L’amministrazione straordinaria, nella sua attuale configurazione, poggia su due cardini normativi: il D.Lgs. n. 270/1999 (cosiddetta “Prodi-bis”) e il D.L. n. 347/2003, convertito nella Legge n. 39/2004 (nota come “Marzano”). Due discipline che, pur ispirate a obiettivi in larga parte convergenti – la salvaguardia di imprese di grandi dimensioni con prospettive di risanamento – hanno finito per generare un impianto inutilmente sdoppiato.
In questo scenario, la risposta alla domanda sull’opportunità di mantenere il modello duale non può che essere negativa: la duplicazione dei percorsi non aggiunge funzionalità, ma produce complessità e frammentazione. Da qui il plauso all’intento del disegno di legge del MiMIT, volto a ricondurre l’istituto entro una disciplina unitaria. Meno convincente, invece, è la restante impostazione.
Il tratto comune delle due A.S. oggi vigenti è la presenza di un doppio baricentro decisionale: da un lato il giudice, garante dell’accertamento dell’insolvenza e custode della verifica dei diritti di credito; dall’altro il Ministero, investito della regia amministrativa. Una convivenza tutt’altro che neutra, che alimenta tensioni di coordinamento e riflessi di inefficienza sistemica. Nondimeno, sia nel modello “Prodi-bis” sia nel modello “Marzano”, il denominatore comune è un impianto bifasico e bicefalo, che lascia spazio all’Autorità Giudiziaria accanto al Ministero.
Ritengo che tale architettura debba restare e che ad arretrare non possa essere la giurisdizione. Le ragioni sono evidenti. Le peculiarità di un contesto non giustificano la sottrazione del vaglio sui diritti e sulle responsabilità alla giurisdizione. La dimensione dell’impresa non può legittimare l’ablazione della tutela di situazioni giuridiche soggettive, anche di credito. Anzi, laddove i diritti debbano convivere con finalità pubblicistiche, essi postulano un bilanciamento che non può che essere affidato a un arbitro di posizioni giuridicamente rilevanti: il giudice.
La riforma in itinere semplifica il modello tradizionale, consentendo l’apertura immediata della procedura presso il MiMIT, con successiva “conferma” giudiziale. È un cambio di paradigma – soprattutto rispetto alla Legge “Prodi-bis” – pensato per accelerare il percorso. In realtà, la velocità non va confusa con la sostanza: la dichiarazione di insolvenza non è mai stata un ostacolo temporale. Evocando un antico adagio: un fallimento si dichiara in sette minuti e si chiude in sette anni. La decozione è quasi sempre vistosa. Il che significa che il problema non è mai stato l’avvio, ma la gestione della procedura. Allo stesso modo, nelle A.S., l’incognita non coincide con l’accertamento dell’impotenza finanziaria dell’impresa o della sua reversibilità, quanto piuttosto con il governo della ristrutturazione o della cessione dell’impresa in ambito di A.S. Il naufragio storico delle A.S. non si è legato al frangente del debutto, ma alla successiva performance, rispetto alla quale il Tribunale è rimasto estraneo.
In ogni caso, quand’anche il “domicilio comune” fra Tribunale e Ministero dovesse apparire come un grumo di criticità, esso va sciolto, non reciso chirurgicamente con l’alienazione dell’Autorità Giudiziaria.
Le strade percorribili erano e restano, almeno in astratto, due. La prima – oggi accantonata – è l’inclusione dell’A.S. nel corpo del Codice della crisi, attraverso un’armonizzazione organica che valorizzi le peculiarità della grande impresa con un tessuto aggiuntivo di regole specifiche.
L’altra via è quella legittimamente prescelta, di impronta autarchica, orientata alla conservazione della distinzione tra Codice della crisi e disciplina speciale, sia pure con l’annunciato rafforzamento del raccordo con il CCII.
Il disegno di legge in discussione propende per l’unificazione della disciplina in tema di A.S., mediante abrogazione delle fonti vigenti e riconduzione dell’istituto entro un’unica trama normativa, coordinata con il Codice, ma nettamente separata da esso. Si tratta di un raccordo, tuttavia, solo adombrato, che suggerisce la rimozione di termini obsoleti – come “fallimento” – e l’innesto di regole coerenti (ma non pedisseque) rispetto agli artt. 40 e 41 CCII in punto di procedimento unitario, mentre per il resto evoca, senza precisarne il contenuto, criteri di efficienza e celerità, tanto nobili quanto sfuggenti.
È una sfida ambiziosa: evitare duplicazioni, garantire coerenza sistematica e, nel contempo, preservare la vocazione identitaria e conservativa dell’A.S. Ambiziosa, soprattutto, se si considera la solidità del Codice, che sta offrendo buona prova di sé e che, sebbene rimanga ostico in prima lettura, avrebbe potuto costituire un rifugio utile anche per le grandi imprese in debito d’ossigeno. Non sussistono neppure in astratto controindicazioni. Se in relazione ad imprese imponenti sarebbe stato riduttivo affidare al MiMIT il compito notarile che il Ministero della Giustizia espleta nella gestione degli elenchi dei gestori ex art. 356 CCII, degli OCC e degli esperti della composizione negoziata, è anche vero che il ruolo che il Ministero potrebbe efficacemente giocare in favore delle grandi imprese è quello dell’“appoggio esterno” e dei sostegni, non quello finora non brillantissimo del commissariamento.
Se l’obiettivo è rendere l’A.S. uno strumento realmente efficace e coerente con le sue finalità, alcune direttrici appaiono, allora, imprescindibili.
Anzitutto, occorre una selezione rigorosa delle imprese meritevoli di questa speciale salvaguardia. Non sembra che tale cernita implichi necessariamente una cabina di pilotaggio ministeriale, quanto piuttosto l’opportuna salvaguardia di una prerogativa di interlocuzione fra Ministero e giudice.
In secondo luogo, è vero che è indispensabile garantire tempi certi. Tuttavia, non pare che la gestione a trazione ministeriale abbia assicurato, lungo questi lustri, un passo di marcia inesorabile. Sotto questo aspetto, rimettere alla gestione dei tribunali il controllo del lavoro e delle responsabilità dei commissari potrebbe suscitare un mutamento di approccio e un aumento di velocità.
È indispensabile una vigilanza effettiva, che non si riduca a mera formalità. Solo così si può evitare che la procedura diventi un contenitore vuoto o un ricovero per imprese prive di reali prospettive di risanamento. In tal senso, il Ministero ben potrebbe recitare la sua parte esercitando una legittimazione attiva a instare per l’apertura della liquidazione giudiziale delle imprese strategiche, quando risultino, a suo modo di vedere, irrimediabilmente non risanabili per congiuntura sopravvenuta. Per il resto, la sorveglianza ben potrebbe essere rimessa ai tribunali, che sono avvezzi a svolgerla sui curatori e sugli altri organi di gestione delle procedure del CCII.
Quanto al programma di gestione, esso nel disegno di legge diventa obbligatorio e vigilato dal MiMIT, con un piano industriale e finanziario dettagliato, cronoprogramma e obiettivi misurabili. Ben venga, ma allo stato più che un precetto quello sul programma sembra una formula rituale. Né si può dire che trasparenza e specificità nei programmi siano più blindate nella sede politica che in quella, per definizione, neutrale: ossia quella giurisdizionale.
Parallelamente, vi sono pericoli da neutralizzare. Un’implementazione delle prerogative di controllo attribuite ai tribunali forse li scongiurerebbe. Va, infatti, sterilizzata ogni forma di discrezionalità eccessiva: occorre rendere rigoroso l’accertamento sulla reversibilità dell’insolvenza senza aiuti di Stato, e il Tribunale è perfettamente in grado di farlo. Va chiarito l’ubi consistam della connotazione strategica: anche qui, l’interlocuzione preliminare con il MiMIT nel momento in cui si dichiara l’insolvenza potrebbe essere sufficiente.
La disciplina originaria si applicava solo alle grandi imprese, secondo rigidi parametri quantitativi; oggi si prospetta un ampliamento alle imprese strategiche, anche se non raggiungono le soglie dimensionali. Settori come difesa, energia, trasporti, comunicazioni, 5G e cloud rientrano nel perimetro, con verifica affidata al MiMIT, che si avvale del parere tecnico e dei criteri del D.L. 21/2012 (Golden Power). È corretto valorizzare la centralità strategica; è scorretto e dirigistico imporla in modo assoluto ai creditori e agli altri titolari di diritti, privandoli di un filtro di interlocuzione giurisdizionale.
Va, poi, evitato l’uso eccentrico dell’istituto come strumento assistenzialistico: il Tribunale è in grado di prevenirlo, più di quanto sia finora accaduto. Va evitata la compressione delle ragioni creditorie senza contropartite: nel Codice della crisi siamo passati dal criterio del miglior soddisfacimento dei creditori a quello dell’assenza di pregiudizio, un bilanciamento che non può essere ulteriormente sacrificato, se non si vuole entrare in conflitto con i principi unionali, sfociando nell’espropriazione del credito.
Quanto alla composizione negoziata dedicata, con elenco a parte, il Codice della crisi richiede agli esperti ex art. 17 virtù cardinali, forse persino teologali. Se si fosse voluto realmente uniformare la nomina dei commissari con requisiti di professionalità e indipendenza, limiti agli incarichi e compensi allineati ai tetti delle società pubbliche, per favorire trasparenza e responsabilità, la scelta avrebbe dovuto essere diametralmente opposta. Non è necessario tanto intervento del MiMIT; è meglio che i commissari escano dalle aule ministeriali e si confrontino con societaristi, concorsualisti, advisors, curatori, accademici e giudici, puntando sul circuito virtuoso dello scambio di esperienze e sensibilità.
Lo squilibrio di una realtà produttiva ha caratteristiche analoghe a prescindere dalle dimensioni del soggetto. Gli strumenti e le categorie generali attraverso cui accostarsi ad esso sono affini, non eccentriche.