Saggio
L’impatto della pandemia sui concordati preventivi omologati in continuità diretta: l’indagine, le soluzioni*
Salvo Leuzzi, Magistrato addetto al Massimario della Suprema Corte di Cassazione
3 Maggio 2020
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Sommario:
1 . La cornice normativa e il quadro dei problemi
4 . La fase di esecuzione del concordato in continuità
5 . L’organizzazione interna dell’impresa
6 . Factum principis e non imputabilità dell’inadempimento da pandemia
7 . Natura e implicazioni del piano concordatario
8 . La prevalenza del fine rispetto al mezzo
Marcata è l’influenza in ambito concorsuale del D.L. 8 aprile 2020, n. 23, contenente “Misure urgenti in materia di accesso al credito e di adempimenti fiscali per le imprese, di poteri speciali nei settori strategici, nonché interventi in materia di salute e lavoro, di proroga di termini amministrativi e processuali.”, il cui art. 5 s’incarica di procrastinare al 1 settembre 2021 l’entrata in vigore del D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 (c.d. “Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza”); scelta che, nel tener conto delle lacerazioni del tessuto industriale e commerciale prodotto dalla pandemia, fa salva l’esigenza degli operatori di ricucirlo con gli strumenti usuali, in attesa di una nuova normalità.
Il successivo art. 9, comma 1, del decreto differisce di sei mesi i termini di adempimento dei concordati preventivi omologati (e degli accordi di ristrutturazione) aventi scadenza nel periodo fra il 23 febbraio 2020 e il 31 dicembre 2021. Una posticipazione “a tavolino” e generalizzata, dunque, densa di riflessi anche sul fianco della risoluzione ex art. 186 L. fall.
Le altre misure immaginate dal legislatore dell’emergenza attengono a procedure concordatarie ancora in gestazione e in attesa di omologa, pronunciata la quale, il decreto d’urgenza non contiene aperture esplicite alle modifiche di piano o alle relative rinegoziazioni.
Solo nei concordati non ancora omologati, pendenti alla data del 23 febbraio 2020, il comma 2 dell’art. 9 riconosce al debitore la possibilità di presentare, sino all’udienza ex art. 180 L. fall., un’istanza al tribunale finalizzata a depositare un nuovo piano e una nuova proposta in un termine non superiore a novanta giorni e non prorogabile [2].
Sempre l’udienza per l’omologa segna, a tenore del comma 3, lo “spartiacque” entro cui è possibile per il debitore depositare una memoria contenente la sola indicazione modificativa dei termini di adempimento, corredata da documentazione comprovante la necessità della variazione temporale, da trattenere, in ogni caso, entro l’arco di sei mesi rispetto alle originarie scadenze [3].
L’ultima misura agevolativa è una mera opportunità, in base al comma 4, di allungamento del termine del concordato in bianco [4].
D’impatto, invece, pure nell’alveo dei concordati in esecuzione è il successivo art. 10, che detta – da rubrica – “Disposizioni temporanee in materia di ricorsi e richieste per la dichiarazione di fallimento e dello stato di insolvenza”. Baricentro della norma è l’universalizzata improcedibilità dei ricorsi per dichiarazione di fallimento depositati nel periodo tra il 9 marzo 2020 ed il 30 giugno 2020. Unica franchigia è la richiesta formulata dal pubblico ministero, che vi abbia trasfuso un’istanza di emissione di provvedimenti cautelari ex art. 15, comma 8, L. fall. L’obiettivo dell’“apertura di credito” privilegiata alla magistratura inquirente non sembra, pertanto, connessa all’esigenza repressiva dei reati, ma alla più larga opportunità di porre un argine a condotte dissipative a danno dei creditori.
La sottrazione quadrimestrale delle imprese ai procedimenti di accertamento dell’insolvenza [5] sottende, a sua volta, una triplice ragione: mira a riparare gli organismi produttivi dalla pressione spasmodica dei creditori in un periodo di stasi delle attività o di affannata ripresa di esse; scongiura che gli imprenditori paghino, per decozioni innescate da cause esogene all’efficacia della propria gestione, lo scotto dell’autofallimento, che non assicurerebbe vantaggi ai creditori ed esporrebbe la liquidazione dei beni alle insidie di un mercato appena riaperto e fortemente perturbato [6]; protegge gli uffici giudiziari, sprovvisti, a ranghi invariati e con le disfunzionalità collegate all’emergenza, delle risorse per governare una mole sproporzionata di procedure fallimentari.
Non è chiarita l’esatta portata della improcedibilità, non comprendendosi a pieno se le istanze prefallimentari siano destinate ad una definitiva declaratoria di tal segno, tanto da dover essere ripresentate; oppure, se vadano incontro ad una sorta di sospensione impropria, così da essere man- tenute in quiescenza per essere ridestate allo spirare del periodo.
Gli artt. da 6 a 8 del decreto intervengono, infine, sul plesso codistico civile, sfumando gli effetti delle sue regole ordinarie, sul presupposto della inettitudine a amministrare una situazione imprevista e capillare di stallo. Sono da leggersi in detto orizzonte sia il blocco delle norme sulla perdita del capitale sociale e sulla responsabilità degli amministratori per gestione non conservativa della società [7]; sia la presunzione di permanenza del goingconcern correlata “in retrospettiva” ai bilanci 2020, qualora la continuità sia messa a repentaglio dal fattore Coronavirus [8]; sia infine la “disattivazione” delle misure sulla postergazione dei finanziamenti dei soci [9]. Si tratta, con buona evidenza, di disposizioni pensate proprio con riferimento ai concordati omologati in continuità, palesandosi non acconce ai concordati funzionali alla liquidazione degli assets dell’impresa.
Se quella descritta è la trama delle regole nuove, non è detto che la stessa sia sufficiente. Il banco di prova sarà l’allentamento del lockdown, che darà evidenza ai dati reali. Si verificherà a quel punto la dimensione effettiva del problema dei debitori in concordato che, riaprendo i battenti dell’impresa, ritroveranno finanze stravolte dalla pandemia [10]. La quarantena innescherà il ristagno degli scambi e gli imprenditori sconteranno una situazione eccezionale e non “semestrale”, con una conseguenza sin d’ora verosimile: salteranno le previsioni di piano, ne discenderanno stratificati inadempimenti [11].
Il rinvio di sei mesi degli adempimenti di piano, stabilito ope legis e a tappeto, mostra il fiato corto delle applicazioni meccaniche. Non tiene conto della singolarità di una ripartenza post bellica da “Italia anno zero”, nel cui quadro ogni impresa deve rintracciare quei dati prognostici che l’eccezionalità rende oscuri e imperscrutabili, ripensare le proprie coordinate finanziarie e operative, scrutare e ritrovare il rapporto tra i flussi al servizio del debito ed il debito da servire.
Cosa fare? Quali percorsi intraprendere? Come reggere l’urto sulla continuità aziendale dello shock virale?
Il grande rebus ha una duplice superficie, attenendo alla modificabilità in corso d’opera dei piani concordatari in continuità, da una parte, alle regole e agli strumenti secondo cui operativamente gestirla, dall’altra. Il “bonus” dei sei mesi di inadempimento potrebbe rivelarsi asfittico, il “condono” plenario e acritico potrebbe non bastare.
In un primo orizzonte, posto che l’inadempimento non è imputabile, il concordato dovrebbe proseguire tale e quale e il debitore pagare quel che può. Ci troveremmo dinanzi alla criticità insormontabile di perpetuare alla cieca il destino di imprese in dissesto, cui si concederebbe una larvata remissione parziale dei debiti. Le aziende pagherebbero nei limiti fisiologica- mente arbitrari del possibile, falsando il riassetto della concorrenza.
In una seconda prospettiva, la continuità potrebbe cessare e il concordato diventare liquidatorio. Di fatto questo è ciò che già accade ogni volta che il businessplan non è rispettato e la società accusa perdite che portano alla drastica riduzione del capitale e allo scioglimento della società. Nondimeno, i difetti del congegno immaginato paiono evidenti: alterazione della fisionomia del piano; smarcamento extravagante dal limite della percentuale minima del 20%; alcun valore aggiunto rispetto all’alternativa liquidatoria fallimentare.
Secondo una terza impostazione, il debitore potrebbe stipulare un affitto d’azienda in favore di una newco, chiedendo l'autofallimento, per ivi addivenire ad un concordato fallimentare “lampo” [12]. Soluzione suggestiva, che forse inciampa su un ostacolo giuridico ed uno endemico: il primo alloggia nella difficoltà di coniugare la rapidità di governo del fenomeno economico con il termine di cui all’art. 124 L. fall. [13]; il secondo si intravede nell’indisponibilità persistente – che il fallimento non raddrizza, semmai aggrava – di un bacino finanziario: il fabbisogno di liquidità non è colmato, al più travasato in un distinto soggetto. Si tratta in ogni caso di una ipotesi operativa che cozza con la scelta legislativa dell’improcedibilità delle istanze anche di autofallimento dal 9 marzo 2020 ed il 30 giugno 2020 (art. 10 D.L. 8 aprile 2020, n. 23). È prevalsa anche nella normativa dell’emergenza l’idea dell’approccio al fallimento come extrema ratio e dell’opportunità di concedere anche agli imprenditori un lasso temporale in cui approfondire la possibilità di ricorrere a strumenti di soluzione della crisi alternativi, per non essere esposti alle conseguenze civili e penali connesse ad un aggravamento dello stato di salute dell’impresa dovuto in gran parte a fattori esogeni.
Secondo un quarto, supponibile scenario, si potrebbe addivenire ad un “concordato sul concordato”. Andrebbe consentita l’abdicazione a quello in corso – mediante rinuncia all’esecuzione di esso – e la riformulazione di una nuova proposta, vestita con le nuove condizioni, con un piano confezionato su misura. Naturalmente rinuncia e nuovo concordato, per forgiare un effetto catenaccio, dovrebbero essere contestuali [14].
La prospettiva avrebbe il pregio di coinvolgere anche i crediti post concorsuali. Tuttavia, escluso che lo stesso proponente possa chiedere al tribunale una pronuncia che accerti la risoluzione del concordato omologato – il che rappresenterebbe una costruzione barocca – residua la debolezza dogmatica del concepire una rinuncia ad adempiere un obbligo o – il che è lo stesso – ad abbandonare un vincolo. L’architettura sarebbe destinata a fra- nare qualora un creditore soltanto si mettesse di traverso, atteso che la risoluzione del concordato e la declaratoria di fallimento rimarrebbero invoca- bili, pur nella persistenza, in capo al tribunale, della libertà di apprezzare la maggiore vantaggiosità della nuova proposta secondo il “mantra” del miglior soddisfacimento (della maggioranza) dei creditori. D’altronde, la rilevanza di una crisi insuperata ai fini dell'apertura di un nuovo concorso non è esclusa dal principio di universalità della procedura concorsuale [15], giacché la stessa Suprema Corte ha ammesso la fallibilità dell'impresa prima della risoluzione del concordato preventivo [16]. In effetti, aperta la strada al fallimento c.d. “omisso medio”, un nuovo concordato ben potrebbe essere ritenuto ammissibile, sottendendo una esplicita ammissione d’insolvenza anche in relazione alle obbligazioni conformate nel concordato preventivo divenuto ineseguibile [17]. Ciò dischiuderebbe le problematiche del monte debiti da appostare nel nuovo concordato, probabilmente non quelli originari, ma altresì quelli rimasti estranei, in quanto postumi, al perimetro dell’omologa.
Sullo sfondo, un impaccio vistoso d’ordine pratico: in fase esecutiva la continuità reclama un cambio di rotta da gestire in un torno ristretto di giorni, non può indugiare tra le insidie del processo di concordato, che richiede mesi.
Non si nascondono le criticità alla base di questa prospettazione, a tal punto da farne premessa.
Innanzitutto, non c’è una norma “veicolo” che procedimentalizzi, a garanzia dei creditori, la modifica provariazione in corso d’opera. Torniamo al bug che affligge da sempre i concordati preventivi: le modifiche del piano non sono regolate e sarebbe opportuno si intervenisse normativamente al fine di consentire la rinegoziazione di quelli in esecuzione.
Fa difetto anche un comitato dei creditori, che possa essere sentito al riguardo. I creditori sono nel loro insieme privi di voice nella fase esecutiva.
Nel terreno della risoluzione del concordato preventivo per la sedimentata giurisprudenza di legittimità tranchant rileva il fatto oggettivo dell'inadempimento, depurato da riferimenti a stati colposi e congiunture soggettive [18].
Ciò nonostante si è indotti a ritenere che, qualora la proposta rimanga invariata nelle consistenze, le modalità adempitive ricadano nella sfera di chi, dovendo adempiere, è impegnato a realizzare – essenzialmente – un risultato, cui si correla il fascio delle obbligazioni dedotte in proposta.
È la prospettiva ora accolta, nel campo contiguo e gemellare degli accordi di ristrutturazione dei debiti, dall’art. 58, comma 2, CCII (D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14), che prevede, dopo l’omologazione del piano, la possibilità di apportarvi modifiche sostanziali “idonee ad assicurare l’esecuzione degli accordi”, imponendo al debitore la sola pubblicazione nel registro delle imprese e l’invio di una pec a ciascuno dei creditori [19]. È una prospettiva già vigente in materia di sovraindebitamento, a tenore dell’art. 13, comma 4 ter, L. 27 gennaio 2012, n. 3, che consente le modifiche del piano del consumatore [20].
È in quest’ottica che la fase esecutiva del concordato è stata oggetto di esigue attenzioni nella legge fallimentare [22], che infatti vi dedica due sole disposizioni: l’art. 182 L. fall., rivolto al solo concordato con cessione dei beni, e l’art. 185 L. fall. che ascrive al commissario un “servizio” di vigilanza sull’adempimento del concordato, in funzione informativa dei creditori, seppure per il tramite del giudice delegato. Le prescrizioni sciorinate dai commi di quest’ultima norma successivi al primo hanno uno contorno ristretto: valgono a superare l’impasse nell’ipotesi del debitore riluttante a dar attuazione alla proposta concorrente dei creditori prevalsa ai voti sulla sua [23].
Fuori da questa fattispecie remota, proprio perché l’attività economica non può imbrigliarsi di troppi lacciuoli, la tutela creditoria è non casualmente rimessa alla vigilanza commissariale e racchiusa nella facoltà dei creditori di invocare la risoluzione del concordato ex art. 186 L. fall. [24].
Nel vigilare sull’adempimento, il commissario si atterrà alle previsioni del provvedimento di omologa, che però s’atteggia a fonte regolamentatrice assorbente della fase esecutiva nella sola ipotesi di concordato con cessione dei beni [25], giacché nella continuità diretta compete al debitore che rilancia l’azienda selezionare ab initio e in esclusiva i meccanismi di adempimento delle obbligazioni concordatarie [26].
L’organo commissariale seguita a svolgere, quale ausiliario del Tribunale, compiti di controllo su amministrazione del patrimonio e gestione dell'impresa (art. 167 L. fall.) e di accertamento della regolarità del comportamento del debitore, ma li espleta a spettro ridotto, dovendo limitarsi ad assicurare un canale informativo ai creditori, in quanto legittimati ad esperire azioni di annullamento o risoluzione [27].
Il presidio di tutela è nelle informazioni, spiccando l’assenza di poteri autorizzativi in capo al giudice sugli atti da compiere – più in generale sulle modalità da rispettare – nella fase di esecuzione concordataria [28]. Neppure l’art. 186-bis L. fall. contiene addentellato in materia, ad eccezione del sommario rinvio, contenuto nel comma primo alle norme sul concordato in generale di cui all'art. 160 ss. L. fall., in quanto compatibili. Vi è al fondo la scelta di emancipare il debitore nella gestione, necessariamente fluida e non irregimentata, della fase in esame.
Sintomatico, d’altronde, che gli artt. 185 e 186 L. fall. nulla statuiscano per il caso in cui all'inadempimento delle obbligazioni concordatarie, parziale o totale, non segua un ricorso risolutorio dei creditori. Segnatamente non è previsto alcun intervento del giudice dichiarativo dell'esatta, tanto meno dell’inesatta, esecuzione del concordato: l’art. 185 L. fall., infatti, non richiama il terzo comma dell'art. 136 L. Fall., che contempla espressamente, nel concordato fallimentare, l'accertamento della sua completa esecuzione, funzionale, sia all'ordine di svincolo delle cauzioni e della cancellazione delle ipoteche iscritte a garanzia che, più in generale, all'adozione di ogni misura idonea per il conseguimento delle finalità attuative del concordato.
La scelta legislativa non è accidentale: l'Autorità Giudiziaria dismette ogni ruolo inquisitorio, curandosi di somministrare informazioni, senza entrare nel merito di esse. Il dato normativo è eloquente: “la procedura di concordato si chiude” con l’omologazione (art. 181 L. fall.), sicché la fase esecutiva si sottrae all'egida di principi processual-pubblicistici, per acquistare un definitivo respiro privatistico [29]. Nell’economia di essa, le sole pronunce giurisdizionali (costitutive) rimesse all'Autorità Giudiziaria sono quelle di risoluzione e di annullamento; pronunce escluse ove sia mancata l'iniziativa di uno o più creditori [30].
Di là della risoluzione e dell'annullamento del concordato v'è spazio solo per un'attività d’osservazione “aerea” e “in prorogatio” da parte degli organi procedurali, che si esprime in provvedimenti ordinatori, privi del carattere di decisorietà e definitività, modificabili e revocabili in ogni tempo, disadatti ad incidere sotto il profilo sostanziale su situazioni di diritto soggettivo e, pertanto, non ricorribili in Cassazione ex art. 111 Cost.
All’ordinamento concorsuale questo apparato dev’essere stato noto: con il decreto di omologazione la procedura di concordato ex art. 181 L. fall. “si chiude”; il debitore guadagna l’effetto esdebitativo che gli consente di soddisfare i crediti secondo la conformazione che il decreto ne attua quanto a modalità, tempistica e percentuale di pagamento; nel contempo riacquista la piena disponibilità della gestione del suo patrimonio, sottraendosi al c.d. “spossessamento attenuato” e riappropriandosi della facoltà di “capitanare” l’azienda, compiendo qualsivoglia tipo di atto senza necessità di autorizzazione, con l’unico limite di armonizzare la libertà d’impresa con l’adempimento della proposta connessa concordataria, alla stregua degli altri contratti in essere.
Il tribunale può al più procedimentalizzare il controllo, esemplificativamente onerando il debitore della redazione di relazioni economico-finanziarie periodiche che indichino i flussi di cassa realizzati, i risultati conseguenti alle economie di gestione attuate in esecuzione del piano, le differenze registrate rispetto alle previsioni di questo. Tali contributi informativi potranno mostrare e documentare gli scostamenti intervenuti per voci specifiche, economiche o finanziarie; la diversa consistenza del risultato; la sua divaricazione dalle appostazioni del piano concordatario; qualsiasi altro fatto che possa incidere, direttamente o meno, sul quomodo e sui tempi di soddisfazione dei creditori.
Certamente l'attività esecutiva del piano concordatario può assumere una declinazione più o meno dettagliata: può postulare la stipula di una serie di negozi giuridici (assunzione di garanzie, liquidazione di diritti, atti di straordinaria amministrazione); può comportare nel breve operazioni materiali (pagamenti, tenuta e gestione di conti correnti bancari). Il debitore che accede al concordato è facoltizzato a scegliere, infatti, di persuadere i creditori impegnandosi su un programma circostanziato di negozi e operazioni [31]. Ma fuori dagli impegni che descrivono l’orizzonte immediato, l’attività esecutiva del concordato si intreccia inestricabilmente con quella d’impresa, tanto non poter essere organizzata in base a regole giuridiche di condotta, bensì dovendosi intonare a considerazioni di convenienza ed efficienza che, per forza di cose, la condizionano.
Non c’è impresa fuori da questo quadro e il mantenimento in bonis del suo titolare non incontra demarcazioni rigide: quest’ultimo, per eseguire il concordato omologato, deve poter disporre senza vincoli dei suoi beni, nel modo che ritiene più appropriato alla congiuntura. Perciò, il commissario giudiziale non può esprimere ingerenze attive sull’operato della governance, mentre il tribunale e il giudice delegato non possono essere delegatari di compiti autorizzativi del compimento di atti di straordinaria amministrazione nella fase esecutiva, né tali compiti possono riservare a sé stessi col decreto di omologa.
L’insensibilità del concordato preventivo al ritardo nell’adempimento cagionato dal coronavirus si ricava dalla normativa dell’emergenza, ma prima ancora dalle regole generali.
L'art. 91 D.L. 17 marzo 2020 n. 18, prevede l’inserimento all'art. 3 del D.L. 23 febbraio 2020, n. 6, di un comma 6-bis a tenore del quale “Il rispetto delle misure di contenimento di cui presente decreto è sempre valutata ai fini dell'esclusione, ai sensi e per gli effetti degli artt. 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all'applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”. L’art. 10 appena evocato ha allungato di sei mesi le scadenze di piano. Ma è nel contesto codicistico civile la chiave di volta.
A tenore dell’art. 1256 c.c., l’obbligazione si estingue quando, per causa non imputabile al debitore, la prestazione diventa “impossibile”; se tale impossibilità è solo temporanea il debitore, nelle more di stessa, non è responsabile del ritardo nell’adempimento.
Tra le cause invocabili di impossibilità rientrano gli ordini o i divieti sopravvenuti dell’autorità amministrativa (c.d. “factum principis”), quindi i provvedimenti dettati da interessi generali, che rendano impossibile la prestazione, indipendentemente dal comportamento dell’obbligato. È circostanza che funge da esimente della responsabilità del debitore, a prescindere dalle previsioni contrattuali in essere.
L’esimente in parola parrebbe rilevare pure in un campo come quello della risoluzione del concordato preventivo in cui per consolidata giurisprudenza rileva il fatto oggettivo dell'inadempimento [32]. Concorre, infatti, nel caso delle imprese chiuse per Covid-19, l’elemento obiettivo dell’impossibilità di eseguire la prestazione e quello soggettivo dell’assenza di colpa in rapporto alla determinazione dell’evento impeditivo. Quest’ultimo ha conseguenze che scavalcano le barriere semestrali ed impongono una riprogrammazione estesa e profonda.
In ogni caso, l’azione di risoluzione per inadempimento prodottosi per la chiusura forzata da pandemia si palesa alla stregua di strumento fisiologicamente depotenziato. Ai fini della risoluzione del concordato rileva, infatti, il criterio del diritto privato comune dei contratti collegato alla “non scarsa importanza” con riferimento al piano complessivamente inteso. Occorre soppesare l'incidenza del fatto pregiudizievole alla base dell'eventuale domanda di risoluzione proposta dal creditore sugli interessi di tutti i creditori concordatari, non solo di quello che invoca il rimedio. Nel concorso, vi è una fisiologica dipendenza di ciascun rapporto dall'altro (e di tutti i rapporti dalla strutturazione prevista nel piano). Viene in evidenza il “fascio” obbligazioni funzionalmente proiettate alla realizzazione di un risultato finale. La vicenda concordataria è intesa a proteggere gli interessi dell'intero ceto creditorio: vanno perciò considerati gli effetti dello scioglimento del vincolo negoziale, che nella disciplina dei contratti in generale sono normalmente restitutori e ripristinatori e circoscritti alle parti del rapporto contrattuale, ma che nel caso della procedura concorsuale implicano un complicato ripristino della situazione anteriore all'omologa [33].
Non va poi trascurato, alla luce della clausola generale di buona fede ex artt. 1175 c.c. e 1375 c.c., che (l’istanza di fallimento o) la domanda di risoluzione che il creditore dovesse avanzare si connoterebbe come atto insufficientemente motivato ogni qualvolta il debitore dovesse prospettare una soluzione, la cui ragionevolezza e plausibilità fosse attestata e che si limitasse, per un verso, a rimodulare i tempi di adempimento, senza toccare la misura delle prestazioni, per altro verso, a consentire il risanamento aziendale attraverso una revisione del piano inidonea a pregiudicare i creditori concordatari più di quanto con la liquidazione fallimentare non accadrebbe. L’accordo raggiunto in epoca pre Covid-19 è manifestazione della volontà di negoziare la crisi, con riferimento ad una situazione debitoria. I creditori in concordato, optando per la risoluzione, sembrano contraddire il divieto di venire contra factum proprium, ogni qualvolta, accettata la ristrutturazione dei debiti, la scartino in seconda battuta sol perché essa esige per evento congiunturale una ridefinizione delle condizioni temporali in essere.
Proposta e piano sono un binomio: su entrambi si manifesta il voto dei creditori; la ridefinizione del fascio di rapporti obbligatori intercorrenti tra costoro e il debitore e sigillata dall'omologazione non si risolve nell’assioma della prestazione promessa, la quale postula, piuttosto, la correttezza pro- grammatica del quadro funzionale e gestorio che la supporta. Se la proposta è apprezzabile perché il piano è fattibile, ciò non può essere privo di conseguenze sul livello della gestione societaria, che al contenuto del piano deve rimanere intonata, pure quando cambi registro.
Gli amministratori, qualora accedano ad uno strumento di composizione della crisi aspirando al mantenimento in esercizio dell'attività d'impresa, stipulano con i creditori incisi dagli effetti della ristrutturazione del debito un patto gestorio, che ne limita la discrezionalità. L’“accordo” concordatario finisce per avere ad oggetto non soltanto il trattamento dei crediti, ma anche la gestione dell'impresa [36]. Tutte le volte che la conduzione della società sia condizionata dagli interessi extra-sociali connessi al concordato omologato, questi ultimi possono giustificare l'adozione di una decisione non conforme al piano solo se compatibile con l'interesse dei creditori all'esecuzione delle obbligazioni concordatarie. La vincolatività del piano, al quale i creditori anteriori hanno aderito, esclude la possibilità di dare prevalenza assorbente all'interesse della sola società; una decisione siffatta sarebbe estroflessa rispetto al contenuto del piano.
Quest’ultimo è, in tal senso, parte integrante del telaio organizzativo della società chiamata a darvi ottemperanza, il che ne esalta il livello di cogenza, incentivandone il rispetto. Al piano va riconosciuta una forza in grado di esprimersi anche all'interno della governance societaria e di conformare agli interessi dei creditori concordatari lo stesso interesse sociale. Specularmente, però, il piano non può risolversi in un diktat invalicabile idoneo a dominare lo stesso interesse sociale, perché ciò esproprierebbe senso e funzione dell’impresa, piegandola verso finalità eccentriche alla sua stessa ragion d’essere.
È ovvio che un piano, specie se si sviluppa nel medio periodo, muove da assunzioni solo ipotizzate su basi probabilistiche che, dunque, per la loro indole, possono richiedere, alla prova dei fatti, d’esser rivedute, qualora si tratti di bilanciare gli obiettivi dell’impresa e la tutela dei creditori concorsuali.
L'irrigidimento gestionale correlato al bilanciamento non è scabroso, per un’evidenza ineludibile: il creditore che si imbarchi nella risoluzione dovrebbe fare ostensione di un concreto interesse ad agire ex 100 c.p.c., ragionevolmente degno di nota solo ove lo scostamento dal piano fosse in grado di compromettere la capacità di adempimento delle obbligazioni concordatarie, non già di salvaguardarle, spalmandole nel tempo.
Si cambi il punto di osservazione: i creditori, approvando la proposta di concordato, acconsentono alla programmazione, accettando un determina- to profilo di rischio d'impresa, anziché un altro o uno qualsiasi.
È detto profilo a non poter essere stravolto, ma a cambiarne i connotati non è ogni ipotizzabile scostamento: il confine esterno è dato, piuttosto, dall’interruzione di quell'attività d'impresa che costituisce il cuore del piano di risanamento accettato dai creditori [37]. È l’immutazione del core business che contrassegnava l’impresa all’interno del piano medesimo ad esporre il concordato alla risoluzione e gli amministratori che ne sono stati gli artefici alla responsabilità, per il danno derivatone ai creditori a seguito dell'eventuale inadempimento delle obbligazioni concordatarie.
In siffatta ipotesi, non può, peraltro, neanche escludersi, in assenza di distinguo espliciti, che il nuovo comma 6 dell'art. 185 L. fall. possa esser fatto valere anche nell’ottica di dare esecuzione a un concordato su proposta del debitore, tanto da ricondurre la società all'esecuzione del piano originario tramite una radicale rimozione dell'organo amministrativo e la nomina di un amministratore giudiziario [38].
Ma a prescindere da detto strumento, la valvola di salvaguardia dei creditori – ulteriore rispetto al mezzo della risoluzione del concordato – alloggia nel diritto societario e attiene alla responsabilità dei titolari della governance ogni qualvolta un'iniziativa di scostamento dal piano si riveli disfunzionale rispetto all'adempimento delle obbligazioni concordatarie, dal momento che nel frangente stesso in cui la assumono essi accettano di rispondere dei risultati della modifica [39].
In effetti, l'omologazione conferisce anche al piano una forza vincolante, in grado di incidere sulla gestione dell'impresa della società debitrice, conformandola. Tuttavia, se è fulcro dell’esecuzione del concordato, il piano è concetto eterodosso rispetto alla sistematica dei giuristi. Sotto il profilo aziendalistico, esso è manifestazione della “programmazione” economico- finanziaria per la gestione della crisi o dell'insolvenza, di cui è responsabile, nelle società di capitali l'organo amministrativo; innestato sul terreno giuridico esso diviene “programma” cogente da realizzare, nel cui quadro rileva- no, peraltro, non solo i singoli atti da realizzare, ma il risultato complessivo in esso tradotto.
La circostanza che il piano origini in un ambito che attiene alla fenomenologia economico-imprenditoriale ne segna la perdurante connotazione. In altri termini, la coloritura originale del piano è aziedalistica, la sua attinenza organizzativa. La progettazione imprenditoriale in chiave solutoria della crisi assume rilevanza giuridica in quanto calata dentro una cornice negoziale, espressione di autonomia privata, qual è quella concordataria [40].
Poiché elemento integrante un atto lato sensu contrattuale come il concordato, del quale assorbe la dimensione causale, il piano assurge a paradigma cui il debitore e il ceto creditorio fanno convergente riferimento nell’espressione delle proprie valutazioni.
Tutto ciò non è scevro di riflessi rispetto alle tematiche dell’esecuzione concordataria. È sulla base della natura e della portata del piano concordatario che vanno, invero, risolti i problemi connessi all’an e al quomodo dei suoi adattamenti in sede esecutiva. Il piano non trascende le proprie origini e non è, pertanto, un business plan immodificabile, ma un documento enunciante una rotta che, per quanto cogente, è suscettibile d’essere (o dover essere) alla prova dei fatti emendata o disattesa. Esso è destinato a confrontarsi con gli imprevisti del mercato, che ne mettono ininterrottamente alla prova tenuta e adeguatezza, imponendone rimodulazioni. Dinanzi all’incognita del futuro, non valgono i negozi giuridici, ma le capacità predittive, che sono ontologicamente mezzi insufficienti al cospetto della mobilità o liquidità dell’impresa e dei fenomeni umani.
Se un piano non è più in grado di conseguire la finalità adempitiva delle obbligazioni concordatarie o si sta rivelando dannoso per la società ed i suoi creditori (anche successivi al deposito della domanda di concordato), gli amministratori sono finanche tenuti a deviare dal piano, per adottare alter- native gestionali adatte a marginalizzare i pregiudizi. Se la continuità soggettiva genera perdite, gli amministratori dovranno provocare l'interruzione dell'attività d'impresa, se non anche lo scioglimento della società, come preteso dall’ultimo comma dell'art. 186-bis L. fall. Vi è, dunque, un preciso dovere di discontinuità, che caratterizza l'operato della governance al sopravvenire di uno stato di crisi e che impone loro di reagire prontamente alla modifica del contesto di esercizio dell’attività.
Ora, è evidente che la forza coattiva del piano e la sua attitudine integrativa del contenuto della proposta implica che ciascuno scostamento programmatico possa rappresentare un inadempimento rilevante ai fini della risoluzione ex art. 186 L. fall. Tuttavia, la sola aspettativa saliente è quella connessa alle prestazioni finali offerte ai creditori: se lo scostamento è strumentale a moderare l'impatto negativo del piano sulle attese di questi e a consentire l'adempimento delle obbligazioni concordatarie, non vi è spazio per la risoluzione, sia in quanto (da un punto di vista processuale) mancherebbe un interesse rilevante ex art. 100 c.p.c., sia in quanto (da un punto di vista sostanziale) il cambio di programma non sarebbe in grado di intercettare quella “non scarsa importanza” comunque richiesta per la risoluzione.
In definitiva, quantunque il piano ridondi insieme alla proposta in senso conformativo delle obbligazioni concordatarie, resta evidente che la risoluzione costituisca rimedio congeniale al microcosmo degli atti negoziali del diritto privato, piuttosto che al macrocosmo delle attività d’impresa, nella cui orbita rileva la realizzazione delle prestazioni ridefinite dall'omologazione del concordato, non la pedissequa e inappagante osservanza dell'attività pianificata [41].
Nei limiti descritti, va escluso che quelle medesime volontà dei creditori che del concordato hanno suggellato il successo con votazione favorevole debbano ad ogni contingenza economia e ad ogni variazione di piano essere ex novo sondate e raccolte [42].
Il tessuto normativo evidenzia che il legislatore tende a dare più importanza al fine rispetto al mezzo: se il fine della proposta concordataria è attribuire una certa soddisfazione ai creditori, da realizzare attraverso l’esercizio di impresa ed esclude ai sensi dell’art. 185 L. fall. ogni ingerenza commissariale al riguardo, vuol dire che a rilevare, non è tanto come si arrivi ad attuare la proposta concordataria, quanto il mantenimento in sè dell’impegno di pagare i creditori.
Se questa considerazione è credibile, è coerente permettere al debitore di modificare il piano in corso di esecuzione, purché conservi nella misura gli impegni assunti.
Certo, i creditori si sono espressi e il tribunale ha omologato la proposta anche con riguardo allo strumento che ne attua le previsioni; è altrettanto vero che consentire modifiche in corso d’opera significa riconoscere al debitore uno spazio di manovra in fase esecutiva che anteriormente all’omologa non avrebbe detenuto, perlomeno dopo l’inizio delle operazioni di voto, stante il secondo comma dell’art. 172 L. fall. [43]. Tuttavia, pur intendendo, nonostante la dizione letterale della norma, che essa comprenda, oltre alle modifiche della proposta, anche quelle del piano, il limite si spiega in quanto ai creditori, prima del voto, vanno rappresentate con esattezza la situazione del debitore, le condizioni della proposta e il suo apparato attuativo, come accade durante le trattative di qualsiasi contratto. Ma una volta che il negozio “a maggioranza” abbia raggiunto l’apice dell’omologa, si varca la soglia d’avvio della mera esecuzione, nel cui ambito il meccanismo contrattuale richiede sic et simpliciter che l’obbligato adempia. E poiché l’adempimento consiste, in linea di massima, in una prestazione pecuniaria e fungibile, il mezzo attraverso cui il debitore si procura la provvista viene ad appannarsi rispetto all’impellenza della dazione. Se i parametri di accosto ai concordati non sottendono l’esposta duttilità di vedute, tutti i concordati in continuità sono involucri recessivi di fallimenti prossimi venturi. Il rischio, se non il corollario, è in un default nazionale e di sistema.
La fonte delle obbligazioni del debitore in concordato non è integralmente negoziale, innestandosi l’accordo con la maggioranza dei creditori in un percorso giurisdizionale suscettibile di farlo confluire, ai sensi dell’art. 1173 c.c., nel novero degli altri atti o fatti idonei a produrre obbligazioni in conformità dell'ordinamento giuridico, non essendo il “contratto” di concordato capace di generare le obbligazioni da solo, in assenza dell'omologazione.
Il legislatore non ha fissato le regole e/o i criteri per l’esecuzione, limitandosi a delineare due percorsi – risoluzione e annullamento – finalizzati a comporre i conflitti che possono manifestarsi nella fase attuativa. Alla base di quegli strumenti resta peraltro il diritto privato.
L'assenza di norme di precetto sull'esecuzione del piano concordatario non sorprende se si considera che lo stesso codice civile non contiene disposizioni sull'esecuzione del contratto “in generale”, ad eccezione di quella dell’art. 1375 c.c., che impone il rispetto del principio di buona fede [44]. Piuttosto, le norme sull'esecuzione dei contratti sono esplicitate dal codice nella disciplina dei “singoli contratti”. Dal complesso di quelle disposizioni affiora un dato univoco: il termine di riferimento dell'esecuzione (rectius, dell'adempimento) non è il contratto, bensì l’obbligazione che ne discende. Il contratto si colloca, d’altronde, sul piano della fattispecie, che una volta perfezionata non è suscettibile di ulteriore “esecuzione”. Vale anche per il concordato: è alle obbligazioni e non al contratto che ne rappresenta la fonte, che va riferita l'attività esecutiva [45]; in altri termini si dà esecuzione, non al negozio, ma agli obblighi che ne derivano.
Neppure nel diritto delle obbligazioni, può trascurarsi l'esigenza di considerare la realizzazione del “risultato contrattuale”, che si sostanza in un'attività di gestione del rapporto nella fase esecutiva che induce a guardare, più che all'adempimento della singola prestazione, alla complessiva attività intesa a dare attuazione agli obblighi contrattualmente assunti, in vista del risultato in premessa.
L'intento delle parti è, infatti, rivolto alla realizzazione di un certo obiettivo pratico conseguibile attraverso la diretta produzione di effetti giuridici. Quando la realizzazione dell’obiettivo preso di mira dalle parti esige il verificarsi di modifiche del mondo esteriore, il legislatore può soltanto predisporre gli strumenti più idonei a permetterne il conseguimento. Con riferimento al concordato preventivo, l’obiettivo pratico è il pagamento dei crediti correlato al superamento della crisi: a venire in rilievo sono, pertanto, le obbligazioni nei confronti dei creditori, valendo il piano a tratteggiare una sorta di perimetro regolamentare, quasi un accordo-quadro dotato di una precisa causa – la regolazione della crisi in chiave recuperatoria dell’azienda – che finisce per permeare tutti gli atti che rendono possibile l’esecuzione del concordato.
Il concordato si accosta, in contrapposizione ai contratti ad esecuzione istantanea, ai c.d. contratti ad esecuzione continuata o periodica o differita, i quali presentano una scissione fra conclusione ed esecuzione del contratto. Nell’accordo concordatario, al pari che in detta categoria di rapporti, la tematica dell'esecuzione acquista una accezione particolare in ragione della presenza di diversi “atti di esecuzione” che attribuiscono significato al rapporto nel suo insieme. Occorre tenere conto dell'interesse oggettivato nel piano, in quanto fondamento di tutti gli atti esecutivi, avvinti dal minimo comune denominatore del risultato finale: il superamento – nel tempo preventivato – della crisi, attraverso il soddisfacimento dei debitori.
In ciascuna programmazione germinano le varianti, posto che la puntuale previsione di tutti gli atti negoziali necessari per realizzare un risultato futuro è operazione illusoria [46]. Altrettanto velleitario è analizzare il ventaglio delle possibili evenienze e immaginare di poter amministrare ex ante l’incognita degli eventi futuri in un recinto contrattuale (o concordatario).
Da questa circostanza gemmano le norme sulla gestione del rischio contrattuale, rinvenibili nella disciplina della risoluzione per impossibilità sopravvenuta e per eccessiva onerosità.
Con riferimento alle sopravvenienze il diritto comune dei contratti è costruito sull'eccezionalità (“eventi straordinari e imprevedibili”), sulla gravità della sproporzione (“eccessiva onerosità”) e sull'anomalia rispetto al rischio contrattuale (superamento dell’“alea normale”). Nella dinamica del contratto la soluzione estintiva del vincolo (ossia la risoluzione) ha carattere eccezionale.
Due norme appaiono di assoluta pregnanza sul crinale della riflessione in corso: l’art. 1467 c.c [47] e l’art. 1256 c.c. [48], che introducono nell’ordinamento uno dei principi fondamentali nella regolazione dei rapporti negoziali: la causa di forza maggiore [49]. Quest’ultima, non esistendone una definizione normativa espressa, può essere ricostruita alla stregua di circostanza esimente rispetto all’inadempimento contrattuale nel momento in cui la sinallagmaticità delle prestazioni venga sovvertita da eventi straordinari ed imprevedibili, tali da squilibrare le forze all’interno del rapporto obbligatorio, impedendone l’esecuzione.
Segnatamente, la sopravvenuta impossibilità di adempiere alla prestazione contrattuale per causa non imputabile al debitore è disciplinata dall’art. 1256 c.c., il quale sancisce la risoluzione del contratto ove l’impossibilità di dare seguito alla prestazione in esso prevista sia determi- nata da una causa (anche temporanea) inconsueta, imponderabile e – come nel caso dell’epidemia da Covid-19 – non ascrivibile al debitore che la subisce quale evento estraneo rispetto alla propria sfera di azione [50].
Il nostro ordinamento riconosce, dunque, alla parte “vittima” di eventi pregiudizievoli la possibilità di poter ottenere la rimodulazione della presta- zione contrattuale divenuta inesigibile. Non può che valere anche con riferimento al debitore in concordato nel senso che, ove le misure dei decreti legge non dovessero rivelarsi sufficienti a garantire la continuazione dei rapporti concordatari, è plausibile che il combinato disposto tra gli art. 1256 c.c. e 1467 c.c. consenta di fare ricorso alla condizione assolutoria della forza maggiore, al fine di ottenere la modifica del piano di concordato, a percentuali di proposta invariate e con mero allungamento dei tempi secondo le esigenze economico-finanziarie innescate dal temporaneo lockdown.
In definitiva, tornano utili i principi che reggono il sistema della revisione e dell'adeguamento dei contratti in caso di eventi sopravvenuti, non previsti dai contraenti. L'equa modificazione delle condizioni di piano è congegno che contempera l’esigenza del debitore (e del sistema) di tenere in piedi l’impresa e quella dei creditori a veder condotta innanzi la soddisfazione concorsuale dei propri crediti. Avverso la domanda di risoluzione ovvero, come appare empiricamente più ragionevole, in prevenzione della stessa, il debitore potrà quindi far valere la sopravvenienza, ai fini della modifica del piano in funzione del recupero dell’impresa, non certo per sottrarsi all'impegno assunto.
Sono le richiamate norme codicistiche, allora, a rivelare come possibili – pure sul piano della dogmatica civilistica di base – le modificazioni e/o integrazioni del piano contemplato nel decreto di omologazione. L’analisi condotta è irrobustita se si tiene conto che la chiave di lettura non è soltanto il “rapporto contrattuale”, ossia del regolamento d'interessi dei contraenti di cui il piano è ingranaggio essenziale, ma piuttosto la tutela del credito che vi fa da sfondo. Proprio tale obiettivo finale sembra far premio sulla rigidità dell’assetto che il piano ha dato al rapporto, consentendo un più ampio margine di salvataggio e correzione di questo.
E se sul fronte delle categorie civilistiche si intende stabilire quando, in presenza di variazioni del piano funzionali alla realizzazione del risultato programmato del superamento della crisi, non sia necessario ripetere l’itinerario processuale concordatario, non può che farsi riferimento precipuo al criterio quantitativo dell'entità della modifica: se questa è “limitata”, in quanto non incidente sulla misura delle prestazioni della proposta, non è necessario sottoporre ex novo il concordato al voto dei creditori.
Al criterio esposto deve abbinarsi, peraltro, un parametro qualitativo, che dimora nella necessaria conferma dell'oggetto del contratto: un piano in continuità, non può assumere una declinazione liquidatoria.
Sul medesimo versante pare assumere rilievo la garanzia patrimoniale dei creditori estranei all’area del concordato omologato, i quali non posso- no vedere ulteriormente assottigliarsi la garanzia patrimoniale generica ex art. 2740 c.c. senza un rinnovo inclusivo dell’iter concordatario.
In questa prospettiva, la norma cardine dell'art. 186-bis L. fall. postula che la variazione in fase esecutiva delle modalità proprie del concordato con continuità aziendale potrà essere ammessa qualora l'aspettativa di soddisfa- cimento dei creditori sia superiore a quella concretamente attesa dall'alter- nativa della liquidazione dell'attivo, normalmente in sede fallimentare.
Le modifiche del piano esigono, pertanto, semplicemente un canone di riferimento valutativo. A rappresentarlo è proprio il soddisfacimento dei creditori, che da tempo sembra essersi eretto a “clausola generale” in materia concordataria [51]. Quest’ultimo, oltre a costituire un criterio espresso in talune ipotesi normate [52], si connota quale componente che, accanto alla “regolazione della crisi”, finisce per integrare la causa concreta della proposta di concordato [53].
In tal guisa, pare assurgere ad una funzione di orientamento generale in materia concordataria, che in ciascuna sua fase o evoluzione non può che tenere conto delle possibilità di soddisfazione, effettivamente alla portata dell'imprenditore, in funzione della migliore regolazione dei crediti. Il criterio in parola può sovrintendere, dunque, anche alla fase esecutiva, in rap- porto alle modifiche di piano che dovessero rendersi ivi necessarie.
La valutazione del miglior soddisfacimento è compiuta certamente dai creditori quale categoria eterogenea in sede di votazione e di omologazione, nondimeno rimane in capo a ciascuno di loro – individualmente – nel contesto dell’esecuzione, ove semplicemente si esprime come apprezzamento ex latere creditoris dei presupposti di utilizzo dell’azione di risoluzione del concordato e di opportunità dell’esperimento di essa.
Obiettivo comune dei creditori e risultato da essi perseguito è la massima valorizzazione del patrimonio del loro comune debitore, in qualunque modo attuabile e fino al limite dell'importo complessivo dei loro crediti [54]. È perciò dentro l’ambito di applicabilità del rimedio risolutivo del vincolo concordatario che le variazioni necessarie del piano attuate dal debitore sono suscettibili di essere opportunamente sindacate. Per il resto quella disponibilità coincide con una prerogativa dell’imprenditore-obbligato, come si è provato a descrivere ed argomentare sotto distinti e convergenti aspetti, che hanno enucleato due soli limiti: il mantenimento della consistenza della proposta e delle percentuali acclusevi; la conservazione del profilo di rischio d'impresa e del corebusiness di essa connessi al piano iniziale.
Note: