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Rilievi critici al D.D.L. 2 settembre 2025, n. 2577, presentato dal MIMIT in tema di riforma dell’Amministrazione straordinaria*

Salvo Leuzzi, Consigliere della Suprema Corte di Cassazione

1 Dicembre 2025

*Il contributo riprende i contenuti della relazione svolta dall’A. al XXXII Convegno dell’Associazione albese di studi di diritto commerciale, tenutosi ad Alba il 29.11.2025 e intitolato “La grande e media impresa tra acquisizioni, ristrutturazioni e disciplina della governance”.

Visualizza: Presentato il 2 settembre 2025 il D.D.L. n. 2577 del MIMIT sulla riforma delle amministrazioni straordinarie

L’Autore svolge una lettura critica del disegno di legge delega A.C. 2577, presentato alla Camera dei Deputati il 2 settembre 2025 dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy, evidenziandone le criticità e fornendo spunti operativi utili a rendere l’amministrazione straordinaria uno strumento efficace e coerente con le sue finalità. 
Riproduzione riservata
1 . Premessa
Il disegno di legge delega (A.C. 2577), presentato alla Camera il 2 settembre 2025 dal Ministro delle Imprese e del Made in Italy, s’incarica di conferire al Governo il potere di emanare, entro dodici mesi, uno o più decreti legislativi finalizzati a riformare la disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi e il sistema di vigilanza cooperativa. 
La struttura del provvedimento è essenziale: quattro articoli, ripartiti in due capi, il primo dei quali concerne la riforma dell’amministrazione straordinaria, che il disegno di legge intende attuare seguendo alcune direttrici precise: superare la frammentazione normativa tra il D.Lgs. n. 270/1999 (Prodi-bis) e il D.L. n. 347/2003 (Marzano), definire una procedura unitaria e semplificata, estendere l’ambito soggettivo alle imprese strategiche – energia, trasporti, comunicazioni, difesa, 5G, cloud – e prevedere misure per la composizione negoziata della crisi con esperti dedicati. 
I principi direttivi si focalizzano su alcuni punti qualificanti: eliminazione della doppia soglia dimensionale; possibilità di accesso diretto al Ministro delle Imprese e del Made in Italy; conferma della facoltà per il socio pubblico di maggioranza di attivare la procedura; nomina dei commissari straordinari da parte del Ministero con requisiti di professionalità e limiti agli incarichi; raccordo con il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza; introduzione di strumenti di sostegno al reddito e coordinamento con le misure pubbliche di risanamento. 
Sono scelte che, pur animate da finalità in parte condivisibili, sollecitano riflessioni critiche: sulla tenuta del principio di giurisdizionalità, sul bilanciamento tra interessi pubblici e diritti privati, sull’effettività dei controlli e sulla capacità del disegno di legge di incidere non solo sul corridoio d’ingresso, ma sul cuore operativo dell’istituto dell’amministrazione straordinaria. 
2 . Il senso delle origini
Comprendere le ragioni della riforma dell’A.S. richiede di ragionare secondo una logica a trama storica. Quest’ultima non può trascurare le evidenze. La prima: il fallimento disciplinato dal R.D. n. 267/1942 si fondava su un impianto di matrice liberale, nel cui quadro l’impresa insolvente veniva espulsa dal mercato, nel nome della concorrenza e della certezza dei traffici giuridici. Per decenni il diritto concorsuale ha riproposto questa visione “darwiniana” dell’economia: la realtà aziendale incapace di produrre e competere era destinata a scomparire, con la liquidazione fallimentare come epilogo naturale. 
Questa impostazione, coerente con il principio di responsabilità patrimoniale, ignorava le ricadute sistemiche della crisi d’impresa: la perdita di occupazione in primo luogo, l’interruzione – talvolta – di servizi essenziali, gli effetti a catena – spesso – sulle filiere produttive. 
La crisi economica degli anni Settanta determinò un mutamento di paradigma: l’impresa, fino ad allora considerata semplice attrice o comprimaria della scena economica, fu riconosciuta quale valore sociale, portatrice di occupazione, fattore di radicamento comunitario e di stabilità territoriale. 
Da qui nasce l’idea di una procedura che non dissolva, ma salvaguardi l’organismo produttivo. Si delinea così la finalità immanente dell’amministrazione straordinaria: garantire la continuità aziendale e favorirne il risanamento, mediante la sostituzione della governance originaria con un manager di nomina pubblica, il commissario straordinario. 
Il cambio di prospettiva trova fondamento nell’art. 41 Cost., che riconosce la libertà di iniziativa economica, ma ne orienta l’esercizio alla funzione sociale e alla tutela della sicurezza, libertà e dignità umana. L’impresa, dunque, non è percepibile soltanto come centro di interessi privati, perché costituisce un nodo vitale per l’economia e la coesione sociale. 
3 . La Legge Prodi
La svolta avviene con la Legge n. 95/1979, nota come “Legge Prodi”, che configura l’A.S. come strumento eccezionale di salvaguardia delle imprese di rilevanza sistemica. L’intervento normativo infrange la logica espulsiva del fallimento, sostituendola con un modello conservativo. Non si tratta di un privilegio per il grande imprenditore, ma di una risposta all’urgenza di proteggere interessi collettivi in contesti di crisi suscettibili di compromettere interi comparti strategici. 
L’A.S., nella sua prima configurazione, è dunque un istituto di matrice pubblicistica. Il presupposto non è l’insolvenza, ma la “grande impresa in crisi”; l’obiettivo è il soccorso statale e l’archetipo è marcatamente amministrativo: l’ammissione si realizza con decreto ministeriale, senza accertamento giudiziale, e il commissario straordinario opera sotto la supervisione governativa. 
Questa impostazione, già allora, non era immune da rischi. Anzitutto, emergeva una discrezionalità politica percepita come eccessiva. In secondo luogo, si intravedeva in nuce un pericolo di attrito con l’art. 107 TFUE, quindi con il divieto di aiuti di Stato, che finiva per comprometterne la legittimazione sistemica. 
4 . La legge “Prodi bis”
Con il D.Lgs. n. 270/1999, la cosiddetta “Prodi-bis”, l’A.S. segna un salto evolutivo. Si distacca dalla logica dell’intervento politico, radicandosi nel terreno concorsuale e assumendo come presupposto indefettibile lo stato di insolvenza. Non più la classificazione della realtà in affanno come “grande impresa in crisi” a delimitare il perimetro dell’A.S.: l’accesso è riservato all’impresa insolvente e, ciononostante, risanabile. 
I presupposti di accesso si fondano su due piani: da un lato, l’accertamento giudiziale dell’insolvenza; dall’altro, il rispetto di precisi requisiti dimensionali. Nel nuovo modello, la soglia d’ingresso è fissata in almeno duecento dipendenti e in un livello di indebitamento tale da giustificare, sotto il profilo sistemico, un intervento ausiliario. 
Il procedimento, a quel punto, assume contorni definiti: una fase di osservazione, affidata al tribunale, che verifica l’incapacità finanziaria non transitoria dell’impresa, valutando al contempo la sostenibilità del risanamento; e una fase successiva di amministrazione straordinaria vera e propria, condotta dal commissario sotto la vigilanza ministeriale, nel solco di concrete prospettive di continuità aziendale. In questa architettura, la dichiarazione giudiziale di insolvenza diventa il perno iniziale attorno a cui ruota l’esordio della procedura. 
La riforma riduce la discrezionalità governativa e intona l’A.S. a un principio di trasparenza concorsuale, sancendo il passaggio dell’istituto da strumento di politica industriale a procedura concorsuale a tutto tondo, sia pur con robusti lineamenti pubblicistici. 
Restano, tuttavia, vistose zone d’ombra: la dilatazione dei tempi, la marginalità dei creditori e il fardello della prededucibilità dei costi di gestione, che continuano a gravare sull’attivo, alimentando tensioni sistemiche. 
Non sembra, peraltro, che né la cronologia né il “prezzo” dell’A.S. siano ontologicamente condizionati da un intervento giudiziale raccolto in due momenti: quello dell’accertamento dell’insolvenza e quello della verifica dei diritti di credito opponibili all’impresa decotta. 
5 . Il Decreto “Marzano”
Con il D.L. n. 347/2003, noto come “Marzano”, prende forma – in sovrapposizione al modello in uso – una sorta di A.S. emergenziale. Un nuovo impianto, ispirato dall’urgenza di governare crisi di specifiche imprese di rilevanza sistemica, in un contesto di instabilità che minaccia l’equilibrio di interi settori produttivi. Non è casuale che la riforma nasca come decreto-legge e venga poi convertita nella Legge n. 39/2004: segno della sua natura contingente. 
La soglia dimensionale d’accesso all’istituto si innalza: almeno 500 dipendenti e 300 milioni di euro di indebitamento, parametri che circoscrivono la platea delle imprese ammissibili, limitandola a quelle di maggior peso strutturale. 
L’obiettivo di preservare immediatamente il going concern si realizza attraverso il rovesciamento del modello bifasico: la procedura si apre direttamente con la nomina del commissario straordinario da parte del Ministero, mentre il decreto conserva efficacia solo se il tribunale, a posteriori, conferma lo stato di insolvenza. 
È la logica dell’urgenza casistica che prevale. Tuttavia, il legislatore non perde l’occasione di fissare tempi più certi per la durata delle amministrazioni: un anno per concludere la cessione dei complessi aziendali, due anni per provvedere alla ristrutturazione economico-finanziaria. 
Si tratta di termini che la prassi ha relegato a mera indicazione di principio, rimasti in larga parte inattuati nelle vicende concrete. 
Il cuore operativo è già allora il programma, architrave della gestione, articolato in due opzioni: cessione dei complessi aziendali o ristrutturazione economico-finanziaria. Entrambe esposte alla costante minaccia della conversione in fallimento, in ipotesi di accertata irrealizzabilità. 
6 . I contenuti del Disegno di legge
L’amministrazione straordinaria, nella sua attuale configurazione, poggia su due cardini normativi: il D.Lgs. n. 270/1999 (cosiddetta “Prodi-bis”) e il D.L. n. 347/2003, convertito nella Legge n. 39/2004 (nota come “Marzano”). Due discipline che, pur ispirate a obiettivi in larga parte convergenti – la salvaguardia di imprese di grandi dimensioni con prospettive di risanamento – hanno finito per generare un impianto inutilmente sdoppiato. 
In questo scenario, la risposta alla domanda sull’opportunità di mantenere il modello duale non può che essere negativa: la duplicazione dei percorsi non aggiunge funzionalità, ma produce complessità e frammentazione. Da qui il plauso all’intento del disegno di legge del MiMIT, volto a ricondurre l’istituto entro una disciplina unitaria. Meno convincente, invece, è la restante impostazione. 
Il tratto comune delle due A.S. oggi vigenti è la presenza di un doppio baricentro decisionale: da un lato il giudice, garante dell’accertamento dell’insolvenza e custode della verifica dei diritti di credito; dall’altro il Ministero, investito della regia amministrativa. Una convivenza tutt’altro che neutra, che alimenta tensioni di coordinamento e riflessi di inefficienza sistemica. Nondimeno, sia nel modello “Prodi-bis” sia nel modello “Marzano”, il denominatore comune è un impianto bifasico e bicefalo, che lascia spazio all’Autorità Giudiziaria accanto al Ministero. 
Ritengo che tale architettura debba restare e che ad arretrare non possa essere la giurisdizione. Le ragioni sono evidenti. Le peculiarità di un contesto non giustificano la sottrazione del vaglio sui diritti e sulle responsabilità alla giurisdizione. La dimensione dell’impresa non può legittimare l’ablazione della tutela di situazioni giuridiche soggettive, anche di credito. Anzi, laddove i diritti debbano convivere con finalità pubblicistiche, essi postulano un bilanciamento che non può che essere affidato a un arbitro di posizioni giuridicamente rilevanti: il giudice. 
La riforma in itinere semplifica il modello tradizionale, consentendo l’apertura immediata della procedura presso il MiMIT, con successiva “conferma” giudiziale. È un cambio di paradigma – soprattutto rispetto alla Legge “Prodi-bis” – pensato per accelerare il percorso. In realtà, la velocità non va confusa con la sostanza: la dichiarazione di insolvenza non è mai stata un ostacolo temporale. Evocando un antico adagio: un fallimento si dichiara in sette minuti e si chiude in sette anni. La decozione è quasi sempre vistosa. Il che significa che il problema non è mai stato l’avvio, ma la gestione della procedura. Allo stesso modo, nelle A.S., l’incognita non coincide con l’accertamento dell’impotenza finanziaria dell’impresa o della sua reversibilità, quanto piuttosto con il governo della ristrutturazione o della cessione dell’impresa in ambito di A.S. Il naufragio storico delle A.S. non si è legato al frangente del debutto, ma alla successiva performance, rispetto alla quale il Tribunale è rimasto estraneo. 
In ogni caso, quand’anche il “domicilio comune” fra Tribunale e Ministero dovesse apparire come un grumo di criticità, esso va sciolto, non reciso chirurgicamente con l’alienazione dell’Autorità Giudiziaria. 
Le strade percorribili erano e restano, almeno in astratto, due. La prima – oggi accantonata – è l’inclusione dell’A.S. nel corpo del Codice della crisi, attraverso un’armonizzazione organica che valorizzi le peculiarità della grande impresa con un tessuto aggiuntivo di regole specifiche. 
L’altra via è quella legittimamente prescelta, di impronta autarchica, orientata alla conservazione della distinzione tra Codice della crisi e disciplina speciale, sia pure con l’annunciato rafforzamento del raccordo con il CCII. 
Il disegno di legge in discussione propende per l’unificazione della disciplina in tema di A.S., mediante abrogazione delle fonti vigenti e riconduzione dell’istituto entro un’unica trama normativa, coordinata con il Codice, ma nettamente separata da esso. Si tratta di un raccordo, tuttavia, solo adombrato, che suggerisce la rimozione di termini obsoleti – come “fallimento” – e l’innesto di regole coerenti (ma non pedisseque) rispetto agli artt. 40 e 41 CCII in punto di procedimento unitario, mentre per il resto evoca, senza precisarne il contenuto, criteri di efficienza e celerità, tanto nobili quanto sfuggenti. 
È una sfida ambiziosa: evitare duplicazioni, garantire coerenza sistematica e, nel contempo, preservare la vocazione identitaria e conservativa dell’A.S. Ambiziosa, soprattutto, se si considera la solidità del Codice, che sta offrendo buona prova di sé e che, sebbene rimanga ostico in prima lettura, avrebbe potuto costituire un rifugio utile anche per le grandi imprese in debito d’ossigeno. Non sussistono neppure in astratto controindicazioni. Se in relazione ad imprese imponenti sarebbe stato riduttivo affidare al MiMIT il compito notarile che il Ministero della Giustizia espleta nella gestione degli elenchi dei gestori ex art. 356 CCII, degli OCC e degli esperti della composizione negoziata, è anche vero che il ruolo che il Ministero potrebbe efficacemente giocare in favore delle grandi imprese è quello dell’“appoggio esterno” e dei sostegni, non quello finora non brillantissimo del commissariamento. 
Se l’obiettivo è rendere l’A.S. uno strumento realmente efficace e coerente con le sue finalità, alcune direttrici appaiono, allora, imprescindibili. 
Anzitutto, occorre una selezione rigorosa delle imprese meritevoli di questa speciale salvaguardia. Non sembra che tale cernita implichi necessariamente una cabina di pilotaggio ministeriale, quanto piuttosto l’opportuna salvaguardia di una prerogativa di interlocuzione fra Ministero e giudice. 
In secondo luogo, è vero che è indispensabile garantire tempi certi. Tuttavia, non pare che la gestione a trazione ministeriale abbia assicurato, lungo questi lustri, un passo di marcia inesorabile. Sotto questo aspetto, rimettere alla gestione dei tribunali il controllo del lavoro e delle responsabilità dei commissari potrebbe suscitare un mutamento di approccio e un aumento di velocità. 
È indispensabile una vigilanza effettiva, che non si riduca a mera formalità. Solo così si può evitare che la procedura diventi un contenitore vuoto o un ricovero per imprese prive di reali prospettive di risanamento. In tal senso, il Ministero ben potrebbe recitare la sua parte esercitando una legittimazione attiva a instare per l’apertura della liquidazione giudiziale delle imprese strategiche, quando risultino, a suo modo di vedere, irrimediabilmente non risanabili per congiuntura sopravvenuta. Per il resto, la sorveglianza ben potrebbe essere rimessa ai tribunali, che sono avvezzi a svolgerla sui curatori e sugli altri organi di gestione delle procedure del CCII. 
Quanto al programma di gestione, esso nel disegno di legge diventa obbligatorio e vigilato dal MiMIT, con un piano industriale e finanziario dettagliato, cronoprogramma e obiettivi misurabili. Ben venga, ma allo stato più che un precetto quello sul programma sembra una formula rituale. Né si può dire che trasparenza e specificità nei programmi siano più blindate nella sede politica che in quella, per definizione, neutrale: ossia quella giurisdizionale. 
Parallelamente, vi sono pericoli da neutralizzare. Un’implementazione delle prerogative di controllo attribuite ai tribunali forse li scongiurerebbe. Va, infatti, sterilizzata ogni forma di discrezionalità eccessiva: occorre rendere rigoroso l’accertamento sulla reversibilità dell’insolvenza senza aiuti di Stato, e il Tribunale è perfettamente in grado di farlo. Va chiarito l’ubi consistam della connotazione strategica: anche qui, l’interlocuzione preliminare con il MiMIT nel momento in cui si dichiara l’insolvenza potrebbe essere sufficiente. 
La disciplina originaria si applicava solo alle grandi imprese, secondo rigidi parametri quantitativi; oggi si prospetta un ampliamento alle imprese strategiche, anche se non raggiungono le soglie dimensionali. Settori come difesa, energia, trasporti, comunicazioni, 5G e cloud rientrano nel perimetro, con verifica affidata al MiMIT, che si avvale del parere tecnico e dei criteri del D.L. 21/2012 (Golden Power). È corretto valorizzare la centralità strategica; è scorretto e dirigistico imporla in modo assoluto ai creditori e agli altri titolari di diritti, privandoli di un filtro di interlocuzione giurisdizionale. 
Va, poi, evitato l’uso eccentrico dell’istituto come strumento assistenzialistico: il Tribunale è in grado di prevenirlo, più di quanto sia finora accaduto. Va evitata la compressione delle ragioni creditorie senza contropartite: nel Codice della crisi siamo passati dal criterio del miglior soddisfacimento dei creditori a quello dell’assenza di pregiudizio, un bilanciamento che non può essere ulteriormente sacrificato, se non si vuole entrare in conflitto con i principi unionali, sfociando nell’espropriazione del credito. 
Quanto alla composizione negoziata dedicata, con elenco a parte, il Codice della crisi richiede agli esperti ex art. 17 virtù cardinali, forse persino teologali. Se si fosse voluto realmente uniformare la nomina dei commissari con requisiti di professionalità e indipendenza, limiti agli incarichi e compensi allineati ai tetti delle società pubbliche, per favorire trasparenza e responsabilità, la scelta avrebbe dovuto essere diametralmente opposta. Non è necessario tanto intervento del MiMIT; è meglio che i commissari escano dalle aule ministeriali e si confrontino con societaristi, concorsualisti, advisors, curatori, accademici e giudici, puntando sul circuito virtuoso dello scambio di esperienze e sensibilità. 
Lo squilibrio di una realtà produttiva ha caratteristiche analoghe a prescindere dalle dimensioni del soggetto. Gli strumenti e le categorie generali attraverso cui accostarsi ad esso sono affini, non eccentriche. 
7 . Alcune criticità meritevoli di risposta
Il problema non è mai stato l’accertamento dell’insolvenza, ma la sostanziale assenza di un’istruttoria preventiva e sostanziale sulle imprese da proteggere. Serve una fase diagnostica seria, non meramente formale, che consenta un monitoraggio anticipato, non solo sulla connotazione “strategica” delle imprese, ma sulle sue reali possibilità di risanamento in concomitanza con uno scenario avverso. Diventano indispensabili, nel mercato globale, controlli periodici e più pervasivi, capaci di scongiurare l’avvio intempestivo di procedure e, soprattutto, di evitare l’inaugurazione di percorsi destinati all’insuccesso. 
La verità è che un’impresa non diventa strategica dall’oggi al domani, Essa nasce come tale e come tale si offre al mercato e alla concorrenza. 
La verità è anche che le crisi vanno affrontate quando non ci sono e che le imprese vanno curate in salute, perché è in quel momento che esse – anche quelle strategiche – dispongono di risorse per capire, prevenire, intervenire sulla struttura finanziaria e su quella operativa. 
La riforma deve garantire che accedano alla nuova amministrazione straordinaria solo le realtà realmente risanabili, assicurando un bilanciamento tra interessi pubblici (occupazione, continuità) e diritti privati (credito), senza sacrificare l’uno sull’altare dell’altro. 
Allo stato spicca nell’A.S. lo scarso coinvolgimento dei creditori e la marginalizzazione del giudice. 
Siamo sicuri sia un bene? Di certo non sembra esserlo stato, alla luce dei risultati conseguiti. 
Oggi non esiste un vero contraddittorio iniziale e i poteri dei titolari delle pretese restano periferici, nonostante quei titolari siano controparti contrattuali e i contratti costituiscano un elemento essenziale della continuità aziendale ipotizzabile. 
Questo vulnus mina la legittimità della procedura, tanto più in considerazione della traslazione del rischio d’impresa sui creditori originari: il passivo si aggrava per effetto delle prededuzioni e dei nuovi debiti di massa, e in assenza di contropartite il rischio della gestione commissariale ricade su chi aveva crediti prima del default. Non vi è profitto e non vi è strategia senza buone relazioni con dipendenti, fornitori e clienti, eppure il sistema sembra in larga parte ignorarlo. 
Né la disciplina delle vendite aiuta: le cessioni avvengono con normativa frammentaria e incoerente, regole poco chiare e criteri di valutazione che penalizzano i creditori garantiti, generando incertezza e conflitti. 
Sullo sfondo, zone franche di giurisdizione: gli atti commissariali sfuggono al controllo giudiziario e dei creditori, con commissari che operano senza un vero marcamento, il che accresce i rischi di gestione opaca o, nella migliore delle ipotesi, di gestione lenta. 
Non meno grave è la lacuna sui rapporti pendenti: manca una disciplina certa sia di essi che delle prededuzioni. Nella liquidazione giudiziale il nuovo art. 172, comma 3, CCII stabilisce che, se il curatore subentra in un contratto pendente, sono prededucibili solo i crediti maturati durante la procedura, non quelli pregressi. Si tratta di un ribaltamento rispetto all’assetto precettivo della legge fallimentare diversamente che in passato. Nell’A.S. il funzionamento delle regole andrebbe chiarito. 
Infine, spicca il vuoto normativo per le società di capitali: manca una disciplina organica degli effetti dell’apertura e chiusura della procedura sul contratto sociale e sulle operazioni straordinarie (fusioni, scissioni), oggi disciplinate, per converso, opportunamente nel CCII. 
È un mosaico di criticità che mina la coerenza del sistema e che la riforma, allo stato, non affronta. 
8 . Rilievi conclusivi e prospettici
Il problema dell’A.S. non è il corridoio d’ingresso, ma la via d’uscita.
La riforma deve affrontare il cuore operativo dell’amministrazione straordinaria: il programma. Non basta accelerare l’avvio, se manca una diagnosi preventiva e se il programma resta un proclama privo di vincoli concreti. 
Occorre certamente unificare le procedure, interrogandosi sull’opportunità di sottoporle alle regole del Codice della crisi, sia pure nei limiti della compatibilità, prevedendo misure protettive analoghe a quelle codicistiche, sotto il medesimo schema.
Va rafforzato il ruolo del tribunale nella verifica dei presupposti e vanno accentuati i suoi poteri di bilanciamento eteronomo. Il Codice della crisi sta funzionando per quello. 
Dev’essere poi gestita la convivenza tra Composizione negoziata e A.S.: l’apertura immediata tramite decreto ministeriale rischia di sovrapporsi al negoziato, e già oggi l’art. 18, comma 4, CCII va interpretato estensivamente per impedire conflitti. 
Quanto allo strumento d’uscita, il legislatore ha escluso l’affitto d’azienda, puntando sulla continuità diretta della gestione commissariale, ma questa scelta è discutibile: l’affitto, se disciplinato con misure di sicurezza (vigilanza e autorizzazione commissariale con poteri di revoca; garanzie patrimoniali e piano industriale vincolante; tutela dei creditori tramite canone proporzionato, cauzioni e controllo costante), potrebbe garantire continuità produttiva e salvaguardare occupazione e avviamento, senza snaturare la vocazione conservativa dell’istituto. 
Il Disegno di legge semina poi alcune ulteriori novità tanto opache da imporre cautela: del concordato straordinario interno alla A.S., distinto dal concordato preventivo del CCII, non vengono tratteggiate le sembianze, men che meno abbozzato il ruolo dei creditori; delle azioni revocatorie e di responsabilità, modellate sulle regole del Codice ma adattate alla specificità dell’A.S., non si indicano i principi a tal fine funzionali. 
In definitiva, il futuro dell’amministrazione straordinaria si gioca sulla capacità di ponderare interessi pubblici e diritti privati sotto un presidio che non può prescindere dal ruolo del tribunale, neutralizzando ogni eccesso di discrezionalità e impedendo che la procedura diventi un rifugio assistenzialistico o un labirinto burocratico. Solo così l’A.S. potrà tornare a essere ciò che promette: non un rito, ma un rimedio. 

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  • 5. portabilità: spostare, copiare o trasferire i dati dai database delle Società a terzi. Questo vale solo per i dati forniti dall’interessato per l’esecuzione di un contratto o per i quali è stato fornito consenso e espresso e il trattamento viene eseguito con mezzi automatizzati;
  • 6. opposizione al marketing diretto;
  • 7. revoca del consenso in qualsiasi momento, qualora il trattamento si basi sul consenso.

Ai sensi dell’art. 2-undicies del D.Lgs. 196/2003 l’esercizio dei diritti dell’interessato può essere ritardato, limitato o escluso, con comunicazione motivata e resa senza ritardo, a meno che la comunicazione possa compromettere la finalità della limitazione, per il tempo e nei limiti in cui ciò costituisca una misura necessaria e proporzionata, tenuto conto dei diritti fondamentali e dei legittimi interessi dell’interessato, al fine di salvaguardare gli interessi di cui al comma 1, lettere a) (interessi tutelati in materia di riciclaggio), e) (allo svolgimento delle investigazioni difensive o all’esercizio di un diritto in sede giudiziaria)ed f) (alla riservatezza dell’identità del dipendente che segnala illeciti di cui sia venuto a conoscenza in ragione del proprio ufficio). In tali casi, i diritti dell’interessato possono essere esercitati anche tramite il Garante con le modalità di cui all’articolo 160 dello stesso Decreto. In tale ipotesi, il Garante informerà l’interessato di aver eseguito tutte le verifiche necessarie o di aver svolto un riesame nonché della facoltà dell’interessato di proporre ricorso giurisdizionale.

Per esercitare tali diritti potrà rivolgersi alla nostra Struttura "Titolare del trattamento dei dati personali" all'indirizzo ssdirittodellacrisi@gmail.com oppure inviando una missiva a Società per lo studio del diritto della crisi via Principe Amedeo, 27, 46100 - Mantova (MN). Il Titolare Le risponderà entro 30 giorni dalla ricezione della Sua richiesta formale.

Dati di contatto - Società per lo studio del diritto della crisi con sede in via Principe Amedeo, 27, 46100 - Mantova (MN); email: ssdirittodellacrisi@gmail.com.

Responsabile della protezione dei dati - Il Responsabile della protezione dei dati non è stato nominato perché non ricorrono i presupposti di cui all’art 37 del Regolamento (UE) 2016/679.

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