La posizione minoritaria ritiene di poter selezionare restrittivamente la legittimazione alla presentazione della proposta concorrente attraverso una lettura eminentemente soggettiva della locuzione «uno o più creditori» posta nell’incipit della norma in esame. Tale status soggettivo viene poi ancorato sul piano cronologico al momento del deposito della domanda di apertura della procedura, con una interpretazione restrittiva dell’inciso “anche per effetto di acquisti successivi alla presentazione della domanda di concordato”, di cui si ravvisa la giustificazione in un’asserita esigenza di interpretazione conforme al principio costituzionale in tema di tutela del diritto di proprietà (art. 42 Cost.). Attraverso questo percorso si perviene a restringere la legittimazione alla presentazione della proposta concorrente di concordato preventivo ai soli creditori pre-concorsuali, ai quali soltanto sarebbe consentito di procedere a quegli “acquisti successivi” che potrebbero determinare l’effetto di assurgere alla percentuale legittimante richiesta dalla legge.
Nessuno dei due argomenti posti a sostegno della tesi restrittiva risulta dirimente. Non l’argomento letterale fondato sulla riferibilità della locuzione «uno o più creditori» solo a coloro che fossero creditori dell’imprenditore già prima della formulazione della domanda di concordato principale. Tale lettura appare viziata da un’evidente petizione di principio[10], omettendo di considerare che la proposizione relativa che si raccorda, integrandolo, al soggetto della proposizione normativa – “uno o più creditori che … rappresentano almeno il dieci per cento dei crediti risultanti dalla situazione patrimoniale depositata ai sensi dell’art. 161, comma 2, lett. a)” – e così ponendo l’enfasi del requisito legittimante sulla dimensione squisitamente oggettiva del dieci per cento dei crediti. Sono dunque i crediti, nella loro dimensione oggettiva, che devono risalire a data anteriore all’apertura della procedura, dovendo appunto “risultare dalla situazione patrimoniale depositata ai sensi dell’art. 161, comma 2, lett. a): crediti di cui il proponente dev’essere titolare, nella misura di almeno il dieci per cento, al momento del deposito della proposta concorrente; e ciò “anche per effetto di acquisti successivi alla presentazione della domanda di concordato”, come la disposizione ha cura di precisare con un inciso di cui la tesi in esame finisce per dare una lettura non soltanto restrittiva ma in larga misura ablativa.
In questo quadro, il termine “creditori”, vale ad indicare la sussistenza di un rapporto obbligatorio tra il “potenziale” proponente e il debitore/proponente principale, che la norma richiede sia connotato quantitativamente, al momento della presentazione della proposta, da una percentuale rilevante, senza però in alcun modo valorizzare il momento storico (i.e. prima o dopo la formulazione della proposta di concordato preventivo “principale”) in cui un tale rapporto si sia instaurato.
Un ulteriore supplemento di riflessione merita l’argomento assiologico, fondato sulla asserita esigenza di interpretazione conforme al principio costituzionale in tema di tutela del diritto di proprietà (art. 42 Cost.). Più precisamente, si ritiene che l’interpretazione restrittiva sarebbe preferibile in quanto il riconoscimento della legittimazione anche ai creditori che tali siano divenuti in forza di acquisti successivi al deposito della domanda “principale”, verrebbe a porsi in contrasto con l’art. 42 Cost. perché finirebbe con il consentire a un terzo di appropriarsi dell’impresa altrui, e quindi di configurare una sorta di “esproprio privato” non collegato a un pubblico interesse.
Si tratta di un’obiezione di vertice che impone una considerazione preliminare sull’impatto dell’istituto delle proposte concorrenti rispetto ai precetti costituzionali: un tema di ampia portata e oggetto di attenta analisi, non soltanto in Italia ed anche in relazione ai principi enunciati nei Trattati Europei e nella CEDU in tema di diritto di proprietà (art. 1, Protocollo Addizionale). Analisi che, va immediatamente soggiunto, ha sino ad oggi visto convergere la dottrina europea verso una generale esclusione di profili di contrasto, revocandosi in dubbio la stessa natura eccezionale delle norme in tema di proposte concorrenti[11].
Del resto, anche a prescindere da un comunque doveroso (anche costituzionalmente: artt. 41 e 42 Cost.) allargamento dell’angolo prospettico dal piano meramente oggettivo del patrimonio del debitore ad una dimensione soggettiva, attinente alla organizzazione dell’impresa debitrice, si deve sottolineare come il rapporto tra diritto della proprietà e proposte concorrenti abbiano riguardato sinora unicamente il profilo delle operazioni straordinarie, e in particolare di aumento di capitale con esclusione di diritto di opzione, alle quali soltanto si riconduce un potenziale effetto espropriativo dei “proprietari” della società in crisi. Anche con riferimento a tale ipotesi estrema, si deve tuttavia sottolineare che:
i) la debitrice è e resta pur sempre la società in crisi;
ii) ai suoi organi è tuttora rimessa in via esclusiva la legittimazione a presentare la domanda di ammissione alla procedura concordataria, che costituisce presupposto imprescindibile per la presentazione di eventuali proposte concorrenti[12];
iii) la legittimazione dei creditori ha carattere meramente “derivato”, rimanendo “subordinata ad una preventiva ed esclusiva scelta del debitore di tentare la soluzione concordataria, non potendo comunque i creditori o i terzi imporre la scelta e pervenire, per tale via, ad una espropriazione del patrimonio del debitore senza il concorso (espresso attraverso la presentazione della domanda di concordato) del debitore”[13];
iv) sono tuttora valide, finanche nelle società azionarie, clausole derogatorie all’art. 152 L. fall., volte ad attribuire ai soci la competenza in ordine alla decisione di avviare la procedura concordataria;
v) in presenza di perdite rilevanti ai sensi degli artt. 2446 e 2447 c.c. (o, nelle s.r.l., degli artt. 2482 bis e 2482 ter c.c.), nonostante l’effetto sospensivo degli obblighi di ricapitalizzazione determinato dall’eventuale presentazione della domanda di concordato, anche soltanto prenotativa, previsto dall’art. 182 sexies L. fall., resta fermo l’obbligo degli amministratori (ed in subordine dei sindaci) di convocare senza indugio l’assemblea;
vi) in tale sede i soci ben potranno proporre e assumere iniziative volte a preservare la continuità aziendale e, in generale, a prevenire o superare la situazione di crisi senza dover ricorrere alla procedura concordataria o, quanto meno, dotando la società delle risorse necessarie a garantire una soddisfazione dei creditori tale da precludere la presentazione di proposte concorrenti: si pensi, in un ideale climax ascendente, a finanziamenti soci, ad apporti a patrimonio e ad aumenti di capitale, che, ove sia presentata la domanda di concordato, ben potranno esser attuati senza procedere alla preliminare riduzione del capitale e nella misura ritenuta funzionale alle esigenze sopra indicate[14];
vii) i creditori qualificati possono presentare proposte concorrenti soltanto qualora la proposta concordataria depositata dal debitore segnali l’impossibilità di ricavare dal patrimonio sociale valori adeguati a limitare la falcidia dei creditori chirografari dell’ente in misura non superiore al sessanta (o settanta) per cento;
viii) tale grave sbilancio – che, si noti, viene riconosciuto nel proprio piano dalla società debitrice, accertato dall’attestatore indipendente da questa prescelto ed infine rivalutato e confermato dal commissario giudiziale nominato dal tribunale nella sua relazione ex art. 172 L. fall. – postula l’insussistenza nel patrimonio della società di valori adeguati a ripagare se non in misura irrisoria i creditori sociali e, dunque (in linea di principio, verrebbe da dire, a fortiori), di un residuo valore delle partecipazioni sociali[15];
ix) il creditore che presenta una proposta concorrente in cui si preveda un aumento di capitale, con eventuale esclusione o limitazione del diritto di opzione, deve contestualmente procedere alla sottoscrizione dell’aumento nella misura indicata, fornendo adeguate garanzie in ordine alla esecuzione dello stesso all’esito dell’omologazione.
In questo quadro l’attribuzione ai fornitori di capitale di rischio (i creditori) della facoltà di porsi in concorrenza con il proprietario formale, nel caso in cui questi decida di far ricorso alla procedura concordataria, rappresenta, com’è stato incisivamente rilevato, “un modo per raccordare il profilo sostanziale (la sopportazione del rischio) con il profilo formale (la facoltà di avanzare – a determinate condizioni – una proposta di concordato)”[16].
D’altra parte, la possibilità di presentare proposte concorrenti nel solo caso in cui l’iniziale proposta del debitore non raggiunga il quaranta per cento di soddisfacimento dei crediti chirografari (o il trenta per cento nei concordati con continuità) “riduce il rischio di illegittimi espropri in danno del debitore, essendo ragionevole immaginare che, a fronte di tali percentuali offerte, l’attivo patrimoniale sia inferiore (ed anche sensibilmente) al passivo, così non residuando alcun patrimonio “eccedente” di cui il debitore avrebbe potuto continuare ad essere titolare dopo il soddisfacimento dei creditori concordatari”[17].
Se a tale ricognizione si affianca la perdurante possibilità, per i soci di rinunciare alla domanda di concordato anche in presenza di una proposta concorrente – sia pure entro i limiti temporali e con gli eventuali profili di responsabilità per i danni che da tale opzione possano derivare in capo ai creditori – pare davvero arduo ravvisare nell’istituto in esame un vulnus allo ius dominicale dei titolari delle partecipazioni sociali meritevole di censura sul fronte del diritto costituzionale o europeo[18].
Alla luce di tale scenario, non sembra potersi in alcun modo affermare che la proposta concorrente consentirebbe ai creditori di appropriarsi di un’impresa altrui; e tanto meno, con riferimento al tema in esame, che si imponga una interpretazione ortopedica e antiletterale della disposizione, che obliteri il riferimento testuale all’importo dei “crediti” di cui dev’essere titolare il proponente, per concentrarsi retrospettivamente sulla sua qualifica di “creditore” al momento del deposito (non già della proposta concorrente, come indica chiaramente la norma, ma) della domanda di apertura della procedura.
Non potendosi parlare di un fenomeno “espropriativo” da parte di soggetti “terzi”, non avrebbe neppure senso distinguere nell’ambito dei “terzi” tra coloro che erano qualificabili sin dall’inizio come creditori e coloro che lo sono divenuti in corso di procedura: quel che conta per il legislatore è che si tratti di un “terzo” qualificato in quanto titolare di una percentuale adeguatamente elevata dei crediti del debitore che abbia avviato la procedura concordataria. Sotto questo profilo, la posizione di colui che era titolare ab initio della percentuale legittimante si affianca a quella di chi, al momento dell’apertura della procedura, era titolare di un credito di importo inferiore, in ipotesi irrisorio, e di chi non aveva la qualifica di creditore: in queste due ultime fattispecie, il legislatore prende atto, con il ricordato inciso collocato tra il soggetto della proposizione principale e la relativa che individua il presupposto della legittimazione in una elevata rappresentatività percentuale del complessivo importo dei crediti, che il proponente, a fronte di un serio impegno finanziario, si è resto cessionario di crediti in misura tale da rappresentare almeno il dieci per cento del passivo concordatario.
Da ultimo va rilevato che, anche a voler ravvisare nella fattispecie profili latamente (e atecnicamente) espropriativi come effetto indiretto del percorso di risanamento individuato in una proposta concorrente, si tratterebbe di valutare, in una corretta comparazione assiologica, che l’interesse del titolare dell’impresa in crisi non debba considerarsi suvvalente rispetto all’interesse alla massimizzazione del soddisfacimento dei creditori, che costituisce, come si è detto, l’interesse cardine che il Legislatore tende a tutelare nel disciplinare la soluzione concordata della crisi e che trova, a sua volta, copertura costituzionale sia nell’art. 47 Cost., sia nell’art. 42 Cost., la cui portata si riconosce ormai estesa anche alla tutela della proprietà (rectius, titolarità) di pretese creditorie.
Nonostante, infatti, gli accordi di ristrutturazione e i concordati preventivi possano avere quale obiettivo, oltre che il soddisfacimento dei creditori, anche la conservazione e il risanamento dell’impresa, ciò non può che avvenire, per volontà dello stesso Legislatore, con il consenso (della maggioranza) dei creditori, e dunque nell’interesse affermato dagli stessi e perciò a essi riferibile.
Fermo quanto precede, non si può non ribadire come, nel contesto di una procedura di concordato preventivo, il rischio di un’indebita sottrazione di ricchezza a discapito dell’imprenditore venga a essere fortemente mitigato dalla situazione di dissesto economico-finanziario e, nella generalità dei casi, di patrimonio netto negativo, in cui versa l’imprenditore che si determini a fare ricorso a tale strumento previsto dalla Legge Fallimentare. Inoltre, la riconosciuta erosione del patrimonio netto, finanche nella parte rappresentativa del capitale di rischio, l’aumento dell’indebitamento e il trend economico negativo dell’impresa in concordato, sono tutti elementi che non possono che ridurre sensibilmente, se non addirittura precludere del tutto in ipotesi particolarmente gravi, la possibilità che i soci (residual claimant) si riapproprino integralmente del patrimonio sociale. La crisi d’impresa, infatti, dà origine a una dissociazione tra il “potere”, riconosciuto ai soci, e il rischio, gravante sui creditori; dissociazione che, se incontrollata, finirebbe con il far sorgere un perverse incentive per i soci e l’organo amministrativo espressione della maggioranza, a intraprendere operazioni ad alto rischio o spregiudicate, di cui potranno beneficiare nel caso (improbabile) di upside e di cui non dovranno subire gli effetti negativi, traslati integralmente sui creditori (i.e. il nuovo capitale di rischio).
Alla luce di tali considerazioni, non può non condividersi l’opinione, ormai largamente diffusa in dottrina[19], secondo la quale quando l’impresa non sia in condizioni di normale esercizio e non risulti in grado di adempiere regolarmente alle proprie esposizioni debitorie, la posizione “residuale” debba essere assunta dai creditori che si trovano a fornire il capitale di rischio per l’attività di impresa ed assicurarne la continuità operativa (come oggi espressamente riconosce l’art. 4 del Codice della crisi e dell’insolvenza, che impone agli amministratori di “gestire il patrimonio o l’impresa durante la procedura di regolazione della crisi o dell’insolvenza nell’interesse prioritario dei creditori”).
Da ultimo, si osserva che è lo stesso Legislatore ad aver adottato e introdotto nel reticolato normativo le opportune cautele necessarie a tutelare il debitore da possibili ingiustificati soprusi e spossessamenti a opera del ceto creditorio. In questo senso, milita, innanzitutto, il carattere meramente “derivato” della legittimazione dei creditori, l’esercizio dei cui poteri di formulazione di una proposta di concordato presuppone la scelta del debitore di tentare la soluzione concordataria[20]. I creditori (o i terzi) non possono in alcun modo “forzare la mano” del debitore costringendolo a instaurare il procedimento e subire, in tal modo, l’espropriazione del proprio patrimonio.
In secondo luogo, la tutela del debitore è assicurata dalla previsione per cui la sua proposta deve in ogni caso essere votata per prima dai creditori e, a parità di adesioni, essere preferita. Infine, il già analizzato presupposto oggettivo di cui al comma quinto dell’art. 163 L. fall. rappresenta indubbiamente il principale strumento difensivo a vantaggio del debitore. Con esso viene, infatti, assicurata all’imprenditore la possibilità di stroncare in radice ogni iniziativa di proposta concorrente da parte dei creditori, se nella relazione di cui all’art. 161, comma terzo, L. fall. il professionista attesta che con la proposta originaria è assicurato il pagamento del quaranta per cento dei creditori chirografari o del trenta per cento nel caso in cui si tratti di un concordato con continuità aziendale[21].