e procedure concorsuali, in Dir. fall., 2018, 902. Sull’argomento A. Crivelli, L’impugnazione dell’aggiudicazione per omissioni o difformità pubblicitarie, in Fallimento, 2020, 346 ss., ha in aggiunta osservato come, con specifico riguardo alla procedura di concordato, le forme pubblicitarie vengano enunciate in sede di piano ovvero, qualora non identificate oppure carenti, aggiunte nel decreto di omologazione emesso dal giudice. 
In giurisprudenza, seppure in tema di procedimento espropriativo immobiliare, Cass. 7 maggio 2015, n. 9255, in Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 19353 - pubb. 24/03/2018, ha in più precisato che la trasparenza, la coerenza e la immutabilità delle condizioni della vendita permettono di ottenere il migliore soddisfacimento del ceto creditorio attraverso un minore impatto sulle ragioni del debitore.
[16] 
V. S. Leuzzi, op. cit., 898.
[17] 
Sulla necessità di rispettare, in materia concordataria, l’obbligo di pubblicazione e, pertanto, anche detto lasso di tempo di trenta giorni prima della procedura competitiva v. A. Crivelli, Il portale delle vendite pubbliche e le vendite forzate telematiche nelle procedure concorsuali, cit., 403. Parrebbe porsi in linea con il citato Autore pure S. Leuzzi, op. cit., 900 s., laddove afferma che l’art. 107, comma 1, l. fall. è norma dai requisiti generali connotati dal carattere della incomprimibilità, i quali sono stati fissati per proteggere le vendite fallimentari da pressioni esterne e accomodamenti preferenziali
[18] 
Ha infatti ritenuto nullo il procedimento di vendita che viola le forme di pubblicità previste dalla legge e di conseguenza l’aggiudicazione Cass. 6 settembre 2019, n. 22383, in Banche dati Dejure.
[19] 
Tra l’altro, è ben ipotizzabile che l’art. 36 l. fall. troverebbe invece applicazione con riguardo al Commissario giudiziale per effetto del richiamo ad opera dell’art. 165, comma 2, l. fall., ma l’unico caso in cui la pubblicità potrebbe essere disposta dall’organo di controllo si presenterebbe al momento delle offerte concorrenti ex art. 163-bis l. fall. e pur sempre laddove tale incombente venisse ad esso attribuito dal Tribunale con il decreto volto ad aprire il procedimento competitivo e diretto a fissare la pubblicità sul Portale delle vendite pubbliche.
[20] 
Di vendite forzate ha parlato invece V. Zanichelli, I concordati giudiziali, Torino, 2010, 313. Ancor prima C. D’Ambrosio, Articolo 182. Provvedimenti in caso di cessioni di beni, in La riforma della legge fallimentare, a cura di A. Nigro-M. Sandulli, Torino, 2006, 1079, aveva ritenuto che i trasferimenti eseguiti in ambito concordatario fossero, «a tutti gli effetti, identificat[i] come vendite forzate». 
L’affermazione si riscontra con frequenza anche fra gli arresti giurisprudenziali. Cfr., al riguardo, Cass. 6 giugno 2007, n. 13217, in Giust. civ., 2008, I, 171; Cass. 18 luglio 1996, n. 6478, in Fallimento, 1997, 383, con nota di M. Naldini, Esecuzione del concordato con cessio bonorum e vendita di immobili; Cass. 13 luglio 1994, n. 6560, in Giust. civ., 1994, I, 3091 ss., con nota di G. Lo Cascio, Liquidazione giudiziale di immobili nel concordato preventivo e provvedimenti del giudice delegato, laddove ha riconosciuto al Giudice delegato del concordato preventivo con cessione dei beni l’applicazione del potere di sospensione di cui al previgente art. 108, comma 3, l. fall. della vendita in ipotesi di prezzo offerto notevolmente inferiore a quello giusto; Cass. 14 gennaio 1994, n. 339, in Giust. civ., 1994, I, 1543 ss., con nota di G. Lo Cascio, Inapplicabilità della prelazione del conduttore alle vendite eseguite in sede di liquidazione giudiziale del concordato preventivo, da cui si evince che le alienazioni di immobili in sede di concordato preventivo esulano dai trasferimenti volontari, non rientrando nella libera determinazione del debitore concordatario che, successivamente all’omologa, ha perso l’autonoma disponibilità dei suoi beni. In termini sostanzialmente conf. v. pure Cass. 6 aprile 1990, n. 2900, in Foro it., 1991, I, 863 ss. Del tutto esplicito sul punto è stato Trib. Genova 30 ottobre 2002, in Fallimento, 2003, 875, con nota di V. Zanichelli, Liquidazione dell’attivo e garanzie dell’aggiudicatario, che, nell’escludere la riconducibilità delle cessioni di beni concordatarie ad una libera determinazione del debitore, si è espresso qualificando le vendite stesse come trasferimenti di natura coattiva. Sulla equiparabilità delle vendite concordatarie alle alienazioni forzate cfr. inoltre Trib. Lamezia Terme 20 gennaio 2011, in www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/3172.pdf.
Hanno all’opposto sostenuto che le medesime siano dotate di carattere essenzialmente privatistico Trib. Cassino 30 novembre 1990, in Dir. fall., 1992, II, 1060 ss.; Trib. Viterbo 19 gennaio 1991, in Fallimento, 1991, 1076, con nota di M. Naldini, La cancellazione e l’efficacia delle garanzie reali nelle procedure concorsuali; Trib. Perugia 5 novembre 1991, in Fallimento, 1992, 539. Per la dottrina v. B. Quatraro, La liquidazione nel concordato preventivo con cessione dei beni, in Giur. comm., 1989, I, 78.
[21] 
Connotati, questi due ultimi, da tempo riconosciuti in giurisprudenza quali elementi fondanti la natura forzata delle vendite fallimentari. V., ex plurimis, Cass. 17 giugno 1959, n. 1872, in Dir. fall., 1959, II, 325 ss.; e Cass. 3 dicembre 1983, n. 7233, in Giur. it., 1985, I, 226 ss., con nota di F. Di Ruzza, Vendita giudiziaria, «aliud pro alio», risoluzione per inadempimento.
[22] 
Pienamente condivisibili in tal senso sono le considerazioni di M. Fabiani, La “programmazione” della liquidazione del concordato preventivo da parte del debitore e la natura delle vendite concordatarie, in Fallimento, 2012, 919 s. In precedenza, preso atto della “privatizzazione” della fase liquidatoria delle procedure, aveva distinto tra forma negoziale, da un lato, e sostanza coattiva e forzata, dall’altro, dei trasferimenti tanto in campo fallimentare quanto in sede concordataria, M. Perrino, La liquidazione dei beni nel fallimento e nei concordati mediante cessione, in Giur. comm., 2009, 683 s.
[23] 
Da alcuni decenni il Supremo Collegio ha inaugurato l’orientamento secondo cui può invocare l’istituto rimediale dell’aliud pro alio l’aggiudicatario di una res oggetto di vendita forzata risultato difforme o carente delle qualità rappresentante negli atti della procedura espropriativa o del fallimento, sempreché esso non ne fosse già in precedenza a conoscenza. V. Cass. 24 marzo 1981, n. 1698, in Banche dati Dejure; Cass. 3 dicembre 1983, n. 7233, cit., la quale, in un caso di totale difformità, materiale e giuridica, del bene in occasione di una vendita fallimentare, pur affermando che non fosse appropriato fare uso del termine risoluzione contrattuale rispetto ad un’alienazione forzata, aveva tuttavia riconosciuto il diritto dell’acquirente di ripetere dal creditore procedente la somma indebitamente pagata; Cass. 3 ottobre 1991, n. 10320, in Giur. it., 1992, I, 715 ss.; Cass. 21 dicembre 1994, n. 11018, in Giust. civ., 1995, I, 917; Cass. 9 ottobre 1998, n. 10015, in Giust. civ. mass., 1998, 2048; Cass. 25 febbraio 2005, n. 4805, in Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 13962 - pubb. 07/09/2015; Cass. 4 luglio 2012, n. 11151, in Banche dati Dejure; Cass. 14 ottobre 2010, n. 21249, in Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 3642 - pubb. 01/08/2010; Cass. 17 marzo 2015, n. 5257, in Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 13952 - pubb. 12/01/2016; Cass. 29 gennaio 2016, n. 1669, in Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 25370 - pubb. 11/01/2021; Cass. 12 luglio 2016, n. 14165, in Giust. civ. mass., 2016; nonché da Cass. 25 ottobre 2016, n. 21480, in Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 16085 - pubb. 04/11/2016. Per la giurisprudenza di merito cfr. inoltre Trib. Bari 19 marzo 2012, in Giur. di merito, 2012, 1315 ss.
Anche la dottrina è decisamente favorevole – salvo quale voce contraria del tutto isolata (v. A. Barletta, La stabilità della vendita forzata, Napoli, 2002, 151 ss.; F.D. Busnelli, Della tutela dei diritti2, in Comm. BigliazziGeri-Busnelli-Ferrucci, VI, Torino, 1980, 319) – alla configurabilità di fattispecie di vendita di aliud pro alio in sede di cessioni concorsuali. Sull’argomento, v. A. Bonsignori, Effetti della vendita forzata e dell’assegnazione, in Comm. Schlesinger, Milano, 1988, 127 e 134; D. Petitto, Difetto di qualità essenziali e aliud pro alio nella vendita forzata, in Riv. dir. processuale, 1995, 768 ss., il quale dà corso ad una ricostruzione dei vari orientamenti dottrinali e giurisprudenziali in materia; A. Tedoldi, voce Vendita e assegnazione forzata, in Digesto civ., XIX, Torino, 1999, 669; G. Monteleone, Diritto processuale civile2, Padova, 2000, 954; G. Arieta - F. De Santis, L’esecuzione forzata, in L. Montesano - G. Arieta, Trattato di diritto processuale civile, III, Padova, 2007, 729; C. Mandrioli, Diritto processuale civile21, IV, a cura di A. Carratta, Torino, 2011, 154; M. Fabiani, Natura giuridica della vendita forzata ed effetti sulla traslazione del rischio da “bene non a norma”, in Il processo esecutivo. Liber amicorum Romano Vaccarella, a cura di B. Capponi-B. Sassani-A. Storto-R. Tiscini, Torino, 2014, 1460 s. All’orientamento in esame pare aderire anche A.C. Marrollo, La vendita di aliud pro alio e la tutela dell’aggiudicatario, in Fallimento, 2005, 1391.
[24] 
V. Cass. 17 febbraio 1995, n. 1730, in Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 13971 - pubb. 08/10/2015.
[25] 
Cfr. V. Andrioli, Commento al codice di procedura civile3, III, Napoli, 1957, 172; G. Bongiorno, voce Espropriazione mobiliare presso il debitore, in Digesto civ., VIII, Torino, 1992, 85; C. Ferri, La nullità delle vendite concorsuali, in Riv. dir. processuale, 2003, 443. 
Particolare è la posizione di A. Cerino-Canova, Offerte dopo l’incanto, Padova, 1975, 102 s., in testo e in n. 117, che, nell’aderire al suddetto indirizzo, in altra opera – v. Idem, voce Vendita forzata, in Studi di diritto processuale civile, Padova, 1992, 696 – ha rilevato inoltre come gli effetti della vendita a mezzo commissionario non siano sovrapponibili a quelli di cui agli artt. 2919 ss. c.c.
[26] 
In questa direzione A. Castagnola, La natura delle vendite fallimentari dopo la riforma delle procedure concorsuali, in Giur. comm., 2008, I, 386 s. Pure a giudizio di V. Zanichelli, L’amministrazione straordinaria, in Aa.Vv., Fallimento e altre procedure concorsuali, diretto da G. Fauceglia-L. Panzani, Torino, 2009, 2056, l’art. 64, d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270 – nella parte in cui prevede che la cancellazione delle iscrizioni relative a diritti di prelazione e delle trascrizioni dei pignoramenti e dei sequestri conservativi sui beni trasferiti sia ordinata dal Ministero dell’industria (oggi Ministero dello Sviluppo Economico) con decreto nei quindici giorni successivi al trasferimento – avvalorerebbe la natura forzosa delle vendite in esame e troverebbe la propria ragion d’essere nella considerazione che queste ultime, essendo poste in essere con regole privatistiche, difettano del provvedimento del giudice richiesto nel caso in cui le modalità siano invece quelle del procedimento esecutivo.
Di contrario avviso è tuttavia la prevalente dottrina, che ha affermato, in relazione alla natura di tali trasferimenti, come non vi sia dubbio che si tratti di vendite aventi carattere negoziale – al pari peraltro di quanto già sostenuto sotto la previgente disciplina da A. Bonsignori, Processi Concorsuali Minori, in Tratt. Galgano, XXIII, Padova, 1997, 686; nonché, sempre in pendenza di essa, da P. Schlesinger, Provvedimenti urgenti per l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, in Le nuove leggi civili commentate, 1979, 771 s. – svincolate dalle norme del codice di procedura civile e della legge fallimentare (così E. Marinucci, Commento sub. Art. 62, in Aa.Vv., La nuova disciplina della amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza. Commentario al decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270, a cura di A. Castagnola-R. Sacchi, Torino, 2000, 294 s.), non definibili coattive in senso stretto poiché realizzate da un organo di nomina amministrativa e non dal giudice (in questi termini cfr. P. Pajardi-A. Paluchowski, Manuale di diritto fallimentare7, Milano, 2008, 1121) e rispetto alle quali non trova tra l’altro applicazione – a giudizio di G. Silvestri, Liquidazione dell’attivo nelle procedure concorsuali e garanzia per i vizi della cosa, in Fallimento, 1983, 1105 – il disposto dell’art. 2922 c.c. in tema di esclusione della garanzia per vizi della cosa.
[27] 
Alquanto netto sul punto è A. Saletti, Tecniche ed effetti delle vendite forzate immobiliari, in Riv. dir. processuale, 2003, 1040 ss. Conf., in ordine alla generale possibilità di accordare conseguenze giuridiche coattive a vendite caratterizzate da strutture privatistiche quando esse avvengono all’interno di procedimenti di natura giurisdizionale esecutiva, parrebbe essere pure C. Ferri, op. cit., 437 ss. In precedenza l’osservazione era stata fatta propria altresì da V. Tavormina, Alcune riflessioni sulle vendite forzate nelle procedure concorsuali ‘‘amministrative’’, in Riv. dir. processuale, 1988, 622 ss.
Con specifico riguardo alle vendite fallimentari, v., in maniera altrettanto chiara, F. Fimmanò, La liquidazione dell’attivo nel correttivo alla riforma, in Dir. fall., 2007, I, 865, che espressamente ha affermato come dalla forma dell’atto di disposizione non possa dipendere la riconducibilità alla categoria dei trasferimenti coattivi.
[28] 
Questa è l’opinione di G. Bozza, op. ult. cit., 783.
[29] 
V. Cass., S.U., 16 luglio 2008, n. 19506, in Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 1310 - pubb. 07/09/2008. Conf. Cass. 14 marzo 2014, n. 6022, in Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 10554 - pubb. 09/06/2014.
[30] 
Si rinvia di nuovo a Cass., S.U., 16 luglio 2008, n. 19506, cit.
[31] 
V., tra gli altri, G.U. Tedeschi, Manuale del nuovo diritto fallimentare, Padova, 2006, 429 s.; L.A. Russo, La riforma della legge fallimentare e la tutela giurisdizionale dei diritti: la crisi del giudicato, in Dir. fall., 2007, I, 266 s.; A. Donvito, Le vendite immobiliari nel fallimento, in Giur. it., 2007, 780.
[32] 
Così A. Castagnola, op. cit., 384 sPer taluni contributi meno recenti in tema di equiparazione, quanto agli effetti coattivi, delle vendite privatistiche del curatore di cui all’art. 106 l. fall. (prev.) a quelle forzate dell’autorità giudiziaria, cfr., seppur con qualche sfumatura, V. Andrioli, Fallimento (dir. priv.), in Enc. dir., XVI, Milano, 1967, 440; A. Bonsignori, La liquidazione dell’attivo, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1976, 71 e 99 ss.; G. Silvestri, op. cit., 1103 s.; G. Bozza, La vendita dell’azienda nelle procedure concorsuali, Milano, 1988, 47, per il quale si trattava di vendite comunque autorizzate dal Giudice delegato e poste in essere dal Curatore in esecuzione di una funzione pubblica oltre che previste dalla norma quale ulteriore possibilità rispetto alla vendita all’incanto.
Anche la giurisprudenza ha riconosciuto alle alienazioni mobiliari a trattativa privata natura di vendite forzata. In tal senso cfr. Cass. 2 aprile 1985, n. 2252, in Giur. comm., 1986, II, 409 ss.; Cass. 18 giugno 1997, n. 5466, in Fallimento, 1998, 267; Cass. 22 marzo 1999, n. 2649, in Giust. civ. mass., 1999, 639; Cass. 6 settembre 2006, n. 19142, in Fallimento, 2007, 157 ss., con nota di G. Federico, Natura giuridica della vendita fallimentare.
[33] 
In questa prospettiva cfr. F. Fimmanò, op. et loc. ult. cit., la cui conclusione è stata però oggetto di critica da parte di M. Fabiani, La “programmazione” della liquidazione del concordato preventivo da parte del debitore e la natura delle vendite concordatarie, cit., 919, in n. 84, in quanto una siffatta conclusione subordinerebbe la natura volontaria o forzata dell’atto di alienazione alla presenza o meno del giudice, quando invero «il profilo soggettivo non è qualificante». Un timido accenno, quale indice significativo della natura coattiva della vendita fallimentare, in termini di autorizzazione del programma di liquidazione ad opera del Giudice delegato, si rinviene pure in G. Federico, Natura giuridica della vendita fallimentare, in Fallimento, 2007, 162.
[34] 
In maniera particolarmente netta A. Bonsignori, L’esecuzione forzata3, Torino, 1996, 143.
[35] 
V., sul punto, A. Castagnola, op. cit., 388 s.
[36] 
Il rinvio è ancora agli insegnamenti, sul generale tema della purgazione, di A. Bonsignori, op. et loc. ult. cit. Il suddetto profilo è richiamato altresì da A. Castagnola, op. et loc. supra cit.
[37] 
È questo l’indirizzo sostenuto da P. Liccardo-G. Federico, Commento sub art. 108, in Il nuovo diritto fallimentare, commentario diretto da A. Jorio, coordinato da M. Fabiani, II, Bologna, 2007, 1805 s.; G. Federico, op. et loc. supra cit.; F. D’Aquino-R. Fontana, Commento sub art. 107, in La legge fallimentare. Commentario teorico-pratico, a cura di M. Ferro, Padova, 2007, 820; V. Zanichelli, La nuova disciplina del fallimento e delle altre procedure concorsuali dopo il d.lg. 12.9.2007, n. 159, Torino, 2008, 311; F. Fimmanò, Liquidazione programmata, salvaguardia dei valori aziendali e gestione riallocativa dell’impresa fallita, in Il nuovo diritto fallimentare, commentario sistematico diretto da A. Jorio - M. Fabiani, Bologna, 2010, 511 s.; nonché da L. Guglielmucci, Diritto fallimentare6, a cura di F. Padovini, Torino, 2014, 234 ss., il quale, tuttavia, ha ricordato come non si possano definire coattive le vendite riconducibili all’attività amministrativa del Curatore, alla stregua di quelle realizzate in sede di esercizio provvisorio autorizzato a norma dell’art. 104 l. fall. e quelle effettuate in esecuzione di un contratto preliminare in cui il medesimo sia subentrato ex art. 72 l. fall. 
Nel solco di un siffatto indirizzo si colloca inoltre M. Montanari, Note sparse sulle istruzioni del Tribunale di Milano in materia di liquidazione dei beni del fallito, in Giur. comm., 2008, II, 755, per il quale la qualificazione di vendita forzata o giudiziale si rinviene nel fatto che la stessa è espressione del realizzo di un «potere di iurisdictio esecutiva» che, pur essendo esclusivo del giudice, verrebbe – attraverso l’autorizzazione rilasciata da quest’ultimo – sub delegato al curatore medesimo il quale, non essendo per l’appunto un organo giurisdizionale, necessita, per poterlo esercitare, di avvalersi di strumenti di carattere privatistico come le vendite a forma privata.
[38] 
V., sul punto, M. Fabiani, op. ult. cit., 920.
[39] 
V. retro, paragrafo 2.
[40] 
Sull’argomento F. Lamanna, Speciale Decreto “Contendibilità e soluzioni finanziarie” n. 83/2015: concordato preventivo – “Proposte/piani” ed “offerte” concorrenti, in IlFallimentarista, 29 giugno 2015, 16 s., osserva come nonostante l’improprietà lessicale del disposto dell’art. 182, comma 5, l. fall. – data dal fatto che, nel riferirsi alle vendite, alle cessioni e ai trasferimenti legalmente posti in essere dopo il deposito della domanda di concordato, esso utilizza il participio passato – tale norma estenda l’applicabilità degli artt. da 105 a 108-ter l. fall. alle alienazioni da effettuare e non unicamente a quelle già avvenute.
[41] 
V. Cass. 9 luglio 1968, n. 2354, in Giust. civ., 1968, II, 1971 ss. e spec. 1973, che in origine aveva escluso il trasferimento anticipato della totalità dei beni, non ritenendo legittima l’autorizzazione da parte del Giudice alla vendita in assenza della definizione delle modalità di liquidazione del patrimonio, seguita da Cass. 15 gennaio 1985, n. 64, in Banca borsa, 1986, 1 ss., che aveva mantenuto il principio del divieto della alienazione dell’intero patrimonio del debitore dal quale erano escluse le sottoscrizioni di contratti di vendita di prodotti e di leasing immobiliare e mobiliare. 
[42] 
In questa direzione, per la giurisprudenza di merito formatasi in un tempo in cui non si era ancora giunti alla riforma del 2005, cfr. Trib. Verona 6 marzo 1991, in Dir. fall., 1992, II, 818 e 825; Trib. Verona 18 marzo 1991, in Giust. civ., 1991, 1825 ss. e spec. 1829, il quale aveva abbracciato la legittimità della alienazione dell’intero complesso aziendale (immobili inclusi) ante omologazione in funzione della migliore tutela del ceto creditorio, ferma restando l’autorizzazione del Giudice delegato in ragione, da un lato, dello «spossessamento attenuato» del patrimonio dell’imprenditore in sede di concordato e, dall’altro, del dettato dell’art. 167 l. fall. che autorizzava gli atti alienativi di immobili laddove fossero vantaggiosi per la procedura e, in generale, sottoponeva al vaglio di detta autorità giudiziaria le operazioni eccedenti l’ordinaria amministrazione, di talché nessun atto sarebbe stato in assoluto vietato. Sulla alienazione ante sentenza di omologazione di un ramo d’azienda (privo di beni immobili) del debitore in concordato v. Trib. Napoli 19 maggio 1992, in Dir. fall., 1992, II, 1103 ss., con nota adesiva di M. Di Lauro, La vendita dell’azienda nel concordato preventivo con garanzia
In precedenza, avevano tra l’altro già aderito ad un siffatto indirizzo anche Trib. Milano 5 dicembre 1984, in Fallimento, 1985, 227, che aveva autorizzato la liquidazione dei beni del patrimonio del debitore, qualora disposta dal Giudice delegato, prima dell’omologazione del concordato preventivo; Trib. Reggio Emilia 28 gennaio 1980, in Fallimento, 1980, 979 s., nella parte in cui aveva ammesso, in sede di concordato preventivo, la vendita di tutti i beni componenti il complesso aziendale; Trib. Lucca 26 luglio 1979, in Fallimento, 1980, 713 ss., nonché 722 ss.; Trib. Monza 21 novembre 1969, in Giur. it., 1970, I, 2, 795 ss., seppure in ambito di amministrazione controllata, sul presupposto che gli atti alienativi dei beni aziendali fossero finalizzati a ripristinare la solvibilità del debitore. 
Particolare è la posizione assunta da Trib. Roma 5 ottobre 1992, in Fallimento, 1993, 405 ss., con nota di L. Panzani, Quando le dimensioni “fanno” giurisprudenza: il caso Federconsorzi, che, in sede di concordato preventivo per cessione dei beni, nel ripercorrere il decisum di Cass. 9 luglio 1968, n. 2354 e quello di Cass. 15 gennaio 1985, n. 64, ha ritenuto inammissibile la vendita anticipata dell’intero patrimonio del debitore concordatario (si trattava del caso Federconsorzi), affermando come la stessa potesse, però, avvenire in presenza di ragioni di eccezionalità da valutare qualora vi fosse un attuale e grave pericolo di perdita del valore del bene.
[43] 
A tal fine si segnalano ex multis: G. Lo Cascio, La vendita dell’azienda nel concordato preventivo, in Giust. civ., 1991, 1832, il quale aveva osservato come, in presenza di condizioni vantaggiose per cedere l’azienda nel suo complesso unitario, sia il debitore sia gli organi della procedura soggiacevano all’obbligo di procedere al fine del più rapido soddisfacimento del ceto creditorio, anziché attendere gli esiti della incerta fase liquidatoria, rientrando tale vendita tra gli atti di straordinaria amministrazione ex art. 167 l. fall. sottoposti all’autorizzazione del Giudice delegato in funzione di garanzia per i creditori; Idem, Il concordato preventivo6, cit., 417 s.; Idem, La vendita dell’azienda nel nuovo concordato preventivo, in Fallimento, 2012, 340 s.; M. Lazzera, Vendita d’azienda e concordato preventivo, in Dir. fall., 1992, II, 823 s., unitamente alla copiosa dottrina citata dall’Autore; L. Panzani, Quando le dimensioni “fanno” giurisprudenza: il caso Federconsorzi, in Fallimento, 1993, 434, il quale non aveva riscontrato differenze tra la vendita dei beni ante o post omologazione nella misura in cui anche nel primo caso il ricavato fosse stato versato a favore della massa dei creditori e fermo restando il controllo degli organi della procedura; G.U. Tedeschi, op. ult. cit., 551 s.; M. Caffi, Il concordato preventivo, in Il diritto fallimentare riformato, a cura di G. Schiano Di Pepe, Padova, 2007, 631 s.; L. D’Orazio, L’affitto d’azienda prima della omologazione, in S. Pacchi-L. D’Orazio-A. Coppola, Il concordato preventivo, in Le riforme della legge fallimentare, a cura di A. Didone, Torino, 2009, 1870; M.M. Gaeta, Effetti del concordato preventivo, in Fallimento ed altre procedure concorsuali, a cura di G. Fauceglia-L. Panzani, Padova, 2009, III, 1651 s.; L. Stanghellini, Il concordato con continuità aziendale, in Fallimento, 2013, 1235 ss., il quale aveva concluso per l’ammissibilità della cessione o del conferimento d’azienda sia successivamente all’adozione del decreto ex art. 163 l. fall. – con la precisazione che, trattandosi di atti di straordinaria amministrazione, i medesimi avrebbero dovuto essere autorizzati ai sensi dell’art. 167, comma 2, l. fall., laddove rispondenti agli interessi dei creditori ed in grado, per quanto atteneva alla vendita, di assicurare, mediante procedura competitiva, il miglior prezzo possibile – sia nella fase che precedeva l’emanazione del suddetto decreto, quale atto urgente ex art. 161, comma 7, l. fall. da realizzarsi nell’interesse del ceto creditorio. L’applicazione delle modalità competitive di cui all’art. 182 l. fall. agli atti liquidatori effettuati dall’imprenditore sotto la vigilanza del commissario giudiziale prima dell’esecuzione della proposta concordataria era stata sostenuta, antecedentemente alla novella del 2015, pure da F. Pedoja, La fase esecutiva del piano concordatario, in Fallimenti e Società, 2014, 6.
[44] 
V. Cass. 14 marzo 2016, n. 4977, in Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 14870 - pubb. 29/04/2016, la quale ha affermato che il rapporto processuale concordatario si instaura sin dal deposito della domanda ex art. 161 l. fall. Conf. Cass. 12 marzo 2020, n. 7117 (ord.), in Dir. e giustizia online, 2020, 1 ss., con nota di V. Papagni, L’abuso del preconcordato: la finalità dilatoria va dimostrata.
[45] 
Conf. è la posizione di F. Pedoja, La fase esecutiva del piano concordatario alla luce della riforma legislativa d.l. 83/2015, in Fallimenti e Società, 2015, 10, a giudizio del quale l’unica nota positiva dell’introduzione del disposto di cui al comma 5 dell’art. 182 l. fall. è costituita dal venir meno della necessità di ricorrere ad affitti interinali d’azienda in attesa della sua cessione e, di conseguenza, della connessa problematica attinente alla compatibilità o meno dell’istituto dell’affitto d’azienda con la continuazione pura.
[46] 
Analogo valore sostitutivo della votazione del ceto creditorio viene riconosciuto da Trib. Padova 6 marzo 2015, in Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 12291 - pubb. 23/03/2015, il quale ha ritenuto che la presentazione, nella fase della riserva, di una richiesta di autorizzazione alla liquidazione del patrimonio del debitore ricorrente, «avendo natura chiaramente anticipatoria rispetto alla liquidazione post omologa, richieda al Tribunale di sostituirsi con la propria valutazione al voto dei creditori, che ancora non si sono espressi sulla proposta e, anzi, ancora non hanno potuto esaminare alcuna proposta», precisando altresì che a guidare il Tribunale in tale operato deve essere l’obiettivo di offrire la miglior tutela degli interessi dei creditori medesimi, «in sostituzione [dei quali il primo] è chiamato ad esprimersi». 
[47] 
Per il cui testo integrale si rinvia a https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32019L1023&from=IT.
[48] 
In questi esatti termini cfr. Cass. 3 gennaio 2020, n. 15, in Giust. civ. mass., 2020; Cass. 21 ottobre 2019, n. 26808, in Banche dati Dejure; Cass. 6 aprile 2018, n. 8539, in Giust. civ. mass., 2018; Cass. 30 marzo 2018, n. 8055, in Giust. civ. mass., 2018; Cass. 12 marzo 2013, n. 6107, in Banche dati Dejure; Cass. 19 febbraio 2004, n. 11318, in Giur. it., 2005, 81 ss., con nota di O. Cipolla, Cessione, affitto, restituzione d’azienda: brevi note sulla sorte di debiti e contratti; Cass. 20 luglio 1991, n. 8121, in Foro it., 1992, I, 3364, che aveva parlato di applicazione dell’art. 2560 c.c. ai «debiti “puri”» che si originavano da contratti a prestazioni corrispettive in cui una delle due controprestazioni fosse stata eseguita. In epoca più risalente cfr. pure Cass. 29 gennaio 1979, n. 632, in Foro it., 1979, I, 1818 ss., con osservazioni di A. Jannarelli. 
La suddetta tesi è stata fatta propria anche dalle Corti di merito – cfr. App. Napoli 13 luglio 2007, in Rep. giur. it., 2007, voce Azienda, n. 53; Trib. Milano 3 marzo 2008, in Giur. it., 2009, 393 ss., con osservazioni di S. Balzola – e accolta pienamente dalla letteratura. Sull’argomento, v. G. Ferrari, voce Azienda, in Enc. dir., IV, Milano, 1959, 717 s.; D. Rubino, La compravendita2, in Tratt. Cicu-Messineo, XXIII, Milano, 1962, 159; M. Cian, Trasferimento d’azienda e successione nei rapporti rappresentativi, Milano, 1999, 247 s.; F. Galgano, Diritto civile e commerciale3. L’impresa e le società, III, Padova, 1999, 98; F. Ferrara Jr.-F. Corsi, Gli imprenditori e le società11, Milano, 1999, 170; G.F. Campobasso, Diritto commerciale5. 1. Diritto dell’impresa, Torino, 2006, 155; G.U. Tedeschi, L’azienda, in Tratt. Rescigno2, Torino, 2012, n. 16, 110. 
[49] 
G.E. Colombo, Contratti, crediti e debiti nel trasferimento dell’azienda in piena titolarità, in Tratt. Galgano, III, L’azienda e il mercato, Padova, 1979, 139. Diversa è invece la posizione assunta da M. Casanova, voce Azienda, in Dig. It., sez. comm., II, Torino, 1987, 93, che parla di implicito riconoscimento di un trasferimento ex lege dei debiti. Anche G. Racugno, Debiti e scritture contabili nel trasferimento d’azienda, in Giur. comm., 2013, II, 1005, propende per ritenere che ‹‹la titolarità dei debiti inerenti la cessione transita in capo al cessionario›› venendo la responsabilità solidale del cedente ad assumere natura di garanzia.
[50] 
Ossia il libro giornale, il libro degli inventari e le altre scritture che siano richieste dalla natura e dalle dimensioni dell’impresa non rilevando – secondo Cass. 3 marzo 1994, n. 2108, in Giust. civ. mass., 1994, 255 – i registri ai fini dell’imposta sul valore aggiunto, che avrebbero importanza esclusivamente sotto il profilo tributario.
[51] 
G.E. Colombo, op. ult. cit., 147 s. L’Autore, in relazione al conflitto fra l’interesse dei creditori aziendali a conservare la propria fonte di garanzia primaria e quello del compratore a non essere esposto a richieste di pagamento di debiti di cui non aveva, al tempo dell’acquisto, notizia, né avrebbe dovuto averne, ha ritenuto che il legislatore abbia scelto di accordare preferenza al secondo. Già prima pure A. Fontana, La successione dell’imprenditore nel rapporto di lavoro, Milano, 1970, 472, si era soffermato sul valore fondante e costitutivo delle registrazioni contabili, ricordando come fosse in realtà negata valenza giuridica «alla conoscenza di debiti inerenti all’azienda che l’acquirente [avesse] desunto aliunde». In argomento cfr., pure, A. Nigro, voce Libri e scritture contabili, 1) Diritto commerciale, in Enc. giur. Treccani, XIX, Roma, 1990, 5; nonché F. Martorano, L’azienda, in Tratt. Buonocore, Torino, 2010, 234 ss. Più recentemente G. Remotti, L’art. 2560 comma 2 c.c. tra “esegesi funzionale” e “stretta interpretazione” nel prisma degli interessi, in Giur. comm., 2020, II, 726 s., si è espresso in termini di eccezionalità della disciplina contenuta nel comma 2 dell’art. 2560 c.c., dovendosi da ciò ritrarre, quale conseguenza, che la presunzione ivi prevista debba considerarsi iuris et de iure agendo proprio sul livello costitutivo della fattispecie.
Contra la preminenza della «teoria dell’efficacia costitutiva dell’appostazione contabile»pare essere C. Caccavale, La responsabilità per i debiti dell’azienda ceduta, Napoli, 2016, 86 s., poiché, ad avviso dell’Autore, la tutela dei creditori deve essere conseguita indipendentemente dalla risultanza dei propri crediti dai libri contabili richiesti dalla legge.
Anche la giurisprudenza ha da tempo considerato la sussistenza del debito nelle scritture contabili elemento costitutivo della responsabilità del cessionario, non essendo sufficiente la mera conoscibilità da parte dell’acquirente. In questi termini v. Cass. 17 maggio 1971, n. 1454, in Giust. civ. mass., 1971, 786 s. L’orientamento è stato fatto proprio altresì di recente. Così Cass. 20 giugno 1998, n. 6173, in Banche dati Dejure; Cass. 3 aprile 2002, n. 4726, in Giust. civ. mass., 2002, 573; Cass. 9 ottobre 2009, n. 21481, in Giur. comm., 2011, II, 118 ss., con nota di R. Rais, Cessione d’azienda e responsabilità per i debiti ceduti; Cass. 3 dicembre 2009, n, 25403, in Foro it., 2010, 2499 s.; Cass. 10 novembre 2010, n. 22831, in Giust. civ. mass., 2010, 1428; Cass. 26 settembre 2017, n. 22418, in Giust. civ. mass., 2017; Cass. 26 settembre 2019, n. 24101, in Banche dati Dejure; Cass. 3 settembre 2021, n. 23881, in Giust. civ. mass., 2021. 
Il principio in esame ha per di più trovato conferma in Cass., S.U., 28 febbraio 2017, n. 5054, in Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 17012 - pubb. 01/04/2017, la quale ha espressamente escluso che la responsabilità del cessionario possa farsi discendere dalla semplice conoscenza, attraverso i libri contabili obbligatori, della sussistenza di un rapporto contrattuale del cedente con un terzo in grado di originare, sotto il profilo genetico, un successivo debito da annotare in contabilità.
Analogamente in ulteriori pronunce il Supremo Collegio – cfr. Cass. 20 febbraio 1999, n. 1429, in Giust. civ. mass., 1999, 364 s.; Cass. 15 novembre 2000, n. 14823, in Giust. civ. mass., 2000, 2336; Cass. 9 marzo 2006, n. 5123, in Giust. civ. mass., 2006, 622 s.; Cass. 7 ottobre 2020, n. 21561, in Giur. comm., 2021, II, 778 ss. con nota di M. Spiotta, Sulla responsabilità del cessionario d’azienda. Non sempre conoscere fa la differenza – è giunto ad affermare che l’inesistenza dei libri contabili, a prescindere dalla ragione sottostante, rende impossibile l’elemento costitutivo della responsabilità del cessionario d’azienda. 
Di recente il giudice della nomofilachia è, peraltro, tornato sul tema del valore da assegnare all’annotazione del debito nelle scritture contabili posizionandosi sul versante del rilievo più propriamente probatorio, non escludendo, però, che la conoscenza del debito da parte del cessionario possa così derivare anche da una diversa fonte rispetto a quella dei libri obbligatori, in considerazione della preminente finalità di salvaguardare la tutela effettiva del soggetto creditore. In questa direzione cfr. Cass. 10 dicembre 2019, n. 32134, in Giur. comm., 2020, II, 714 ss., con nota di G. Remotti, L’art. 2560 comma 2 c.c. tra “esegesi funzionale” e “stretta interpretazione” nel prisma degli interessi, le cui osservazioni sono state successivamente riprese da Cass. 6 luglio 2020, n. 13903, in Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 23882 - pubb. 21/07/2020.
[52] 
In tal senso v. C. Caccavale, op. cit., 18.
[53] 
Così, di nuovo, G.E. Colombo, op. ult. cit., 150 s.
Altri Autori hanno cercato di dare spiegazione alla previsione dell’art. 2560, comma 2, c.c. sia collegando la stessa al «sistema generale dei trasferimenti d’azienda», che provoca la successione nella titolarità dell’impresa e dunque nelle situazioni di fatto, nei rapporti contrattuali, nei crediti e nei debiti, sia congiungendola al comma 1 della medesima norma il quale, disponendo che il venditore non è liberato, postula che a causa del trasferimento sia nato in modo automatico un nuovo debitore, ossia proprio l’acquirente dell’azienda. In tal senso M. Casanova, Impresa e azienda. (Le imprese commerciali), in Tratt. Vassalli, X, Torino, 1974, 831 ss. Particolarmente illuminante e chiaro è stato, in argomento, A. Balletta, Iscrizione dei debiti nei libri contabili obbligatori e successione nell’azienda, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1969, 710, a giudizio del quale nel negozio di cessione dell’azienda non vi è dubbio che la norma in esame dia luogo ad un subentro da parte del cessionario nel debito e non ad una mera garanzia di quest’ultimo. Per A. De Gregorio, Corso di diritto commerciale, I, Gli imprenditori, Roma-Napoli-Città di Castello, 1951, 58, l’azienda può definirsi una «universalità patrimoniale» non creata dalla legge ma da questa riconosciuta e disciplinata, comprendente in aggiunta ai beni altresì i rapporti giuridici e caratterizzata per di più da una «continua energia animatrice» rinvenibile nell’attività dell’imprenditore. Anche per L. Mossa, Trattato del nuovo diritto commerciale, I, Roma-Milano-Napoli, 1942, 372 ss., ed in particolare 374, la disposizione si giustificherebbe in considerazione del fatto che il cessionario diviene il nuovo soggetto obbligato e non un mero garante, sì che una tale «moltiplicazione delle obbligazioni» finisce per rendere maggiormente sicura l’impresa.
[54] 
È questa essenzialmente la risalente prospettiva di F. Ferrara Jr., La teoria giuridica dell’azienda2, Firenze, 1948, 131 e 358.
[55] 
Per una siffatta definizione si rinvia, ex plurimis, a A. Torrente-P. Schlesinger, Manuale di diritto privato22, a cura di F. Anelli-C. Granelli, Milano, 2015, 389.
[56] 
Che il titolare di un’obbligazione propter rem si liberi dal vincolo in oggetto solo cedendo il bene, dato che, per sua conformazione, detto obbligo circola con esso, è stato messo chiaramente in luce, tra i tanti, da F. Gazzoni, Manuale di diritto privato18, Napoli, 2017, 264.
[57] 
Per la verità rinvenibili in una applicazione analogica dell’art. 63, comma 5, d.lgs. n. 270/1999, in tema di alienazione del complesso produttivo nell’ambito del programma di cessione di cui all’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, laddove la norma espressamente prevedeva che «salva diversa convenzione, [era] esclusa la responsabilità dell’acquirente per i debiti relativi all’esercizio delle aziende cedute, anteriori al trasferimento».
[58] 
Si era espresso affermando che nel fallimento la cessione del complesso produttivo avveniva «senza il trasferimento all’acquirente dei debiti che gravavano sull’imprenditore fallito» A. Jorio, Le procedure concorsuali tra tutela del credito e salvaguardia dei processi produttivi, in Giur. comm., 1994, 499. In argomento cfr. pure M. Macchia, Il concordato preventivo – Seminario di studi. Esecuzione, in Fallimento, 1992, 302, che aveva negato il trapasso dei debiti aziendali in capo all’acquirente dell’azienda da parte del cedente in concordato, sul presupposto che l’art. 47, comma 5, l. 29 dicembre 1990, n. 428 – il quale testualmente escludeva l’applicabilità dell’art. 2112 c.c. in ipotesi di alienazione del complesso aziendale – costituisse espressione di un principio più generale. L’Autore si soffermava sulla circostanza che sarebbe stato privo di giustificazioni ammettere che il creditore si potesse soddisfare aggredendo il patrimonio di altri – nella specie il cessionario dell’azienda – quando il soddisfacimento delle sue pretese si estingueva per effetto del concordato in relazione alla parte che eccedeva quanto percepito ‹‹in sede di distribuzione del ricavato››. Anche G. Tarzia, L’alienazione dell’azienda nelle procedure concorsuali: profili giuridici, in Gestione e alienazione dell’azienda nelle procedure concorsuali, Atti del convegno S.i.s.co. del 17 novembre 1990, in Quaderni di Giur. comm., Milano, 1991, 128, aveva evidenziato come l’art. 2560, comma 2, c.c., non fosse applicabile a tutte le procedure concorsuali dovendosi, in caso contrario, sottrarre dal prezzo di cessione i debiti aziendali, con la conseguenza che, in ipotesi di supero del passivo rispetto al valore del complesso produttivo, la vendita non sarebbe stata neppure possibile. Molto più dettagliata era stata la posizione assunta ancor prima da G. Bozza, op. ult. cit., 111, 195 s. e 201 ss., il quale tra l’altro se, da un lato, aveva considerato la disciplina di cui all’art. 2560, comma 2, c.c. del tutto incompatibile «con la funzione della liquidazione fallimentare ed, in particolare, con l’effetto purgativo» dai gravami prodotto dalle vendite coattive ed inapplicabile alle cessioni d’azienda attuate nella fase successiva all’omologazione di un concordato preventivo con cessione dei beni – essendo, anche quelle in oggetto, vendite aventi natura coattiva ad effetto purgativo – dall’altro aveva ritenuto che i trasferimenti di complessi aziendali realizzati all’interno del concordato c.d. misto (che si caratterizzavano per il fatto che qualora la percentuale prefissata non si fosse raggiunta con la liquidazione degli asset la differenza veniva colmata mediante il ricavato dell’alienazione dei beni costituenti la garanzia reale o con l’escussione di quella personale di un terzo) e quelli posti in essere dal debitore concordatario in pendenza della procedura di concordato preventivo con cessione dei beni – intesa, dall’Autore, quale processo intercorrente tra il decreto di ammissione ed il provvedimento di omologazione – trovassero la propria regolamentazione nelle norme civilistiche dettate in tema di circolazione dell’azienda, ivi compreso il suddetto art. 2560 c.c., trattandosi, in entrambe le fattispecie, di trasferimenti negoziali.
Maggiormente dubbioso era invece stato M. Rescigno, Norme urgenti ed amministrazione straordinaria: la legge 9 giugno 1984, n. 212, in Giur. comm., 1987, 571, che, prima dell’entrata in vigore della l. 6 febbraio 1987, n. 19 – la quale all’art. 3 ha stabilito espressamente l’inapplicabilità dell’art. 2560 c.c. alle alienazioni di aziende poste in essere nell’amministrazione straordinaria – aveva espresso perplessità circa il fatto che la spiegazione di una siffatta deroga alla disposizione civilistica in ordine alla responsabilità patrimoniale per il cessionario dell’azienda potesse, nell’ambito di detta procedura, fondarsi sulla tutela del ceto creditorio, posto che il fine della procedura era piuttosto quello della salvaguardia e della conservazione dei complessi produttivi.
In giurisprudenza, cfr. App. Catania 6 aprile 1987, in Dir. fall., 1988, II, 51, che aveva escluso l’utilizzabilità del disposto dell’art. 2560, comma 2, c.c., con riguardo ai trasferimenti d’azienda eseguiti all’interno di una procedura concorsuale, nel caso di specie, quella di amministrazione straordinaria; nonché App. Bologna 6 febbraio 1993, in Fallimento, 1993, 780, ove la Corte aveva giudicato non applicabile il principio della responsabilità dell’acquirente per i debiti anteriori inerenti all’esercizio dell’impresa di cui all’art. 2560, comma 2, c.c. alle cessioni d’azienda perfezionate durante la liquidazione giudiziale conseguente all’omologazione del concordato preventivo.
[59] 
In termini di assoluta nettezza G.U. Tedeschi, Manuale del nuovo diritto fallimentare, cit., 568; affermazione ribadita successivamente dallo stesso Autore in Idem, L’azienda, cit., 2012, n. 16, 121.
[60] 
Con riferimento a siffatta argomentazione si veda B. Quatraro, L’esecuzione del concordato preventivo per cessione dei beni, in Aa.Vv., Le soluzioni concordate delle crisi d’impresa, Torino, 2007, 88, il quale osservava altresì come, mentre nell’ipotesi di creditore assistito da fidejussione, la posizione privilegiata allo stesso assicurata fosse anteriore al concordato e indipendente da quanto avvenuto in tal sede, nella corresponsabilità dell’acquirente ex art. 2560 c.c. era la cessione dell’azienda, quale atto compiuto in corso di procedura, a generare un privilegio in favore dei creditori concorsuali.
[61] 
Cfr. G.C.M. Rivolta, L’affitto e la vendita dell’azienda nel fallimento, Milano, 1973, 133 s., nella parte in cui, sulla base di tali considerazioni, sosteneva che con riguardo alla fattispecie della vendita fallimentare l’art. 2560 c.c. non trovasse applicazione.
[62] 
Così A. Jorio, Le crisi d’impresa - Il fallimento, in Tratt. Iudica-Zatti, Milano, 2000, 672. 
[63] 
Questa l’ampia riflessione compiuta da G.C.M. Rivolta, op. cit., 134 s., il quale aveva concluso che la sussistenza di entrambi i suddetti aspetti problematici non avrebbe potuto che interferire in senso negativo sulla vicenda circolatoria del complesso produttivo allontanando un eventuale soggetto interessato all’acquisto del medesimo. 
[64] 
L’intervenuta modifica ha altresì costituito l’occasione per ribadire da parte di taluni – v. A. Coppola, La fase esecutiva del concordato preventivo con cessione di beni in caso di nomina di uno o più liquidatori e del comitato dei creditori, in S. Pacchi-L. D’Orazio-A. Coppola, Il concordato preventivo, in Le riforme della legge fallimentare, a cura di A. Didone, Torino, 2009, 1926 – la correttezza dell’orientamento prevalente seguito nel vigore della vecchia legge fallimentare. 
[65] 
Sulle quali ci si soffermerà nel prosieguo. V., infra, paragrafo 8. 
[66] 
Di «interruzione della conseguenzialità logica e politico-legislativa dei principi» e di «deviazione dalle sue direttive generali» con riguardo alle norme eccezionali aveva parlato in epoca risalente E. Betti, Interpretazione della legge e degli atti giuridici. (Teoria generale e dogmatica), Milano, 1949, 87.
[67] 
Spesso la giurisprudenza si è mostrata incline a ritenere che dimostrare la sussistenza del debito nelle scritture contabili sia un onere della prova incombente sul creditore. In tal senso v. Cass. 20 giugno 1998, n. 6173, cit.; nonché Cass. 26 settembre 2017, n. 22418, cit.
Per un completo approfondimento sulla ratio di una simile previsione e sulla mancata equiparazione della conoscenza del debito da parte del cessionario alla registrazione, oltre che sulle diverse problematiche sorte in ordine alla irregolarità sostanziale e formale o alla omessa tenuta delle scritture contabili e sui riflessi in tema di responsabilità patrimoniale dell’acquirente del complesso produttivo cfr. G.E. Colombo, op. ult. cit., 144 ss.
[68] 
Che peraltro nell’esecuzione collettiva – la quale costituisce l’originaria sede della disposizione in commento – la prassi omette di tenere.
[69] 
Che quanto delineato da quest’ultimo articolo trovi applicazione anche nell’ambito dei trasferimenti coattivi è sottolineato tra i più anche da A. Caiafa, La legge fallimentare riformata e corretta, Padova, 2008, 593 ss., ed in particolare, 596; L. Panzani, La vendita dell’azienda nel fallimento, in Fallimento e altre procedure concorsuali, diretto da G. Fauceglia-L. Panzani, Torino, 2009, 1230; S. Masturzi, Vendita dell’azienda, di rami, di beni e rapporti in blocco, in C. Cavallini, Commentario alla legge fallimentare, Milano, 2010, 979, laddove riconosce alla disposizione in esame il carattere di norma imperativa e speciale. Pure L. Guglielmucci, op. ult. cit., 238, ritiene che la responsabilità del cessionario prevista dall’art. 2112 c.c. possa essere esclusa solo in forza di uno specifico accordo.
Contra G.U. Tedeschi, Manuale del nuovo diritto fallimentare, cit., 568, per il quale alle vendite compiute dal liquidatore in sede concordataria non trova applicazione l’art. 2112 c.c. sulla responsabilità dell’acquirente per i debiti nei confronti dei lavoratori dipendenti e con riguardo alla prosecuzione dei rapporti di lavoro.
[70] 
Il quale in ipotesi di vicenda circolatoria dell’azienda in seno ad una procedura concorsuale dispone la disapplicazione, nel rispetto di determinate condizioni, dell’art. 2112 c.c. al raggiungimento del previsto accordo sindacale. È alquanto evidente il trattamento di favore – colto per vero anche da D. Vattermoli, Vendita dell’azienda, di rami, di beni e rapporti in blocco, in La legge fallimentare dopo la riforma, a cura di A. Nigro-M. Sandulli-V. Santoro, Torino, 2010, 1462 – che il legislatore ha voluto riservare all’acquirente del complesso produttivo al fine di agevolare il trasferimento dell’azienda e conseguentemente anche il suo salvataggio. Detto diversamente, è questo l’aspetto che ha finito per prevalere rispetto alla tutela egoistica di ciascun singolo lavoratore dipendente. 
[71] 
Che attribuisce la possibilità alle parti, in occasione della consultazione sindacale relativa al trasferimento d’azienda, di raggiungere un accordo avente ad oggetto non solo il passaggio parziale dei lavoratori in capo al cessionario del complesso produttivo ma altresì «le ulteriori modifiche del rapporto di lavoro consentite dalle norme vigenti».
[72] 
Per una siffatta definizione di deroga cfr. N. Irti, L’età della decodificazione, Milano, 1979, 56. 
[73] 
Ritiene che l’argomento possa confermare il mancato esonero dell’acquirente dalla responsabilità per i debiti da lavoro dipendente F. Fimmanò, La liquidazione dell’attivo nel correttivo alla riforma, cit., 869 s. Del tutto persuasive sono pure le riflessioni svolte in argomento da L. Panzani, op. ult. cit., 1230 ss., nelle quali l’Autore reputa irrilevante – ai fini di sconfessare le conclusioni raggiunte in ordine alla responsabilità del cessionario per i debiti da lavoro dipendente – che la disapplicazione dell’art. 2112 c.c. da parte dell’art. 104-bis l. fall. si riferisca alla restituzione dell’azienda al termine del contratto di affitto e non alla vicenda circolatoria della stessa a titolo di cessione. 
[74] 
In epoca anteriore all’intervento riformatore del 2015, una parte della dottrina aveva a tal proposito ritenuto legittima la realizzazione, prima del decreto di cui all’art. 180 l. fall., di una cessione dell’azienda con esclusione della responsabilità di cui all’art. 2560, comma 2, c.c. – sempreché un simile trasferimento rispondesse a un interesse del ceto creditorio, fosse previsto dal piano e autorizzato dall’autorità giudiziaria – unicamente ricorrendo a un’applicazione analogica degli artt. 186-bis, comma 1 e comma 3, e 161, comma 7, l. fall. In tal senso v. M. Greggio, La cessione dell’azienda prima dell’omologa del concordato preventivo liquidatorio, in IlFallimentarista, 7 agosto 2015, 9, che aveva considerato questa conclusione ancora più fondata nell’ipotesi in cui il ceto creditorio avesse già approvato il piano di concordato, ma l’omologazione non fosse ancora divenuta definitiva a causa della pendenza, ad esempio, del procedimento di reclamo ex art. 183 l. fall. Diversamente, nel corso della fase di riserva del concordato, il sopra citato Autore riteneva, in considerazione dell’assenza del piano e della proposta, che la vendita dell’intera azienda o di rami essenziali della stessa dovesse essere autorizzata con la massima cautela, giungendo persino a postulare la necessità, in vista della tutela dei creditori sociali, di ricorrere a una procedura competitiva, ammettendo la stipula di un contratto d’affitto con opzione d’acquisto a favore del conduttore, da esercitarsi successivamente all’ammissione al concordato preventivo e in «conformità alle relative regole». 
Secondo un diverso orientamento, erano invece considerazioni di carattere sistematico a far desumere la disattivazione della responsabilità ex art. 2560, comma 2, c.c., in relazione alle vendite avvenute nel concordato preventivo, essendo insita in quest’ultima procedura la «sostituzione della tutela individuale con [quella] collettiva, sotto il controllo del giudice»: l’operatività, in sede concorsuale, della suddetta responsabilità avrebbe, in effetti, determinato un’alterazione delle posizioni dei creditori in quanto l’acquirente, dovendo soddisfare integralmente taluni di essi, si sarebbe reso disponibile a corrispondere un minor prezzo per l’azienda, con evidente danno per l’intero ceto creditorio. In questi termini cfr. L. Stanghellini, op. cit., 1236 s., a cui si rimanda per la citazione testuale. L’Autore concludeva peraltro per l’ammissibilità della cessione o del conferimento d’azienda sia dopo l’adozione del decreto ex art. 163 l. fall. – con la precisazione che, trattandosi di atto di straordinaria amministrazione, il medesimo avrebbe dovuto essere autorizzato ai sensi dell’art. 167, comma 2, l. fall., laddove rispondente agli interessi dei creditori ed idoneo, per quanto atteneva alla vendita, ad assicurare, mediante procedura competitiva, il miglior prezzo possibile – sia nella fase che precedeva l’emanazione del suddetto decreto, quale atto urgente ex art. 161, comma 7, l. fall., da realizzarsi nell’interesse del ceto creditorio.
In argomento era peraltro stato sostenuto che l’inoperatività dell’art. 2560, comma 2, c.c., in forza dell’opzione interpretativa al vaglio, si sarebbe inoltre potuta evincere anche dall’omogeneità di natura che accomunava la responsabilità del cessionario dell’azienda a quella del terzo convenuto in revocatoria, con la conseguenza che, come quest’ultima non poteva operare – stante il disposto dell’art. 67, comma 3, lett. d), l. fall. – rispetto agli atti autorizzati dal giudice nel corso del concordato preventivo, così si sarebbe dovuta ritenere inapplicabile pure la prima, essendo la tutela dei creditori collettiva anziché singola (il rinvio è ancora a L. Stanghellini, op. cit., 1237 s.).
[75] 
Come noto, nell’ambito dell’ordinamento concorsuale in genere e, per quanto qui rileva, dello statuto dell’impresa in concordato, le possibili soluzioni ai fini della conservazione della medesima sono essenzialmente due. La prima, costituita dalla c.d. continuità diretta, è orientata a ridurre l’indebitamento esistente sino a ricondurlo a livelli sostenibili e compatibili con la prosecuzione dell’attività economica nel tempo, senza addivenire a una modificazione soggettiva della titolarità dell’impresa grazie all’effetto conformativo sprigionato dal decreto di omologa. La seconda è caratterizzata da una continuità indiretta, volta a dar corso, mediante la cessione a terzi del complesso aziendale, ad un mutamento nell’assetto proprietario dell’impresa in grado di permettere ad essa di sopravvivere senza “il peso” delle precedenti obbligazioni rimaste inadempiute, le quali, in deroga alle disposizioni civilistiche di cui all’art. 2560 c.c., permangono in capo al cedente e non vengono traslate al nuovo titolare. 
[76] 
Sulla natura di blocco, sia esso di soli beni – quale l’azienda – o esclusivamente di rapporti giuridici – attivi o passivi – come entità contraddistinta da funzionalità omogenea rispetto all’attività dell’impresa bancaria si rinvia a F. Chiomenti, Cessione di prestito obbligazionario fra banche e scissione fra banche comprensiva di una cessione di prestito obbligazionario: sulla portata dell’art. 58 del T.U. bancario (una proposta di inquadramento), in Riv. dir. comm. e obbligazioni, 2000, I, 106.
[77] 
In questa prospettiva cfr. S. Bonfatti, La liquidazione dell’attivo, in S. Bonfatti-P.F. Censoni, Manuale di diritto fallimentare2, Padova, 2007, 339.
[78] 
La riflessione è stata colta da D. Vattermoli, L’esercizio dell’impresa, l’affitto d’azienda e la liquidazione dell’attivo, in A. Nigro - D. Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese. Le procedure concorsuali5, Bologna, 2021, 299. In passato, l’elaborazione dei tratti essenziali dell’azienda ai fini delle vicende circolatorie dei rami bancari aveva spinto D. La Licata, La cessione di rapporti giuridici “individuabili in blocco” nell’art. 58 del T.U. bancario, in Quaderni di ricerca giuridica della Consulenza legale-Banca d’Italia, n. 45, 1997, 11 s., ad affermare che l’oggetto del trasferimento era l’organizzazione dei rapporti nell’esercizio dell’attività d’impresa, non potendosi escludere quale oggetto della cessione anche «una pluralità di contratti ovvero di crediti o debiti».
[79] 
Sull’elaborazione del rapporto tra i concetti di azienda e impresa, cfr. il risalente ma alquanto illuminante spunto di F. Carnelutti, in Riv. dir. comm. e obbligazioni, 1942, I, 68. 
[80] 
L’espressione inerte è di G. Santoro-Passarelli, Trasferimento d’azienda e rapporto di lavoro, Torino, 2004, 4 s. L’Autore, nel ricostruire la concezione giuslavoristica del trasferimento d’azienda, ricorda come la dottrina commercialistica – nell’ambito dei rapporti tra questa e l’impresa – sia divisa fra coloro che ritengono che si tratti di due fenomeni indivisibili legati da un vincolo indissolubile di strumentalità che impedisce un’alienazione dell’uno in assenza dell’altro, tanto che il cessionario finirebbe per continuare ad esercitare l’impresa del cedente, e chi, per converso, nell’ammettere che l’azienda possa esistere anche senza l’impresa non intravede ostacoli a che sia ceduto il complesso produttivo per l’appunto inerte, a condizione che questo sia potenzialmente in grado di essere asservito all’esercizio dell’attività economica, con la conseguenza che nulla vieta che il cessionario possa essere rinvenuto altresì tra quei soggetti che non esercitano attività d’impresa.
[81] 
Al pari di quanto affermato da F. Carnelutti, op. et loc. supra cit., laddove ha ascritto il significato d’azienda alla statica del diritto e quello di impresa alla dinamica. In argomento si veda pure F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale8, I, Milano, 1950, 331, che ha reputato l’impresa non un «di più» dell’azienda, ma qualcosa di diverso, non potendo l’esercizio di essa, che è attività in vista di un fine, essere assimilato ai mezzi che compongono il complesso aziendale con cui tale attività viene svolta ed il suddetto fine perseguito.
[82] 
Così, tra i tanti, G. Auletta, Sub Art. 2555 c.c., in Comm. Scialoja-Branca, 1961, 1. Il termine impresa è, peraltro – secondo M. Casanova, op. ult. cit., 15 – derivato da quello di imprenditore. L’aspetto correlativo delle due espressioni in esame è messo in evidenza inoltre da V. Buonocore, L’imprenditore in generale, in Istituzioni di diritto commerciale8, a cura di V. Buonocore, Torino, 2009, 25, nella parte in cui osserva come l’individuazione dell’imprenditore avvenga in funzione dell’impresa e del suo esercizio, sicché quella del primo è anche e soprattutto definizione generale della seconda. Per G. Presti-G. Rescigno, Corso di diritto commerciale8, I, Bologna, 2017, 17, l’art. 2082 c.c., pur riferendosi all’imprenditore, delinea in realtà l’impresa, dal momento che la nozione del primo è ricavata «per relationem» da quest’ultima.
[83] 
Essendo qui verosimile che l’estensore della legge abbia inteso riferirsi alle alienazioni aventi ad oggetto l’organizzazione in forma d’impresa costituita, per l’appunto, da assetto organizzativo ed attività e, conseguentemente, a quelli che, con una terminologia solo apparentemente impropria, potrebbero essere chiamati “trasferimenti di imprese” o di “rami d’impresa”. In questi termini ci si permette di rinviare a L. Mandrioli, L’affitto d’azienda nel concordato preventivo, in Giur. comm., 2019, I, 364.
[84] 
M. Ghidini, Disciplina giuridica dell’impresa, Milano, 1950, 164 s. Che nella sostanza l’impresa coincida con l’azienda in esercizio è affermazione sostenuta pure da S. Ferrarini, L’impresa di navigazione, Milano, 1945, I, 39 s., che – considerando le due, rispettivamente, l’aspetto soggettivo ed oggettivo del medesimo fenomeno – ha fatto coincidere la seconda con il complesso organizzato di strumenti, personali e reali, e di rapporti nella sua oggettiva risultanza, e la prima con questo stesso complesso in esercizio.
Solo per sommi cenni, sull’ampio significato di azienda nel senso di insieme di elementi – quali beni, servizi, diritti, situazioni giuridiche e quindi anche diritti reali e di credito, nonché rapporti contrattuali in corso di esecuzione – predisposti in modo funzionale all’esercizio dell’impresa, v., senza pretesa di esaustività, G. Auletta, Note in tema di circolazione dell’azienda, in Riv. società, 1963, 479. Per un’approfondita digressione sui tratti ontologici del fenomeno in commento e sulla sua evoluzione storico-legislativa si rinvia a G.E. Colombo, L’azienda e il suo trasferimento, in Tratt. Galgano, III, L’azienda e il mercato, Padova, 1979, 1 ss. e 22 ss., il quale, diversamente da Auletta, ha affermato che i diritti e i rapporti contrattuali – in quanto differenti dal concetto giuridico di bene – «non sono elementi costituitivi dell’azienda», giacché quest’ultima resta tale altresì in loro assenza. Di realtà plurima insita nella nozione della fattispecie in commento ha parlato inoltre P. Spada, Lezione sull’azienda, in Aa.Vv., L’impresa, Milano, 1985, 50 e 55, il quale ha confermato la necessità di una organizzazione dei beni, assegnando al termine in questione il senso che si ritrae dall’art. 810 c.c. di cose che possono formare oggetto di diritti. Che l’avviamento rappresenti l’elemento essenziale dell’azienda e che sussista un complesso aziendale quando il medesimo venga avviato è pensiero di T. Ravà, Diritto industriale2, I, Torino, 1981, 277 e 414.
Tuttavia, nella consapevolezza che ripercorrere – con quel grado di dettaglio che la medesima meriterebbe – una completa rassegna in ordine alle differenti teorie orbitanti intorno alla figura in esame si finirebbe certamente per eccedere le finalità che si propone il presente contributo, non si può qui che rinviare alla compiuta ricostruzione svolta sul tema da G. Bonfante-G. Cottino, L’imprenditore, in Trattato di diritto commerciale, diretto da G. Cottino, Padova, 2001, 620 ss. 
Anche la Suprema Corte si è soffermata sul delineare il concetto di azienda ai fini del trasferimento individuandolo in una realtà autonoma, dotata di organizzazione, e caratterizzata in aggiunta da una realtà produttiva formata da una pluralità di elementi funzionalmente collegati tra di loro. In tal senso cfr. Cass. 17 dicembre 2004, n. 23496, in Giust. civ. mass., 2005, 100; Cass. 30 gennaio 2007, n. 1913, in Giust. civ. mass., 2007, 216 s.; Cass. 5 marzo 2008, n. 5932, in Giust. civ. mass., 2008, 361; Cass. 10 marzo 2009, n. 5709, in Giust. civ. mass., 2009, 417; Cass. 17 marzo 2009, n. 6452, in Giust. civ. mass., 2009, 468.
[85] 
Che, in forza di quanto precisato dalla Comunicazione della Banca d’Italia del 16 luglio 2001 nell’ambito dei chiarimenti forniti sull’art. 58 Tub, presentano, in relazione alle “cessioni aggregate” bancarie, un comune elemento distintivo da rinvenirsi nella forma tecnica, nei settori economici di destinazione, nella tipologia della controparte e nell’area territoriale, applicandosi detta norma in base all’effetto traslativo che viene originato secondo le Istruzioni contenute nella Circolare della Banca d’Italia n. 299/1999. 
[86] 
In tale ultima circostanza, infatti, poiché il valore insito nel contratto di leasing – pari alle somme già corrisposte dalla società in procedura – rappresenta una sorta di «valore attivo» del contratto a fronte del debito da corrispondere per i canoni scaduti e non pagati e per quelli di futura scadenza, potrebbe per il debitore concordatario prospettarsi interessante dar corso ad un accordo con la società di leasing ed il terzo capace di consentire a quest’ultimo, in occasione delle “cessioni aggregate”, di subentrare nel contratto, riconoscendo al procedimento il valore del negozio nel frattempo già anticipato.
[87] 
Che in ambito bancario i debiti siano prevalentemente costituiti da rapporti con i depositanti e che i medesimi assumano un valore ai fini dell’avviamento in quanto espressione di affidamento che il cliente ripone nell’istituto di credito è osservazione di U. Minneci, Trasferimento di azienda e regime dei debiti, Torino, 2007, 82. Da tempo la dottrina – v. R. Costi, L’ordinamento bancario3, Bologna, 1986, 668 – inquadra, infatti, i suddetti rapporti fra i veri e propri beni dell’azienda bancaria, dubitando che vi possa essere un trasferimento del complesso produttivo o di un ramo di esso in assenza degli stessi.
[88] 
Ha osservato come, in particolare, il comma 2 dell’art. 90 Tub, benché si tratti di una «eccezione rispetto alla regola», trovi ampia applicazione, avendo la gestione delle liquidazioni coatte amministrative bancarie privilegiato lo strumento delle cessioni d’azienda o di masse di patrimonio, R. Cercone, La liquidazione dell’attivo, in La nuova legge bancaria. Commentario, a cura di P. Ferro-Luzzi-G. Castaldi, Milano, 1996, 1425 e 1439, il quale ha inoltre evidenziato l’insufficienza della denominazione adottata dalle parti per qualificare un’operazione ai sensi dell’art. 90 Tub, dovendosi invero aver riguardo alla sostanza della stessa.
[89] 
Al pari di quanto asserito da R. Cercone, op. cit., 1454 ss. – che, tuttavia, non ha mancato di rilevare come tra la previsione normativa di cui all’art. 90, comma 2, Tub e l’art. 2560, comma 2, c.c. sussistano delle differenze, tra cui la circostanza che mentre quest’ultima si riferisce ai debiti contabilizzati la prima riguarda quelli ammessi a stato passivo – oltre che da V. Tusini Cottafavi, La liquidazione coatta amministrativa, in G. Boccuzzi, La crisi dell’impresa bancaria. Profili economici e giuridici, Milano, 1998, 304. Ha rappresentato come la ratio della mancata liberazione del cedente dalla responsabilità sia stata dettata dalla circostanza che ai sensi dell’art. 90 Tub si dà corso ad una liquidazione dell’attivo in sede concorsuale, quando invero l’art. 58 Tub si occupa della medesima ma sotto il profilo di una ristrutturazione aziendale, R. Calderazzi, Art. 90. Liquidazione dell’attivo, in Commento al Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, a cura di C. Costa, Torino, 2013, 890 s. Sulla permanenza in capo alla procedura di un obbligo di adempimento a favore del creditore con riferimento ai debiti oggetto di “trasferimento” si pronuncia pure S. Fortunato, Art. 90. Liquidazione dell’attivo, in Commentario al Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia 4, diretto da F. Capriglione, Padova, 2018, 1219.
[90] 
La natura derogatoria rispetto all’art. 2560 c.c. di quest’ultima norma aveva condotto la dottrina – v., sotto la previgente disciplina, M. Porzio, Il governo del credito, Napoli, 1976, 66 s.; G.B. Portale, «Sostituzione di un’azienda di credito ad un’altra nell’esercizio di una sede o filiale» e responsabilità per i debiti da revocatoria fallimentare di rimesse in conto corrente, in Banca borsa, 1989, I, 2 ss.; A. Jorio-S. Ambrosini, Cessione di azienda bancaria e responsabilità per debiti derivanti da azioni revocatorie di rimesse in conto corrente, in Giur. it., 2002, II, 1535 – a ritenere che la responsabilità patrimoniale del cessionario non trovasse applicazione in occasione di trasferimento di aziende bancarie.
[91] 
Questa la conclusione alla quale è giunto S. Bonfatti, Commento sub Art. 90. Liquidazione dell’attivo, in Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, a cura di F. Belli–G. Contento–A. Patroni Griffi–M. Porzio–V. Santoro, Bologna, 2003, 1503; nonché Idem, La liquidazione coatta amministrativa della banca, in Il fallimento e le altre procedure concorsuali2, diretto da L. Panzani, Torino, 2014, 1154. 
Ha concordato sulla circostanza che l’istituto di credito cedente venga in ogni caso liberato, qualora si verifichi una modificazione del lato passivo del rapporto obbligatorio, D. Vattermoli, Le cessioni ‹‹aggregate›› nella liquidazione coatta amministrativa delle banche, Milano, 2001, 182 s. Pure V. Calandra Buonaura, La disciplina delle crisi bancarie, in V. Calandra Buonaura-M. Perassi-C. Silvetti, La banca: l’impresa e i contratti, VI, in Trattato di diritto commerciale, diretto da G. Cottino, Padova, 2001, 307 s., ha messo in evidenza come la conservazione di una responsabilità in capo alla banca cedente finirebbe per allungare notevolmente i tempi di esecuzione della liquidazione coatta, essendo le obbligazioni discendenti dai saldi attivi di conto corrente rapporti destinati a proseguire nel tempo. Anche M. Perrino, Le cessioni in blocco nella liquidazione coatta bancaria, Torino, 2005, 303 ss., nonché 312 s., nel mettere in luce l’incongruità della sussistenza di un accollo privatistico a carattere cumulativo, propende per la liberazione della banca cedente. 
Sull’interesse del cliente alla conservazione del rapporto più che all’estinzione dell’obbligazione della banca nei rapporti di conto corrente bancario cfr. P. Ferro-Luzzi, Lezioni di diritto bancario, Torino, 1995, 147 s., laddove ha osservato che nelle operazioni così regolate il legislatore – a differenza delle disciplina del conto corrente ordinario di cui agli artt. 1823 ss. c.c. – ha posto l’accento non sull’esigibilità del saldo del correntista ma sul fatto che questi possa ‹‹disporre in qualsiasi momento delle somme risultanti a suo credito››.
[92] 
Che si configurerebbe unicamente in relazione a quelli sorti per titolo o causa successiva al deposito del ricorso di concordato preventivo, posto che per quelli cristallizzati alla medesima data sarebbe sostanzialmente irrilevante per il cessionario, sotto il profilo dell’impatto finanziario, pagare una somma diminuita del debito scaduto accollatosi ovvero corrispondere il prezzo integrale in assenza di assunzione di passività, stante l’anticipata scadenza – a seguito del richiamo disposto dall’art. 169 l. fall. all’art. 55 l. fall. – di tutti i debiti scaduti e non alla data di apertura del concorso. L’unica eccezione ad una siffatta regola potrebbe rinvenirsi nella facoltà di accollare un mutuo ipotecario ancora in ammortamento in forza della recente norma introdotta dal d.l. 24 agosto 2021 n. 118 (recante “Misure urgenti in materia di crisi d’impresa e di risanamento aziendale, nonché ulteriori misure urgenti in materia di giustizia”) – convertito con modificazioni dalla l. 21 ottobre 2021, n. 147 – che, intervenendo sul contenuto dell’art. 182-quinquies l. fall., ha concesso la possibilità al debitore concordatario, quando è prevista la continuazione dell’attività produttiva, di essere autorizzato dal Tribunale, in presenza di determinate condizioni, a proseguire in deroga al disposto dell’art. 55, comma 2, l. fall. nel pagamento delle rate a scadere per capitale e interessi del contratto di mutuo con garanzia reale gravante su beni strumentali all’esercizio dell’impresa. 
[93] 
La problematica inerente al “trasferimento” del trattamento di fine rapporto in sede di cessione d’azienda si origina dalla circostanza che il debitore concordatario resta obbligato per la quota di debito sussistente ante trasferimento del complesso produttivo. A tal proposito, il Supremo Collegio ha ritenuto che detto trattamento maturi in capo al lavoratore dipendente durante il contratto di lavoro e in modo progressivo in ragione dell’accantonamento annuale, essendo comunque la cessazione del rapporto una mera condizione di esigibilità del relativo credito. Al riguardo cfr. Cass. 14 agosto 2002, n. 12201, in Riv. dir. tributario, 2003, IV, 11, secondo cui il trattamento di fine rapporto si sostanzia – così come l’eventuale anticipazione sullo stesso – in un diritto di credito a pagamento differito che si accresce nel tempo in relazione al lavoro eseguito e all’ammontare della retribuzione dovuta oltre che degli accessori caratterizzati da natura retributiva; Cass. 5 agosto 2005, n. 16549, in Giust. civ. mass., 2005, 1821, laddove ha osservato come la figura in esame rappresenti un istituto di retribuzione differita il quale matura di anno in anno per mezzo di strumenti, come l’accantonamento e la rivalutazione. Anche a parere di Cass. 10 agosto 2005, n. 16826, in Riv. it. dir. lav., 2006, 373 ss., con nota di P. Sole, Sull’ammissibilità della cessione del t.f.r.: tra dubbi e riforme, la cessazione del rapporto di lavoro è mera condizione di esigibilità del credito di trattamento di fine rapporto, peraltro pure nella ipotesi di prestazione resa dal socio lavoratore di una società cooperativa. Sostanzialmente conf. Cass. 22 settembre 2011, n. 19291, in DL Riv. critica dir. lav., 2011, 951, che ha anch’essa statuito la ripartizione tra cedente e cessionario dell’azienda delle quote maturate e/o maturande alla data del trasferimento della stessa, ferma restando la responsabilità solidale per gli importi dovuti sino al momento della vendita del complesso produttivo, precisando che l’esigibilità del credito è in ogni caso rimandata al momento della fine del rapporto di lavoro dipendente. In argomento, v., inoltre, Cass. 11 settembre 2013, n. 20837, in Diritto e Giustizia online 2013, 12 settembre.
[94] 
V., retro n. 92. 
[95] 
Così Cass. 27 febbraio 2020, n. 5376 (ord.), inIl Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 24465 - pubb. 05/11/2020, la quale, in ipotesi di cessione dell’azienda, ha statuito come l’erogazione del trattamento di fine rapporto sia dovuta interamente dal datore di lavoro cessionario, che risponde direttamente per la parte sorta dopo la cessione e in via solidale per quella maturata in precedenza, mentre l’impresa cedente resta obbligata con riferimento alla somma dovuta prima dell’alienazione, in base all’accantonamento annuale, solo se sia venuto meno il contratto di lavoro. Tale conclusione è stata accolta in precedenza da Cass. 1° ottobre 2018, n. 23775, in Banche dati Dejure, laddove ha precisato che detto importo può essere ottenuto dal lavoratore dipendente esclusivamente al termine del rapporto di lavoro, anche in ragione del disposto dell’art. 2 della l. n. 297/1982 nella parte in cui, ai fini della applicazione della relativa tutela, menziona effettivamente la risoluzione di esso. Conf. al testo v. pure già Cass. 6 febbraio 2018, n. 2827, in Giust. civ. mass., 2018, ove ha identificato il termine iniziale di decorrenza della prescrizione del diritto in commento nell’istante in cui il rapporto di lavoro subordinato sia cessato. 
Il suddetto indirizzo era stato per la verità altresì oggetto di pronunce precedenti. Cfr. Cass. 18 febbraio 2010, n. 3894, in Giust. civ. mass., 2010, 232, che aveva sostenuto ciò richiamando l’art. 2120 c.c., in base a cui il diritto al suddetto trattamento sarebbe sorto al momento e in conseguenza della cessazione del rapporto lavorativo, quando era invece irrilevante, al fine di ipotizzare una diversa decorrenza, l’accantonamento annuale della quota del trattamento – in quanto mera modalità di calcolo del diritto – oppure l’anticipazione sul trattamento medesimo, vertendosi in tal caso nell’erogazione di somme provvisoriamente quantificate e non certe, tanto che la prescrizione di detto diritto sarebbe decorsa esclusivamente dalla cessazione del contratto di lavoro. Nel senso del testo v. inoltre Cass. 23 aprile 2009, n. 9695, in Giust. civ. mass., 2009, 675; Cass. 7 aprile 2006, n. 8191, in Giust. civ. mass., 2006, 975, che aveva evidenziato come nel corso del rapporto di lavoro si formasse solo un diritto di accertamento della quota maturata; Cass. 19 agosto 2005, n. 17043, in Giust. civ. mass., 2005, 1644, secondo cui l’art. 2120 c.c. conduceva a desumere che i crediti per le spettanze di fine rapporto maturavano, «([erano], cioè, esigibili)», al termine del contratto di lavoro. Sempre sulla scorta di questo dictum che si è andato progressivamente consolidando nel tempo, anche Cass. 17 dicembre 2003, n. 19309, in Giust. civ. mass. 2003, 2821, ribadiva che l’indennità in commento prendeva forma alla cessazione del rapporto ed era proporzionale alla durata di quest’ultimo oltre che alla retribuzione del lavoratore; nonché Cass. 27 agosto 1991, n. 9189, in Giust. civ. mass., 1991, 1268 ss., a giudizio della quale il diritto al trattamento di fine rapporto sarebbe sorto soltanto al momento della risoluzione del rapporto di lavoro e, in particolare, in caso di trasferimento di azienda e di prosecuzione del contratto dei dipendenti con il cessionario della medesima, unico debitore di esso doveva essere ritenuto colui che risultava titolare dell’impresa al tempo dello scioglimento del rapporto, anche per il periodo trascorso alle dipendenze del precedente datore di lavoro, sul presupposto che era in tale istante che maturava ed appariva determinabile nel suo importo il diritto del lavoratore, del quale era fatto costitutivo la cessazione del rapporto stesso.
[96] 
In questa prospettiva cfr. F. Fimmanò, Commento sub Art. 105. Vendita dell’azienda, di rami, di beni e rapporti in blocco, inIl nuovo diritto fallimentare, commentario diretto da A. Jorio, coordinato da M. Fabiani, Bologna, 2007, 1746. Il rilievo riportato in testo non è sfuggito neppure a L. Panzani, La tutela dei diritti nella liquidazione fallimentare, in La tutela dei diritti nella riforma fallimentare, a cura di M. Fabiani-S. Patti, Milano, 2006, 192.
[97] 
Conf. F. Fimmanò, La liquidazione dell’attivo nel correttivo alla riforma, cit., 869.
[98] 
Ai soli fini di completezza si segnala come le rilevanti ragioni di cui si è dato atto nel testo abbiano, invero, condotto il legislatore ad intervenire in sede di Amministrazione delle grandi imprese in crisi allo scopo di disapplicare la norma in esame. Infatti, a seguito delle modifiche apportate dalla l. 28 gennaio 2009, n. 2 di conversione del d.l. 29 novembre 2008, n. 185 all’art. 56 d. lgs. 270/1999, è stato previsto che agli effetti dell’art. 2112 c.c. non costituiscono trasferimenti d’azienda, di rami o di parti della stessa le alienazioni poste in essere in esecuzione di un programma di cessione dei complessi aziendali, ovvero, per le sole società operanti nel settore dei servizi pubblici essenziali, di cessione dei complessi di beni e contratti.
[99] 
Ciò è ricordato altresì, con riguardo alla vendita di azienda nella procedura di fallimento, da F. Fimmanò, op. et loc. ult. cit.
[100] 
Per un approfondimento della disposizione in esame si rinvia a C. Proto, Della vendita dell’attivo fallimentare, in Il diritto fallimentare riformato, a cura di G. Schiano di Pepe, Padova, 2007, 457. Sempre con riferimento alla dottrina che si è pronunciata sull’argomento, v. F. Iozzo, La liquidazione dell’attivo, in Aa.Vv., Le nuove procedure concorsuali, a cura di S. Ambrosini, Bologna, 2008, 261, nella parte in cui ha affermato che la ratio sottesa all’art. 105, comma 9, l. fall. è preordinata a far sì che il pagamento dei debiti accollati avvenga nei medesimi termini nei quali sarebbe effettuato in ambito fallimentare a seguito della ripartizione secondo distinte sottomasse. Il tema è stato affrontato anche da E. Bruschetta, La liquidazione dell’attivo-tipologie di vendite, in Aa.Vv., Le riforme della legge fallimentare, a cura di A. Didone, Torino, 2009, 1242, per il quale una eventuale lesione dell’ordine di graduazione comporterebbe addirittura la nullità del contratto ai sensi dell’art. 1418 c.c. per violazione di una norma imperativa. Ha messo in evidenza la rilevanza del fattore tempo, ritenendo che in particolare il diverso momento di soddisfacimento integri una diversità di trattamento lesiva del disposto dell’art. 105, comma 9, l. fall., D. Bonaccorsi di Patti, Note minime sulla vendita di azienda con pagamento del prezzo mediante accollo nel concordato preventivo (e su altre questioni), in Dir. fall., 2012, 706.
In giurisprudenza cfr. Trib. Roma 24 maggio 2012, in Dir. fall., 2012, 702 ss., con nota di D. Bonaccorsi di Patti, Note minime sulla vendita di azienda con pagamento del prezzo mediante accollo nel concordato preventivo (e su altre questioni), che ha statuito, a seguito dell’inosservanza alla par condicio creditorum, l’inammissibilità di una proposta concordataria che preveda l’accollo di taluni crediti privilegiati (nella specie vantati dai lavoratori dipendenti) quando invero risultino altri crediti privilegiati del medesimo grado (in particolare a titolo di trattamento di fine rapporto) e crediti prededucibili che sarebbero soddisfatti in tempi maggiormente dilazionati ad opera della procedura, posto che ad integrare detta violazione rilevano pure le differenti modalità temporali di soddisfacimento tra creditori del medesimo rango.
[101] 
Al pari di quanto ammette S. Bonfatti, op. ult. cit., 1157, in virtù della circostanza che la cessione di determinati aggregati presuppone la traslazione al cessionario unicamente delle passività inerenti a quel particolare ramo o a quella individuata filiale con esclusione pertanto delle restanti ovvero assumendo – sia in ipotesi di cessione integrale dell’azienda bancaria sia in quella di cessione parziale – solo una percentuale dell’ammontare complessivo di tutti i debiti risultanti dalle operazioni di verificazione e accertamento dei crediti, salvo poi ritenere non soddisfacente una siffatta soluzione in presenza di crediti privilegiati.
[102] 
Così D. Vattermoli, op. ult. cit., 170; nonché S. Bonfatti, Commento sub Art. 90. Liquidazione dell’attivo, cit., 1528. 
[103] 
Che ha introdotto la precisazione per cui ‹‹quando non ricorrono le condizioni per l'intervento dei sistemi di garanzia dei depositanti o l'intervento di questi è insufficiente, al fine di favorire lo svolgimento della liquidazione, la cessione può avere ad oggetto passività anche solo per una quota di ciascuna di esse››, affrettandosi, tuttavia, ad aggiungere che ‹‹resta in ogni caso fermo il rispetto della parità di trattamento dei creditori e del loro ordine di priorità››.
[104] 
Di liquidazione e al contempo di ripartizione dell’attivo – sostituendosi il cessionario al curatore fallimentare nel pagamento delle somme – parla, in campo fallimentare, D. Vattermoli, L’esercizio dell’impresa, l’affitto d’azienda e la liquidazione dell’attivo, cit., 300.
[105] 
Producendo la “cessione aggregata” stessa secondo taluni – v., in ambito delle cessioni bancarie, S. Bonfatti, op. ult. cit., 1489; Idem, La liquidazione coatta amministrativa della banca, cit., 1149 – una sorta di «fenomeno di compensazione tra il valore dell’attivo liquidabile ed il valore del passivo “accollato” al cessionario». Sulla funzione satisfattoria in sede di “cessione aggregata” dell’azienda bancaria si sono pronunciati anche G. Boccuzzi, La liquidazione coatta amministrativa, in Trattato delle procedure concorsuali, a cura di A. Jorio-B.N. Sassani, V, Milano, 2017, 1046, che ha affermato come il riparto a favore dei creditori venga sostituito dall’adempimento da parte del cessionario, e S. Fortunato, op. cit., 1214.
[106] 
Sul punto la dottrina non solo ha osservato che ai creditori oggetto di “aggregazione” non spetta il diritto di aderire – diversamente da quanto indicato dall’art. 1273 c.c. – all’accollo (v. S. Bonfatti, La liquidazione dell’attivo, cit., 340), ma ha addirittura negato – cfr. E. Bruschetta, op. et loc. supra cit. – che agli stessi venga riconosciuto il diritto di voto.
[107] 
A tutt’altre conclusioni giunge E. Bruschetta, Ibidem, secondo il cui giudizio l’accollo dovrebbe sempre ritenersi parziale o comunque questa dovrebbe essere la ‹‹unica ipotesi realistica››. La qual cosa si ricaverebbe, per l’Autore, dal fatto che, se l’accollo deve essere rispettoso del principio di graduazione, è perché il legislatore ipotizza che non tutti i crediti siano accollabili. Ma detta prospettiva non pare del tutto condivisibile, essendo possibile una prospettiva opposta, come potrebbe accadere in una esecuzione collettiva che soddisfacesse l’intero ceto creditorio o anche in un concordato preventivo che si prefiggesse una mera ristrutturazione finanziaria sotto forma di rinegoziazione delle scadenze dei debiti senza intervenire sull’entità del credito in termini di modificazione dell’originaria obbligazione concorsuale. 
[108] 
Ciò è da tempo segnalato dalla dottrina. Cfr., in ambito fallimentare, F. Fimmanò, Commento sub Art. 105. Vendita dell’azienda, di rami, di beni e rapporti in blocco, cit., 1747, che giustamente ha osservato come, al fine di evitare qualsiasi tipo di alterazione, occorrerebbe dar corso a una «prognosi postuma delle percentuali di riparto»; aspetto quest’ultimo alquanto difficile da prevedere con esattezza.
Già in passato, in tema di liquidazione coatta amministrativa degli istituti di credito, gli studiosi avevano iniziato ad interrogarsi sul mancato rispetto della par condicio creditorum nel caso di cessione parziale di attività e di passività, in ragione del fatto che la cessione sottraeva le medesime alle regole del concorso, mentre il principio di parità era osservato quando vi fosse una cessione integrale di passività e di attività. V. in tal senso A. Nigro, La disciplina delle crisi bancarie: la liquidazione coatta amministrativa, in Aa.Vv., Il T.U. bancario: esperienza e prospettive. L'ordinamento bancario e creditizio dopo la riforma: nuove regole e nuovi intermediari, Roma, 1996, 302. Che l’effettuazione di una “cessione” parziale del passivo unitamente al trasferimento di determinati asset potesse porsi in contrasto con la regola della parità di trattamento tra i creditori è osservazione colta pure da R. Cercone, op. cit., 1461 ss. Più recentemente, ancora in merito al suddetto dibattito, cfr. R. Calderazzi, op. cit., 893. 
Del pari, la giurisprudenza – v. Trib. Torino 2 febbraio 1996, in Banca borsa, 1997, II, 610 ss. – aveva ritenuto lecita la menomazione del principio della par condicio a fronte dell’atteggiamento di tolleranza tenuto dal legislatore verso la «conservazione e funzionalità del sistema creditizio» incoraggiato dall’art. 47 Cost.
[109] 
Sul cui tema v., amplius, L. Guglielmucci, op. ult. cit., 9 ss.; nonché più recentemente M. Fabiani, La par condicio creditorum al tempo del codice della crisi, in Questione Giustizia online, 2019. 
[110] 
Sulla portata innovativa della disposizione in esame cfr. F. Dimundo, Art. 2346 c.c. Emissione delle azioni, in Aa.Vv., La riforma del diritto societario, a cura di G. Lo Cascio, Milano, 2003, 7. Che lo schema introdotto dal legislatore della riforma si avvicini di molto a quello utilizzato nell’ambito dei conferimenti delle società di persone è osservazione colta pure da V. Santoro, Art. 2346 Emissione delle azioni, in Aa.Vv., La riforma delle società, a cura di M. Sandulli - V. Santoro, I, Torino, 2003, 129. Di «norma in bianco» capace di accogliere le varie ipotesi che la prassi operativa è in grado di creare parla invece C. Pasquariello, Art. 2346 – Emissione delle azioni, in Aa.Vv., Commentario delle società, a cura di G. Grippo, Torino, 2009, 326.
[111] 
Si tratta, come sottolineato – v. M. Erede, 2342-2343. (Conferimenti), in Aa.Vv., Commentario alla riforma delle società, diretto da P.G. Marchetti - L.A. Bianchi - F. Ghezzi - M. Notari, Milano, 2007, 393 – di un effetto non molto dissimile da quello tipico delle tecniche di ‹‹“bilanciamento”›› dei diversi interessi dei soci che caratterizzano coloro che conferiscono ‹‹utilità non imputabili a capitale››, da un lato, e chi apporta denaro, dall’altro. Che la differenza negativa tra la quota di capitale sottoscritta da un socio e il corrispondente conferimento eseguito dal medesimo possa essere colmata dall’apporto a capitale di un altro socio attraverso un conferimento eccedente rispetto alla partecipazione al capitale assegnata è osservazione pure di F. Tassinari, Art. 2342: Conferimenti, in Aa.Vv., Il nuovo diritto delle società, a cura di A. Maffei Alberti, I, Padova, 2005, 122. In termini di ‹‹personalizzazione dell’assegnazione di azione ai soci›› si è espresso anche C. Formica, Le novità della disciplina azionaria, in Aa.Vv., Il nuovo diritto delle società, a cura di A. Maffei Alberti, I, Padova, 2005, 168. 
[112] 
In questa direzione F. Fimmanò, op. ult. cit., 1769.
[113] 
Per una intuizione in tal senso v., con riguardo alle alienazioni fallimentari, M. Sandulli, Commento sub Art. 105. Vendita dell’azienda, di rami, di beni e rapporti in blocco, in La riforma della legge fallimentare, a cura di A. Nigro–M. Sandulli, Torino, 2006, 631.
[114] 
Sulla circostanza che l’art. 2560 c.c. sia applicabile anche in caso di conferimento cfr., in giurisprudenza, Cass. 28 settembre 2004, n. 19454, in Rep. Foro it., 2004, voce Azienda, n. 17, 705; nonché Cass. 29 settembre 2006, n. 21229, in Rep. Foro it., 2006, voce Azienda, n. 14, 729.
[115] 
È stato autorevolmente sostenuto che ci si trova dinanzi ad una lacuna del diritto non solo laddove all’interno di un dato ordinamento giuridico sia assente una norma (riconducibile a una disposizione) espressa a cui il giudice possa fare richiamo per risolvere una specifica questione, ma anche in «mancanza di una norma adeguata (opportuna o soddisfacente o giusta)». Cfr. in proposito N. Bobbio, voce Lacune del diritto, in Noviss. dig. it., IX, Torino, 1963, 422. Nel caso che ci occupa, l’assenza di una norma adatta a risolvere la vicenda in esame discende dal fatto che il legislatore, nel prevedere – attraverso il contenuto dell’art. 105, comma 4, l. fall. – l’esonero da responsabilità del cessionario d’azienda, ha omesso di disciplinare nello stesso modo la fattispecie sostanzialmente analoga del conferimento del complesso produttivo, generando quel fenomeno di insoddisfazione per cui «a fattispecie “sostanzialmente” eguali sono connesse conseguenza giuridicamente distinte». In questi esatti termini cfr. R. Guastini, Interpretare e argomentare, in Tratt. Cicu-Messineo, Milano, 2011, 134, laddove afferma che di lacuna assiologica è possibile discorrere quando il sistema giuridico sia privo non di una qualsivoglia norma, ma di una “giusta”. L’Autore in altra pubblicazione – v., Idem, L’interpretazione dei documenti normativi, in Tratt. Cicu-Messineo, Milano, 2004, 224 ss. – ha inoltre precisato che di “norma giusta” è possibile parlare quando l’emanazione della stessa è per l’appunto «richiesta da un’altra norma». È evidente come la disposizione che esonererebbe il conferitario dell’azienda sarebbe quindi richiesta, per esigenze di coerenza dell’ordinamento, proprio dall’art. 104, comma 4, l. fall. in tema di cessione d’azienda che disciplina un caso simile. 
[116] 
V. R. Guastini, voce Lacune del diritto, in Digesto civ., X, Torino, 1993, 277. 
[117] 
In tal senso cfr. R. Quadri, Dell’applicazione della legge in generale, Art. 10-15, in Comm. Scialoja-Branca, Disposizioni sulla legge in generale, Bologna-Roma, , 1974, 275.
[118] 
V. sul punto le affermazioni assai lontane nel tempo di P. Coppa-Zuccari, Diritto singolare e diritto territoriale. I. – Diritto singolare e diritto comune, Modena, 1915, 82 ss. e 86, che aveva definito speciale rispetto ad una regola superordinata quella che presentava tutti gli elementi costitutivi sussistenti anche nella seconda più alcuni aspetti, che di questa rappresentavano «svolgimento o continuazione», dato che la legge speciale integrava una «conseguenza o specificazione» di quella superordinata, la quale continuava a disciplinare la fattispecie concreta non da sola, però, bensì insieme alla norma speciale. Conf. al testo v. inoltre N. Bobbio, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, 168; N. Irti, op. cit., 45 s., laddove, dopo aver ricordato che i caratteri della norma generale si rinvengono inoltre in quella speciale e che questa vi apporta un connotato in più, ha messo in luce come la norma speciale limiti il campo di applicazione della regola generale che, in mancanza della prima, disciplinerebbe altresì i casi previsti da essa: rimossa la legge speciale, quella generale amplierebbe nuovamente la propria sfera di operatività, applicandosi pure alle ipotesi concrete che presentassero l’aspetto ulteriore e differenziale.
[119] 
La ricostruzione è in linea con le affermazioni di N. Irti, op. cit., 49, secondo il cui parere se la regola speciale si pone in linea con la coerenza interna alla norma generale ed aggiunge un ulteriore effetto, quella eccezionale «rompe la logica della norma regolare e introduce una propria e diversa logica». Più di recente, che per norma speciale (o derogatrice) si intenda quella che sottrae un sottogruppo di fattispecie alla regolamentazione prevista per quella specifica classe di fattispecie, cosicché la previsione speciale «restringe il campo di applicazione» di quella generale, v. A. Celotto, Fonti del diritto e antinomie, Torino, 2011, 96, il quale ha rinviato al contributo di Irti per la distinzione fra regole speciali ed eccezionali.
[120] 
Fra i primi fautori dell’elaborazione del concetto di norma eccezionale v. P. Coppa-Zuccari, op. cit., 82 ss. e 90, dove l’Autore rammentava come fosse essenziale che il diritto eccezionale negasse almeno parzialmente ciò che la norma generale statuiva e che dettasse nuove disposizioni chiaramente inconciliabili con quelle dettate da quest’ultima.
[121] 
Cfr. sul punto le riflessioni condotte da E. Betti, op. et loc. supra cit., e le relative citazioni riportate in testo. In argomento v. in aggiunta N. Irti, op. cit., 45 ss., laddove, dopo aver ricordato che i caratteri della norma generale si rinvengono altresì in quella speciale e che questa vi apporta un connotato in più, limitando la seconda il campo di applicazione della prima che, in sua assenza, si riespanderebbe, ha messo in luce che la norma speciale si distingue da quella eccezionale in quanto la prima aggiunge effetti ulteriori rispetto alla norma generale, mentre la seconda prevede differenti conseguenze giuridiche in confronto a quelle disposti dalla disciplina regolare. 
[122] 
Così P. Coppa-Zuccari, op. cit., 84 s. e 87.
[123] 
Sul punto, cfr. il pregevole contributo di N. Bobbio, voce Analogia, in Noviss. dig. it., Torino, 1968, I, 605 s. L’Autore ha ricordato che a fondamento della norma eccezionale vi è una certa ragione giustificativa, da ciò conseguendo il possibile ampliamento della suddetta disposizione anche ai casi non dalla medesima regolati ma nei quali si possa riscontrare la stessa ratio posta alla base della prima. 
Per i contributi meno recenti cfr. B. Windscheid, Lehrbuch des Pandektenrechts, trad. it., Diritto delle Pandette, Torino, 1925, 84 s., in testo ed in n. 1 e 3, che, dopo aver definito la norma eccezionale «“jus singulare”», ossia come diritto che non seguiva i principi riconosciuti e fatti propri dall’ordinamento, aveva, ormai parecchi decenni fa, ammesso l’interpretazione non solo estensiva ma altresì analogica del medesimo, pur specificando che quanto più era preciso e chiaro il precetto a cui la norma eccezionale derogava, tanto più importanti dovevano essere i motivi che giustificavano un’interpretazione analogica di essa; nonché V. Gueli, Il “diritto singolare” e il sistema giuridico, Milano, 1942, 48, che non aveva mancato di sottolineare la presenza, nella storia giuridica, di numerose ipotesi di norme nate, in origine, in contrapposizione a principi generali, che si erano in seguito trasformate esse stesse in disposizioni generali, così dimostrando la loro idoneità ad un’applicazione analogica. Di pari avviso era stato inoltre M.S. Giannini, L’analogia giuridica, in Jus, 1942, 65 ss., per il quale anche alla norma eccezionale era possibile estendere l’integrazione analogica «mediante ricorso ai principi del sistema particolare in cui essa rientra[va]»; essendo tale procedimento interpretativo vietato solo per le norme «a fattispecie esclusiva», per tali intendendosi quelle previsioni che non erano poste in relazione di specie a genere rispetto ad altri principi che valevano come regole superiori, non ravvisandosi una necessaria sovrapposizione del primo tipo di previsioni – le norme eccezionali – con questa seconda vicenda. Nel caso di specie, poiché tra il contenuto di cui all’art. 2560 c.c. e quello dell’art. 105, comma 4, l. fall. può essere individuato un rapporto di genus a species, quest’ultima verrebbe a configurarsi – seguendo il ragionamento dell’Autore – quale norma eccezionale e non a fattispecie esclusiva e quindi sarebbe suscettibile di applicazione analogica. Pure per F. Grispigni, Diritto penale italiano2, I, Milano, 1952, 347, la norma eccezionale poteva a sua volta costituire una regola generale rispetto ad altre disposizioni, cosicché ‹‹nell’ambito dell’eccezione› era consentito fare ricorso all’analogia. 
In termini generali, anche L. Paladin, voce Eguaglianza (dir. cost.), in Enc. dir., XIV, Milano, 1965, 528, ha affermato che le disposizioni difformi dai principi possono avere natura universale, in ordine allo specifico tema giuridico da esse regolato. Secondo l’Autore, infatti, le norme speciali o eccezionali sono quelle che derogano non ai principi dell’ordinamento ma «alle norme generali della loro fattispecie», circostanza, questa, che accade sia laddove si riscontrino contraddizioni intestine al sistema o antinomie, sia nelle numerose ipotesi in cui una disposizione concerne una singola parte di un gruppo di rapporti, impedendo che a questi trovi applicazione un’altra regola potenzialmente idonea a disciplinare gli stessi nel loro complesso, e il fatto che si riconosca che quest’ultima regolamentazione è dotata di una tale forza espansiva è sufficiente per sostenere che le previsioni che la delimitano siano speciali o eccezionali, pur appartenendo ambedue le tipologie di norme «ad una classe giuridicamente comune». 
[124] 
Ci si riferisce al pensiero di R. Guastini, Le fonti del diritto e l’interpretazione, in Tratt. Iudica-Zatti, Milano, 1993, 439 – il quale ha sostenuto che l’art. 14 delle Preleggi ‹‹non vieta in generale l’analogia, ma offre agli interpreti uno strumento argomentativo preconfezionato per non fare applicazione analogica altresì là dove sarebbe possibile›› (dello stesso autore v., pure, Idem, Produzione e applicazione del diritto. Lezioni sulle «preleggi»2, cit., 97 s. e 100 – oltre che di R. Quadri, op. cit., 307 ss., laddove l’Autore ha posto in luce che il diritto singolare o eccezionale non può essere fatto oggetto di uno svolgimento logico e dunque di allargamento dell’ipotesi prevista nella norma eccezionale. In epoca risalente, anche F. Ferrara, Trattato di diritto civile italiano, I, Dottrine generali, Roma, 1921, 86, 88 s., aveva affermato come il diritto singolare, essendo «localizzato per la sua eccezionalità ai casi stabiliti››, non poteva ‹‹estendersi al di là» delle fattispecie diverse da quelle delineate dall’eccezione, dato che queste ricadevano all’interno del raggio d’azione della regola.
[125] 
Al pari di ciò che si rinviene in R. Guastini, Le fonti del diritto e l’interpretazione, cit., 439.
[126] 
È questo il caso di quanto asserito da F. Ferrara, op. et loc. supra cit.; oltre che da R. Quadri, op. et loc. supra cit.
[127] 
C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico8, Padova, 1969, I, 338. 
[128] 
Questa è la ricostruzione a cui si perviene seguendo le riflessioni di F. Modugno, Interpretazione giuridica2, Padova, 2012, 425 ss., che ha distinto le norme eccezionali «in senso lato» – come tali destinate a sottrarre alla norma generale tutte o anche solo alcune fattispecie su cui essa verte – da quelle «in un senso più stretto e specifico» – volte a derogare o sospendere una norma generale assunta solo dall’interprete quale norma principio – relegando il precetto contenuto nell’art. 14 delle Preleggi unicamente a queste ultime.
[129] 
Così N. Bobbio, op. ult. cit., 606. 
[130] 
Cfr. C.M. Bianca, Diritto civile. La norma giuridica – I soggetti, I, Milano, 2012, 108. 
[131] 
V. Cass., S.U., 27 luglio 2004, n. 14083, cit.
[132] 
La dottrina che si è formata nei primi anni successivi all’adozione dell’attuale Codice civile aveva, tra l’altro, negato che un diritto di prelazione nuovo potesse nascere anche laddove il bene oggetto di garanzia specifica fosse venuto meno. In questi termini cfr. V. Andrioli, Surrogazione dell’indennità alla cosa, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1945, 27, il quale a propria volta aveva criticato la tesi di F. Santoro Passarelli, La surrogazione reale, in Riv. it. scienze giur., 1926, I, 439, che al contrario aveva in precedenza ritenuto, in caso di perimento o espropriazione della res vincolata, che ai creditori privilegiati fosse riconosciuto – con riferimento alla norma del previgente Codice civile analoga all’attuale art. 2742 c.c. – un diritto di prelazione nuovo nei confronti dei creditori chirografari del debitore. 
[133] 
Ha reputato che il richiamo ad una possibile differente previsione inserita nel decreto di omologazione sia talmente generico da indurre a ritenere che il Tribunale possa, con siffatto provvedimento, «dettare le più svariate disposizioni sulla sorte delle efficienze trascrizionali ed iscrizionali», F. Lamanna, op. cit., 17. Sul punto v. inoltre M. Masciullo, Concordato con cessione di beni e atto di vendita in presenza di ipoteche e iscrizioni, in IlFallimentarista, 10 dicembre 2015, 2, secondo il quale, tenendo conto del tenore letterale dell’art. 182, comma 5, l. fall. ove si riferisce in modo generico alla figura del “giudice”, una simile norma potrebbe essere interpretata nel senso che non solo il Giudice delegato nell’ambito dell’esecuzione del concordato ma anche il Tribunale con il decreto di omologa potrebbe autorizzare la cancellazione, da parte del notaio rogante, degli eventuali vincoli gravanti sul bene oggetto di cessione.
[134] 
Il decreto di purgazione potrà essere rilasciato solo dopo che l’organo di nomina tribunalizia avrà provveduto a informare il giudice dell’intervenuta riscossione del prezzo, fornendogli inoltre tutti gli elementi dai quali desumere i gravami effettivamente esistenti e, pertanto, oggetto di cancellazione. Cfr., con riguardo alle vendite fallimentari, M. Mastrogiacomo, La liquidazione dell’attivo nel fallimento. Natura, effetti e modalità degli atti di realizzo fallimentare, Milano, 2007, 11, ove l’Autore si è espresso in termini di «chiara sintonia» del disposto dell’art. 108, comma 2, l. fall. con l’effetto purgativo determinato dalle vendite giudiziarie; D. Benzi, Cessione dei crediti e modalità delle vendite, in Fallimento e altre procedure concorsuali, diretto da G. Fauceglia-L. Panzani, Torino, 2009, 1260; P. Liccardo-G. Federico, Le modalità competitive della liquidazione concorsuale, in Il nuovo diritto fallimentare. Commentario sistematico, diretto da A. Jorio-M. Fabiani, Bologna, 2010,564 s., i quali si sono interrogati nello specifico in merito al legame sussistente tra l’incasso integrale del prezzo della vendita del bene gravato – così come tra l’acquisizione di garanzie che assicurino l’adempimento in tal senso da parte del soggetto aggiudicatario – e l’effetto purgativo che ne promana. Concorda nell’affermare che condizione essenziale per l’emanazione del provvedimento di cancellazione dei gravami sia, oltre all’avvenuto trasferimento della cosa, anche l’integrale pagamento, ad opera dell’aggiudicatario, del prezzo d’acquisto, M. Moramarco, Articolo 108. Poteri del giudice delegato, in La legge fallimentare dopo la riforma, a cura di A. Nigro-M. Sandulli-V. Santoro, Torino, 2010, 1518 s., laddove ha rilevato come il potere attribuito al Giudice delegato dall’attuale art. 108 l. fall., essendo del tutto autonomo e successivo rispetto al perfezionamento dell’alienazione, si contraddistingua da quello riconosciuto dall’art. 586 c.p.c. al Giudice dell’esecuzione.
[135] 
Al di fuori del contesto delle procedure concorsuali e dell’espropriazione forzata, è del tutto pacifico ritenere che la cancellazione dell’ipoteca, oltre a costituire una causa di estinzione di essa, rappresenti altresì un atto formale di obliterazione dell’iscrizione ipotecaria dai registri immobiliari a seguito della estinzione del relativo diritto, a cui il creditore soddisfatto è tenuto a prestare il proprio consenso, ma solo nel momento in cui è stato completamente soddisfatto. Sulla generale figura della cancellazione di ipoteca si rinvia, senza pretesa di esaustività, a B. Mariani, Della ipoteca immobiliare. Manuale teorico-pratico, Milano, 1958, 426 e 505 ss. In argomento v. pure C. Stingone, Actio negatoria e obbligo di prestare il consenso alla cancellazione dell’ipoteca, in Banca borsa, 1996, II, 319 ss., il quale riporta un’interessante digressione, a cui si rimanda, sulla natura dell’ipoteca e sulle caratteristiche della medesima; nonché C.M. Bianca, Diritto civile. Le garanzie reali – La prescrizione, Milano, 2012, 495, che ha evidenziato come, qualora il creditore non possa o non voglia prestare il proprio consenso, occorrerà promuovere un giudizio volto all’accertamento e alla declaratoria della estinzione del vincolo ipotecario con sentenza passata in giudicato ex art. 2884 c.c. 
In giurisprudenza cfr. Trib. Bari 22 marzo 1958, in Foro it., 1959, I, 693 ss., nella parte in cui ha statuito che l’estinzione del credito garantito dall’ipoteca provoca immediatamente l’estinzione di quest’ultima con portata erga omnes. Sull’obbligo in capo al creditore pagato di prestare il consenso alla cancellazione del gravame costituito a garanzia di proprietà di un terzo si è pronunciata pure Cass. 26 luglio 1994, n. 6958, in Banca borsa, 1996, II, 308 ss., con nota di C. Stingone, Actio negatoria e obbligo di prestare il consenso alla cancellazione dell’ipoteca.
[136] 
V. Cass. 19 febbraio 2016, n. 3324, in Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 14252 - pubb. 24/02/2016
[137] 
È questa la conclusione a cui giunge P.G. Cecchini, Concordato preventivo: le offerte concorrenti al microscopio, in Dir. fall., 2016, 1200 ss. 
[138] 
V. D. Galletti, Tutela del creditore privilegiato e vendita del bene vincolato nel concordato, in IlFallimentarista, 4 gennaio 2017, 2, il quale parrebbe propendere per la segregazione delle somme in un trust di scopo a favore del creditore privilegiato oppure per la costituzione di un vincolo di destinazione ex art. 2645-ter c.c.
[139] 
La soluzione è stata in origine escogitata – seppur con riferimento alla differente vicenda di un trasferimento, in ambito fallimentare, di un complesso produttivo gravato da ipoteca ad una newco – da L. Guglielmucci, Liquidazione dell’attivo fallimentare che preveda il conferimento dell’azienda in una newco e la successiva vendita dell’intero pacchetto azionario, in Contratto e impresa, 2008, 551, che ha ammesso la traslazione della prelazione dal bene originario a quello che verrebbe a sostituirsi post cessione del medesimo proprio sul presupposto del meccanismo della surrogazione reale.
La sussistenza, in materia di privilegi, del principio di tipicità sarebbe invero a giudizio di P.G. Cecchini, op. cit., 1201, di ostacolo all’applicazione di essa alla fattispecie che ci occupa, salvo che una previsione in tal senso sia stata espressamente convenuta tra le parti. L’Autore non ha mancato di osservare come la vicenda non sarebbe inoltre priva di problematiche con riguardo all’assenza di un meccanismo di pubblicità idoneo a fornire – ai fini dell’opponibilità ai terzi – conoscenza della esistenza del vincolo.
[140] 
Questa è la direzione verso cui sembrerebbe muoversi D. Galletti, op. ult. cit., 3, il quale in un successivo contributo – v. Idem, I proventi della continuità, come qualsiasi surplus concordatario, non sono liberamente distribuibili, in IlFallimentarista, 16 marzo 2020, 15 – nell’approfondire la questione della distribuibilità dei flussi del concordato preventivo in continuità, si è espresso affermando che il principio in questione opererebbe per il patrimonio separato in modo naturale (visione dinamica) mentre solo in via occasionale in caso di segregazione patrimoniale (visione statica) o per talune ipotesi di privilegio che gravano su beni destinati alla produzione. 

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