Saggio
Pegno non possessorio e strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza*
Tommaso Senni, Avvocato in Milano e docente a contratto all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
14 Marzo 2023
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Sommario:
Ai fini della piena operatività del pegno non possessorio, si attende, a questo punto, la pubblicazione sul sito internet dell'Agenzia delle Entrate di un comunicato che indichi la data di attivazione del Registro dei pegni non possessori; a partire dal giorno successivo a tale pubblicazione, potranno essere presentate le domande di iscrizione.
La disciplina del pegno non possessorio rappresenta il punto di arrivo di una lunga evoluzione normativa, che ha portato, in una certa misura, al superamento dei ristretti limiti di operatività del pegno “tradizionale”, come previsti dagli articoli 2784 e ss. c.c.[3]: tali norme, come noto, prevedono che il pegno di beni mobili si costituisce con la consegna al creditore della cosa o del documento che conferisce l’esclusiva disponibilità della cosa (dunque, con lo spossessamento). Riguardo all’esatto significato da attribuire al termine “spossessamento”, è appena il caso di citare l’orientamento della Suprema Corte, che ha precisato (a più riprese) che “elemento essenziale del diritto di pegno è lo spossessamento del debitore, inteso come l'effettiva perdita della materiale disponibilità della cosa mobile oggetto della garanzia”[4].
Nel solco di tale orientamento della giurisprudenza (motivato dalla natura del pegno quale contratto reale), la dottrina ha confermato che “la perdita di possesso del bene oggetto della garanzia da parte del debitore” deve intendersi “quale requisito essenziale ai fini della costituzione del pegno[5]. L'effettivo spossessamento del costituente, ai sensi dell'art. 2786 c.c., può concretizzarsi con la consegna della cosa o del documento rappresentativo che ne conferisca l'esclusiva disponibilità al creditore o ad un terzo designato dalle parti e deve essere realizzato in fatto (mentre non è sufficiente che nell'atto costitutivo del pegno se ne dichiari la sussistenza). Secondo una giurisprudenza consolidata, sono da considerarsi rappresentativi i documenti conformi alla disposizione di cui all'art. 1996 c.c., quali la nota di pegno e la fede di deposito emesse dai magazzini generali (art. 1790 c.c.) e la polizza di carico (art. 260 c. nav.)[6]. I titoli rappresentativi incorporano in sé il diritto, e quindi la trasmissione del documento ad altro soggetto trasferisce il diritto stesso; solo tali titoli comportano traslazione del possesso e conferiscono al creditore il diritto di aver consegnata la cosa in essi specificata, consentendogli così, nel caso di inadempimento, di venderla liberamente o di averla assegnata. Lo spossessamento fa sì che il costituente sia nell' impossibilità di disporre del bene «senza la cooperazione del creditore» (art. 2786, 2° comma, c.c.); ciò appare specificamente rilevante ai fini dell'opponibilità ai terzi (art. 2787, 2° comma, c.c.)[7]. Lo spossessamento infatti, oltre a costituire reale garanzia per il creditore, soddisfa l'esigenza di pubblicità, in modo tale che i terzi possano sapere che su un determinato bene insiste un diritto di pegno”[8].
Non sono mancate, peraltro, pronunce della giurisprudenza sugli effetti del mancato rispetto del requisito dello spossessamento. Secondo il Tribunale di Roma, ad esempio, “è invalida la costituzione del pegno di cosa mobile in assenza dello spossessamento del debitore pignoratizio e perciò dà luogo ad una garanzia atipica il contratto con il quale venga realizzata la custodia dei beni presso i magazzini della società debitrice, con facoltà per la medesima di sostituirli e con il solo onere, per il consegnatario, di annotare il carico e lo scarico sul libro magazzino da trasmettere periodicamente al creditore per i relativi controlli”[9].
Proprio in virtù degli orientamenti di cui si è detto, il c.d. pegno “con patto di rotatività” (una forma di garanzia, per definizione, non possessoria) aveva trovato sostegno solo parziale (e tardivo) da parte della giurisprudenza (che si era espressa, tra l’altro, in termini non sempre lineari e coerenti): va segnalata, al riguardo, la fondamentale decisione della Suprema Corte n. 5264/1998 (che interveniva a seguito di numerosi precedenti sfavorevoli al riconoscimento della clausola di rotatività): la pronuncia ammetteva la sostituzione dei beni originariamente assoggettati a pegno, sia pur solo «a condizione che la sostituzione avvenga entro i limiti di valore dei beni originariamente consegnati» (ciò al fine di evitare che la modifica medio tempore dell’oggetto della garanzia potesse consentire al creditore manovre per alterare surrettiziamente il valore intrinseco della garanzia)[10].
La possibilità di sostituire (rectius, di trasformare) il bene oggetto di garanzia era stata contemplata da norme speciali, in tema di pegno sui prosciutti d.o.c. (l. n. 401/85) e sui formaggi a lunga stagionatura (art. 7, l. n. 122/01). In particolare, l’art. 2 della l. n. 401/85 prevede che “il debitore può disporre dei prosciutti [...] costituiti in pegno ai soli fini della lavorazione [...] e assume in relazione ad essi gli obblighi e le responsabilità del depositario”. La norma era stata introdotta al fine di consentire ai produttori di costituire garanzie mobiliari sui beni senza doversene spossessare materialmente. Pur considerata la limitatezza dell’ambito applicativo, tale normativa è stata comunque di grande importanza per lo sviluppo di nuove fattispecie (sia pur speciali e settoriali) di pegno non possessorio. La prassi commerciale ha, così, iniziato a ricorrere alla clausola di rotatività, secondo la quale l’oggetto del pegno poteva essere sostituito nel tempo, senza che ciò comportasse la novazione della garanzia (ed escluso, comunque, per definizione, il diritto di sequela sui beni oggetto di pegno: in caso di cessione degli stessi, infatti, la garanzia si sarebbe trasferita automaticamente sul corrispettivo dovuto dal cessionario).
Un passo in avanti nel riconoscimento del pegno non possessorio (o, almeno, della possibilità che il bene concesso in garanzia potesse essere sostituito, senza che ciò producesse effetti novativi), è stato compiuto (anche su impulso della giurisprudenza e della dottrina)[11] con il d.lgs. 21 maggio 2004, n. 170, in attuazione della direttiva 2022/47/CE. Veniva, così, introdotta la figura del contratto di garanzia finanziaria, che ricomprendeva anche l’atto costitutivo di pegno su attività finanziarie, rappresentate, tra l’altro, da contante, strumenti finanziari e crediti. Veniva riconosciuta, in particolare, la legittimità della “clausola di sostituzione” definita, all’art. 1 (g) del Decreto n. 170/2004, come la clausola che ammette la sostituzione, in tutto o in parte, dell’oggetto del pegno, nei limiti di valore dei beni originariamente costituti in garanzia. Inoltre, ai sensi degli artt. 5 e 9 del medesimo Decreto:
a) il creditore pignoratizio può disporre, anche mediante alienazione, delle attività finanziarie oggetto del pegno, se previsto nel contratto di garanzia finanziaria e conformemente alle pattuizioni in esso contenute. In tal caso (i) il creditore avrà l’obbligo di ricostituire la garanzia equivalente in sostituzione della garanzia originaria entro la data di scadenza dell’obbligazione finanziaria garantita e (ii) la ricostituzione della garanzia equivalente non comporta costituzione di una nuova garanzia e si considera effettuata alla data di prestazione della garanzia originaria;
b) agli effetti di cui agli articoli 66 e 67 della (allora vigente) legge fallimentare (oggi gli articoli 165 e 166 CCII), la prestazione della garanzia in conformità ad una clausola di sostituzione non comporta costituzione di una nuova garanzia e si considera effettuata alla data della prestazione della garanzia originaria.
Un meccanismo di sostituzione era, inoltre, già stato previsto per il pegno di strumenti finanziari dematerializzati, tramite appositi conti destinati a consentire la costituzione di vincoli “sull’insieme degli strumenti finanziari in essi registrati” (ai sensi dell’art. 83-octies Testo Unico della Finanza). In tal caso, però, come messo in evidenza dalla dottrina più attenta[12], la rotatività assume connotati peculiari: si prevede, infatti, che l’originario vincolo di garanzia permanga non solo in caso di sostituzione dei beni assoggettati a pegno, ma anche in caso di “integrazione” dei beni originari (o sostituti): il regolamento emanato da Banca d’Italia e Consob il 22 febbraio 2008[13] prevede, in particolare, che “per gli strumenti finanziari registrati in conto in sostituzione o integrazione di altri strumenti finanziari registrati nel medesimo conto, a parità di valore, la data di costituzione del vincolo è identica a quella degli strumenti finanziari sostituiti o integrati”.
Un meccanismo di sostituzione ed integrazione della garanzia è inoltre implicito (almeno secondo l’opinione maggioritaria della dottrina)[14] nella prelazione dell’art. 46 del Testo Unico Bancario, in tema di finanziamenti a medio-lungo termine alle imprese, che costituisce, però, come noto, un privilegio mobiliare e non un pegno.
Appare evidente che l’introduzione del pegno non possessorio ha la finalità di favorire l’accesso al credito da parte delle imprese, che potranno, così, ricorrere ad un finanziamento senza privarsi della materiale disponibilità dei beni su cui viene costituita la garanzia. Occorre, tuttavia, prendere in esame le possibili implicazioni del pegno non possessorio nel contesto (più specifico) in cui il costituente pegno (che potrebbe non coincidere con l’obbligato principale) decida di avvalersi di uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza d’impresa (o sia assoggettata ad una procedura di insolvenza), ai sensi del CCII. In contesto di crisi d’impresa, infatti, il pegno non possessorio si presta a considerazioni del tutto peculiari: da un lato, in generale, come sottolineato dalla dottrina[15], l’istituto sembra inserirsi in un trend normativo volto a comprimere le tutele previste a favore dei creditori chirografari nell’ambito della crisi d’impresa. A supporto di tale tesi, vengono tradizionalmente citate le norme in tema di nuova finanza nel concordato preventivo e nell’accordo di ristrutturazione dei debiti (artt. 182 quater e 182 quinquies della Legge Fallimentare), alla disposizione sulla prededucibilità dei crediti sorti in fase di apertura del concordato (art. 161, comma 7, Legge Fallimentare)[16], alla limitazione per i creditori di presentare opposizione all’omologazione del concordato preventivo e fallimentare (artt. 129 e 180 della Legge Fallimentare), oppure alle forme atipiche di garanzia, come il trasferimento di beni immobili sospensivamente condizionato, che assiste gli obblighi di rimborso del finanziamento alle imprese (art. 48 bis del Testo Unico Bancario), o come lo stesso pegno non possessorio. Secondo la citata opinione, tale compressione delle tutele dei creditori chirografari è “comprensibile, nell’ottica di una reazione emergenziale alla crisi del mercato del credito, anche se, in una prospettiva temporale più ampia e meno contingente, ci si potrebbe domandare se conservare la fiducia dei creditori non garantiti (“non-adjusting creditors”) abbia davvero un ruolo così marginale nell’economia di una piccola o media impresa”. In questo senso, dunque, il pegno non possessorio rappresenta l’ultima conferma di una linea evolutiva di rafforzamento delle tutele a favore del ceto dei creditori muniti di prelazione (in questo caso, in virtù di un titolo convenzionale), rispetto ai creditori chirografari.
Dall’altro lato, oggi i creditori garantiti si trovano a far fronte a strumenti di protezione (a favore del debitore) rinnovati, quali, in primis, le misure protettive. Come noto, con l’entrata in vigore del CCII, viene introdotta la possibilità, per l’imprenditore in stato di crisi, di richiedere l’applicazione delle misure protettive, definite dall’articolo 1, comma 1, lett. (p) CCII come le “misure temporanee richieste dal debitore per evitare che determinate azioni dei creditori possano pregiudicare, sin dalla fase delle trattative, il buon esito delle iniziative assunte per la regolazione della crisi o dell’insolvenza, anche prima dell’accesso ad uno degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza”. Le misure in esame sono necessariamente collegate ad uno “strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza” (come definiti dalla medesima norma, al paragrafo (m bis)), in quanto funzionali, per loro natura, a preservare – per quanto possibile – il buon esito delle trattative con il ceto creditorio. Le misure protettive possono essere richieste, d’altra parte, anche in connessione alla composizione negoziata della crisi, pur se non comprese nella definizione di “strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza”, in virtù di quanto previsto dall’articolo 18 CCII.
Al riguardo, occorre chiedersi come si atteggi il pegno non possessorio in caso di applicazione di misure protettive e, in particolare, se vi siano particolarità da considerare ove le misure protettive (in pendenza della procedura di composizione negoziata) coinvolgano anche beni costituti in pegno in base alle nuove norme sulla garanzia reale non possessoria (paragrafo 2 di cui infra).
In secondo luogo, esaurita la trattazione sulle misure protettive (in contesto di composizione negoziata), occorre prendere in esame lo scenario di insolvenza e interrogarsi sull’opponibilità del pegno non possessorio in regime di liquidazione giudiziale: non si può escludere, infatti, che alla composizione negoziata (rafforzata dalle misure protettive) faccia seguito la liquidazione giudiziale. In quel caso, occorre analizzare la posizione del creditore assistito da pegno non possessorio, per verificare eventuali peculiarità rispetto al pegno tradizionale. Non avendo potuto escutere la garanzia nella composizione negoziata, il creditore pignoratizio deve prendere atto che il realizzo del pegno è soggetto ad ulteriori (ma diverse) limitazioni nella liquidazione giudiziale. Quanto ai rapporti tra il pegno non possessorio e le procedure concorsuali, l’articolo 1, comma 4 del Decreto n. 59/2016 prevede che esso diventi opponibile alle “procedure esecutive e concorsuali” dal momento dell’iscrizione nel Registro dei pegni non possessori. Tuttavia, occorre esaminare il dettaglio la disciplina sul pegno non possessorio, per verificare l’assoggettabilità a revocatoria fallimentare e a revocatoria ordinaria, oltre che le peculiarità delle procedure di enforcement della garanzia (paragrafo 3 di cui infra).
Come noto, il contenuto di tali misure è sostanzialmente analogo a quello previsto dall’articolo 54, comma 2, primo e secondo periodo, CCII (per il concordato preventivo). Tuttavia, nella composizione negoziata, già dalla data della pubblicazione al Registro delle Imprese, i creditori interessati non possono acquisire diritti di prelazione se non concordati con l’imprenditore, né possono iniziare o proseguire azioni esecutive e cautelari (ivi incluse le procedure di escussione di garanzie reali) sul suo patrimonio o sui beni e sui diritti con i quali viene esercitata l’attività d’impresa. D’altra parte, non sono inibiti i pagamenti e l’imprenditore mantiene la gestione ordinaria e straordinaria dell’azienda (salve le eventuali manifestazioni di dissenso da parte dell’esperto).
Con l’istanza di concessione delle misure, l’imprenditore può chiedere che queste siano applicate solo a determinate iniziative dei creditori a tutela dei propri diritti o a determinati creditori o categorie di creditori.
In base agli articoli 18 e 19 CCII, l’imprenditore può richiedere la conferma delle misure protettive con ricorso presentato al Tribunale entro il giorno successivo alla pubblicazione dell’istanza e dell’accettazione dell’esperto, chiedendo la conferma (o la modifica) delle stesse misure. Il Tribunale, a sua volta, fissa, con decreto, l’udienza di trattazione ed il ricorso, unitamente al decreto, è notificato dal ricorrente ai controinteressati e all’esperto. All’udienza, il Tribunale, “sentite le parti e chiamato l’esperto a esprimere il proprio parere sulla funzionalità delle misure richieste ad assicurare il buon esito delle trattative, […] nomina, se occorre, un ausiliario […] e procede […] ai provvedimenti di conferma, revoca o modifica delle misure protettive”.
Una volta concessa, la misura protettiva può essere, poi, prorogata su istanza delle parti, previa acquisizione del parere dell’esperto, “per il tempo necessario ad assicurare il buon esito delle trattative”. All’opposto, le misure possono essere revocate (o la loro durata può essere abbreviata) in qualunque momento, su istanza dell’imprenditore o di un creditore o su segnalazione dell’esperto (e, in ogni caso, a seguito dell’archiviazione dell’istanza ai sensi dell’articolo 17, commi 5 e 8 CCII), quando esse “non soddisfano l’obiettivo di assicurare il buon esito delle trattative o appaiono sproporzionate rispetto al pregiudizio arrecato ai creditori istanti”.
Dunque, in sostanza, la condizione minima perché le misure protettive vengano concesse è il fatto che queste risultino “funzionali ad assicurare il buon esito delle trattative”. Specularmente, il giudice revoca o abbrevia la durata delle misure protettive quando queste: (i) non soddisfino l'obiettivo di assicurare il buon esito delle trattative e/o (ii) appaiano sproporzionate rispetto al pregiudizio arrecato ai creditori istanti (art. 19, comma 6 CCII).
Tali fattispecie riflettono, del resto, l'art. 6, comma 9, della direttiva insolvency. Quanto all'ipotesi di revoca per “sproporzionato pregiudizio” ai creditori (prevista dall'art. 6.9(c) della direttiva insolvency), il considerando (36) precisa che, per determinare se esso sia tale da legittimare la revoca delle misure protettive, occorre valutare “se la sospensione preservi il valore complessivo della massa fallimentare” (in caso contrario, potrebbe aprirsi la strada per la revoca delle misure protettive). Le misure protettive (se concesse) potrebbero, infatti, dar luogo ad un “ingiusto pregiudizio”, che potrebbe concretizzarsi nella diminuzione del valore della garanzia, rappresentata dai beni soggetti a misure protettive: potrebbe trattarsi, nel caso di beni mobili, del rischio di dispersione del bene (rectius, del valore della garanzia) in caso di pegno non possessorio, non bilanciata dall’oggettiva necessità delle misure protettive (o addirittura motivata da un intento abusivo, strumentale o fraudolento da parte dell’imprenditore). Il già citato considerando (36) indica anche il caso del debitore che “agisca in malafede o con l'intento di arrecare pregiudizio o, in generale, agisca contro le aspettative legittime della massa dei creditori”[17]. Si tratta di una sorta di clausola generale “anti-abuso”, che può dar luogo alla revoca delle misure protettive, e che si affianca al caso degli atti e pagamenti non autorizzati (art. 21, comma 5 CCII)[18].
Sul giudice incombe, dunque, una valutazione complessiva sulla legittimità delle misure richieste (dal punto di vista sostanziale, cioè alla luce di tutte le circostanze di fatto e di diritto, nessuna esclusa), per far emergere eventuali ragioni per la revoca (o l’abbreviazione). La valutazione deve essere condotta con riferimento al patrimonio del debitore nel suo complesso, al fine di tutelare tutti i creditori indistintamente (pur nel rispetto delle cause di prelazione, in quanto applicabili): la “cristallizzazione” di uno schermo protettivo a favore del patrimonio del debitore (se non giustificata da ragioni riconosciute legittime dalla direttiva e dal CCII) potrebbe configurare una forma di sottrazione surrettizia (e ingiustificata) di garanzie a favore dei creditori, ex art. 2740 c.c.: si pensi al caso in cui le misure protettive vengano richieste solo per avallare la prosecuzione acritica dell’attività d’impresa (pur in difetto delle minime marginalità economiche che la giustifichino e, dunque, con l’accumulo di perdite, a tutto detrimento dei flussi finanziari che potrebbero essere, invece, posti a servizio del debito), oppure per porre al riparo (dei creditori) scellerati atti di gestione, da cui consegua la dissipazione del patrimonio del debitore (pur tenuto conto del possibile intervento dell’esperto). In tali scenari, la misura protettiva può ben apparire sproporzionata rispetto al pregiudizio arrecato ai creditori.
Il tema è ulteriormente affrontato nel considerando (37) della direttiva insolvency, che si occupa del pregiudizio subìto dai creditori titolari di garanzie reali su beni compresi nel patrimonio, qualora, per esempio, questi “risultassero in una situazione sostanzialmente peggiore di quella in cui si troverebbero senza la sospensione, o il creditore risultasse svantaggiato rispetto agli altri creditori che si trovano in una posizione simile”.
In termini ancor più precisi, il considerando (34) e l'art. 6.4(a) della direttiva offrono ulteriori spunti interpretativi:
a. il considerando (34) della direttiva insolvency prevede quanto segue: “una sospensione delle azioni esecutive individuali può̀ essere generale, riguardando tutti i creditori, o può interessare solo alcuni singoli creditori o categorie di creditori. Gli Stati membri dovrebbero poter escludere determinati crediti o categorie di crediti dall'ambito di applicazione della sospensione in circostanze ben definite, come i crediti che sono garantiti da attività la cui eliminazione non pregiudicherebbe la ristrutturazione dell'impresa, o come quando i crediti vantati da creditori nei cui confronti una sospensione causerebbe un ingiusto pregiudizio nella forma, ad esempio, di perdite non compensate o di un deprezzamento della garanzia reale”.
b. ai sensi dell’articolo 6, comma 4 della direttiva insolvency (“sospensione delle azioni esecutive individuali”), “gli Stati membri possono escludere determinati crediti o categorie di crediti dall'ambito di applicazione della sospensione delle azioni esecutive individuali, in circostanze ben definite, qualora tale esclusione sia debitamente giustificata e qualora: a) un'azione esecutiva non sia suscettibile di compromettere la ristrutturazione dell'impresa […]”.
In base alla direttiva, dunque, è possibile (anzi doveroso) revocare (non confermare) una misura protettiva che insista su beni costituiti in garanzia, qualora le misure richieste possano arrecare ai creditori un ingiusto pregiudizio e se, per giunta, un’eventuale esecuzione forzata sugli stessi beni non possa comunque mettere a rischio il buon esito il percorso di risanamento (in tali casi, pare evidente la sproporzione dello stay rispetto al pregiudizio subìto dai creditori): ci si riferisce, tipicamente, ai beni diversi da quelli strumentali e, in generale, ai beni non funzionali alla continuità aziendale (quali, ad esempio, una collezione di quadri di valore pignorati o immobili ipotecati diversi da quelli in cui viene svolta l'attività): in tali casi, è argomentabile che la misura protettiva possa essere revocata (non confermata), per superfluità e/o non proporzionalità rispetto ai pregiudizi subìti ai creditori.
In sostanza, il giudice è chiamato a verificare se la richiesta di misure protettive riguardi beni su cui gravi già una garanzia reale, ma che, di per sé, non rappresentino asset essenziali per la riuscita del progetto di turnaround. Si tratta di una valutazione non scontata, considerato che alcuni beni (pur se, per loro natura, slegati dalla continuità aziendale) potrebbero risultare comunque essenziali a garantire i flussi di cassa necessari alla soddisfazione dei creditori (si pensi, per ipotesi, a beni non funzionali alla continuità, come impianti fotovoltaici realizzati nello stabilimento produttivo, da cui possano derivare, comunque, flussi finanziari necessari per la riuscita del progetto di salvataggio). Sembra, di conseguenza, che l’indagine del giudice non debba fermarsi (staticamente) alla natura intrinseca dei beni, ma debba spingersi, piuttosto, alla loro collocazione “strategica” (i.e., il loro “peso specifico”, la loro attitudine a contribuire in maniera essenziale al rilancio) nella dinamica del piano industriale e finanziario. Un bene che, di per sé, non è funzionale alla continuità aziendale, potrebbe essere essenziale per la riuscita del percorso di ristrutturazione: in quest’ultimo caso, la “superfluità” della misura protettiva (su tali beni) potrebbe risultare molto meno scontata. Tali elementi di valutazione potrebbero, peraltro, derivare dalle indagini dell’esperto e dell’ausiliario (il cui contributo qui emerge con particolare evidenza).
Ciò premesso, allora, ci si può chiedere in che termini le norme di cui sopra si coordinino con il pegno non possessorio.
Come noto, (ai sensi dell’art. 1, commi 1, 2 e 3 del Decreto 59/2016) i crediti garantiti devono essere “inerenti all’esercizio dell’impresa” e il pegno non possessorio può avere ad oggetto esclusivamente “beni mobili, anche immateriali, destinati all'esercizio dell'impresa e sui crediti derivanti da o inerenti a tale esercizio, a esclusione dei beni mobili registrati”. Ne deriva che i beni oggetto di pegno non possessorio possono essere esclusivamente beni legati (“destinati”, “derivanti da” o “inerenti a”) l’esercizio dell’attività d’impresa.
Secondo la dottrina prevalente[19], il requisito della destinazione imprenditoriale del bene pignorato deve essere inteso in senso estensivo: è sufficiente che il bene rientri nel patrimonio aziendale, mentre non si richiede una indagine analitica e rigorosa circa l’utilizzo effettivo e in concreto del bene nell’ambito dell’attività d’impresa del concedente. In sostanza, secondo l’orientamento in parola, sono inidonei alla garanzia solo i beni non compresi nell’azienda del costituente (art. 2555 c.c.)[20]. Maggiori difficoltà interpretative pone l’esclusione dei “beni mobili, anche immateriali, registrati”[21]: se i beni suscettibili di ipoteca mobiliare (ai sensi dell’art. 2810, comma 2, c.c., come autoveicoli, navi e aeromobili) devono essere pacificamente esclusi, può crearsi qualche incertezza[22] sull’assoggettabilità al pegno non possessorio dei seguenti beni (pur se ricompresi, in generale, nel tradizionale perimetro del complesso aziendale):
- i marchi registrati, i brevetti e, in generale, i diritti di proprietà industriale, sui quali una garanzia può essere perfezionata mediante la trascrizione del relativo atto costitutivo presso l’Ufficio italiano brevetti e marchi (art. 138, comma 1°, c. prop. ind.), con esclusione, dunque, delle regole previste in tema di pegno non possessorio;
- le quote di s.r.l.[23], che possono essere costituite in pegno mediante iscrizione nel registro delle imprese, ai sensi dell’art. 2470 c.c.[24] (anche in questo caso, la disciplina si sovrappone a quella prevista, in via speciale, per il pegno non possessorio).
Alla luce di quanto precede, le regole sul realizzo della garanzia pignoratizia non possessoria si prestano ad una considerazione di carattere più generale. Nel contesto della liquidazione giudiziale, infatti, tale procedura di liquidazione “preferenziale” (nei termini di cui si è detto) potrebbe finire per ostacolare la liquidazione dell’azienda nel suo complesso, o di un ramo d’azienda che comprenda il bene costituito in pegno (specie se si considera che oggetto di pegno non possessorio siano beni strumentali: questi potrebbero seguire un iter di liquidazione autonomo, sottraendosi alla procedura di liquidazione dell’azienda del suo complesso; le prospettive di realizzo dell’azienda potrebbero, dunque, deteriorarsi per effetto della esclusione di beni soggetti ad un proprio iter di liquidazione). Anche per fornire un bilanciamento con gli opposti interessi del debitore e del terzo datore di pegno, l’art. 1, comma 7, bis del Decreto n. 59/2016 prevede il diritto di tali soggetti di opporsi all’escussione del pegno entro cinque giorni dall'intimazione di cui al comma 7: “ove concorrano gravi motivi, il giudice, su istanza dell'opponente, può inibire, con provvedimento d'urgenza, al creditore di procedere a norma del comma 7”: a parere di chi scrive, non vi sono ragioni per escludere che tale previsione sia applicabile nel contesto della liquidazione giudiziale. Analogamente, si ritiene che il curatore fallimentare possa attivare i rimedi (risarcitori) previsti dal comma 9, qualora i diritti del creditore pignoratizio siano stati esercitati con modalità anomale e in spregio ai valori correnti di mercato dei beni costituiti in pegno.
In ogni caso, come chiarito dall’articolo 1, comma 8 del Decreto 59/2016, spetterà al creditore dimostrare non solo l’esistenza del proprio credito, ma anche il fatto che esso è assistito da una causa di prelazione (quale, appunto, il pegno non possessorio). Ci si potrebbe chiedere, a questo riguardo, se vi siano peculiarità nella procedura (e nei requisiti) di ammissione al passivo di crediti assistiti da pegno non possessorio: orbene, pur considerato che l’art. 93 della legge fallimentare (oggi articolo 201 CCII) non viene espressamente citato dalla disciplina sul pegno non possessorio, la norma sembra applicabile anche a tale garanzia reale. Pertanto, il creditore pignoratizio, nella domanda di ammissione al passivo, dovrà fornire indicazione analitica del bene oggetto di pegno, al fine di consentirne l’esatta individuazione (come previsto, appunto, dall’art. 93, comma 4, n. (4), Legge Fallimentare – oggi articolo 201, comma 3 (d) CCII). Come si è visto, però, i beni oggetto del pegno possono essere sostituiti o subire trasformazioni; ne potranno derivare, pertanto, adempimenti e costi per il rinvenimento e l’individuazione esatta del bene (costi dei quali si suppone debba farsi carico il creditore, su cui incombe l’onere di provare i fatti costitutivi della propria domanda di ammissione al passivo)[30].
Sempre riguardo all’ammissione al passivo del credito pignoratizio, va citato un ulteriore aspetto. Come si è detto, considerata l’assenza dello spossessamento, si ritiene ammissibile la costituzione di molteplici vincoli pignoratizi sul medesimo bene, potendosi configurare, dunque, anche un pegno di secondo grado, in termini non dissimili (mutatis mutandis) dall’ipoteca[31]. Ai fini della domanda di ammissione al passivo (oltre che ai fini della citata procedura di enforcement), si dovrà tener conto di tale aspetto, dovendosi assicurare, tra l’altro, la prova puntuale del “grado” del pegno (a differenza di quanto avviene per la pretesa del creditore assistito da pegno comune), ai fini dell’ammissione al passivo, nel rispetto dei principi sulla opponibilità (oltre che, ovviamente, la priorità nella soddisfazione delle ragioni del creditore pignoratizio “di primo grado” rispetto ai creditori pignoratizi di rango inferiore).
Note: