Nell’accostarci, infine, alle disposizioni che il Codice della crisi del 2019 prevede per l’imprenditore agricolo, e soffermandoci nuovamente sui primi due articoli del Testo normativo, possiamo osservare quanto segue.
Nell’art. 1, laddove si fa riferimento all’ambito soggettivo di applicazione del codice, si menziona l’imprenditore agricolo tout court facendo quindi riferimento sia all’esercizio dell’impresa agricola in forma individuale che a quella in forma collettiva. E fin qui nulla quaestio: già dal 2011, e in particolare con l’emanazione del D.L. 6 luglio 2011 n. 98, convertito con modificazioni in L. 15 luglio 2011 n. 111, era stato chiaro che il legislatore riteneva indispensabile approntare degli strumenti di risoluzione della crisi anche per l’impresa agricola che, fino a quel momento, era stata esclusa da qualsiasi possibilità di soluzione concordataria[16]. L’art. 23, comma 43, consentiva infatti agli imprenditori agricoli in stato di crisi o di insolvenza di accedere agli accordi di ristrutturazione dei debiti previsti dall’art. 182 bis L. fall. Del resto, la dottrina agraristica e quella commercialistica in frequenti occasioni si erano espresse, benché non unanimemente, a favore dell’estensione della procedura fallimentare anche all’impresa agricola[17], come già avvenuto in Francia, dove è stato messo a punto un sistema legislativo fallimentare adeguato alle specificità del settore agricolo.
E anche la Suprema Corte ha in più occasioni richiesto un rigoroso accertamento in ordine alla sussistenza dei requisiti previsti dall’art. 2135 c.c. con particolare riferimento al collegamento funzionale dell’impresa con il fondo, attribuendo la qualifica di impresa commerciale assoggettabile al fallimento tutte le volte in cui tale collegamento non aveva alcuna incidenza sul ciclo produttivo ed il fondo era stato di fatto degradato a mero bene fungibile[18]
Soffermandoci brevemente sul contesto normativo nel quale ci si muove, l’art. 2135 c.c., come modificato dal D.Lgs. 18 maggio 2001, n. 228 (Orientamento e modernizzazione del settore agricolo) indica i criteri oggettivi per l’individuazione della pertinenza alla nozione espressa dalla norma delle attività agricole principali (la coltivazione del fondo, la selvicoltura e l’allevamento di animali), nonché di quelle connesse. Con riguardo alle attività agricole principali, dal punto di vista giuridico, gli elementi caratterizzanti l’attività agricola sono il “ciclo biologico”, da intendersi come il complesso di attività dirette al mantenimento o all’evoluzione di una specie vegetale o animale, e “l’utilizzo del fondo”, quale strumento, effettivo o solamente potenziale, per l’esercizio di tali attività. La centralità del collegamento diretto con il fondo, caratteristica della versione precedente dell’art. 2135 c.c., è stata sostituita dalla “cura” e dallo “sviluppo del ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso”, di una specie vegetale o animale. Attività, queste ultime, che non richiedono necessariamente l’utilizzo diretto del fondo, del bosco, delle acque dolci, salmastre o marine, essendo invece sufficiente solo una potenzialità in tal senso.
La definizione di imprenditore agricolo risultante dall’art. 2135 c.c., risulta dunque significativamente mutata rispetto al passato, favorendone la multifunzionalità, nel senso che consente di ricomprendere tra le attività di imprenditoria agricola anche quelle connesse alle principali, dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione che abbiano ad oggetto prodotti ottenuti “prevalentemente” dalla coltivazione o dall’allevamento, nonché quelle produttive di beni o servizi ottenuti utilizzando “prevalentemente” attrezzature o risorse dell’azienda, normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata.
Detta multifunzionalità è divenuta ormai la scelta strategica intrapresa da molte aziende agricole che, a vario livello, svolgono diverse attività per rispondere agli effetti negativi - primi fra tutti la bassa redditività e la perdita di autonomia nei confronti del mercato - derivanti da un sistema orientato prevalentemente alla produzione di beni materiali (beni primari / beni alimentari e fibre). Per le imprese agricole la multifunzionalità rappresenta una “nuova” modalità di organizzazione dei fattori produttivi (risorse interne) e di interazione con le risorse esterne (il territorio), finalizzata al perseguimento di obiettivi economici, ambientali e sociali nel medio e lungo periodo. Vista in un’ottica più generale, la multifunzionalità rappresenta una linea strategica fondamentale nel processo di sviluppo del settore agricolo e del mondo rurale. Il ruolo dell’agricoltura, infatti, ormai da diversi anni non è più riconducibile esclusivamente alla sua funzione di produzione di beni di prima necessità, ma si amplia attraverso il riconoscimento e lo svolgimento di altre funzioni di tipo ambientale, sociale, paesaggistico, storico-culturale, etc.
Scendendo un po’ più nel dettaglio, la nozione di imprenditore agricolo prevista dall’art. 2135 c.c. comma 1, si collega in primo luogo a quelle che vengono considerate attività agricole principali, ossia la coltivazione del fondo; la selvicoltura; l’allevamento di animali. Ai sensi del successivo comma 2, la coltivazione del fondo è l’attività diretta alla cura e allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso della specie vegetale, che utilizza o può utilizzare il fondo. Riferendosi la norma alle attività che utilizzano o “possono” utilizzare il fondo (si pensi, ad esempio, alle coltivazioni in serra) se ne può concludere che sono attività agricole anche quelle che sviluppano colture che non utilizzano necessariamente il fondo come campo aperto per l’esercizio dell’attività di produzione. Ciò che rileva infatti è che la coltivazione, pur essendo “fuori terra”, riguarda colture che potrebbero essere realizzate anche in terra, e dunque sussiste un collegamento potenziale con il terreno[19]. Ne deriva l’inclusione tra le attività agricole delle colture in serra, della funghicoltura e della vivaistica, potendo la “coltivazione” riguardare l’essere vegetale tanto “nel suo intero ciclo biologico, quanto in una parte essenziale dello stesso”.
L’attività selvicolturale consiste nella cura e nello sviluppo del ciclo biologico del bosco. Tale attività si caratterizza per la particolarità del suo oggetto, costituito dal bosco, che dà il legname, ma anche servizi per la collettività definiti ambientali: la tutela e la conformazione del paesaggio, l’equilibrio idrogeologico, la qualità e la purezza dell’aria, la saldezza del suolo, etc. Ne deriva che l’attività di impresa agricola di tipo selvicolturale consiste nella produzione e nella commercializzazione del legno e dei derivati del bosco (pigne, pinoli, resina, ecc.) nonché nella produzione dei servizi c.d. ambientali; in particolare, l’alienazione di prodotti del bosco rientra tre le attività agricole, nello specifico tra le attività di “selvicoltura”, qualora sia conseguenza della normale attività boschiva, essendo ritenuta attività commerciale nel caso in cui avvenga in presenza di altre operazioni aventi una propria rilevanza[20].
L’attività di allevamento, nella precedente formulazione dell’art. 2135 c.c., faceva riferimento al solo allevamento di “bestiame” (ossia di bovini, equini, caprini, suini e ovini) e non al termine “animali”, che ricomprende ogni tipologia[21].
Il termine bestiame designava, in coerenza con l’impianto generale di politica del diritto dell’impresa agricola, le sole specie animali legate al fondo. Venuto meno il collegamento necessario tra l’attività agricola e il fondo, risulta che è attività agricola l’allevamento che si risolve nella cura di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso. La dottrina prevalente esclude invece dall’impresa di allevamento agricolo le attività di allevamento di animali carnivori, come gatti, visoni, cincillà e volpi, nonché di scimmie, pitoni e altri animali esotici, mentre con riguardo all’inquadramento giuridico delle imprese di allevamento di cavalli da corsa non vi è un orientamento comune.[22]
La cura e lo sviluppo dei cicli biologici di carattere animale possono essere attuati mediante l’utilizzazione delle acque dolci, salmastre o marine e in questo caso si parla dell’attività di allevamento di pesci, mitili, ostriche, molluschi e crostacei, attività definita come “acquacoltura”. Le imprese di acquacoltura sono state equiparate all’imprenditore ittico (ex art. 3, comma 3 D.Lgs. n. 100/2005), a sua volta equiparato all’imprenditore agricolo ex art. 4, comma 4, D.Lgs. 9 gennaio 2012 n. 4.
Le attività agricole per connessione, previste sempre dall’art. 2135 c.c., sono sottoposte alla disciplina dell’impresa agricola solo in quanto, appunto, “connesse” a un’attività essenzialmente agricola; infatti, tali attività, se svolte in forma autonoma, senza cioè alcun nesso con l’attività agricola, dovrebbero essere fatte rientrare nell’ambito dell’art. 2195 c.c., costituendo imprese commerciali per espressa previsione normativa.
Le imprese agricole per connessione devono essere svolte dallo stesso soggetto che esercita l’attività principale, e possono distinguersi in attività di produzione di prodotti agricoli e attività di prestazione di servizi. Nella prima categoria rientrano le attività di manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione che abbiano ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall’allevamento di animali. La sostituzione del criterio della normalità, desumibile dalla precedente formulazione, con quello della prevalenza, riferito all’origine dei prodotti oggetto dell’attività connessa, implica che l’imprenditore agricolo può svolgere le suddette attività utilizzando prodotti che siano in prevalenza ottenuti mediante la propria attività produttiva agricola (dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall’allevamento di animali)[23].
Sono inoltre connesse anche le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda “normalmente” impiegate nell’attività agricola esercitata. L’uso del criterio della normalità si riferisce, in tale contesto, non all’attività in sé, bensì all’uso prevalente di mezzi aziendali normalmente impiegati nell’attività agricola esercitata.
Il comma 3 dell’art. 2135 c.c. nel testo modificato dal D.Lgs. n. 228/2001, individua espressamente tra le attività agricole di servizi, le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione ed ospitalità come definite dalla legge. Con riguardo alla valorizzazione del territorio, la norma si riferisce alle offerte di beni ambientali e servizi per la valorizzazione del territorio che l’agricoltura può produrre avvalendosi degli strumenti introdotti dal legislatore nell’art. 14, comma 3, D.Lgs. 18 maggio 2001 n. 228 (contratti di collaborazione con la p.a.) e nell’art. 15 (convenzioni con la p.a.)[24].
Discorso a parte merita l’attività di agriturismo. L’inquadramento dell’attività agrituristica (già disciplinata prima con la legge n. 730/1985, poi con il D.Lgs. n. 228/2001 ed interamente regolamentata di nuovo con la più recente legge n. 96 del 2006), nell’ambito dell’attività imprenditoriale agricola, come confermato dalla giurisprudenza, «è subordinato alla condizione che l’utilizzazione dell’azienda agricola al fine di agriturismo sia caratterizzata da un rapporto di complementarità rispetto all’attività di coltivazione del fondo, di silvicoltura e di allevamento del bestiame, che deve comunque rimanere principale».
La già menzionata seconda Legge Quadro sull’agriturismo del 2006 stabilisce nuovi e meno restrittivi limiti all’attività di ristorazione, così definendola: “Somministrare pasti e bevande costituiti prevalentemente da prodotti propri e da prodotti di aziende agricole della zona, ivi compresi i prodotti a carattere alcoolico e superalcoolico”. Dunque, fra gli ingredienti prevalenti dei pasti, destinati agli ospiti dell’azienda agrituristica, rientrano, oltre i prodotti propri, anche i prodotti di altre aziende agricole, purché della zona, dove la definizione della zona s’intende rinviata alla competenza legislativa regionale.
La norma esplicita inoltre l’obbligo, per Regioni e Province Autonome, di definire “criteri per la valutazione del rapporto di connessione delle attività agrituristiche rispetto alle attività agricole che devono rimanere prevalenti”, specificando a tal proposito un “particolare riferimento al tempo di lavoro necessario all’esercizio delle stesse attività”. In sostanza stabilisce che il lavoro dell’azienda agricola deve essere dedicato principalmente all’attività primaria. In concreto, questa disposizione è stata applicata da Regioni e Province Autonome istituendo tabelle convenzionali dei tempi di lavoro mediamente necessari per lo svolgimento delle diverse attività di coltivazione, allevamento di animali e silvicoltura e analoghe tabelle relative alla prestazione dei diversi servizi agrituristici. In base alle attività agricole e agrituristiche effettivamente svolte, la somma dei tempi di lavoro propriamente agricolo deve essere superiore alla somma dei tempi di lavoro agrituristico.
Tornando alle disposizioni contenute attualmente nel CCII, qualche perplessità può nascere dalla formulazione dell’art. 2, comma 1, lettera c), laddove si definisce il concetto di “sovraindebitamento”: si delinea qui, come già accennato in precedenza, lo stato di crisi o di insolvenza di tutte quelle categorie di debitori che non possono essere sottoposti a procedura liquidatoria di qualunque genere. La formulazione lessicale della norma (“lo stato di crisi o di insolvenza del consumatore, del professionista, dell'imprenditore minore, dell'imprenditore agricolo, delle start-up innovative di cui al decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, e di ogni altro debitore non assoggettabile alla liquidazione giudiziale ovvero a liquidazione coatta amministrativa o ad altre procedure liquidatorie previste dal codice civile o da leggi speciali per il caso di crisi o insolvenza”), separa sintatticamente l’imprenditore minore (che pertanto verrebbe a indicare l’imprenditore commerciale minore) e l’imprenditore agricolo, e sembra voler indicare che il sovraindebitamento si applica a quest’ultimo sia che sia individuale che collettivo (perché non è presente alcuna specificazione in proposito), sia che sia minore o no (perché l’imprenditore minore è già menzionato). Dunque, se ne inferisce che l’impresa agricola (individuale, collettiva, piccola, media, o grande), è tuttora sottratta alle procedure liquidatorie, nonostante da più parti si fosse auspicata una parificazione totale tra impresa agricola e commerciale sotto il profilo del trattamento della crisi, e viene sottoposta solo alle procedure di sovraindebitamento, sottraendo così per l’ennesima volta tutto il comparto dell’agricoltura alla liquidazione giudiziale, così come la legge fallimentare ha del resto sempre fatto[25].