1. La sentenza in commento prende le mosse da due rinvii pregiudiziali riuniti promossi dal Tribunale di Milano in qualità di giudice dell’esecuzione.
Rimettendo la questione alla Corte, il Tribunale remittente si è interrogato sul delicato e altrettanto discusso tema dei poteri riconosciuti al giudice dell’esecuzione in procedimenti in cui sia coinvolto un consumatore.
Seppur con sfumature diverse, il nodo focale di entrambi i rinvii consiste nel rapporto tra l’autorità di cosa giudicata ed il sindacato giurisdizionale in sede esecutiva sulle clausole abusive all’interno di un contratto business to consumer (b2c). A ben vedere, in siffatte ipotesi, la questione relativa ai confini dei poteri attribuiti al giudice dell’esecuzione assume notevole rilevanza, considerato che, nel nostro ordinamento processuale, la mancata opposizione a decreto ingiuntivo nei termini di cui all’art. 641 c.p.c. ne comporta l’esecutività e, alla stregua dell’orientamento dottrinale e giurisprudenziale ad oggi prevalente ([1]), l’attribuzione al decreto ingiuntivo non opposto dell’efficacia di giudicato.
Infatti, costituisce dato ormai consolidato, seppur non esente da critiche ([2]), che il decreto ingiuntivo di condanna al pagamento di una somma di denaro, nelle ipotesi in cui non sia stata proposta opposizione, acquisti, al pari di una sentenza di condanna, efficacia di cosa giudicata. Invero in giurisprudenza appare condiviso “il principio secondo cui l’autorità del giudicato spiega i suoi effetti non solo sulla pronuncia esplicita della decisione, ma anche sulle ragioni che ne costituiscono, sia pure implicitamente, il presupposto logico-giuridico, [principio che (n.d.r.)] trova applicazione anche in riferimento al decreto ingiuntivo di condanna al pagamento di una somma di denaro, il quale, ove non sia proposta opposizione, acquista efficacia di giudicato non solo in ordine al credito azionato, ma anche in relazione al titolo posto a fondamento dello stesso ” ([3]).
Le conclusioni alle quali è giunta la giurisprudenza negli ultimi anni porterebbero a ritenere, dunque, che il decreto ingiuntivo non opposto acquisti carattere di immutabilità tanto in ordine al credito azionato, quanto al titolo posto a fondamento della domanda giudiziale (c.d. giudicato implicito), precludendo così ogni ulteriore esame delle ragioni addotte a sostegno della medesima domanda ([4]).
Tale assetto sistematico, così come poi sottolineato nelle conclusioni dell’Avvocato Generale Tanchev, renderebbe il nostro ordinamento processuale inadeguato a garantire effettività alla tutela consumeristica altrimenti garantita dal diritto dell’Unione. Il Tribunale di Milano si è interrogato dunque circa la superabilità del giudicato c.d. implicito formatosi in ordine ad un decreto ingiuntivo non opposto al fine di garantire piena effettività alla tutela europea.
2. Ebbene, per sopperire alla natura, per così dire, “monca” della tutela offerta sul punto dal nostro ordinamento, una delle possibili soluzioni prospettabili appare quella adottata nelle proprie conclusioni dall’Avvocato Generale Tanchev, di cui sopra.
Secondo la ricostruzione offerta da quest’ultimo, infatti, al fine di rendere effettiva la tutela del consumatore, occorre che il controllo giudiziale volto ad accertare l’eventuale vessatorietà di una clausola contrattuale non sia solo potenziale ma anche concreto ([5]).
Non solo, sulla scorta di tale premessa, l’A.G. si è spinto sino ad affermare che se detto controllo non è stato esperito in fase monitoria, sarà il giudice dell’esecuzione ad essere investito di tale compito ([6]).
Al fine di corroborare la propria tesi, Tanchev richiama la sentenza Banco Primus, con la quale la Corte ha ritenuto che “in presenza di una o di più̀ clausole contrattuali la cui eventuale abusività̀ non sia ancora stata esaminata nell’ambito di un precedente controllo giurisdizionale del contratto controverso terminato con una decisione munita di autorità̀ di cosa giudicata, la direttiva 93/13 deve essere interpretata nel senso che il giudice nazionale, regolarmente adito dal consumatore mediante un’opposizione incidentale, è tenuto a valutare, su istanza delle parti o d’ufficio qualora disponga degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal fine, l’eventuale abusività̀ di tali clausole” ([7]).
All’interno del quadro interpretativo delineato dall’A.G. assumerebbe, quindi, un ruolo chiave la motivazione del decreto ingiuntivo. Più precisamente, da quest’ultima non solo emergerebbe l’effettività del controllo giurisdizionale sull’eventuale vessatorietà delle clausole svolto in sede monitoria, ma, sempre secondo Tanchev, la motivazione sarebbe pure in grado di fornire al consumatore gli strumenti necessari al fine di valutare se proporre o meno opposizione al decreto ingiuntivo ([8]) ([9]).
In definitiva, secondo la ricostruzione offerta dall’A.G. ciò che rileva, nel caso di specie, non è tanto l’istituto in sé e per sé del giudicato quanto, piuttosto, il c.d. accertamento incontrovertibile mediante preclusione tipico del nostro procedimento monitorio, che impedirebbe, quindi, di dare piena ed effettiva applicazione alla norma astratta di matrice europea.
Sul punto, autorevole dottrina ([10]) ha correttamente ritenuto che il ragionamento sopra esposto non porterebbe poi a conclusioni così rivoluzionarie se si pensa che quest’ultimo altro non avrebbe se non proposto di limitare l’operatività di una mera preclusione in nome della primauté del diritto europeo.
Posto che, quindi, la questione relativa al giudicato non è poi così centrale come potrebbe apparire in prima battuta, è altrettanto condivisibile il ragionamento di chi, muovendo dalla conclusioni dell’A.G., si è spinto sino a ritenere che il giudice del procedimento monitorio, dovendo compiere un controllo in merito alla vessatorietà, sia, di fatto, investito di una cognizione piena solo in presenza di contratti b2c, diversamente opinando per i contratti b2b nei quali, invece, il giudice del monitorio rimarrebbe investito, more solito, di una cognizione sommaria ([11]).
3. La Corte, nell’accogliere la ricostruzione offerta dall’A.G., ha evidenziato che la tutela di cui alla Dir. 93/13/CEE si fonda sull’idea secondo cui, nell’ambito di un contratto b2c, il consumatore rivesta un ruolo di inferiorità rispetto al professionista; ciò, avuto riguardo tanto al potere negoziale di quest’ultimo quanto alla disponibilità delle informazioni necessarie per effettuare scelte consapevoli; per tale ragione, al fine di ristabilire una sorta di equilibrio tra le parti, l’art. 6, paragrafo 1 di detta Direttiva prevede che le clausole c.d. abusive non vincolino i consumatori.
Richiamando, poi, numerosi precedenti giurisprudenziali, la stessa Corte ha altresì rilevato che è compito del giudice nazionale “esaminare d’ufficio il carattere abusivo di una clausola contrattuale che ricade nell’ambito di applicazione della direttiva 93/13 e, in tal modo, ovviare allo squilibrio che esiste tra il consumatore e il professionista, laddove disponga degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal fine” ([12]).
Quanto al principio di effettività dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto dell’Unione Europea, la Corte ha evidenziato che, se è vero che la norma europea, nelle ipotesi in cui una norma nazionale ne renda difficile l’applicazione, deve essere applicata tenendo conto “del ruolo di detta norma nell’insieme del procedimento, del suo svolgimento e delle sue peculiarità, nonché, se del caso, dei principi che sono alla base del sistema giurisdizionale nazionale, quali la tutela dei diritti della difesa, il principio della certezza del diritto e il regolare svolgimento del procedimento” ([13]), è altrettanto vero che “le condizioni stabilite dalle legislazioni nazionali, alle quali si riferisce l’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13, non possono pregiudicare la sostanza del diritto spettante ai consumatori in forza di tale disposizione” ([14]).
Non solo: con la sentenza in commento, la Corte ha altresì affermato che gli Stati Membri hanno il compito di garantire piena effettività ai diritti attribuiti ai singoli dal diritto dell’Unione, così come emerge dall’art. 7, paragrafo 1, Dir. 93/13/CEE, circostanza peraltro sancita anche dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea ([15]).
Ne deriva che le condizioni nazionali di cui all’art. 6, paragrafo 1 di detta Direttiva non possono in alcun modo pregiudicare la tutela accordata ai consumatori dal diritto dell’Unione. Conseguentemente, la Corte giunge alla conclusione che un sistema processuale come il nostro, nel quale l’esame in merito alla vessatorietà delle clausole contrattuali si considera implicitamente coperto da giudicato anche in assenza di una motivazione in tal senso, finisce per eludere, svuotandolo di significato, l’obbligo di verifica che incombe in capo al giudice nazionale in virtù della stessa norma europea, privandola così di effettività ([16]).
Tali considerazioni portano ad affermare che, in mancanza di diverse prescrizioni attuative della Dir. 93/13/CEE, per garantire effettività alla tutela consumeristica accordata dalla stessa, si rende necessaria una rilettura euro-comunitariamente orientata del nostro codice di rito, alla luce della quale, a fronte di contratti b2c, da un lato, in presenza di un decreto ingiuntivo non opposto, dalla cui motivazione emerga il corretto adempimento all’obbligo di verifica facente capo al giudice del monitorio, l’efficacia di giudicato del decreto sarà salva; dall’altro, ove dalla motivazione emerga con chiarezza il mancato e/o il parziale adempimento dell’obbligo di cui alla Dir. 93/13/CEE, l’accertamento incontrovertibile mediante preclusione non potrà operare, ovvero opererà per le sole clausole oggetto di effettivo controllo giurisdizionale.