In un articolo pubblicato su questa Rivista (“Il Codice della crisi e dell’insolvenza: la fiscalità riferita agli istituti disciplinati dal codice della crisi come delineata dalla legge delega per la riforma fiscale”) sono stati posti alcuni interrogativi sul significato di alcuni dei principi direttivi stabiliti dal disegno di Legge delega per la Riforma fiscale (di seguito anche solo: “Legge delega”), presentato dal Governo alla Camera dei deputati il 23 marzo 2023, per quanto attiene al regime tributario dei suddetti istituti. Scopo del presente intervento è quello di fornire una risposta a tali interrogativi, con l’auspicio di contribuire alla formazione di disposizioni attuative coerenti con la ratio di detti principi.
L’art. 9, comma 1, lettera a), n. 1), della Legge delega prevede, con riguardo a tutti gli istituti disciplinati dal Codice della crisi (di seguito anche solo: “il Codice”), una netta differenziazione dei criteri di determinazione del reddito delle imprese assoggettate a procedura concorsuale e dei relativi obblighi dichiarativi, distinguendoli a seconda che l’impresa debitrice acceda a un istituto “liquidatorio” ovvero “di risanamento”. In merito a tale principio nell’articolo citato è stato auspicato che nei decreti legislativi attuativi il termine “estinzione” venga ben chiarito, “posto che possono rilevare istituti liquidatori che non determinano necessariamente l’estinzione del debitore”.
La relazione illustrativa della Legge delega non casualmente già chiarisce che per liquidatorie devono intendersi, ai fini tributari, le procedure da cui discende l'estinzione dell’impresa debitrice, mentre per procedure di risanamento devono intendersi tutte le altre, nel contesto delle quali tale estinzione non si verifica; ciò indipendentemente dalla qualificazione della procedura dettata dal Codice. Infatti, in ordine alla delineazione del regime impositivo degli strumenti di regolazione della crisi, non è rilevante tale qualificazione, ma se il piano su cui si fonda la procedura prevede la cessazione dell’attività, a cui consegue normalmente l’estinzione dell’impresa debitrice, cioè l’estinzione del soggetto passivo d’imposta. Per questo motivo, il principio direttivo previsto dalla Legge delega stabilisce, nei confronti delle imprese che non vengono estinte, l’applicazione dell’ordinario regime che presiede alla determinazione del reddito d’impresa e, con riguardo a quelle che si estinguono, l’adozione del regime attualmente previsto per quelle assoggettate alla liquidazione giudiziale, il cui reddito imponibile è determinato - sulla base di un unico periodo d’imposta, la cui durata coincide con quella della procedura - in un importo pari a quello dell’eccedenza del valore fiscale del residuo attivo risultante alla fine della procedura (che rimane nella disponibilità dell’impresa debitrice) rispetto al valore fiscale del patrimonio netto esistente all’inizio della medesima.
Questo principio si fonda sulla considerazione che, nell’ambito di una procedura liquidatoria che comporta l’estinzione dell’impresa debitrice, pur potendosi generare – in base alle ordinarie disposizioni fiscali – componenti positivi di reddito, come ad esempio quelli costituiti da plusvalenze, canoni di affitto e insussistenze di passivo, essi non possono costituire - per loro natura - indici di capacità contributiva (ovverosia una manifestazione di reddito assoggettabile a imposizione), in quanto l’impresa, per effetto di tale tipo di procedura, non acquisisce il possesso del reddito originato da tali componenti, salvo che in presenza di un residuo attivo e nei soli limiti dello stesso (di cui la Legge delega prevede infatti la tassazione); ciò accade perché il ricavato della liquidazione deve essere destinato al soddisfacimento dei creditori e conseguentemente il soggetto passivo d’imposta non realizza alcun incremento patrimoniale di cui possa disporre, fatto salvo – come si è precisato – quello corrispondente al residuo attivo eccedente il patrimonio esistente alla data di apertura della procedura, che rappresenta dunque l’unico reddito che il debitore possiede effettivamente. Rappresenterebbe, infatti, una violazione del principio costituzionale della capacità contributiva e dello stesso presupposto impositivo delle imposte personali sul reddito - individuato dagli articoli 1 e 2 del TUIR, in relazione rispettivamente all’Irpef e all’Ires, appunto, nel possesso del reddito - la tassazione, in base alle regole ordinarie, di un reddito che, pur venendo prodotto sul piano oggettivo, non può essere posseduto dal soggetto passivo d’imposta che lo ha prodotto ed è pertanto privo del collegamento con quest’ultimo (costituito dal possesso) che il legislatore ha previsto ai fini della sua imposizione.
Tuttavia, tale considerazione ha fondamento a una condizione: che il soggetto passivo d’imposta, nei confronti del quale si applichi il regime impositivo basato sulla regola del residuo attivo, cessi la propria attività alla fine della procedura e si estingua. Ciò in particolare per due ordini di motivi.
Innanzitutto, perché, in assenza della cessazione dell’attività, a cui normalmente segue l’estinzione dell’impresa debitrice, il reddito prodotto durante la procedura non sarebbe strumentale solo al soddisfacimento dei creditori, finalità che esclude il reale possesso di quel reddito e ne giustifica la tassazione secondo un criterio diverso da quello ordinario. In assenza della cessazione dell’attività e dell’estinzione dell’impresa, la produzione del reddito durante la procedura sarebbe infatti strumentale alla prosecuzione dell’attività e al conseguimento di redditi futuri e, in questo caso, non vi sarebbe motivo di derogare alle ordinarie regole di determinazione del reddito d’impresa, non essendo tale situazione affatto diversa da quella di un’impresa che in una procedura di risanamento (o persino al di fuori di una procedura), dopo aver realizzato delle perdite, consegua dei redditi di cui, al netto della quota necessaria per la copertura delle perdite subite, acquisirebbe il possesso e disporrebbe pienamente.
Inoltre, perché, se l’applicazione del regime del residuo attivo dipendesse, non dalla cessazione dell’attività e dalla conseguente estinzione dell’impresa debitrice, ma semplicemente dalla natura prevalentemente liquidatoria della procedura, da determinarsi caso per caso, sarebbe inevitabile il rischio di contrasti fra contribuenti e Fisco, di oggettive incertezze applicative delle norme di cui trattasi e anche di abuso delle stesse.
Il discrimine fra il reddito tassabile sulla base del criterio del residuo attivo e quello assoggettabile alle ordinarie regole del reddito d’impresa è quindi da rinvenire in un triplice fattore: nella liquidazione del patrimonio dell’impresa, nell’impiego delle somme da essa rivenienti per il soddisfacimento dei creditori e nell’estinzione del soggetto passivo d’imposta. Ciò posto, rispetto a tale discrimine quel che rileva non è la qualificazione della procedura fornita dal Codice della crisi e dell’insolvenza, ma – come si è osservato – la cessazione dell’attività e l’estinzione dell’impresa, che può essere attuata, ad esempio, anche in un concordato preventivo in continuità indiretta in cui l’impresa concordataria ceda la propria azienda, cioè in una procedura considerata non liquidatoria, ma in continuità (indiretta) dal Codice; per contro, potrebbe non essere prevista in una procedura fondata sulla liquidazione del patrimonio e sia quindi considerata liquidatoria dal Codice, a cui faccia seguito il riavvio di un’attività. Potrebbe peraltro non ritenersi indispensabile l’estinzione formale dell’impresa debitrice, mediante la sua cancellazione dal registro delle imprese, essendo sufficiente la definitiva cessazione della sua attività; in questa ipotesi dovrebbe essere tuttavia previsto, come contrappeso, che il regime del residuo attivo non trovi applicazione nel caso in cui il soggetto passivo d’imposta riprenda la propria attività nel quinquennio successivo alla chiusura della procedura; l’applicazione di tale regime non può tuttavia prescindere dalla integrale e definitiva cessazione dell’attività da parte del debitore.
In considerazione della ratio del principio direttivo di cui trattasi, le relative norme attuative dovrebbero trovare applicazione non solo nella liquidazione giudiziale e nel concordato preventivo, ma anche nel concordato semplificato, nel piano di ristrutturazione soggetto a omologazione fondato su un piano liquidatorio e nell’accordo di ristrutturazione dei debiti avente natura liquidatoria.
Quanto al caso del concordato proposto nella liquidazione giudiziale, disciplinato dall’art. 240 del Codice, occorre considerare che esso si innesta su una procedura che è necessariamente liquidatoria, la quale, a norma del precedente art. 146, si chiude quando il decreto di omologazione del concordato diventa definitivo. In questa ipotesi non può essere revocata in dubbio la natura liquidatoria della liquidazione giudiziale e, inoltre, il concordato previsto dal citato art. 240 costituisce solo un’eventualità e non l’esito naturale di tale procedura; non sussiste quindi il rischio di abusi e, pertanto, non vi è motivo di prevedere con riguardo a tale fattispecie un regime diverso da quello del residuo attivo.
Il medesimo principio direttivo stabilito dalla Legge delega alla lettera a), n. 1), del comma 1 del citato art. 9 attribuisce infine al liquidatore giudiziale il compito di presentare la dichiarazione dei redditi relativa al periodo che va dall’inizio del periodo d’imposta sino al giorno anteriore a quello in cui viene aperta la procedura, il che è confermativo della disciplina previgente; al liquidatore viene però attribuito anche il compito di presentare la dichiarazione relativa all’intero periodo d’imposta precedente, se il relativo termine non è ancora decorso, e tale previsione va a colmare una lacuna presente nella legge, ponendo fine ai contrasti interpretativi al riguardo emersi anche all’interno della stessa Corte di Cassazione.
Il principio direttivo sancito dall’art. 9, comma 1, lettera a), n. 2, delle Legge delega prevede inoltre la segmentazione in due parti, ai fini dell’iva, del periodo d’imposta in cui viene aperto il concordato preventivo, di qualunque natura esso sia e dunque non solo se liquidatorio; ciò al fine di consentire una piena applicazione della compensazione fra crediti e debiti anteriori alla procedura prevista dall’art. 155 del Codice, estesa al concordato preventivo dall’art. 96, che non può trovare attuazione in assenza di tale segmentazione. Viene così superato il mancato coordinamento fra le norme fiscali e quelle dettate dal Codice della crisi, attualmente esistente sulla base della lettera delle disposizioni tributarie, a causa della mancata previsione da parte di queste ultime, con riguardo al concordato preventivo, di una disciplina analoga a quella stabilita per la liquidazione giudiziale e per la liquidazione coatta amministrativa: 1) dall’articolo 74 bis del D.P.R. n. 633/1972, il quale assume ai fini dell’IVA una separazione del periodo d’imposta in corso al momento di efficacia di tali procedure concorsuali in due segmenti: uno che va dall’inizio del periodo d’imposta (1° gennaio) al giorno anteriore a quello di apertura della procedura e un secondo segmento, che inizia in quest’ultima data e si conclude al termine dell’ordinario periodo di imposta (31 dicembre); 2) dall’articolo 8 del D.P.R. n. 322/1998, il quale stabilisce che, entro gli ordinari termini, i curatori o i commissari liquidatori presentano la dichiarazione per le operazioni registrate nell'anno solare in cui è aperta la liquidazione giudiziale ovvero la liquidazione coatta amministrativa e, relativamente alle operazioni registrate nella parte dell'anno solare anteriore alla dichiarazione di liquidazione giudiziale o di liquidazione coatta amministrativa, prevede che venga presentata, entro quattro mesi dalla nomina, apposita dichiarazione al competente ufficio dell'Agenzia delle Entrate ai fini della eventuale insinuazione del relativo credito al passivo della procedura concorsuale.
Essendo questa la ratio del principio direttivo, è di tutta evidenza che la suddetta segmentazione del periodo d’imposta agli effetti dell’Iva è destinata a operare in tutti i tipi di concordato in cui trova applicazione la compensazione fra crediti e debiti maturati anteriormente all’apertura della procedura, a nulla rilevando, sotto questo profilo, la distinzione fra procedure liquidatorie e di risanamento.
L’ulteriore principio direttivo stabilito dall’art. 9, comma 1, lettera a), n. 3, prevede l’estensione a tutti gli istituti disciplinati dal Codice della crisi del regime di detassazione previsto dall’art. 88 del TUIR, il quale stabilisce: 1) al comma 4 ter, primo periodo, la totale irrilevanza fiscale delle sopravvenienze attive da esdebitazione in sede di concordato fallimentare o preventivo liquidatorio; 2) al comma 4 ter, secondo periodo e ss., in caso di concordato di risanamento, di accordo di ristrutturazione dei debiti e di un piano attestato di risanamento, la parziale irrilevanza fiscale delle sopravvenienze attive da esdebitazione, in quanto limitata all’ammontare che eccede l’importo complessivo delle perdite pregresse e di periodo, delle eccedenze di interessi passivi e delle eccedenze “ACE” riportabili in avanti. Tali disposizioni fanno specifico riferimento ai singoli istituti in maniera “casistica”, poiché il legislatore tributario ha di volta in volta adeguato (spesso con ritardo) la formulazione delle disposizioni tributarie ai nuovi istituti introdotti dalla normativa in tema di crisi d’impresa, costringendo imprenditori, professionisti, giudici tributari e la stessa Agenzia delle entrate a interrogarsi sulle possibilità di applicare o meno le disposizioni fiscali in tema di crisi d’impresa alle norme sostanziali caso per caso introdotte dal legislatore. Questa asicronia si è puntualmente verificata anche in occasione dell’entrata in vigore del Codice della crisi con riguardo al piano di ristrutturazione soggetto a omologazione di cui all’art. 64 bis del Codice, al concordato liquidatorio semplificato e al concordato minore, trattandosi di istituti non indicati nell’art. 88 del TUIR, anche se una del tutto ragionevole interpretazione analogica dovrebbe già consentirne l’applicazione anche a tali istituti. Orbene con la Legge delega viene mosso un passo decisivo a favore dell’allineamento sistematico dell’ordinamento tributario attraverso l’estensione a tutti gli istituti disciplinati dal Codice delle disposizioni sopra indicate, per effetto della quale l’esclusione da imposizione delle sopravvenienze attive costituite dalle riduzioni dei debiti dell’impresa debitrice assumeranno espressamente rilevanza anche nel contesto del piano di ristrutturazione omologato, del concordato liquidatorio semplificato, del concordato minore, oltre che con riguardo all’accordo stipulato all’esito della composizione negoziata della crisi, per il quale già provvede l’art. 25 bis del Codice.
Per esigenze di coordinamento fra questo principio direttivo e quello previsto dal n. 1 della medesima lettera a) del comma 1 dell’art. 9 della Legge delega, in considerazione della differenziazione del regime tributario delle procedure a seconda che siano liquidatorie o di risanamento, la suddetta estensione non potrà riguardare anche il primo periodo del comma 4 ter del TUIR relativo agli istituti di tipo liquidatorio, divenendo in tale contesto le sopravvenienze attive da esdebitazione di per sé strutturalmente irrilevanti, atteso che concorreranno alla formazione del residuo attivo eventualmente emergente al termine del maxi-periodo fiscale. Anzi, proprio per questo motivo, lo stesso disposto del primo periodo del citato comma 4 ter dovrà essere corrispondentemente modificato, se non abrogato.
La relazione illustrativa della Legge delega, commentando l’estensione della detassazione delle sopravvenienze da esdebitazione, fa riferimento allo stralcio di debiti che si verifica “in presenza di istituti previsti dal Codice della crisi”. Pur senza sovraccaricare di significato tale espressione, sarebbe il caso di trarne comunque spunto per escludere espressamente la tassazione delle sopravvenienze attive da esdebitazione previste dal piano di concordato preventivo solo per effetto della loro inclusione in tale documento sulla base di un accordo intervenuto con il creditore prima della presentazione della proposta di concordato, a nulla rilevando che l’esdebitazione venga subita dal creditore per effetto della omologazione del concordato ovvero sia dallo stesso concordata mediante un patto para-concordatario la cui efficacia sia condizionata alla omologazione. Non che già oggi la norma possa non essere letta così, ma chiarire meglio il significato delle espressioni “in sede di concordato….” e “in caso di concordato …..” attualmente contenute nel citato comma 4 ter dell’art. 88 del TUIR sarebbe in generale utile.