Come noto, l’ordinamento concorsuale contempla essenzialmente due strumenti deputati a serbare in funzione riallocativa, ad insolvenza accertata, l’avviamento e gli intangibles dell’azienda, quali attributi non autonomamente commerciabili, eppure cedibili insieme all’azienda, che loro tramite assume un valore esponenzialmente maggiore: l’esercizio provvisorio dell’impresa e l’affitto d’azienda (disciplinati ad oggi, rispettivamente, dagli artt. 104 e 104-bis L. fall.). Detti congegni ver- ranno riversati senza variazioni sostanziali nel nuovo C.C.I.; la staticità delle norme non è l’effetto confermativo della cesura fra processo fallimentare e mercato delle aziende insolventi, ma della circostanza che quegli istituti sono già allo stato percepiti come assolutamente moderni.
Il minimo comune denominatore che collega presente e futuro, legge fallimentare derivata dal biennio 2005-2007 e riforma concorsuale appena prodotta, e che nel- l’istituto dell’esercizio dell’impresa assurge a profilo tangibile, è l’abbandono del- l’endiadi insolvenza-dissoluzione, ossia del nesso immediato fra accertamento giudiziale dell’insolvenza e disfacimento dell’impresa. Al dissesto constatato consegue solo l’apertura del concorso, declinandosi il default, sul piano liquidatorio, al modo di mera occasione di passaggio dal mercato del compendio produttivo, ai fini di una auspicabile ricollocazione.
Al fondo, il convincimento che la negoziazione dell’azienda indivisa ed attiva – che solo l’esercizio dell’impresa permette – acconsenta all’attuazione di obiettivi altrimenti inaccessibili, quali il subentro dell’aggiudicatario nella locazione dell’immobile aziendale o negli altri rapporti negoziali indispensabili rispetto all’attività economica in essere; l’utilizzo di segni distintivi dell’impresa; il mantenimento di licenze, autorizzazioni o concessioni.
In questo habitat concettuale, l’esercizio provvisorio di cui all’art. 104 L. fall., ridenominato dall’art. 211 C.C.I. “Esercizio dell’impresa del fallito”, si appaga di un collaudo durato oltre un decennio e sconta mere correzioni di contorno.
Il 1° comma dell’evocato art. 211 prevede adesso che “L’apertura della liquida- zione giudiziale non determina la cessazione dell’attività d’impresa quando ricorrono le condizioni di cui ai commi 2 e 3”. Due rimangono, a tenore di questi ultimi commi, le ipotesi possibili di gestione provvisoria dell’impresa fallita.
L’anzidetto 2° comma riprende il calco dell’odierno 1° comma dell’art. 104 L. fall., dal che deriva l’immutata competenza del Tribunale concorsuale ad autorizzare, con la sentenza che aprirà la liquidazione giudiziale (in luogo del fallimento), la prosecuzione dell’impresa o di “specifici rami dell’azienda”, qualora dall’interruzione possa derivare “un grave danno”, a condizione che “la prosecuzione non arrechi pregiudizio ai creditori”. Con ogni evidenza, si palesa meramente linguistico il rimaneggiamento dell’attuale norma della legge fallimentare, stante l’aggiunta nel testo di quella nuova del lemma “prosecuzione”.
Apparentemente inalterato resta pure l’archetipo dell’esercizio provvisorio di- sposto nel corso della liquidazione giudiziale, su impulso del curatore, sol che si consideri che l’art. 211, 3° comma, dispone che: “Successivamente, su proposta del curatore, il giudice delegato, previo parere favorevole del comitato dei creditori, autorizza, con decreto motivato, l’esercizio dell’impresa, anche limitatamente aspecifici rami dell’azienda, fissandone la durata”. In questo caso il riferimento alla “continuazione” proprio dell’art. 104 L. fall. è soppiantato da quello all’“esercizio” tout court dell’impresa.
A ben vedere, il difficile rapporto tra salvaguardia di organismi produttivi e tutela dei creditori è risolto anche dal C.C.I. consentendo il ricorso all’esercizio d’impresa, in funzione conservativa dei complessi organizzati, su due presupposti impliciti, ma chiari: l’utilità di esso a supporto di una più proficua e redditizia liquidazione del compendio, quindi, per rifrazione, di una migliore soddisfazione del ceto creditorio; l’operatività attuale dell’impresa, che, pertanto, accertata l’insolvenza, si presta ad essere semplicemente proseguita, non anche ex novo intrapresa.
Nella delineata cornice, l’esercizio dell’impresa rimane strumento propedeutico alla massimizzazione dell’attivo, comunque ancillare alla tutela del credito e non finalizzato alla protezione dell’impresa in sé e per sé.
Sia nel quadro del secondo che del 3° comma dell’art. 211, lo strumento pare, peraltro, adoperabile anche in attesa che si realizzino le condizioni di un affitto d’azienda [2]. La gestione può, poi, giovare a favorire la presentazione di una proposta di concordato fallimentare, stimolandola proprio sulla scorta di un complesso produttivo ancora in esercizio.