L’approccio.
Alla base della genesi di un codice c'è sempre l'idea di accorpare e sistematizzare la materia giuridica, al fine di semplificare il compito degli interpreti e degli operatori del diritto, nonché di limitare il potere influenzante dell'eventuale soggettività interpretativa di costoro.
In tal senso possiamo affermare che un codice è un insieme specifico di norme correlate tra loro mediante una serie di relazioni logiche e strutturali che forniscono all’insieme un ordine [cfr. M.G. Losano, Sistema e struttura nel diritto, I, 2002, cap. I; G. Lazzaro, voce Sistema giuridico, in Novissimo Digesto Italiano, XII, 1970].
Tra gli elementi “ordinatori”, spiccano quelli che conferiscono all’insieme un’identità distinta dal resto; si tratta di norme che potremmo definire “identificatrici del sistema” alle quali si riconosce la forza di dare soluzione alle antinomie.
In questo senso si afferma che è impossibile comprendere l’identità di un sistema normativo, o di qualsiasi altro tipo di sistema, senza considerare i suoi fini pragmatici o i suoi criteri assiologici fondamentali .
Un sistema giuridico si compone di regole e principi. I principi sono logicamente distinti dalle regole e hanno un ruolo preponderante all’interno del sistema giuridico, mentre le regole non sono altro che lo strumento del quale si servono i principi per realizzare la loro funzione.
La ragione, si suol dire, è l’anima della legge.
Orbene, secondo questo approccio, i principi non dovranno mai essere tra loro confliggenti e le regole dovranno sempre essere coerenti, secondo un criterio gerarchico, con i principi fondamentali del sistema.
Tale considerazione diviene ancora più pregnante allorquando si proceda – come è stato nel caso del CCII – alla promulgazione della legge mediante delegazione: l’organo legislativo inferiore non dovrebbe contraddire quello superiore, giacché ha ricevuto la sua autorità da quest’ultimo, e contraddirlo equivarrebbe a minare la sua stessa autorità.
Del concordato liquidatorio.
Una medesima critica di non coerenza sistematica, infatti, ritengo possa essere rivolta anche alle norme che disegnano gli strumenti di regolazione dell’insolvenza tramite la liquidazione dell’impresa, ora che al concordato liquidatorio “classico” sono stati affiancati altri istituti con analoga finalità.
Ciò di cui mi occuperò non sarà la “bontà”, o meno, di certe scelte di politica legislativa, bensì della (in)coerenza sistematica di tali scelte.
Come è noto la legge delega Rordorf (L. 19 ottobre 2017, n. 155), alla lett. a) del primo comma dell’art. 6, imponeva al legislatore delegato – ferma la soglia di soddisfacimento minimo del 20% dei crediti chirografari – di limitare l’ammissibilità di proposte di concordato aventi natura liquidatoria alla sola ipotesi di apporto di risorse esterne che aumentassero in “misura apprezzabile” il soddisfacimento dei creditori.
Altrettanto nota è la scelta del legislatore inferiore che, con il quarto comma dell’art 84 CCII, ha identificato tale “misura apprezzabile” in un valore pari al 10% dell’attivo disponibile al momento della presentazione della domanda di concordato, con ciò interpretando la delega in senso regressivo: maggiore è il valore della garanzia patrimoniale preservata dal debitore, maggiore dovrà essere l’apporto esterno che dovrà procurarsi. Una sorta di punizione per essersi attivato tempestivamente.
E già questa è un tradimento del “fine” di promuovere l’anticipata emersione della crisi.
Così strutturato il concordato preventivo liquidatorio evidenzia significativi limiti in termini di utilizzo pratico, che di fatto ne disincentivano il ricorso. In sostanza possono accedervi solo quelle imprese che s’identificano con l’imprenditore, non certo le società quotate o a larga base azionaria, dove nessuno dei soci, neppure quello di maggioranza relativa, può avere interesse ad apportare nuove risorse, restando comunque esposto, anche nel concordato come nella liquidazione giudiziale, ai rigori delle azioni risarcitorie.
Di fatto, possiamo affermare, senza tema di smentita, che il legislatore abbia inteso, come suo fine programmatico – il principio della legge – disincentivare, rendendolo più complesso e oneroso, il ricorso al concordato preventivo liquidatorio, che, in ogni caso, resta soggetto all’approvazione dei suoi creditori, oltre che all’obbligo di garantire un loro soddisfacimento non inferiore a quello della liquidazione giudiziale.
Occorre, a questo punto, domandarsi se il sistema, nel suo continuo correggersi, sia rimasto coerentemente ancorato a questo – giusto o meno – principio.
Del concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio.
Se volgiamo lo sguardo alla struttura del “concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio”, così come delineata agli artt. 25 sexies e 25 septies CCII, la risposta non può che essere negativa.
In alternativa al concordato preventivo liquidatorio, con i suoi disincentivanti paletti d’accesso, l’imprenditore può oggi proporre ai propri creditori un concordato per cessio bonorum, senza necessità d’integrare l’attivo disponibile del 10% e garantire ai suoi creditori un soddisfacimento minimo del 20%.
Non solo! Tale proposta di concordato non dovrà neppure essere soggetta all’approvazione della maggioranza dei creditori.
Uniche condizioni:
(i) che sia stata attivata la composizione negoziata;
(ii) che le trattative svolte nel suo ambito siano state condotte secondo principi di buona fede e correttezza e
(iii) che le soluzioni di cui all’art. 23, commi 1 e 2 lett. b), non siano risultate praticabili.
Non rileva in alcun modo che l’accesso alla Composizione negoziata sia avvenuto tempestivamente.
Posto in questi termini il sistema si trova difronte a due concordati liquidatori concorrenti con regole opposte, quanto a principi ispiratori: il vecchio, che secondo il principio enunciato dalla legge delega, è utilizzabile solo con un sacrificio economico aggiuntivo; il nuovo che non prevede neppure il consenso dei creditori.
Il ricorso al primo è disincentivato, mentre il ricorso al secondo è incentivato, venendo così meno ogni velleità di coerenza codicistica.
Si obietterà: il concordato semplificato costituisce un premio per l’imprenditore che abbia fatto ricorso in buona fede alla composizione negoziata.
Obiezione facile da contraddire, semplicemente costatando che non vi sono particolari paletti d’accesso alla composizione negoziata se non un’astratta – pessimamente declinata nella pratica da tutti gli attori – ragionevolezza della risanabilità dell’impresa.
L’assenza di un qualsiasi paletto di accesso alla CN, che si estende, per successione logica, all’accesso al concordato semplificato, salvo la buona fede e correttezza nelle trattative, apre alla possibilità di effettuare un vero e proprio “rule shopping” nel pieno rispetto della legge, come spiegherò a breve.
Uno shopping consentito proprio dalla perdita di coerenza del sistema.
Le ampie possibilità di rule shopping.
Si è detto della circostanza che non esistono paletti d’accesso alla CN, se non quello di una teorica risanabilità dell’impresa.
Immaginiamo, allora, che un’impresa insolvente, la cui naturale “liquidazione regolata” sarebbe quella in ambito concordatario, non abbia un patrimonio utile a garantire un soddisfacimento dei propri creditori nella misura minima del 20%, come la norma prevede, e che la sua natura di impresa quotata o a larga base azionaria non consenta il reperimento di quel surplus del 10% necessario per accedere al concordato liquidatorio come alternativa alla liquidazione giudiziale.
Ebbene quest’impresa ben potrà ricorrere alla CN con un piano di ristrutturazione che preveda la conversione dei debiti in strumenti finanziari partecipativi e il mantenimento delle condizioni di fornitura e di finanziamento del circolante, semplicemente a fronte di un conto economico che, depurato degli interessi passivi e degli ammortamenti (in conseguenza, per questi ultimi, della svalutazione delle immobilizzazioni), risulti tendenzialmente modestamente positivo.
Si tratterebbe di un piano certamente ammissibile, che, oltretutto, supererebbe con facilità anche il farraginoso test pratico previsto dal decreto dirigenziale 21 marzo 2023, nonostante le obiettive scarse possibilità di ottenere l’adesione dei creditori alla totale conversione in SFP delle loro ragioni di credito e al contemporaneo mantenimento delle condizioni di fornitura.
Il consenso dei creditori va ricercato, infatti, all’interno dei negoziati della CN, non pretendendosi pretende, in assenza di una qualsiasi norma positiva che lo stabilisca, che uno schema di risanamento lecito – l’art. 84, primo comma, CCII consente la ristrutturazione in “qualsiasi forma”, schema con cui è stata, per altro, brillantemente risanata Parmalat – debba essere sottoposto a un test preventivo di gradimento, pena la contestazione di mancanza di buona fede e correttezza nelle trattative.
Arenatesi, dunque, le trattative, come era facilmente prevedibile, ecco aprirsi per quell’impresa, che non aveva i numeri per accedere al concordato preventivo liquidatorio, la possibilità automatica di accesso al concordato semplificato, che i creditori dovranno subire senza nulla poter eccepire, con il solo onere – se necessario – a carico del debitore di apportare quelle risorse minime che consentano di far ottenere ai creditori chirografari almeno nummo uno.
Ecco che così si potrà facilmente aggirare il principio dettato dal legislatore superiore in tema di concordati liquidatori. Semplicemente perché uno dei legislatori delegati che si sono succeduti nell’affastellata scrittura delle norme si è dimenticato degli stretti vincoli che la delega gli poneva.
Oggi è innegabile, quindi, che si possa ottenere l’omologazione di un concordato preventivo liquidatorio senza apporti, senza garanzie minime di soddisfacimento e senza il consenso dei creditori.
Indubbio è altrettanto che i debitori seguiranno, con buona possibilità di successo, questa strada per eludere le forche caudine del primo comma dell’art. 84 CCII.
Un’elusione, appunto, consentita dalla non coerenza delle regole.
Ma la possibilità di
rule shopping è ancora più estesa se solo si pensa che si sta consolidando nella giurisprudenza di merito il convincimento per il quale l’istituto del “piano di ristrutturazione soggetto a omologazione” possa avere natura liquidatoria [
cfr. Trib. Milano, 9 novembre 2024, in
Ristrutturazioni aziendali; Trib. Roma, 03 luglio 2024, in
Ristrutturazioni aziendali; Trib. Vicenza, 17 febbraio 2023, in questa
Rivista].
Infatti, considerato che fra le norme applicabili all’istituto in questione richiamate dal nono comma dell’art. 64 bis CCII non vi è traccia dell’art. 84, particolarmente del suo quarto comma, pare difficilmente revocabile in dubbio che il piano di ristrutturazione liquidatorio soggetto ad omologazione non debba garantire il soddisfacimento dei creditori chirografari nella misura minima del 20% e l’apporto di finanza esterna che incrementi di almeno il 10% l’attivo disponibile.
Inoltre va considerato che l’opinione che il PRO possa avere natura liquidatoria esce rafforza dalla riformulazione del nono comma dell’art. 64 bis, laddove si prevede che si applichino tutte le disposizioni di cui alle sezioni IV e VI, del capo III del titolo VI CCII ad eccezione di quelle degli art. 112 e 114bis, cioè, per quanto attiene a quest’ultimo articolo, delle norme che regolano la liquidazione di beni nel concordato in continuità, risultando di converso applicabile l’art 114 in tema di liquidazione nei concordati liquidativi.
Evidente allora come, raggiunta l’unanimità delle classi, con i PRO si possa facilmente eludere l’obbligo del soddisfacimento minimo al 20% dei credi chirografari e quello dell’apporto aggiuntivo di un ulteriore 10% dell’attivo disponibile, violando così il chiaro principio – giusto o sbagliato che fosse - della legge delega.
Conclusioni.
Il tradimento dei principi delegati mi pare difficilmente contestabile, come l’assenza di coerenza sistematica che ne consegue e che boccia inesorabilmente l’originaria ambizione “codicistica” del legislatore.
Un codice che, più si approfondisce, più appare sempre simile a un patchwork.
Un esempio ulteriore, oltre quelli di cui ai citati contributi del prof. Alessandro Nigro e del presidente Giuseppe Bozza, che dimostra la necessità di addivenire al più presto al superamento di questo “non codice” e come il suo superamento non possa avvenire tramite nuovi correttivi.
Occorre, infatti, riorganizzare i principi; ridurre e semplificare il numero degli strumenti di regolazione della crisi; abbandonare la chimera (intesa nell’accezione che il termine aveva nella mitologia greca) di un unico procedimento per istituti diversi, tra loro, per natura e finalità, limitandosi ad affermare, come aveva suggerito la Corte di cassazione, il solo principio della continenza e della necessaria pre-valutazione delle ipotesi di regolazione concordata della crisi, rispetto a quella della liquidazione giudiziale [cfr. Cass. civ, 20 febbraio 2020, n. 4343]; riprendere la vecchia toponomastica della legge del ’42, con una netta divisione tra norme che riguardano le imprese “fallibili”, quelle non fallibili e i non imprenditori, che oggi sono, invece, unite dal fil rouge del tipo di strumento; limitare le norme di condotta e conseguentemente la prolissità delle singole disposizioni, etc. etc.…
Il tutto in una chiara funzione del contenimento delle possibilità di rule shopping e di perseguimento della certezza del diritto, oggi dispersa nei rivoli di mille disposizioni pletoriche, pessimamente scritte e prive del necessario requisito della coerenza.