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Giovanni La Croce, Dottore Commercialista in Milano

La direttiva disattesa (parte prima)

24 Novembre 2025

A margine delle poche occasioni di studio che ancora frequento sento spesso sostenere che l’assetto attuale del codice della crisi sia parto necessitato della direttiva insolvency e della legge delega (nota come “legge Rordorf”).

 In sostanza si afferma: “non si poteva fare diversamente”.

Le riflessioni che seguono hanno l’ambizione di sfatare la narrazione.

Non solo si poteva fare diversamente, ma, personalmente, ritengo che si dovesse fare differentemente, semplicemente perché la direttiva lo richiedeva.

Dei vincoli della “Rordorf” ce ne occuperemo in un successivo momento.

L’ACCESSO INCONDIZIONATO AGLI STRUMENTI DI REGOLAZIONE DELLA CRISI

Il primo disallineamento tra legislatore interno e quello U.E. è di fondo, d’impostazione, potremmo dire, e riguarda l’individuazione del perimetro delle imprese che possono accedere agli strumenti di regolazione della crisi, quelli che la direttiva definisce “quadri di ristrutturazione”.

La direttiva è chiara nell’escluderne l’accesso alle imprese insolventi. Lo prevede al primo comma dell’art. 1 (Oggetto e ambito di applicazione) dove afferma che «la presente direttiva stabilisce norme in materia di: … quadri di ristrutturazione preventiva per il debitore che versa in difficoltà finanziarie e per il quale sussiste una probabilità di insolvenza, al fine di impedire l'insolvenza e di garantire la sostenibilità economica del debitore»

Dunque, le difficoltà del debitore, perché esso possa ricorrere legittimamente a un quadro di ristrutturazione, debbono essere esclusivamente di natura finanziaria e tali da poter portare, ove non eliminate, all’insolvenza.

Il concetto è, poi, ribadito, al primo comma dell’art. 4 (Disponibilità di quadri di ristrutturazione preventiva), dove si stabilisce che «gli Stati membri provvedono affinché, qualora sussista una probabilità di insolvenza, il debitore abbia accesso a un quadro di ristrutturazione preventiva che gli consenta la ristrutturazione, al fine di impedire l'insolvenza e di assicurare la loro sostenibilità economica, fatte salve altre soluzioni volte a evitare l'insolvenza, così da tutelare i posti di lavoro e preservare l'attività imprenditoriale.»

La ristrutturazione, secondo il legislatore U.E., è, dunque, consentita solo alle imprese a rischio d’insolvenza.

A tale proposito va sottolineato che, sino a che i fornitori di merce e denaro continuano a concedere credito all’impresa, questa è solo prospetticamente insolvente.

Stante la indefinitezza dei confini che separano i concetti della “probabilità d’insolvenza” e di “insolvenza conclamata”, appare utile analizzare come il legislatore sovranazionale li abbia pensati, per comprendere, poi, se il legislatore interno vi si sia adeguato o no.   

L’estensore della direttiva, a scanso di fraintendimenti, ha posto tali confini già all’interno del primo “considerando”, dove ha programmaticamente affermato che essa «mira a rimuovere tali ostacoli garantendo alle imprese e agli imprenditori sani che sono in difficoltà finanziarie la possibilità di accedere a quadri nazionali efficaci in materia di ristrutturazione preventiva che consentano loro di continuare a operare»

Il concetto a noi economisti è chiaro: si tratta di imprese che producono reddito ma non a sufficienza per servire il debito finanziario, all’interno del quale, occorre ricordare, vanno ricompresi anche i debiti commerciali, contributivi e tributari scaduti.

Cioè imprese il cui rapporto PFN/Ebitda sia eccessivamente squilibrato, ma non imprese che non sono in grado di produrre Ebitda.

Se ci si riflette bene, la differenza per il legislatore U.E. la fa il conto economico.

Non tanto l’entità del debito, perché questo può essere sempre ridotto e rimodulato ricorrendo ai quadri di ristrutturazione, quanto la sua capacità di produrre reddito.

Ciò vuol dire che anche un’impresa insolvente può ricorrere legittimamente agli strumenti di regolazione della crisi, purché la sua insolvenza immanente, o imminente che sia, abbia natura meramente finanziaria e non anche economica.

Le imprese economicamente non sane e sovraindebitate, per il legislatore europeo, non hanno chance, anzi, non devono avere chance, tanto che quelle la cui sostenibilità economica è compromessa debbono essere avviate al più presto alla liquidazione (considerando 22 e 85).

Il legislatore nazionale non ha inteso, malauguratamente, recepire tale distinzione, molto economicistica, e ha preferito ricorrere alle vecchie definizioni giuridiche di crisi e insolvenza, per cui si è difronte a una situazione di “crisi" nel caso in cui «lo stato del debitore … rende probabile l'insolvenza e che si manifesta con l'inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte alle obbligazioni nei successivi dodici mesi» e, invece, si verte in una situazione d’insolvenza allorquando «lo stato del debitore … si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni».

Ne consegue che una impresa economicamente sana ma finanziariamente inadempiente è per il legislatore nazionale “insolvente” al pari di una impresa incapace di produrre reddito e finanziariamente inadempiente.

È pur vero che il secondo comma dell’art. 2 della direttiva rinviava al diritto interno per quanto attiene alla definizione dei concetti di “insolvenza” e “probabilità d’insolvenza”, ma non al punto tale da poter sovvertire le finalità della direttiva medesima, consistenti nell’offerta di strumenti utili al salvataggio delle imprese sane ma sovraindebitate.

Tale disallineamento ha avuto, purtroppo, al nostro interno ricadute disastrose, poiché ha concesso la possibilità di accedere ai quadri di ristrutturazione anche alle imprese non sane, così legittimando quello che, diversamente, sarebbe stato un abuso degli strumenti, tanto che nell’ambito del CCII essi sono definiti, tutti, senza distinzione, «strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza», accomunando in un unico cluster l’insolvenza delle imprese economicamente sane e quella delle imprese non sane.

Tipico esempio è l’accesso alla composizione negoziata, che è consentito sia alle imprese in crisi, sia alle imprese insolventi, senza distinzione alcuna riguardo alla loro sostenibilità economica, concetto questo che ricorre, invece, più volte all’interno dei considerando della direttiva.

Non esiste, d’altronde, altra ragione che possa giustificare l’eccessivo numero (il 75%) d’insuccessi della composizione negoziata.

Non si tratta di abuso dell’istituto, come spesso si sente dire, ma di mancanza di qualsiasi condizione al suo accesso, se non quella della ragionevolezza del perseguimento del risanamento dell’impresa, che, però, definisce un soggetto ben diverso da quello di impresa sana sovraindebitata della direttiva.

Da un lato, infatti, il legislatore UE pone una condizione che deve esistere a monte, la capacità dell’impresa di produrre reddito, dall’altro, quello interno che include anche il risanamento economico tra gli obiettivi da perseguire tramite la ristrutturazione. Una divergenza non da poco.

LA CONSEGUENTE NECESSITÀ  DI “CONFISCA” DEL DIRITTO DI VOTO DEI CREDITORI PUBBLICI

Una volta sdoganato l’accesso ai quadri di ristrutturazione a tutti, anche alle imprese economicamente non sane, oltre che insolventi perché sovraindebitate, si è ingenerato l’equivoco che anche il risanamento delle imprese economicamente decotte potesse essere legittimamente perseguito, quanto meno in astratto, purché il soddisfacimento offerto ai singoli creditori non fosse inferiore a quello presumibile della liquidazione giudiziale, spesso pari a zero.

È così nata la filosofia spicciola – catalana potremmo dire, ricordando il mitico professor Catalano di “Quelli della notte” – per cui “uno è meglio di zero”.

Dunque, ristrutturazioni tutte sulle spalle dei creditori incapienti, tra cui spiccano per definizione quelli statali: INPS e Erario, i cui dirigenti sanno ben distinguere la differenza tra imprese sane sovraindebitate e imprese decotte, semplicemente perché incapaci di produrre reddito, oltre che sovraindebitate.

Di fronte alla ritrosia degli enti pubblici ad aderire a soluzioni concordatarie con imprese strutturalmente incapaci di produrre reddito – tra le quali si annoverano,  quasi sempre, con qualche rara eccezione, le imprese indebitate con erario ed enti previdenziali – il legislatore interno si è “inventato” il  cram down tributario-previdenziale, cioè la trasmutazione, a cura del giudice, del voto negativo dei creditori pubblici – non della loro semplice astensione – in adesione, con ciò violando palesemente il secondo comma dell’art. 9 della direttiva che stabilisce che «gli Stati membri provvedono affinché le parti interessate abbiano diritto di voto sull'adozione di un piano di ristrutturazione.»

Non pare controintuitivo, infatti, ritenere che laddove l’accesso ai quadri di ristrutturazione fosse stato limitato alle imprese sane sovraindebitate i casi di diniego ingiustificato alla ristrutturazione da parte dei creditori pubblici sarebbero stati sporadici.

Al contrario, il legislatore interno è addirittura arrivato a prevedere la confisca del voto da parte del giudice anche in casi di inadempienze riferibili a un quinquennio precedente la ristrutturazione, cioè a un’impresa insolvente da cinque anni capace di stare sul mercato per un periodo così lungo solo non adempiendo costantemente e pervicacemente alle obbligazioni nei confronti dello Stato.

Cioè a una impresa da molto tempo incapace di produrre reddito.

PRIME CONCLUSIONI

 Se la violazione del precetto dell’art. 9, secondo comma, della direttiva appare incontrovertibile altrettanto difficilmente revocabile in dubbio è che tale violazione sia stata indotta dal tradimento delle raccomandazioni del legislatore U.E., che voleva che solo le “imprese sane, sovraindebitate” potessero accedere ai quadri di ristrutturazione.

Sicché si può affermare che l’abuso degli strumenti che ne è seguito, non è frutto di comportamenti illeciti degli operatori, bensì di un assetto normativo che non ha tratto insegnamento dalle precise indicazioni della direttiva. 

Dunque, si poteva – anche a voler ammettere che non si dovesse – fare diversamente. 

(Continua)


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