IL “MAGGIOR VALORE” EX ART. 87, COMMA 1, LETT. C) CCII E L’EVANESCENZA DEL MINOR “VALORE EFFETTIVO” EX ART. 120-QUATER, COMMA 2, CCII”
I - Prognosi di una fine
Lo stimolante contributo del
Prof M. Bini e del Dr. G. Peracin, (“
La distribuzione del valore nel concordato in continuità con attribuzioni ai soci: il difficile equilibrio tra principi di equa ripartizione e criteri di valutazione delle aziende in crisi”, in questa Rivista, 7 novembre 2025), relativo alla tematica della qualificazione (e quantificazione) del “
valore effettivo” riservato ai soci, rappresenta l’ennesima e ben argomentata conferma della autolesionista vocazione “estintiva” del concordato in continuità diretta che, a dispetto dei principi riformatori (tra l’altro, a lume dell’art. 11, par. 2, Dir. Ins., in un contesto normativo unionale non precettivo per il legislatore domestico) e in una sorta di eterogenesi dei fini, trova un imprevedibile detonatore proprio nelle stesse norme di “chiusura” del concordato (Capo III-bis), specificamente all’art. 120-
quater CCII (“
Condizioni di omologazione del concordato con attribuzione ai soci”), come già si preconizzava
ante riforma del “120-quater” (A.L. Bottai, A. Pezzano, M. Ratti, M. Spadaro, “
Il concordato con attribuzioni ai soci: criticità e prospettive del nuovo art. 120 quater CCII”, in questa Rivista, 8 novembre 2022).
II - L’esegesi letterale dovrebbe essere quella prevalente (giusta, ex multis, Cass. 3220/2025) …
Già il titolo della norma, ove non interpretato per quello che letteralmente esprime, appalesa la sua ambiguità rispetto al contenuto della stessa: “l’attribuzione” - così come, d’altra parte, “il riservare” previsto nei primi due commi - presuppone una opzione (dunque soggettiva) rispetto ad una determinata scelta dispositiva.
L’oggetto di quella che, a tutti gli effetti, è un’offerta di un’entità satisfattiva di carattere economico o un’utilità, per la cui accettazione non si dovrebbe dunque prescindere dalla sede naturale procedimentale - concordataria in cui essa dovrebbe avvenire (che prima e ancor più del giudizio di omologazione, è quella dell’approvazione), ovverosia nell’espressione di adesione o meno alla proposta formulata (anche ai fini delle maggioranze di cui all’art. 112, comma 2, lett. d), primo scenario, CCII vista la salvezza al riguardo dell’incipit dell’art. 120-quater CCII), secondo la classazione - obbligatoria, trattandosi di concordato in continuità - dei soggetti interessati, non a caso espressamente regolamentata anche per i soci all’art. 120-ter CCII.
Anche perché, in difetto di classazione, ai soci non si applicano le disposizioni degli articoli da 107 a 110 CCII, invocabili, appunto, solamente ove “I soci, [siano] inseriti in una o più classi, [ed] esprimono il proprio voto nelle forme e nei termini previsti per l’espressione del voto da parte dei creditori” (art. 120-ter, comma 3, CCII).
E quindi, oltre a non votare, oltre a non potersi opporre all’omologazione (e solo per le ragioni di cui al terzo comma dell’art. 120-quater, ovverosia per la violazione dei criteri distributivi dell’APR), i soci neppure potrebbero contraddire sul dissenso della classe “contestatrice” e sul “valore effettivo” ipoteticamente ed eventualmente “riservato” loro, anche indirettamente/tacitamente, da piano e proposta.
Logico corollario di dette considerazioni sarebbe quello di affermare che la disciplina del “valore effettivo” sarebbe applicabile esclusivamente laddove da parte degli organi societari deputati dall’art. 120-bis CCII - che non sono e non possono essere i soci, che anzi ne subiscono le determinazioni, senza neppure poterli sostituire - si giunga alla conclusione che detto valore realmente sussista, con la conseguente assegnazione, recte attribuzione riservata in piano ai soci medesimi, i quali, quindi, come qualsiasi altra parte interessata, devono aver diritto a potersi pienamente esprimere.
III - …ma invece - almeno per ora - così non è: il “valore effettivo” come (presunto) effetto automatico
A quanto pare, tuttavia, dottrina e giurisprudenza maggioritaria (esaustivamente richiamate nel suddetto contributo) sarebbero assestate su posizioni più draconiane, prevedendo tale riserva di valore ai soci come quasi un effetto automatico ex lege di ogni concordato in continuità diretta, con quindi l’obbligo di quantificazione di tale valore riservato ai soci sin dalla fase di deposito del concordato (a prescindere peraltro dalla necessità, in tal caso, della previa formazione di una o più classe di soci, come invece indispensabile per quanto sopra osservato) .
Con la conseguenza che tale omissione risulterebbe persino sindacabile in sede di apertura del concordato (vd. recente
Trib. Milano, 23 settembre 2025 in questa Rivista).
Quando, invece, allorché si argomenti in piano (ed attestazione) che detto “valore effettivo” non sussiste (anche perché assorbito dall’eventuale maggior valore di cui all’art. 87, comma 3, lett. c), CCII ovvero escluso per l’insussistenza di tale maggior valore che comunque l’avrebbe incluso, come vedremo meglio in seguito), nulla dovrebbe essere indicato.
Né potendo una valutazione del Giudice, ove anche supportata da un parere del Commissario, far giungere a conclusioni diverse, men che mai sul piano dell’ammissibilità del concordato, trattandosi sempre e solo di sindacati di merito e di convenienza - come anche quelle sulle ricadute delle azioni risarcitorie e restitutorie, ovviamente una volta esposte in piano -, da rimettere, dunque, esclusivamente alla titolata valutazione delle singole parti interessate (cfr. sulla stessa linea Cass. 1393/2024, punti 6 e 7 e prima ancora Cass. 23882/2016, che ha cassato il decreto con il quale la corte d'appello aveva negato l'omologazione di un concordato preventivo in ragione della maggiore attendibilità della stima del valore di un immobile operata dal commissario giudiziale rispetto a quella eseguita dall'attestatore, le cui conclusioni non erano peraltro mai state poste in dubbio sotto il profilo della correttezza argomentativa).
IV - Valore di Liquidazione: la sola bussola
L’unico strumento di comparazione sensato sarebbe dovuto rimanere, dunque, il valore non inferiore a quello ricavabile in sede di Liquidazione Giudiziale (come peraltro torna a fare nella stessa norma il terzo comma rispetto all’eventuale opposizione dei soci).
Infatti, nel valore di liquidazione assoggettabile al regime dell’APR (quindi in caso di Liquidazione giudiziale della società), non entrerebbero mai in gioco patrimoni terzi o comunque residui e futuri, quanto del tutto eventuali dei soci; e ciò neppure nel caso in cui la classe dissenziente “120-quater, comma 1, CCII” portasse il proprio dissenso all’estrema conseguenza di far dichiarare la Liquidazione giudiziale con il proprio dissenso o con l’opposizione all’omologazione: la ‘coperta’ a disposizione dei creditori resterebbe sempre quella del Valore di Liquidazione, prognosticamente valutata alla data di apertura del concordato preventivo.
Certamente, nella liquidazione giudiziale, non si potrebbe materializzare (quasi per magia) un “T.V.C.” - “Terminal Value Concorsuale”, anche perché lo stesso rappresenta una contraddizione in termini, non potendo avere nulla a che vedere, obiettivamente e aziendalmente parlando, con un serio calcolo prospettico del valore di un’impresa allorché la stessa risulti ancora da risanare.
V - Il “maggior valore” dell’azienda “in esercizio” ex art. 87, comma 1, lett.c), CCII: il “massimo” dei valori conseguibili nella Liquidazione Giudiziale che assorbe anche ogni valore “effettivo”
Ancor più oggi, perché, ove l’azienda risulti contendibile al meglio in esercizio anche in sede di Liquidazione Giudiziale, allora saremmo in pieno regime di APR ai sensi del novellato art. 87, comma 1, lett. c), CCII, anche rispetto al maggior valore, appunto, aziendale e quindi a fortiori il “valore effettivo” dell’art. 120-quater CCII risulterebbe assorbito, essendo sostanzialmente un doppione della nuova disposizione sul (maggior) calcolo del Valore di Liquidazione rispetto all’azienda “in esercizio”.
Anzi, ancor meno, atteso che dovrebbe scontare - a differenza che nel predetto calcolo dell’art. 87 cit. (che infatti, del valore “in detrazione” che segue, potrebbe avvantaggiarsene, quanto meno per il 20% privo di prededuzione di cui all’art. 102, comma 1 CCII ) - il valore eventualmente apportato dai soci “ai fini della ristrutturazione in forma di conferimenti o di versamenti a fondo perduto oppure, per le imprese aventi i requisiti dimensionali di cui all’articolo 85, comma 3, terzo periodo, anche in altra forma” (art. 120- quater, comma 2, CCII, che peraltro, per tali interventi finanziari, neppure sembra richiedere la previa autorizzazione giudiziale ex art. 102 CCII).
Non solo: sensibilmente ancor meno, perché esclusivamente tale eventuale maggiore entità di cui all’art. 87 co. 1 lett. c CCII risulterebbe calcolata senza considerare le passività aziendali, che resterebbero a solo carico della società concordataria e quindi da computarsi, alternativamente, nell’onirico “valore effettivo”.
Pertanto, non potrebbe esservi, ontologicamente (almeno sul piano economico/aziendale di promanazione concorsuale), un “valore effettivo conseguente all’omologazione” esuberante l’aggiunta di valore ora prevista in forza della necessità di computo “dell’eventuale maggior valore economico realizzabile nella medesima sede [ndr: L.G.] dalla cessione dell’azienda in esercizio” (novellato art. 87, co. 1, lett. c), CCII).
E se tale “maggior valore” non è stato ritenuto sussistente nel piano poi attestato ai sensi dell’art. 87, co. 3, CCII , a maggior ragione nessun esuberante “valore effettivo conseguente all’omologazione” potrà ritenersi esistente nel piano proposto.
Salvo risulti condotta con successo un’opposizione di convenienza ex art. 112, commi 3 e 4 CCII (ovvero la speculare “120-quater, comma 1 CCII”), ma unicamente perché, a differenza di quanto sostenuto dal debitore, l’azienda risultava, non a seguito dell’omologazione, bensì ab initio (“alla data della domanda di concordato” e se fosse invece intervenuta la Liquidazione Giudiziale, recita sempre l’art. 87 cit., richiamato proprio alla lett. c) dal novellato art. 120, comma 3, CCII) cedibile in esercizio, come la stima di cui al successivo comma 4 mira a verificare.
E nella conseguente Liquidazione Giudiziale entrerebbe in gioco, ovviamente, sempre e solo il Valore di Liquidazione con le regole dell’APR e non di certo un vacuo, recte inesistente “valore effettivo” dei soci terzi rispetto al debitore (società di capitale) insolvente, all’evidenza giammai monetizzabile in sede liquidatoria, al di fuori ed al di là dell’eventuale predetto “maggior valore”.
D’altra parte, il “valore effettivo”, per come declinato dalla norma in esame, non potrà mai essere comparabile, per evidenti ragioni di disomogeneità, con nessun altro valore disciplinato dal Codice, neppure, paradossalmente, con la stessa eccedenza concordataria che lo stesso primo comma dell’art. 120-quater pone a parametro aritmetico di raffronto.
Dunque, dopo tale ultima novella, insistere sulla valenza economica, prima ancora che giuridica - dell’attuale disciplina dell’art. 120-quater, co. 1-2 CCII pare del tutto irragionevole, mirando in ultima analisi - quasi in una logica punitiva - a privare solo di eventuali futuri vantaggi, (ma) estranei all’omologazione, i vecchi soci.
Peraltro, tutto ciò a costo anche di boicottare il salvataggio aziendale diretto, nonostante acclarato come privo di maggior valenza in esercizio - o se si preferisce di germinabile Terminal Value - in sede di Liquidazione Giudiziale ai sensi (e per gli effetti dell’aumento del valore di liquidazione da destinare ai creditori) dell’art. 87 cit..
Il che è del tutto incompatibile, per non dire incomprensibile, anche rispetto agli stessi precetti di fondo della Direttiva Insolvency, tesi come sono a preservare in primis la continuità aziendale diretta.
Naturalmente, la soluzione ideale - che sgombrerebbe qualsiasi dubbio - sarebbe l’aprire pienamente, cioè senza limiti (se non quello ovvio della preferenza pro-debitore a parità di condizioni), alle proposte concorrenti, ma solo degli unici interessati che si possono dolere di un piano che ritengono non soddisfacente: i creditori ab origine non totalmente soddisfatti ed i soci.
VI - Il regno dell’incertezza
Altrimenti prepariamoci a voli pindarici o quantomeno soggettivi e pertanto tutti meritevoli quanto opinabili (e gli esempi del contributo citato lo confermano plasticamente).
Così come a tentativi, anche maldestri, di elusione, innanzi ad una norma davvero scritta male, oltre che, a questo punto, ancor più insensata.
O ancora ad interpretazioni le più svariate possibili e che per anni susciteranno dibattiti a fiumi …sino a quando le SSUU proveranno a scrivere la parola “fine” sull’esegesi della norma de qua.
Norma, comunque, di certo non giustificabile per un ritenuto rispetto del generale principio di cui all’art. 2740, co. 1 c.c., secondo cui il debitore, rispondendo anche con i propri beni futuri, non può “arricchirsi” a danno dei creditori con il riacquisto valore della sua impresa risanata.
Anche perché così si dimostra di dimenticare l’esistenza del relativo secondo comma che legittima eccezioni legali alla predetta regola, come accade, appunto, in conseguenza degli effetti ristrutturatori ed esdebitatori tipici della causa del concordato preventivo al cui ricorso precoce si è spinti solo grazie a disposizioni ragionevoli e certe, tra le quali sicuramente non può annoverarsi l’art. 120-quater, commi 1-2 CCII.