di Salvo Leuzzi, Magistrato addetto al Massimario della Suprema Corte di Cassazione
Il provvedimento del giudice cremonese non è condivisibile. Il magistrato dell’esecuzione pendente ha adottato un provvedimento di sospensione, pretendendo, ai fini dell’eventuale declaratoria di improcedibilità, adempimenti formali non contemplati dalla L. n. 3 del 2012.
A tenore dell’art. 14-novies, comma 2, ultima parte, infatti, «Se alla data di apertura della procedura di liquidazione sono pendenti procedure esecutive il liquidatore può subentrarvi». Significa che è tale organo a poter decidere liberamente, a suo grado, senza scontare sovrapposizioni del giudice della procedura di sovraindebitamento o del giudice dell’esecuzione in corso, di sostituirsi al creditore procedente nell’espropriazione individuale, prendendola in carico anche ai fini degli atti di impulso e incassandone il ricavato, per poi distribuirlo secondo la graduazione dei crediti prevista dalla legge.
In alternativa, il liquidatore è legittimato, a propria discrezione, non sindacabile dal giudice dell’esecuzione, a far constare la pendenza della procedura di liquidazione del patrimonio, ottenendo per ciò solo e senza incombenti ulteriori la dichiarazione di improcedibilità dell’esecuzione pendente.
Lo schema mutuato dall’art. 14-novies L. n. 3 del 2012 è all’evidenza quello dell’art. 107 L. fall.: il liquidatore sceglierà, al pari di un curatore, se subentrare nelle procedure pendenti, reputandole un buon veicolo per la monetizzazione del patrimonio del sovraindebitato, oppure se avocare tout court alla sede concorsuale le alienazioni competitive dei cespiti appresi alla massa.
Nell’uno e nell’altro caso non sarà tenuto, né a fornire spiegazioni al giudice dell’esecuzione, né a documentare al suo indirizzo incombenti ulteriori, che sono interni alla procedura di concorso e non lo riguardano in alcun modo.
Nella specie, il giudice lombardo ha chiesto al curatore di dar conto della redazione dell’inventario e dell’elenco dei creditori, della formazione dello stato passivo e del programma di liquidazione. Si tratta di una richiesta e di un’interlocuzione che la disciplina vigente non giustifica. Nella procedura di liquidazione del patrimonio il divieto di azioni esecutive è assoluto, sicché delle procedure esecutive in cui le azioni si siano tradotte non può che statuirsi in sede esecutiva l’improcedibilità, al netto della fattispecie in cui il liquidatore decida di adoperare l’espropriazione in corso come mezzo di liquidazione dei beni, esercitando la facoltà di subentro.
Si tratta di una scelta del tutto autonoma, ispirata a valutazioni di convenienza del liquidatore connesse al risparmio di costi (per pubblicità o perizie, essenzialmente) o a considerazioni di opportunità legate alla concentrazione dei tempi, come esemplificativamente accade nell’ipotizzabile imminenza di un esperimento di vendita già calendarizzato in sede esecutiva e nel cui contesto è pronosticabile siano pervenute o pervengano offerte in considerazioni delle plurime manifestazioni di interesse già registrate.
L’esigenza di imporre il temporaneo arresto delle azioni esecutive individuali si lega alla universalità della procedura di sovraindebitamento e alla connessa necessità che il bene pignorato non sia liquidato a beneficio dei soli concorrenti nell’espropriazione.
L’unico strumento che si rivela idoneo allo scopo è quello dell’improcedibilità. Quest’ultima non estingue il processo esecutivo, ma lo conserva in stato di quiescenza, fintantoché il bene non sia alienato in sede concorsuale o sia, altrimenti, escluso per derelictio dal programma di liquidazione.
Da ciò deriva che il giudice dell’esecuzione non deve ordinare la cancellazione della trascrizione del pignoramento immobiliare quando dichiara l’improcedibilità dell’esecuzione forzata singolare, dietro impulso del liquidatore.
Ove, quest’ultimo opti per l’improcedibilità del giudizio esecutivo pendente “nessun atto esecutivo può essere compiuto” ad istanza dei creditori (art. 626 c.p.c.). L’organo concorsuale non fa che domandare al giudice dell’esecuzione di dare atto che egli non intende subentrare in essa e che il processo esecutivo deve restare per forza di cose sospeso, non potendo i creditori (i cui titoli sono temporaneamente privati della vis executiva) coltivarlo.
L’improcedibilità in parola non è, dunque, una misura estintiva, ma semplicemente ricognitiva della sospensione dell’esecuzione individuale. Ne consegue che gli effetti sostanziali del pignoramento rimangono integralmente vitali, atteso che il pignoramento si traduce, da vincolo preordinato all’espropriazione forzata individuale, in misura conservativa statica del bene, a salvaguardia delle ragioni della massa.
In altri termini, il pignoramento muta funzione, poiché da strumento atto a individuare il bene, vincolandolo al soddisfacimento del creditore procedente e degli intervenuti successivi, diviene mezzo d’attuazione della garanzia patrimoniale e della par condicio tra i creditori.
La subordinazione del processo esecutivo a quello concorsuale implica, infatti, l’arresto del primo finché pende il secondo, a meno che il liquidatore liberamente non compia scelte diverse. In tal senso, la liquidazione del patrimonio, mutuando l’archetipo del fallimento, determina la trasformazione dell’azione esecutiva individuale in azione concorsuale, da esercitare per il tramite della domanda di ammissione al passivo.
Lo stato di temporanea quiescenza del processo esecutivo, con il correlato impedimento a compiere atti di impulso (art. 626 c.p.c.), è garanzia dell’unicità ed universalità del processo di liquidazione del patrimonio del sovraindebitato. L’esecuzione non prosegue, ma neppure è retroattivamente caducata; essa rimane sospesa, per volontà del liquidatore che dà seguito alla liquidazione concorsuale. Coerentemente trova applicazione il principio per cui la sospensione non infima gli atti compiuti, né determina la cessazione degli effetti materiali del pignoramento.