La continuità aziendale è ad un tempo l’oggetto del monitoraggio dell’impresa per la tempestiva rilevazione dello stato di crisi ed il fine del risanamento[4] dell’impresa.
Il suo pregiudizio, al pari del mero rischio del suo pregiudizio, costituiscono rispettivamente, il primo, indizio di possibile emersione della crisi e, il secondo, indizio della sua futura possibile emersione e cioè indizio di pre-crisi. Pare opportuno sottolineare che si tratta di meri indizi e non di indici della presenza di uno stato di crisi o di pre-crisi. Il pregiudizio della continuità aziendale, infatti, non necessariamente comporta l’inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte alle obbligazioni nei successivi 12 mesi che abbiamo visto essere la demarcazione tra ciò che è stato di crisi e ciò che stato di crisi non è. Per contro tale inadeguatezza, se presente, pregiudica la continuità aziendale.
Il recupero della continuità aziendale costituisce, nel contempo, il fine enunciato degli strumenti che l’imprenditore è chiamato ad adottare ed attuare in caso di crisi d’impresa ai sensi dell’art. 2086 c.c.
La continuità aziendale è però un concetto astratto: gli stessi principi contabili (IAS 1 ed OIC 11) e, in particolare, i principi di revisione (ISA n. 570), nel momento in cui la affrontano, si limitano ad individuare segnali esteriori di eventuali suoi pregiudizi; in altre parole individuano evidenziano trigger event potenzialmente sintomatici della perdita della continuità aziendale al punto che i principi di revisione precisano che l’elenco riportato non è esaustivo e che la presenza di uno o più elementi individuati dai principi stessi come critici non significa necessariamente che esista una incertezza significativa sul going concern[5].
A ben vedere la continuità aziendale ha plurime chiavi di lettura. Comune a tutte è la sostenibilità economica dell’impresa, la già citata viability of the business, e cioè la sua capacità di stare sul mercato e di non esserne estromessa.
Vi sono, a ben vedere, tre facce distinte ma tra loro connesse della sostenibilità economica dell’impresa: quello della sostenibilità del modello di business; quello della capacità di remunerare adeguatamente i fattori produttivi; quello della sostenibilità del debito. La sostenibilità del debito pertanto pregiudica sempre quella economica dell’impresa ma da quest’ultima non necessariamente discende.
La sostenibilità del modello di business, prima ancora che una situazione suscettibile di valutazioni parametriche, è una condizione di compatibilità con i bisogni del mercato e dell’impresa e con la domanda. Sono molti gli esempi che aiutano a comprenderlo. Ad esempio il caso delle pellicole fotografiche e quello fotografie istantanee Polaroid, il cui mercato ha avuto un drammatico ridimensionamento con la fotografia digitale, che ha permesso di raggiungere analoghi risultati con costi ed efficienza incommensurabilmente maggiori. È analogo il caso delle directory telefoniche (le pagine gialle), il cui modello di business e la cui economicità di esercizio hanno avuto un declino, più o meno rapido, in tutto il mondo. Infine il caso attuale del declino del motore endotermico derivante dalle risposte al climate change, che comporterà l’estromissione dal mercato di un numero rilevante di imprese che operano in tale comparto, se non saranno in grado di riconvertirsi.
Sotto tale profilo, a bene vedere, la sostenibilità del modello di business è collegata al posizionamento dei suoi prodotti all’interno del ciclo di vita le cui singole fasi (introduzione, sviluppo, maturità, saturazione e declino) sono caratterizzate da una diversa e peculiare combinazione tra le prospettive dell’intensità della domanda, gli investimenti necessari e la marginalità ritratta.
La seconda faccia attiene alla remunerazione dei fattori produttivi. Chi mette a disposizione un fattore produttivo (sia esso costituito da capitale, mezzi e prestazione d’opera) ne pretende un ritorno che remuneri anche i rischi associati; si tratta dei rischi di perdite ma anche di quelli conseguenti alla perdita di impieghi alternativi.
Il che è particolarmente evidente per il capitale proprio e quello di terzi. Il costo del capitale ricomprende[6] quello degli impieghi alternativi e il c.d. “premio per il rischio” di perdite che è ovviamente diverso a seconda che l’impiego del capitale in equity ovvero in debito. Quanto maggiore è il rischio di perdite, tanto più elevata deve essere la remunerazione del capitale impiegato. Il che vale anche per il finanziatore: il merito di credito, il c.d. rating dei prenditori, determina il costo del capitale assorbito per il finanziatore e quindi il tasso di interesse praticato. Il profilo degli impieghi alternativi del capitale tiene ovviamente conto del quadro normativo di riferimento. Questa banale considerazione consente di apprezzare anche le conseguenze dell’attenzione rivolta dalle autorità di vigilanza al tema ESG, in relazione al quale il quadro normativo di riferimento si rafforza con una disciplina unionale sempre più stringente[7]. Esso incide sul costo del capitale proprio con un impatto sul premio per il rischio, in quanto gli investitori istituzionali che dichiarano di aderire a politiche ESG compliant devono rivolgere i loro investimenti alle imprese che esercitano attività sostenibili e la raccolta del capitale proprio delle restanti imprese risentirà di una domanda inferiore con inevitabili conseguenze sui prezzi e sul valore del capitale. Analogo è l’impatto sul costo degli impieghi delle banche, e dunque del capitale di terzi, per effetto dell’aggravamento dell’assorbimento del capitale introdotto dalla Banca Centrale Europea (l’EBA) nel momento in cui essi siano rivolti ad imprese non ESG compliant.
Tra i fattori produttivi vi sono anche la concessione di beni e servizi la cui remunerazione deve essere adeguata a quella degli impieghi alternativi e, tenere conto, del rischio di perdite, anche di chances, in caso di difficoltà dei fruitori dei beni e dei servizi. Il che vale, ad esempio, per la locazione di beni, per l’affitto di rami di azienda e, non ultimo, per il capitale umano, troppo spesso trascurato nell’individuazione dei fattori critici di successo. Con particolare riguardo a quest’ultimo, occorre osservare che la capacità di attrarre risorse umane adeguate dipende non solo dalla capacità di remunerarle nel tempo ma anche dalla concretezza delle prospettive di crescita professionale.
La continuità aziendale presuppone dunque la capacità di creazione di valore per tutti gli stakeholder: investitori, fornitori, banche, proprietari dei beni e dipendenti. Gli stessi clienti sono attenti nella valutazione della capacità dei propri fornitori di rispondere nel tempo ai bisogni dell’impresa e lo fanno non solo in un’ottica di breve periodo, costituita dalla capacità di eseguire gli ordini e le commesse assunte, ma anche e principalmente, in un’ottica di medio-lungo termine, dalla loro capacità di adattare l’offerta (e dunque il modello di business) alle nuove esigenze del mercato. Ad esempio, per tornare ad un tema di particolare attualità, in alcuni ambiti più evoluti, già ora il cliente capo-filiera tiene anche conto della sostenibilità ESG dei propri fornitori, in quanto da questa dipende la propria.
In assenza di una remunerazione adeguata, l’impresa non potrà continuare ad avvalersi nel tempo dei contributori di fattori produttivi strategici. Solo se si ha presente tale aspetto si può comprendere come mai la più parte delle imprese che hanno completato con successo una composizione della crisi abbiano dovuto avviare una trasformazione del proprio assetto proprietario che ha portato al trasferimento del controllo dell’impresa o ad aggregazioni: il ritrovato equilibrio finanziario non è, infatti, sufficiente a perseguire la sostenibilità dell’impresa nel medio-lungo termine.
Quanto alla terza faccia, quella della sostenibilità finanziaria (o del debito), essa, diversamente rispetto alle precedenti, ha orizzonti temporali più ravvicinati e si interfaccia maggiormente con il tema della rilevanza giuridica della continuità aziendale. Il quadro normativo e quello che emerge dai principi contabili hanno, infatti, puntuali riferimenti in relazione all’orizzonte temporale di osservazione. Infatti, sia i principi contabili, per il pregiudizio della continuità aziendale, che il codice della crisi, per la sostenibilità del debito, si riferiscono ad un orizzonte temporale di 12 mesi. La presenza di un termine temporale definito (12 mesi) è decisiva. Essa consente di evitare zone grigie che comporterebbero solo incertezze nella tempestiva rilevazione della crisi, esponendo l’organo amministrativo e quello di controllo a responsabilità eccessive che rischierebbero, quale loro ultima conseguenza, di disincentivare anche l’iniziativa imprenditoriale.
Volendo trarre una sintesi da quanto sopra, potremmo dire che vi è un paradigma della continuità aziendale che è a medio-lungo termine ed è imperniato sul modello di business e sulla remunerazione dei fattori produttivi ed un diverso paradigma che è imperniato sulla sostenibilità nei successivi 12 mesi. Dal primo non derivano conseguenza regolamentari, né limitazioni sulla libertà di iniziativa e di gestione dell’impresa. Dal secondo viceversa scaturiscono conseguenze in materia contabile e di bilancio, nonché in materia di gestione dell’impresa. Sotto questo secondo profilo non è irrilevante osservare che l’art. 21, richiamato dall’art. 4, comma 2, lett. c), prevede che, solo in presenza di uno stato di crisi, sorga l’obbligo di gestione dell’impresa in modo tale da evitare pregiudizio alla sostenibilità economico-finanziaria dell’attività. Se l’impresa non ha ancora superato il limite della crisi, oggi definito anche in termini temporali, il cennato vincolo gestorio non opera.
Si è tracciato così un netto distinguo tra la sostenibilità dell’impresa a medio-lungo termine e la sostenibilità finanziaria del debito a dodici mesi. Si tratta di due ambiti diversi che però hanno punti di contatto. Il principale di essi è costituito dal valore dell’impresa, inteso come l’espressione, anche quantitativa, della capacità di creazione di valore per gli stakeholder in genere e per gli investitori in particolare.
È un parametro che assume rilevanza trasversale nella disciplina del Codice della Crisi. Volendo circoscrivere il tema al solo concordato preventivo in continuità, che è il focus del presente contributo, occorre osservare che il valore dell’impresa incide in primo luogo sotto il profilo della sua distribuzione. A tal riguardo, si richiamano qui di seguito i momenti salienti costituiti da:
- il valore della liquidazione, soggetto alla absolute priority rule (112, comma 3);
- il valore ai fini del trattamento dei creditori in caso di conversione del debito in equity (equity swap) o di clausole di earn-out, e ciò per la valutazione della convenienza e l’esclusione di un trattamento deteriore rispetto a quello di liquidazione (112, comma 4);
- il valore riservato ai soci (art. 120 quater).
Il valore dell’impresa incide però anche sotto il profilo delle finalità del risanamento e ciò per effetto della previsione dell’art. 47, comma 1, lett. b) dell’idoneità del piano alla conservazione dei valori aziendali che il Tribunale è chiamato a verificare a seguito del deposito del concordato.
Il valore dell’impresa verrà esaminato più avanti; occorre prima soffermarsi brevemente sulla relazione tra i concetti affrontati e le finalità degli assetti organizzativi.