Le riflessioni appena svolte consentono di portare il ragionamento su un altro caposaldo concettuale della Composizione, quello della c.d. “business rescue culture”.
Si tratta, notoriamente, di una filosofia ormai comune a molteplici ordinamenti continentali ed extraeuropei, in un percorso ben osservabile a livello globale [63] che, attraverso linee di ragionamento fondate in particolare sul modello concettuale del Chapter 11 statunitense, viene oggi positivamente accolta nelle fonti unionali che regolano la materia (come chiariscono già, ad es., i primi quattro Considerando della Direttiva).
Tale filosofia risulta comunque ben identificabile, sia pur come minore nettezza, anche nelle disorganiche leggi di riforma che a partire dal 2005 hanno caratterizzato il diritto fallimentare nazionale [64] e (in modo però non sempre esente da incertezze e contraddizioni) nell’impostazione seguita dal nuovo Codice della crisi [65] e si salda ora, sul piano anche sostanziale, (last but not least), con quanto richiesto dal nuovo art. 2086, 2° comma, c.c. [66].
Se la Direttiva privilegia certamente la salvaguardia dell’impresa in crisi nell’interesse generale e di quello di tutti i soggetti potenzialmente incisi (e impone perciò agli Stati membri di perseguire il tentativo di risanamento ricercando l’“equilibrio” fra i diritti di tutte le parti coinvolte [67]), la nuova composizione negoziata appare ancor più chiaramente preordinata a dare priorità al salvataggio dell’impresa (nel senso sopra precisato), tutelando cioè in via diretta la continuità aziendale; e in questo supera, piuttosto nettamente, l’assetto di interessi definito, sul punto, dal Codice [68].
Infatti – com’è stato già validamente osservato – mentre il Codice ha sposato in sostanza un’impostazione qualificabile come creditor-oriented, nel Decreto la filosofia della business rescue (e della salvaguardia della continuità aziendale che ne è il corollario) è stata indubbiamente privilegiata, imprimendo alla Composizione, con la complicità della contingenza pandemica, un orientamento più nettamente debtor-oriented [69].
La diversità di approccio rispetto al Codice risulta del resto assai nitida ove si consideri che l’art. 4, 5° comma, del Decreto attribuisce all’imprenditore il dovere di “gestire il patrimonio e l’impresa senza pregiudicare ingiustamente gli interessi dei creditori”, mentre il Codice tra i propri princìpi generali annovera il dovere del debitore di “assumere tempestivamente le iniziative” più opportune a fronteggiare la crisi, “anche al fine di non pregiudicare i diritti dei creditori” (art. 4). È evidente che la diversa locuzione – e così la presenza (nel Decreto) o l’assenza (nel Codice) dell’avverbio “ingiustamente” – non è affatto casuale, ma risponde all’esigenza, qui avvertita chiaramente come prioritaria, di dare il maggior spazio di manovra possibile all’operazione di salvataggio e risanamento aziendale.
Non si tratta peraltro di una scelta isolata: basti pensare alle altre divergenze riscontrabili fra i doveri che il Codice e il Decreto assegnano agli amministratori dell’impresa in crisi. Così, mentre ai sensi dell’art. 4 del Codice il debitore ha il dovere di “gestire il patrimonio o l’impresa […] nell’interesse prioritario dei creditori”, il Decreto (prima della sua conversione in legge) non riproponeva una simile disposizione, ma si limitava a stabilire che, in caso di “probabilità di insolvenza”, l’imprenditore “gestisc[a] l’impresa in modo da evitare pregiudizio alla sostenibilità economico-finanziaria dell’attività” (cfr. art. 9, 1° comma; evidenze aggiunte). La prospettiva, anche sul piano lessicale, era indubbiamente assai diversa.
Come noto, in sede di conversione si è deciso di operare, sul punto, un intervento che sembra andare in una direzione diversa, aggiungendo all’art. 9, 1° comma, del Decreto una disposizione che appare di tenore sostanzialmente analogo a quella accolta dal Codice, che per l’appunto sancisce per gli amministratori, di fronte allo stato di “insolvenza”, il dovere di gestire l’impresa nel “prevalente interesse dei creditori”. E tuttavia tale modifica – che come è stato finemente rilevato segna comunque una differenza lessicale con la norma codicistica [70] – è stata probabilmente introdotta allo scopo di evitare eccessive tensioni sul piano ricostruttivo rispetto ai princìpi sanciti dal Codice, ma rischia non di meno di destare qualche perplessità, perché introduce un elemento “dissonante” all’interno di un tessuto normativo che, anche dopo la conversione del Decreto, resta di segno opposto. A ben vedere, infatti, tale (nuova) previsione riguarda una fattispecie ben perimetrata, inerendo al (solo) caso in cui, nel corso della composizione negoziata e in pendenza delle trattative, risulti che l’impresa versi in condizione di insolvenza (ancorché in tesi reversibile). Il che dovrebbe portare a escludere che, al di fuori di tale ipotesi, l’interesse dei creditori possa tornare ad essere, in sé, unico e “prevalente”.
Tale impressione risulta avvalorata dal fatto che la legge di conversione ha lasciato invero indenni tutte le altre disposizioni di maggior dettaglio marcatamente firm-oriented (e che ora “stridono”, e non poco, con il “nuovo” art. 9, 1° comma). In tale direzione va infatti richiamata, innanzitutto, la previsione secondo la quale eventuali atti che possano “arrecare pregiudizio ai creditori, alle trattative o alle prospettive di risanamento” (cfr. art. 9, 2°, 3° e 4° comma) sono assoggettati alla moral suasion dell’esperto e, ove questa risulti inefficace, alla pubblicazione sul registro delle imprese. Non si tratta dunque di un divieto sic et simpliciter, ma di una sanzione anzitutto reputazionale, che in buona sostanza rimette alla discrezionalità dell’imprenditore l’opportunità di compiere o meno l’atto potenzialmente pregiudizievole per i creditori, lasciandolo comunque nel frattempo libero di operare sul mercato e di continuare a difendere l’impresa-organizzazione e la sua attività. Saranno i creditori, in caso, a sanzionarne la condotta ex post, facendo naufragare la Composizione laddove l’atto “pregiudizievole” non abbia prodotto gli effetti positivi sperati (almeno in tesi, anche a loro beneficio).
Ancor più indicativi, nel senso sopra divisato, mi sembrano essere gli artt. 6 e 7 del Decreto, che consentono l’adozione di “misure protettive del patrimonio” tali da impedire, nell’ordine: l’acquisizione di diritti di prelazione “se non concordati con l’imprenditore”; lo svolgimento di azioni esecutive cautelari “sul suo patrimonio o sui beni e sui diritti con i quali viene esercitata l’attività d’impresa”; la pronuncia della sentenza dichiarativa di fallimento o di accertamento dello stato di insolvenza; che i creditori possano “rifiutare l’adempimento dei contratti pendenti” ovvero “provocarne la risoluzione”, “anticiparne la scadenza” o “modificarli in danno dell’imprenditore” istante, “per il solo fatto del mancato pagamento dei loro crediti anteriori”. Ne risulta un vero e proprio “scudo” a tutela della continuità aziendale, operante “dal giorno della pubblicazione” dell’istanza nel registro delle imprese (e, dunque, “a prima richiesta” del debitore), che non si limita alla cristallizzazione delle iniziative giudiziarie dei creditori, ma mira invece ad assicurare, anche da un punto di vista sostanziale, la prosecuzione dei contratti e, dunque, dell’attività d’impresa in senso obiettivo.
La tutela della continuità aziendale oggettivamente considerata è al centro anche delle previsioni dell’art. 10, ove si contempla in particolare la possibilità per il giudice fallimentare di rideterminare il contenuto “dei contratti ad esecuzione continuata o periodica ovvero ad esecuzione differita” la cui prestazione sia divenuta “eccessivamente onerosa per effetto della pandemia”. Se l’esperto può soltanto “invitare le parti” alla rinegoziazione secondo buona fede, il tribunale può invece disporre la riconduzione delle prestazioni ad equità anche coattivamente, rideterminando dunque d’imperio le condizioni contrattuali, sia pur “per il periodo strettamente necessario e come misura indispensabile ad assicurare la continuità aziendale”, a fronte della “corresponsione di un indennizzo” (se dovuta).
La disamina normativa che precede restituisce, come chiave di lettura complessiva, una recessività almeno parziale e tendenziale delle posizioni dei creditori rispetto alla salvaguardia dell’impresa e della sua organizzazione, che assume qui centralità e priorità rispetto agli altri interessi coinvolti, tutte le volte che l’impresa appaia come obiettivamente “risanabile” [71]. I soli diritti che, almeno sulla carta, non possono subire compressioni sono quelli dei lavoratori i quali, oltre al ruolo attivo e di primo rilievo nelle attività di negoziazione (cfr. art. 4, 8° comma), non sono toccati ad es. dagli effetti dello “scudo” giudiziale sopra descritto (cfr. ad es. art. 6, 3° comma; 10 2° comma) [72].
Ci si può chiedere, anche a tal riguardo, se si tratti di un “cambio di cultura” meramente transitorio o se, viceversa, il citato approccio consacri un principio (quello del primato della continuità aziendale dell’impresa risanabile) che supera, sul punto, le esitazioni e le contraddizioni del Codice e, come tale, destinato a rimanere come un punto fermo, un’acquisizione del diritto “che verrà”.
A me pare che (nonostante le accennate incertezze emerse in sede di conversione) sia da preferire questa seconda opzione, se non altro perché il maggior favore che il Decreto mostra verso l’impresa in senso obiettivo (ove necessario anche a parziale detrimento degli interessi del ceto creditorio, ove ne sia accertata la risanabilità) sembra esprimere una precisa volontà di superare l’approccio più titubante adottato sul punto dal Codice, riallacciandosi invece all’impostazione che era stata fatta propria dalla prima Commissione Rordorf e che, indubbiamente, risulta(va) assai più coerente con la trama logica e valoriale della Direttiva.
Su questo aspetto la Composizione è latrice di priorità specifiche e almeno in parte diverse da quelle generali accolte nel Codice; e sarà allora interessante capire se tali princìpi potranno avere, e fino a che punto, una vis expansiva anche nel nuovo Codice riformato in recepimento delle Direttiva.