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Saggio

I creditori e la buona fede in concreto nelle crisi d’impresa*

Salvo Leuzzi, Consigliere della Suprema Corte di Cassazione

3 Ottobre 2025

*Saggio sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
L’Autore si sofferma sul trapianto della clausola generale di buona fede nel Codice della crisi d’impresa, evidenziandone la funzione conformativa e sistemica e indagandone le implicazioni sostanziali e procedurali. La buona fede, elevata a principio operativo, si configura come fonte di obblighi giuridici che orientano anche le condotte dei creditori, nel contesto della composizione negoziata e degli strumenti di regolazione. Viene analizzata la tripartizione dei doveri — informazione, protezione e collaborazione — ne viene apprezzato l’impatto sulle dinamiche concorsuali e preconcorsuali, con particolare riguardo alla posizione e al ruolo dei creditori bancari. La clausola generale emerge come criterio di riequilibrio e strumento di governo delle relazioni negoziali, contribuendo alla costruzione di soluzioni condivise e sostenibili, in linea con i principi solidaristici e costituzionali.
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1 . La buona fede oggettiva: definizione ed evoluzione
Contrapposta per tradizione alla buona fede soggettiva[1], nella sua accezione di stato di coscienza, la buona fede oggettiva è canone di condotta che attraversa la galassia dei rapporti negoziali[2]. Emerge in un complesso di norme del codice civile: artt. 1175 (adempimento delle obbligazioni), 1337 (trattative), 1375 e 1460 (esecuzione del negozio), 1358 (pendenza della condizione) e 1366 (interpretazione del contratto)[3]. Si tratta di un fulcro dogmatico, di cui a tutt’oggi è disagevole perimetrare la portata esatta[4]. 
Se è pacifico, infatti, che la buona fede reclami atteggiamenti ispirati a integrità e affidabilità nell’esecuzione dei rapporti, ciò non l’ha posta al riparo da un lungo dibattito sul grado d’incidenza. Ci si è divisi fra quanti hanno reputato fungesse da freno a condotte scorrette e quanti hanno in essa ravvisato precocemente un acceleratore di sistema, in grado d’innescare obblighi nuovi, non scritti, eppure giuridicamente vincolanti. 
L’ottica restrittiva ha identificato la buona fede con un criterio di valutazione delle condotte nell’incedere concreto del rapporto obbligatorio[5]. La clausola generale si è dissolta in un parametro di apprezzamento comportamentale, utile a misurare l’aderenza della prestazione eseguita alle regole scolpite nella legge o nel contratto. La buona fede è servita, al più, ad escludere, sul piano dell’adempimento, i significati del patto negoziale unilaterali o contrastanti col metro dell’affidamento dell’uomo medio[6]. Ha lavorato da limite all’esercizio dei diritti soggettivi, non da fonte autonoma di doveri. Non ha fatto gemmare obblighi inediti, soltanto riplasmato quelli esistenti, assumendo una valenza contenitiva, di argine rispetto a prese di posizione abusive o incongrue. Si è arrestata sull’uscio dell’assetto contrattuale, senza addentrarsi nell’area del riequilibrio o dell’integrazione eteronoma del rapporto. 
Quest’impostazione riduttiva può dirsi definitivamente superata. È stata abbracciata a maggioranza una visione ampia della buona fede, affrancata dalla dimensione di criterio interpretativo ed eletta a fonte di obblighi giuridici supplementari rispetto a quelli resi espliciti dal contratto o dalla legge[7]. 
La buona fede ha varcato la soglia puramente ermeneutica, guadagnando una portata precettiva, di declinazione codicistica del valore solidaristico dell’art. 2 della Costituzione[8]. La sua funzione è diventata biunivoca, amalgamando quella interpretativa ex art. 1366 c.c. e quella squisitamente integrativa del rapporto obbligatorio. Dalla clausola generale sono scaturiti doveri di complemento rispetto agli obblighi contrattuali e al principio neminem laedere, doveri che presuppongono l’esecuzione, anche da parte del creditore, di atti necessari a difendere la sfera della controparte, nei limiti dell’apprezzabile sacrificio, ossia del sacrificio ragionevolmente sopportabile. 
Il principio costituzionale solidaristico è entrato nel cuore del contratto, orientando il corso del rapporto verso la salvaguardia reciproca dell’interesse antistante sulla premessa della non lesione di quello proprio. Sotto questo aspetto “la buona fede non può essere più, o non solo, considerata strumento per misurare il comportamento, bensì anche parametro per valutare se il diritto sia stato esercitato con modalità conformi alle esigenze che l’ordinamento intende perseguire”[9]. 
La clausola generale stempera la sua spiccata indeterminatezza in una notevole carica evocativa[10]. Ad essa, per prossimità, si collega un compendio di concetti che ne marca a sufficienza i tratti, restituendone un profilo a suo modo preciso: lealtà, onestà, correttezza, ragionevolezza o razionalità (secondo l’accezione “unionale”), equità, cooperazione, protezione, solidarietà e abuso del diritto[11]. 
La buona fede assume consistenza di metronomo delle complessità delle relazioni contrattuali, consentendo nel quadro di esse di scandire il bilanciamento degli interessi sottesi. 
Il portato primario di questo equilibrio è nell’imposizione al creditore di un incombente di salvaguardia dell’interesse dell’altra parte: per un verso, deve astenersi da comportamenti protesi ad infliggere all’altro un danno ingiusto; per altro verso, è tenuto ad evitare le condotte superficiali o disattente passibili di comportare un pregiudizio per l’altra parte. 
Il principio si invera in un dovere d’attenzione e di cura, che interdice atteggiamenti approssimativi o indifferenti verso le conseguenze delle proprie azioni nei riguardi del partner negoziale. 
A tutto ciò la buona fede affianca un ruolo conformativo del vincolo obbligatorio, in quanto impone condotte positive: per la parte negoziale non si tratta sic et simpliciter di non trasmodare nell’abuso del diritto, quanto d’assumere un approccio eminentemente proattivo: informare, proteggere, cooperare. 
È, peraltro, tramontato l’orientamento che indulgeva nell’attribuire ai concetti di buona fede e correttezza significati distinti, reputando che il primo imponesse obblighi di matrice positiva e che il secondo implicasse obblighi di tenore negativo. Se in quel quadro dimesso, l’art. 1375 si rivolgeva alle sole obbligazioni contrattuali, mentre l’art. 1175 afferiva quelle di fonte legale, attualmente la buona fede oggettiva è un canone unitario di condotta relazionale e, in questo quadro, è sinonimo di correttezza[12]. 
2 . Limiti di operatività della clausola generale e tripartizione degli obblighi di buona fede
Nel suo evolversi da filtro valutativo delle condotte ad agente attivo del riequilibrio del rapporto, la buona fede esibisce preminenza sistemica e costituzionale. 
Interpretata alla luce dei principi fondanti dell’ordinamento – solidarietà, centralità della persona, funzione sociale dei rapporti – si collega, in chiave strutturale, a istituti di base quali l’abuso del diritto, la nullità di protezione, la responsabilità precontrattuale. 
Non s’atteggia perciò a semplice clausola di salvaguardia: funge piuttosto da modulatore dell’assetto negoziale, capace d’indirizzare l’interprete verso una lettura solidale e compatibile con i valori costituzionali delle dinamiche intersoggettive. 
Naturalmente i contenuti che la buona fede assume sono mobili e adattabili al contesto normativo in cui si inserisce. È clausola generale perciò non preconfeziona precetti rigidi, commissionando, piuttosto, alle parti e al giudice – secondo i rispettivi ruoli – il compito di individuare la regola pertinente al caso concreto, richiedendo un giudizio fondato su prassi relazionali consolidate (e condivise) e su criteri assiologici. 
Evitare che la clausola si traduca in uno spazio decisionale sprovvisto di limiti suggerisce di sottoporla a un inquadramento rigoroso. È essenziale agganciarla ai valori costituzionali, piuttosto che a riferimenti etici meno definibili. Il che implica l’adozione di strutture dogmatiche coerenti con la logica del diritto positivo, nelle sue dimensioni tematiche, capaci di tradurre operativamente la buona fede in regole compatibili con l’assetto normativo vigente. 
L’applicazione deve fondarsi su argomentazioni razionali e paradigmi di condotta prevedibili, tali da garantire la coerenza sistemica dell’intervento giudiziale. La motivazione che spiega volta per volta la buona fede è quella che esplicita sia i fatti, sia i giudizi che ne giustificano l’esito e che, proprio per il tramite della clausola generale, permettono di correggere gli effetti distorsivi di condotte formalmente legittime, ma al fondo sostanzialmente scorrette. 
Il contenuto della buona fede varia, pertanto, pure in funzione del contesto: ogni ambito normativo pretende una diversa impostazione teorica. Per temperare la discrezionalità dell’interprete, occorre, infatti, far leva su criteri di giudizio aderenti ai valori riconosciuti dal sistema giuridico, anche nelle sue espressioni specialistiche. 
Il riconoscimento alla buona fede oggettiva di una qualità produttiva di obblighi giuridici complementari arricchisce il vincolo negoziale di contenuti relazionali, che in aggiunta a quelli primigeni ne influenzano l’esecuzione e lo sviluppo. La clausola generale, nella sua attitudine implementativa, non presidia tout court l’adempimento del patto, ma incarica alle parti di un comportamento attivo, proclive alla tutela dell’interesse altrui attraverso il mantenimento di una simmetria contrattuale. 
In questo sedime sono germogliati, con sempre maggiore chiarezza, alcuni doveri che rappresentano la traduzione pratica del principio: l’obbligo di fornire informazioni rilevanti, quello di proteggere la posizione della controparte, quello di coadiuvarla operosamente nel raggiungimento del risultato negozialmente programmato. 
Sono obblighi che si affermano come espressioni naturali della buona fede, intesa quale canone relazionale: manifestazioni attuative della clausola generale, che si traducono in condotte giuridicamente rilevanti, capaci di incidere sull’assetto del rapporto e, talvolta, di condizionarne la legittimità.
2.1 . Doveri di informazione, protezione e collaborazione
Gli obblighi di informazione trovano fondamento nella necessità di garantire chiarezza e correttezza nei rapporti contrattuali, e si concretizzano nella comunicazione puntuale e completa di costi, oneri, rischi e criticità, oltre che nella gestione responsabile di eventuali conflitti di interesse. 
Il loro adempimento è un contrappeso dell’asimmetria conoscitiva tra le parti e contribuisce a riequilibrare il rapporto, assicurando la lealtà contrattuale.
 L’informazione è il primo, più immediato strumento di correttezza negoziale. Essa impone a ciascuna parte di fornire all’altra tutte le notizie rilevanti per la formazione e la corretta esecuzione del contratto, evitando scompensi cognitivi che possano alterare le decisioni o compromettere la distribuzione delle responsabilità. 
In concreto, ciò significa che il contraente diligente deve illustrare le caratteristiche essenziali della prestazione, evidenziandone le eventuali problematicità, segnalare la presenza di elementi non facilmente visibili, obblighi accessori e possibili incertezze, siano esse di natura tecnica, giuridica o finanziaria[13]. 
Il contraente è tenuto, inoltre, a comunicare tempestivamente ogni sopravvenienza che possa incidere sui tempi, sulla qualità o sul prezzo della prestazione. 
È gravato, inoltre, dall’incombente di fornire la documentazione rilevante, come certificazioni, licenze o manuali. 
Ancora, è chiamato a rivelare, al netto dei conflitti di interesse, le situazioni che possano minare l’affidamento dell’altra parte. 
Infine, è tenuto a indicare le contromisure attivabili in caso di scostamenti o varianti rispetto al programma originario, contribuendo così a mantenere il rapporto contrattuale in equilibrio, in quanto conforme anche alle aspettative legittime delle parti. 
Gli obblighi di protezione sono una manifestazione di buona fede, che va oltre la correttezza formale, per esprimersi come cura sostanziale delle aspettative dell’altro contraente[14]. 
Si tratta di doveri che si inseriscono nella dinamica contrattuale, mirando a tutelare l’integrità personale e patrimoniale della controparte, con funzione preventiva rispetto al danno e neutralizzativa del rischio[15]. 
All’obbligato fa capo un impegno di attenzione alla sicurezza e di rispetto dell’affidamento, che lo ammonisce di evitare condotte imprudenti o negligenti, suscettibili di compromettere la persona, i beni o i dati dell’altra parte.
 In tale prospettiva, il contraente è tenuto ad assicurare che le condizioni in cui si svolge l’attività contrattuale — siano esse fisiche, organizzative o procedurali — siano strutturate in modo da ridurre al minimo l’esposizione a situazioni dannose, mediante l’adozione di cautele proporzionate alla natura della prestazione e alle vulnerabilità prevedibili. 
Rientra nell’alveo della protezione la tempestiva segnalazione di fonti di pericolo, anche potenziale, nonché la predisposizione di strumenti idonei a intercettare in anticipo le disfunzioni operative e ad attenuare l’impatto di eventi lesivi, così da preservare l’equilibrio funzionale del rapporto, tutelando l’affidamento dell’altra parte.
 La protezione esige condotte responsabili, alle quali, se per un verso è estranea ogni forma di inerzia dinanzi a situazioni pericolose o lesive, per altro verso è connaturato l’intervento tempestivo e proporzionato da parte dell’obbligato. 
Quest’ultimo non può attendere sollecitazioni, né subordinare l’attivazione a valutazioni di convenienza: è tenuto a predisporre, secondo la diligenza esigibile nel caso concreto, tutte le misure idonee ad arginare sia il rischio che il pregiudizio, impedendone l’aggravamento. 
L’obbligo di protezione si risolve, dunque, in un mutuo soccorso tra le parti, in funzione dei rispettivi obiettivi negoziali. 
Su altro versante, il soggetto in buona fede deve trattare con correttezza e riservatezza le informazioni personali e confidenziali. Egli è tenuto ad astenersi da ogni uso distorto, improprio o eccedente rispetto alle finalità per cui tali dati sono stati comunicati. L’obbligo si estende alla protezione dell’identità, della sfera privata e delle strategie operative dell’altra parte, imponendo misure adeguate di custodia, accesso selettivo e prevenzione da propalazioni non autorizzate. 
Infine, l’obbligato è tenuto ad adempiere mediante prestazioni conformi agli standards di sicurezza, corredate da istruzioni esaustive e intellegibili; è altresì gravato dal dovere di rispettare l’affidamento generato, evitando condotte spiazzanti, revoche o mutamenti di rotta improvvisi che possano destabilizzare il rapporto e mettere in difficoltà l’interlocutore bisognoso del bene o del servizio. 
La conformità non si esaurisce nel rispetto delle normative di settore, ma si estende alla somministrazione di indicazioni chiare, complete e comprensibili, tali da consentire un uso corretto e consapevole della prestazione. 
Gli obblighi di collaborazione comportano una cooperazione attiva tra le parti. Questa si manifesta attraverso il coordinamento delle reciproche condotte. Non è sufficiente una generica attitudine collaborativa, essendo necessaria la costruzione condivisa di sinergie funzionali alla realizzazione delle rispettive finalità. In altri termini, l’ottica è quella dell’integrazione concreta, il metro è essenzialmente operativo. 
L’interazione sinergica è una proiezione dinamica del principio di buona fede, che impone a ciascuna parte di agire in modo positivo e propositivo per consentire all’altra di mettere a frutto utilmente gli obiettivi contrattuali, attraverso una gestione armonica di tempi e risorse, decisioni e criticità sopravvenute. 
Ciò comporta – esemplificativamente – l’esigenza di accompagnare le produzioni documentali con input, specifiche, illustrazioni argomentative. 
Implica anche di impegnarsi a partecipare attivamente alle fasi di studio e collaudo, verifica e consegna. 
Inoltre, richiede uno sforzo di ricerca congiunta e di intervento con rimedi proporzionati, riparativi e sostitutivi, contenitivi dei danni che si siano prodotti e dei rischi che siano apparsi sovradimensionati rispetto a quelli inizialmente tenuti in conto. 
Ancora, la buona fede collaborativa reclama un approccio non riottoso, né aprioristico, alle richieste di rinegoziazione, ogni qualvolta le sopravvenienze alterino l’equilibrio originario del rapporto, compromettendone la stabilità funzionale o vanificandone ogni resa per una delle parti negoziali. 
La concertazione è la chiave di volta della struttura degli obblighi di buona fede. Su di essa si regge l’impianto del contratto e se ne misura la tenuta in concomitanza con una situazione perturbativa, quindi ogni qualvolta viene chiamata in causa, per contingenza, la capacità delle parti di orientare la gestione del rapporto obbligatorio verso una soluzione condivisa e sostenibile. 
3 . Buona fede e rapporti obbligatori nel contesto della crisi
Nel contesto delle crisi delle realtà produttive emergono tre tratti distintivi, assai meno evidenti nei rapporti intersoggettivi ordinari[16]. 
Il primo aspetto peculiare riguarda la natura relazionale dei contratti d’impresa. In ambito produttivo, il contratto non si esaurisce nello scambio sinallagmatico, tende a proiettarsi verso un obiettivo comune: la continuità della relazione commerciale, con una prospettiva di lungo periodo. La relazione tra imprese raramente nasce come contrapposizione, più spesso sorge come interazione tra interessi compatibili e orientati a obiettivi di mercato condivisi e biunivoci. 
La tradizionale relazione bilaterale tra creditore e debitore, fondata sulla garanzia patrimoniale generica, viene superata dall’apertura di una procedura concorsuale o preconcorsuale. Il credito perde la sua dimensione individuale, tramutandosi in un titolo di partecipazione a un concorso: da prerogativa soggettiva diventa appartenenza a un ceto, poi a una classe. 
I contratti finalizzati ad acquisire risorse funzionali all’attività economica non si limitano a regolare scambi, disciplinano un’operazione economica. Quest’ultima amplia e rende più dinamica l’attuazione del contratto, includendo elementi e interessi non formalizzati, ma comunque rilevanti per le parti. L’operazione economica si colloca così in parte all’interno e in parte all’esterno del contratto, influenzandone l’assetto negoziale in funzione di una finalità economica convergente. I contratti tra imprese sono, in definitiva, contratti con scopo comune, prossimi per struttura e funzione a quelli associativi. Questo tratto, anziché sfibrarsi, si rafforza nel contesto della crisi.
Il secondo aspetto riguarda la vocazione concorsuale del rapporto obbligatorio. Nell’evenienza in cui la crisi incide sulla capacità generale di adempiere del debitore, il rapporto obbligatorio smarrisce la sua connotazione individuale e si riconfigura secondo logiche collettive. Il credito, da posizione soggettiva autonoma, diventa un’abilitazione a partecipare a un procedimento concorsuale, dove il soddisfacimento dipende dal coordinamento sistemico delle pretese, non dall’iniziativa estemporanea del singolo. 
In questo contesto, il diritto del creditore è ricondotto entro uno schema di bilanciamento, che può coinvolgere interessi ulteriori rispetto a quelli strettamente creditori. Spesso si tratta di interessi pubblicistici, rilevanti perché contribuiscono a un assetto equo e funzionale alla regolazione della crisi. Ne deriva una rimodulazione delle prerogative individuali a favore di una gestione strutturata dello squilibrio economico-finanziario. 
La crisi impone così il sorpasso della dimensione bilaterale del rapporto obbligatorio, indirizzandolo verso una regolazione fondata su criteri di compatibilità collettiva. L’interesse del singolo può entrare in tensione con quello della pluralità, fino a soccombere dinanzi a esigenze sistemiche. L’interesse del debitore, a sua volta, non si misura più solo rispetto al creditore individuale, ma si rapporta a un coacervo di interessi riconosciuti e legittimati dall’ordinamento. Questi interessi, pur estranei alla dinamica creditoria in senso stretto, possono incidere sull’attuazione del rapporto obbligatorio, scandendone lo sviluppo secondo criteri di equilibrio e sostenibilità. 
Il terzo aspetto, che si innesta sui precedenti, riguarda la riarticolazione dei rapporti obbligatori nel perimetro della concorsualità. La crisi comporta l’accantonamento dell’autotutela negoziale, la relativizzazione del dogma del voto dei creditori e l’attribuzione a classi e giudice di incisivi poteri eteronomi[17]. 
Strumenti di matrice convenzionale come il concordato, l’accordo di ristrutturazione e, più di recente, il “pro”, tendono a configurarsi come istituti a contenuto conformato. Non è più il consenso numerico a legittimare la proposta, ma la verifica della sua equità sostanziale. Il rispetto del principio dell’assenza di pregiudizio, la coerenza della pianificazione e la rispondenza all’interesse generale della massa creditoria sono ritenuti sufficienti a sostenere l’ipotesi ristrutturatoria, in quanto espressione di un “risultato di mercato”. Idoneo, quest’ultimo, a razionalizzare, senza significativi riverberi esterni, l’interazione fra debitori e creditori, garantendone un governo complessivamente equo delle posizioni. 
Il principio di volontà e l’autonomia negoziale tradizionale cedono il passo. Gli strumenti di regolazione si avvicinano ai contratti assistiti dei settori regolati, dove la struttura negoziale, pur conservando la sua forma, è orientata verso finalità che tralignano quelle dei contraenti. 
In tali contesti, come nel diritto concorsuale oramai, si rafforzano obblighi informativi e precontrattuali, e si impongono perfino doveri di negoziazione e di stipula, anche al di fuori delle ipotesi tipiche di obbligazione a contrarre. 
È un punto cruciale che si scorge nell’introduzione del “pro”, nella declinazione incentivante degli ADR agevolati e a efficacia estesa, nel meccanismo dirompente della ristrutturazione trasversale concordataria: si è fatta strada una nuova idea di “concorso”; il quale non è più soltanto antagonismo, è cooperazione forzata per la sopravvivenza dell’impresa. I creditori obtorto collo sono chiamati a ‘correre’ dei rischi con l’imprenditore, sostenendone la ripresa. 
In questa prospettiva, persino il diritto al rango viene trattato alla stregua di materia di interesse comune[18], soggetta in quanto tale al meccanismo maggioritario all’interno del gruppo-classe (come in una società, come in un condominio). L’alto lignaggio del credito smette di specchiarsi unilateralmente in uno stemma araldico, per diventare oggetto di decisione collettiva, che può tradursi in una cessione volontaria di quarti di nobiltà. 
Il risultato di mercato è oramai l’obiettivo reale del diritto della crisi. Ogni qual volta per perseguirlo occorre attuare una modificazione dei diritti di credito delle “parti interessate” funzionale alla ristrutturazione, le regole di diritto comune costruite sul consenso individuale sono surrogate dal potere collettivo della classe o – se quello non basta – dal potere eteronomo del giudice. 
In buona sostanza sulle sfere dei creditori ricade un potere conformativo, che si riassume nella possibilità di modificare i diritti stessi anche senza il consenso individuale dei rispettivi titolari. 
Questa incisione di diritti, che genera un need of protection, è bilanciata per i dissenzienti da alcune garanzie avvertite come sufficientemente adeguate: quella dell’informazione trasparente e dettagliata; quella eteronoma, che limita le omologazioni alle ipotesi di sacrificio non è eccedentario, per ciascun creditore, rispetto alla liquidazione. 
La posizione minuta di credito e la sua tutela individuale si sgretolano davanti a una logica collettiva, dove il consenso della classe segna il campo dei diritti individuali. Proprio le classi divengono strumento di ristrutturazione coattiva, nella convinzione che perlomeno fra titolari di pretese omogenee le maggioranze tendono a selezionare il miglior interesse di categoria. 
3.1 . Svolta sistematica e trapianto della clausola generale
Se quanto descritto rappresenta il sostrato dell’ordinamento della crisi, la composizione negoziata ne costituisce il precipitato lato sensu procedimentale; l’elevazione della buona fede e correttezza a canone comportamentale ne è, invece, il corollario sostanziale[19]. 
La normazione per principi segna la novità più rilevante della disciplina della crisi d’impresa, ambito in cui l’elaborazione dei criteri regolatori è stata usualmente affidata al guizzo dell’interprete. Con il Codice della crisi, il legislatore individua espressamente i valori-guida, offrendo un indirizzo ermeneutico per le discipline di dettaglio: una struttura binaria di valori – continuità e tutela del credito – è chiamata a governare il rapporto tra gli interessi molteplici[20]. 
Pertanto, trova terreno fruttifero l’innesto della clausola generale di buona fede, intrinsecamente diretta alla sintesi tra interessi contrapposti e idonea a funzionare da criterio di raccordo nell’applicazione concreta delle norme[21]. 
Fisiologico, peraltro, che la buona fede non si esaurisca nell’applicazione settoriale di uno schema generale, ma richieda una ricostruzione autonoma, coerente con i principi propri della materia concorsuale[22]. L’introduzione della clausola generale impone una rilettura assiologica dell’impianto normativo, dacché, per scelta di politica legislativa, si è assistito a un mutamento di archetipo: dalla tutela rigida e monetaria del credito si è passati alla salvaguardia di un esito negoziale capace di conciliare le pretese creditorie con la continuità dell’impresa, se ancora sostenibile[23]. 
Il contesto della crisi è permeato dal criterio del no worst test, secondo cui il creditore non può opporsi a soluzioni che gli garantiscano un trattamento non inferiore rispetto allo scenario liquidatorio. In questa prospettiva, egli è chiamato – e talvolta vincolato – a considerare proposte che, pur non pienamente aderenti alle sue rivendicazioni, si collocano entro un range di equilibrio ritenuto soddisfacente. 
La buona fede si rivela strumento operativo per l’attuazione di finalità che oltrepassano il plesso degli interessi contrattuali originari. L’architettura negoziale primigenia scricchiola dinanzi all’irrompere della crisi, che porta con sé una ridefinizione delle priorità. Sporgono interessi eterogenei, gravitanti attorno alla tenuta dell’impresa e alla sua funzione economico-sociale. 
Il deterioramento delle condizioni economico-finanziarie non ricade solo su un piano individuale, veicola esigenze di salvaguardia comune, imponendole con forza crescente. La posizione creditoria singolare, magari di modesta entità, tende a perdere rilievo sistemico, condannata com’è a un ruolo secondario rispetto alla necessità di preservare assetti più ampi. D’altra parte, in presenza di instabilità o dissesto, anche l’attività societaria si riorganizza attorno a obiettivi che travalicano l’interesse dei soci. L’orizzonte operativo si ingrandisce, e l’interesse tipico delineato dall’art. 2247 c.c. viene progressivamente soppiantato da esigenze di continuità, stabilità e tutela di valori ulteriori. 
Il diritto della crisi scava in profondità nella struttura del diritto delle obbligazioni e dei contratti, introducendo precetti nuovi anche nei rapporti negoziali formalmente perfezionati, ove sopraggiunga la condizione di crisi. 
Ci troviamo di fronte a contratti ancora da eseguire, rimasti inadempiuti, la cui rilettura viene affidata a una dialettica cooperativa, con un intento evidente: favorire una convergenza tra le parti, inclinando il comportamento del ceto creditorio verso pratiche solidaristiche, funzionali alla ristrutturazione dell’impresa e alla prevenzione di condotte predatorie. 
La trama normativa è densa. 
L’art. 4, comma 1, CCII impone, sin dalle fasi prodromiche alla regolazione della crisi, che tutte le parti coinvolte — debitore, creditori e soggetti interessati — si conformino al principio di buona fede e correttezza. 
Il comma 4 traduce tale principio in un dovere di collaborazione, richiamando i commi 5 e 6 dell’art. 16 CCII, che ne precisano il contenuto operativo, estendendolo anche al rispetto della riservatezza. 
Il novero degli obblighi di buona fede e correttezza si fa più stringente per i creditori professionali di natura finanziaria: questi ultimi, ai sensi dell’articolo 16, comma 5, siano banche, intermediari finanziari o anche servicer, sono tenuti a partecipare alle trattative in modo attivo e informato. La scelta risponde all’esigenza di responsabilizzare soggetti che hanno un livello di organizzazione professionale orientata tanto alla valutazione del merito creditizio quanto all’attività di recupero, che costituisce una fase del loro ciclo economico. 
Il comma 6 estende il dovere di collaborazione a tutte le parti coinvolte, articolandolo lungo tre direttrici: sollecitudine, riservatezza e riscontro tempestivo e motivato alle proposte ricevute. 
La prima impone una reazione pronta alle sollecitazioni negoziali; la seconda richiede discrezione nella gestione delle informazioni e delle iniziative, evitando ricadute distorsive sul mercato; la terza esige risposte motivate e tempestive, a conferma di una dinamica intersoggettiva fondata su trasparenza, responsabilità e volontà effettiva di soluzione. 
Il criterio comportamentale adottato dal legislatore si ricollega agli artt. 1175 e 1375 c.c., evocando un collaudato impianto normativo fondato su buona fede e correttezza. 
Queste ultime, lungi dall’atteggiarsi in un mero riferimento etico, prendono forma di canone operativo, che vincola tutti i soggetti coinvolti — nell’orizzonte camerale o giudiziale — a collaborare lealmente. 
Il relativo dovere, privo di specificazione soggettiva, si estende a tutte le fasi delle trattative e dell’esecuzione della procedura, coinvolgendo indistintamente debitori, creditori e soggetti interessati. 
Nel contesto della crisi d’impresa, i creditori tendono ad agire in modo isolato e difensivo, ignorando che l’approccio individualistico spesso conduce a esiti peggiori rispetto a una soluzione condivisa. La mancanza di coordinamento, la sfiducia reciproca e l’asimmetria informativa ostacolano la cooperazione, con il rischio di dispersione del valore. La posizione dei creditori rispetto allo squilibrio dell’impresa richiama il c.d. dilemma del prigioniero, elaborato da Flood e Dresher e formalizzato da Tucker nell’ambito della teoria dei giochi: in assenza di fiducia e coordinamento, soggetti razionali adottano strategie difensive che li penalizzano. Come i prigionieri che, interrogati separatamente, scelgono di confessare per timore che l’altro lo faccia, pur sapendo che il silenzio reciproco garantirebbe una pena più lieve, così nel contesto concorsuale l’azione isolata dei creditori finisce per compromettere il valore complessivo. La buona fede, al contrario, favorisce la cooperazione e la ricerca di soluzioni più efficienti e consente di superare l’impasse, imponendo trasparenza, responsabilità e apertura al dialogo, sospingendo le parti verso scelte collettive più efficienti[24]. 
Gli obblighi di buona fede si applicano già nella fase delle trattative, sempre che queste ultime siano state almeno formalmente avviate nell’ambito di un percorso di composizione negoziata. Solo l’inizio di una trattativa strutturata – sia in sede di composizione negoziata, sia nell’ambito di una procedura concorsuale – determina, d’altronde, tra i creditori una relazione che rende le rispettive posizioni interdipendenti, in quanto la soddisfazione delle pretese di ciascuno può dipendere dalle scelte e dal contegno degli altri. In questo contesto, i soggetti coinvolti assumono il ruolo di “parti” della trattativa, e ciò giustifica l’esigenza di comportamenti improntati a correttezza e collaborazione. 
Da quel momento, si impone l’obbligo di tenere una condotta cooperativa, che richiede di considerare, nel perseguimento del proprio interesse, anche gli interessi degli altri partecipanti alla negoziazione, secondo i criteri definiti dal quadro normativo. La leale collaborazione è, del resto, un dovere reciproco, che si proietta sul debitore, i creditori e i terzi interessati. 
Nel perimetro della crisi, i creditori cessano di essere meri “pretendenti di pagamento” per essere chiamati a esercitare i propri diritti in modo cooperativo, evitando condotte distruttive o strumentali. La buona fede non si limita a vietare l’abuso, ma impone una collaborazione ragionevole. Il rifiuto pregiudiziale di un piano oggettivamente vantaggioso per la massa può tradursi in un uso distorto del diritto di credito. 
La buona fede integra la disciplina concorsuale, imponendo comportamenti solidali e offrendo al giudice strumenti di riequilibrio rispetto a posizioni ostruzionistiche. Non è solo principio di stile, ma criterio operativo che vincola debitore e creditori a una condotta trasparente e affacciata sull’interesse collettivo. 
Nel diritto della crisi, gli obblighi di informazione e protezione assumono rilievo rafforzato. Il debitore deve garantire trasparenza, tutelare la garanzia patrimoniale e attivarsi lealmente per favorire una soluzione condivisa. I creditori, a loro volta, devono formulare correttamente le proprie pretese, evitare abusi e contribuire al buon esito della procedura. 
L’art. 4 CCII segna un passaggio culturale netto: dal conflitto frontale si passa a una cooperazione regolata, nell’interesse della collettività dei creditori e dell’economia. 
Tuttavia, il coordinamento spontaneo stenta a realizzarsi, ostacolato da asimmetrie informative e costi di accesso ai dati. La dichiarazione di crisi recide il rapporto fiduciario formale: la trattativa diventa strumento di rigenerazione. 
Il riferimento alle trattative richiama l’art. 1337 c.c., tradizionalmente interpretato in chiave negativa: non come guida, ma come limite alle scorrettezze. Il diritto vivente, in sintesi, non dice come negoziare, ma come non farlo. 
Nel contesto della regolazione della crisi — sia nella composizione negoziata che negli strumenti concorsuali ex art. 2, comma 1, lett. m-bis — il quadro cambia: le relazioni sono complesse e strutturate, e il comportamento delle parti deve essere ricostruito in positivo. Non basta evitare scorrettezze: è richiesto un atteggiamento attivo, collaborativo e trasparente[25].
3.2 . La buona fede informativa
Presupposto indefettibile di ogni tentativo di ricostruzione della fiducia è l’informazione, che si identifica con il dovere di comunicare all’altra parte quanto necessario affinché la sua eventuale adesione si fondi su una piena consapevolezza. 
In ambito civilistico, la violazione di tale obbligo può generare responsabilità risarcitoria, anche in presenza di un contratto validamente concluso, qualora risulti che le condizioni pattuite siano state alterate da una sproporzione informativa tale da compromettere la genuinità dell’intesa raggiunta. 
Nel contesto della crisi d’impresa, il travaso dei principi di buona fede e correttezza non è privo di conseguenze. Le parti coinvolte sono il debitore e la pluralità dei creditori, il che sposta il baricentro dell’obbligo informativo dal singolo rapporto contrattuale alla dimensione funzionale dell’impresa, alle sue interdipendenze operative e agli effetti che la crisi proietta sull’intero sistema delle relazioni giuridiche che la circondano. 
La trama delle regole è il prodotto di questa situazione. 
L’art. 4, comma 2, CCII impone al debitore di rappresentare la propria situazione in modo completo e trasparente; il comma 4 dello stesso articolo estende tale obbligo anche ai creditori e agli altri soggetti coinvolti, chiamati a collaborare lealmente, condividendo con gli organi istituzionali tutte le informazioni rilevanti per il buon esito delle trattative. 
In modo analogo, l’art. 16 ribadisce al comma 4 l’esigenza di trasparenza informativa da parte del debitore, mentre al comma 6 si rivolge ai creditori, imponendo loro di riscontrare tempestivamente e motivatamente ogni richiesta ricevuta, comprese quelle aventi ad oggetto dati e informazioni, anche se provenienti da altri creditori, nella misura in cui ne siano intercettate le relative posizioni. 
La partecipazione alle trattative genera, in altri termini, una relazione multilaterale improntata a trasparenza interna e discrezione esterna. 
È necessario, peraltro, evitare letture indiscriminate: non ogni creditore è tenuto a obblighi informativi articolati o gravosi, come l’elaborazione autonoma di dati sulla base delle esigenze altrui. 
Il campo di effettiva estensione di tali obblighi richiede, come per la gamma degli altri doveri, una valutazione casistica, che volta per volta tenga conto della qualità soggettiva del creditore — si pensi, ad esempio, all’attore bancario, che i dati e le informazioni istituzionalmente li censisce e può condividerli — del ruolo concretamente assunto nella trattativa, dello stato di avanzamento del confronto, dell’ambiente specifico in cui è avvenuto, di ciò che in base al parametro dell’“uomo medio” – non di modello di condotta ideale – in un preciso contesto era ragionevole attendersi. Solo alla luce di tali elementi potrà delinearsi con precisione il contorno dell’impegno, nella specie informativo, richiesto[26]. 
I doveri di informazione postulano chiarezza sulla situazione patrimoniale, disponibilità di documentazione aggiornata, segnalazione di contenziosi e operazioni straordinarie, nonché aggiornamenti tempestivi. I creditori sono tenuti a comunicare al debitore, agli altri creditori e agli organi della procedura tutte le informazioni in loro possesso, necessarie alla corretta valutazione della crisi e alla formazione del consenso sulla proposta di soluzione. 
Ciò implica, tra l’altro, la tempestiva dichiarazione dell’esistenza, dell’ammontare e della natura del proprio credito, senza occultamenti o gonfiamenti; la segnalazione di eventuali garanzie reali o personali di cui si beneficia. 
Implica anche la messa a disposizione della documentazione a supporto delle pretese creditorie, come contratti, fatture ed estratti conto. 
L’informazione ex parte creditorum riguarda anche azioni esecutive in corso o già promosse, che possano interferire con la procedura. 
I creditori devono poi curarsi di comunicare eventuali accordi o intese parallele con il debitore, suscettibili di alterare la par condicio. 
È in malafede il creditore che ostacola consapevolmente il flusso informativo, omettendo dati rilevanti e contribuendo a generare un affidamento distorto sulla condizione del debitore. 
Lo è anche chi, pur in possesso di informazioni utili alla trattativa — come la propria posizione creditoria, l’esistenza di azioni individuali o elementi rilevanti sulla situazione del debitore — sceglie di non condividerle, specie se professionista e titolare di dati non agevolmente accessibili agli altri. 
Parimenti, è in malafede il creditore che tace un conflitto d’interessi, quando il vantaggio perseguito si pone in concreto urto con quello della massa. 
Una specifica situazione di malafede sul terreno informativo può riguardare il creditore bancario. Infatti, la gestione dei crediti deteriorati da parte delle banche è influenzata da regole prudenziali che privilegiano la riduzione rapida dell’esposizione, anche a scapito del recupero. Questo può generare riluttanza ad aderire a piani di ristrutturazione, anche se credibili. È in malafede la banca che non risponde tempestivamente alla proposta del debitore o che omette di comunicare l’avvenuta cessione del credito, specie se intervenuta nel corso delle trattative. Tale obbligo trova fondamento nell’art. 119 TUB e nell’art. 1337 c.c., che impongono trasparenza e lealtà.
3.3 . La buona fede protettiva
Anche la protezione, nel contesto del quadro concorsuale proprio degli strumenti e di quello preconcorsuale strutturato nell’ambito della composizione negoziata, assume una dimensione plurale, che obbliga i creditori non solo nei riguardi del debitore, ma anche fra di loro. 
La buona fede protettiva impone di evitare comportamenti che aggravino ingiustificatamente la crisi, ne pregiudichino le prospettive di risanamento o compromettano la par condicio. 
Nel contesto delle difficoltà economico-finanziarie di cui sia stata fatta ostensione in ambito camerale o giudiziale, i creditori sono tenuti ad astenersi da condotte suscettibili di alimentare il dissesto o di vanificare le chance di risanamento. Sotto questo profilo, i titolari delle pretese non sono più meri aspiranti al soddisfacimento, ma soggetti responsabili di un processo regolatorio. 
Gli obblighi di protezione si articolano, innanzitutto, in alcuni essenziali divieti. 
È interdetto ricevere pagamenti preferenziali, concorrere col debitore al depauperamento del patrimonio, o porre in essere atti di collusione e interferenza volti a ottenere trattamenti di favore in spregio alla par condicio. 
È vietato compiere ingerenze e condotte strumentali: si configura mala fede, e ad essa si aggancia una potenziale responsabilità risarcitoria, quando il creditore si ingerisce nel processo decisionale dell’impresa al solo fine di assicurarsi vantaggi indebiti, come l’appropriazione di beni aziendali a condizioni favorevoli. In tali casi, il credito diventa leva strumentale per l’acquisizione del capitale della debitrice. 
Più in generale, non è ammesso, in un’ottica di protezione, l’esercizio abusivo o strumentale dei propri diritti, come nel caso in cui si voti contro un piano al solo fine di ostacolarne l’approvazione per ottenere benefici particolari.
 È parimenti vietata la formulazione di pretese esorbitanti o infondate, suscettibili di dilatare il passivo o di ritardare l’approdo all’omologazione dello strumento. 
È preclusa, poi, l’erogazione, sotto qualsiasi forma, di finanziamenti irragionevoli, che mantengano artificialmente in vita l’impresa, alimentando un dissesto non più sostenibile. 
Poiché la buona fede collaborativa arresta la corsa all’accaparramento di posizioni di primazia nel concorso, è viziata da mala fede l’attribuzione di una nuova provvista garantita da ipoteca, ove destinata esclusivamente a estinguere, diluendola nel tempo, una precedente esposizione. Il sostegno non può rispondere a un interesse puramente egoistico, potendo ritenersi legittimo solo se la garanzia rappresenta un bilanciamento del rischio assunto per sostenere la continuità aziendale. Secondo il parametro della diligenza del “buon banchiere”, la mera presenza di un piano, peraltro, non basta: il credito deve essere, ex ante, funzionale alla sua attuazione e al superamento della crisi e la garanzia deve atteggiarsi a strumento capace di assorbire il rischio assunto nel quadro dello strumento regolatorio adottato[27]. 
La giurisprudenza nomofilattica ha, d’altronde, chiarito la distinzione tra l’operazione patologica di riscadenziamento del debito, che è lesiva, e il rifinanziamento genuino, che rientra nell’ordinaria attività creditizia. Se il finanziamento comporta effettiva nuova liquidità, non è distorto né preordinato a estinguere semplicemente l’obbligazione pregressa, e se l’ipoteca serve a controbilanciare un rischio mal valutato all’origine, si può parlare di potenziale buona fede. Al contrario, se manca la verifica diligente di un piano plausibile e si consente la sopravvivenza artificiale dell’impresa, si esce dal recinto della buona fede[28]. 
Su un livello speculare, non è consentita l’interruzione improvvisa e arbitraria dei contratti di finanziamento pendenti, ove tale condotta possa compromettere la tenuta economica del debitore. In particolare, a tenore del comma 5 dell’art. 16 CCII, banche e intermediari finanziari non possono sospendere o revocare affidamenti per il solo fatto dell’avvio della composizione negoziata, salvo che lo imponga il rispetto delle regole di vigilanza prudenziale. 
La rottura ex abrupto del rapporto che acceleri il deterioramento della situazione contribuisca a determinare il collasso dell’impresa è contraria a buona fede. Viene in apice la giurisprudenza che, in tema di responsabilità per cesura improvvisa del rapporto, valorizza la buona fede oggettiva e supera la lettura restrittiva dell’art. 1845 c.c., affermando che il recesso deve essere motivato e proporzionato; la banca deve inviare una comunicazione specificamente motivata, con una sostanziale inversione dell’onere probatorio (Cass. 7768/2007; Cass. 23273/2006)[29]. 
È altresì vietato promuovere iniziative individuali aggressive — esecuzioni, sequestri — non solo quando la legge le inertizza in funzione della procedura, ma anche quando è in corso un’interlocuzione globale, avanzata su un’ipotesi regolatoria della crisi. 
Un dovere di non fare, la cui violazione costituisce un evidente sintomo di mala fede, è, sotto quest’aspetto, la proposizione strumentale dell’istanza di liquidazione giudiziale.
3.4 . La buona fede collaborativa
Il dato certo è che la buona fede assegna ora ai creditori il compito di farsi protagonisti dei tentativi di ristrutturazione. Viene superata la visione del debitore come controparte in una controversia giuridica, riconoscendolo, piuttosto, come portatore di un interesse economico. Tale interesse è irrobustito dalla finalità ordinamentale di salvaguardare la continuità aziendale[30]. 
La collaborazione, nella sua forma fisiologica, si manifesta quando le parti sono concordemente orientate a individuare una soluzione utile che consenta al debitore di adempiere ai propri impegni, seppur rinegoziati in modo da renderli plausibilmente sostenibili. 
In questo contesto, i creditori sono chiamati a cooperare in modo leale e costruttivo, contribuendo attivamente al buon esito della procedura. 
Partecipare al tavolo di negoziazione della crisi è un dovere positivo. Il creditore deve presenziare in modo informato, con rappresentanti dotati di poteri decisionali. Non può far ricadere sul debitore le inefficienze interne, come l’assenza di tempistiche definite o la difficoltà nell’individuare responsabili. Nel quadro normativo attuale, la crisi non è più evento imprevedibile, come confermato dagli articoli 2086, comma 2, c.c. e 3 c.c. 
La buona fede collaborativa implica la disponibilità di ciascun creditore a fornire al debitore e agli altri creditori tutti i documenti richiesti, ove funzionali alla costruzione del progetto di soluzione della crisi. 
È altresì indispensabile che i creditori rispondano in modo puntuale e trasparente alle istanze provenienti dagli organi della procedura o dall’esperto, favorendo le attività di verifica condotte da questi, dal tribunale e dal commissario giudiziale. 
La collaborazione si estende anche all’accoglimento delle modifiche al piano di regolazione della crisi quando tali interventi si rendano necessari per effetto di sopravvenienze e risultino funzionali a preservarne la fattibilità. 
Il rispetto delle tempistiche procedurali costituisce un ulteriore elemento di lealtà, così come l’adozione di un approccio informato e proattivo. 
Il voto espresso dai creditori deve riflettere la buona fede, evitando ogni forma di abuso o strumentalizzazione. Non può essere utilizzato per finalità eccentriche rispetto alla sua funzione, che è quella di valutare la rispondenza dell’ipotesi regolatoria alle prospettive di soddisfazione. È contrario alla regola di correttezza negoziale il comportamento del creditore che vota non per apprezzare la sostenibilità del piano, ma per perseguire vantaggi individuali, consolidare posizioni di primazia o esercitare pressioni funzionali a trattamenti preferenziali. 
Quando il piano è realistico, attestato e conforme al principio dell’assenza di pregiudizio rispetto all’alternativa liquidatoria, il creditore è tenuto a rinegoziare i propri diritti nella misura necessaria a consentire il salvataggio dell’impresa[31]. Può sottrarsi, peraltro, a tale obbligo se, in modo tempestivo e argomentato, nel contesto della composizione negoziata o del procedimento unitario, espone ragioni specifiche — anche di natura tecnica, scientifica o specialistica — che giustifichino la propria indisponibilità. È infatti evidente che ogni ipotesi regolatoria si fonda comunque su previsioni probabilistiche e valutazioni prognostiche, quasi sempre controverse, e che il creditore possa legittimamente disapprovare i presupposti del piano o ritenere eccessivo il grado di rischio insito nella sua attuazione. 
La collaborazione non si esaurisce, tra l’altro, nella fase fisiologica: anche in caso di naufragio del piano, è richiesto un comportamento non ostruzionistico, volto a non aggravare tempi e costi della liquidazione. 
Tradisce il canone della buona fede collaborativa il creditore che partecipa alle trattative senza reale volontà di trovare una soluzione, ma solo per acquisire informazioni da strumentalizzare. 
Parimenti scorretto è il creditore che non dichiara tempestivamente la propria refrattarietà a negoziare, quando non si ravvisano spazi per un accordo accettabile. 
La concorsualità non tollera ambiguità: il creditore non collaborativo non è soltanto quello che fornisce una qualsiasi informazione errata, equivoca o parziale, ma anche quello che omette di correggere i dati imprecisi di cui ci si sia avveduto. 
Si colloca fuori dallo steccato della buona fede collaborativa il creditore che tenta di ritardare l’apertura della procedura liquidatoria per consolidare gli effetti di atti da cui ha tratto vantaggio, confidando che il decorso del tempo ne renda più difficile la revoca. In assenza di una credibile pianificazione del risanamento, il rinvio dell’emersione dell’intensità reale dello squilibrio riduce progressivamente le possibilità di costruire una soluzione regolatoria plausibile e, al contempo, espone l’impresa a ulteriori perdite. La strumentalizzazione del tempo si manifesta, in particolare, quando esso viene utilizzato per stabilizzare gli effetti giuridici di operazioni distorsive — come la distrazione di assets — rendendo meno rilevabili, nella prospettiva della futura procedura liquidatoria, le condotte pregresse. In simili ipotesi il creditore non si muove nell’orizzonte della ristrutturazione del passivo, né della regolazione della crisi, ma del differimento tornacontistico dell’esternazione del dissesto.
3.5 . Lealtà sollecita e riservatezza nella composizione negoziata
L’art. 16, comma 6, CCII impone a tutte le parti coinvolte nella composizione negoziata un dovere di collaborazione leale e sollecita, accompagnato da un obbligo di riservatezza sulle informazioni acquisite e sulle iniziative in corso. A questo si affianca l’obbligo di riscontro alle proposte ricevute, da rendere in forma tempestiva e motivata. 
Tale previsione, pur riferita alla composizione negoziata, assume un valore paradigmatico che trascende il perimetro applicativo dell’istituto, fungendo da riferimento anche per gli strumenti di regolazione della crisi di cui all’art. 2, comma 2, lett. m-bis, CCII, che si svolgono in contesti ancor più strutturati e di matrice processuale e concorsuale. 
In questo quadro, il dovere del creditore non si esaurisce in una generica apertura al confronto, ma si traduce in un ascolto effettivo delle proposte, in una partecipazione consapevole alla loro eventuale attuazione e nella prestazione del consenso, ove le soluzioni prospettate risultino logicamente coerenti e sostenibili sotto il profilo economico. Il dissenso è legittimo solo se fondato su criticità specifiche, chiaramente argomentate, anche in relazione al livello di rischio desumibile da valutazioni probabilistiche e prognostiche. 
Si registra, nel contesto codicistico — anche per effetto del travaso della clausola di buona fede e correttezza e delle articolazioni offerte dall’art. 16, comma 6 — il superamento dell’impostazione tradizionale che riteneva la crisi del debitore giuridicamente irrilevante per i creditori, a prescindere dalle sue cause, esogene o endogene. In via generale, il debitore assume con ogni contratto il rischio dell’inadeguatezza della propria organizzazione nel trasformare i fattori produttivi nella prestazione promessa, rendendo irrilevante per i terzi l’eziologia degli squilibri e il loro impatto sull’adempimento. Tuttavia, la crisi perde neutralità quando viene affrontata in un contesto istituzionalizzato. 
In tale scenario, il diritto del creditore resta integro, ma il suo esercizio incontra limiti ogniqualvolta si ponga in contrasto con i principi solidaristici che informano il sistema, imponendo un bilanciamento con altri valori giuridicamente tutelati. 
Nell’economia dell’art. 16, comma 6, altro passaggio cruciale è la riservatezza: la composizione negoziata non è un processo pubblico, ma un percorso riservato, dove la trasparenza interna deve convivere con la discrezione esterna. La riservatezza è condizione abilitante per la fiducia reciproca. Non, dunque, soltanto un vincolo, ma anche una modalità di conduzione delle trattative. Le informazioni raccolte devono essere utilizzate con prudenza e condivise solo se funzionali al successo dell’operazione, divulgate in base alla loro utilità negoziale. 
L’obbligo di informazione ha come contraltare una sfera di riserbo, che riguarda tanto i dati sensibili — la cui divulgazione potrebbe compromettere l’integrità e il valore del compendio — quanto gli elementi di fatto che, con riferimento alla natura, all’oggetto e allo stato delle trattative, possa ritenersi non necessario né appropriato trasmettere. 
I rapporti fra le parti coinvolte nella regolazione della crisi devono richiamare in nuce i tratti caratteristici degli accordi di riservatezza propri delle operazioni di due diligence. Non è, tra l’altro, un caso che la prassi bancaria, nel solco del cosiddetto London Approach[32] e del codice interbancario di comportamento ABI[33], abbia già a suo tempo focalizzato l’attenzione sull’obbligo delle banche partecipanti al tavolo di non divulgare le informazioni ricevute, né di utilizzarle per acquisire vantaggi individuali durante le negoziazioni. 
Per tutti i soggetti coinvolti nelle trattative sussiste un obbligo espresso di dare seguito alle proposte e alle richieste ricevute, secondo quanto previsto dall’art. 16, comma 6, CCII, che reclama una risposta tempestiva e motivata. Non si tratta di un adempimento formale, ma di un passaggio essenziale del confronto, che misura la reale disponibilità delle parti a cooperare in modo trasparente e orientato alla soluzione. 
Il creditore ha l’obbligo di motivare la propria posizione: deve chiarire perché la proposta di risanamento non è attuabile e perché, rispetto alla liquidazione, comporta per lui un maggiore sacrificio. Il debitore deve poter comprendere le ragioni del rifiuto, per adattare la proposta o cambiare strumento. Il tempo è decisivo: servono risposte circostanziate, non vaghe, per evitare ritardi e soluzioni impraticabili. 
Sono risposte efficaci quelle che chiariscono le ragioni dell’adesione o dell’indisponibilità, che articolano rilievi critici basati su dati oggettivi o che segnalano con precisione un vulnus informativo. Non soddisfano, invece, l’obbligo collaborativo le repliche generiche o standardizzate, che eludono il merito della proposta e finiscono per impoverire il dialogo, compromettendone la funzione. 
3.6 . Doveri specifici del creditore bancario
Il dovere di riscontro tempestivo e motivato, sancito dall’art. 16, comma 6, CCII per tutte le parti coinvolte nella composizione negoziata, si arricchisce, per le banche, di un ulteriore profilo: l’obbligo di agire “in modo attivo e informato”.
Il legislatore si rivolge prioritariamente ai creditori bancari, il cui approccio è stato spesso segnato, perlomeno storicamente, da una certa apatia burocratica e dalla tendenza ad assumere decisioni automatiche e standardizzate, incentrate su protocolli d’azione aprioristici in ambito di crisi. Tale atteggiamento ha frequentemente ostacolato il tempestivo raggiungimento di soluzioni negoziali e regolatorie. 
La sottolineatura sull’informazione, con ogni evidenza, non è casuale. L’attore bancario è strutturato e istituzionalmente edotto. Almeno su livelli medio-grandi, nei contratti bancari è frequente che il regolamento negoziale attribuisca al finanziatore poteri che incidono finanche sulla sfera del debitore, funzionali alla tutela degli interessi attivi della relazione: i covenant. Questi si articolano in obblighi informativi — come la trasmissione periodica di documenti o report — e in impegni comportamentali, che possono riguardare il mantenimento di parametri economico-finanziari (ratios) o atti di gestione straordinaria. La prassi conosce clausole di non incremento dell’indebitamento, specie se assistito da garanzie superiori (negative pledge), o di divieto di operazioni che possano compromettere la consistenza patrimoniale. Tali limiti possono essere rimossi caso per caso mediante autorizzazione espressa (waiver). In alcuni casi, il finanziatore si riserva persino il potere di autorizzare atti ordinari o di designare membri degli organi di gestione e controllo, esercitando un’influenza che può estendersi all’interno dell’organizzazione, oltre quella esterna derivante dal rapporto negoziale. In buona sostanza, il soggetto bancario è quello maggiormente ridossato sulla realtà produttiva in affanno, con una conoscenza di prima mano delle sue dinamiche. 
Le determinazioni della banca in sede di ristrutturazione provengono, del resto, da soggetti vigilati e fortemente regolati, assumendo anche in ragione di ciò un valore segnaletico importante circa la credibilità della proposta formulata dall’imprenditore. In questa prospettiva si coglie la particolare attenzione del legislatore agli obblighi di buona fede informativa gravanti sull’istituto di credito, chiamato a un’assunzione di responsabilità anche nella raccolta e nella gestione di dati e notizie rilevanti sulla salute dell’impresa debitrice. 
Non va comunque trascurato che i creditori bancari non costituiscono una categoria omogenea: la loro posizione varia sensibilmente in funzione della presenza o meno di garanzie a presidio del credito. A ciò si aggiunge la crescente incidenza del mercato dei credit services, cessionari di crediti deteriorati, la cui azione è orientata prevalentemente al recupero monetario, piuttosto che alla ristrutturazione. Questi ultimi operano con logiche più estranee alla fisiologia aziendale e sono spesso privi di una visione aggiornata e integrata dell’impresa. 
L’attributo “attivo”, riferito alla partecipazione, non si limita al dovere di valutare e rispondere alla proposta in modo tempestivo e motivato, ma comporta anche la responsabilità di formulare controproposte, ove necessario, contribuendo in modo costruttivo al processo di risanamento. Si tratta di un obbligo che non implica soltanto reattività, ma anche capacità propositiva. Il creditore bancario è chiamato a svolgere un ruolo attivo e propulsivo: non può limitarsi a risposte di natura oppositiva o attendista, ma deve orientare il proprio intervento verso la costruzione di una diversa sostenibilità del piano e una più efficace realizzabilità dell’ipotesi regolatoria. Il dinamismo richiesto non si esaurisce nella dialettica negoziale con il debitore, ma si estende alla capacità di interagire con gli altri creditori, di esplorare scenari alternativi e di contribuire alla definizione di soluzioni multilaterali. Il comportamento del creditore bancario diviene così parte integrante del processo di regolazione della crisi, al quale contribuisce in misura determinante, influenzando tempi e qualità del programma di superamento. L’obbligo di agire in modo attivo e informato sottende una responsabilità relazionale, che impone al creditore di superare la logica dell’autoprotezione del proprio interesse, per considerare – ove compatibile con la tutela del credito – l’interesse collettivo alla continuità aziendale, in una prospettiva composita e cooperativa. 
4 . Violazione e conseguenze
Se le parti coinvolte nel tentativo strutturato di risanamento non si attengono ai doveri di buona fede, le conseguenze giuridiche variano in funzione della qualità del soggetto. 
Per il debitore, la violazione degli obblighi di buona fede incide sulla tenuta dello strumento prescelto, potendo determinare l’inammissibilità o il rigetto della domanda, ovvero la revoca dell’ammissione alla procedura. A ciò si aggiunge l’esposizione a sanzioni patrimoniali e penali per false attestazioni o occultamento di attivo (artt. 236 ss. CCII), nonché a responsabilità civile risarcitoria verso creditori o terzi danneggiati da condotte sleali, come la diffusione di informazioni frustranee e fuorvianti che inducano all’approvazione del piano. La violazione può infine condurre, per diretto effetto del naufragio del tentativo di regolazione, all’apertura della liquidazione giudiziale. 
I creditori che violano i doveri di buona fede sono esposti a conseguenze su più piani: sul terreno risarcitorio, su quello del voto e su quello dell’efficacia degli atti compiuti. 
Il versante risarcitorio è di più nitida lettura, in quanto illuminato già da tempo, in termini generali, dalla giurisprudenza nomofilattica[34]. In ambiente di crisi, la responsabilità civile si radica in condotte ostruzionistiche che, tradendo il principio di buona fede, sabotano il processo di regolazione e ne compromettono l’esito. È il caso del creditore che si oppone in modo pretestuoso all’approvazione di un piano sostenibile, senza una plausibile giustificazione economica. In simili circostanze, la responsabilità assume natura precontrattuale, trovando fondamento negli obblighi di collaborazione e nel dovere di trattativa leale. 
Il pregiudizio alla massa si manifesta nei ritardi cagionati alla procedura o nel suo procurato naufragio, ove ciò comporti una riduzione del grado di soddisfazione collettiva o della garanzia comune. 
La stima del danno si fonda sulla differenza tra la soddisfazione prevedibile in caso di buon esito della procedura e quella effettivamente ottenuta a seguito del suo mancato compimento. 
L’azione risarcitoria può essere promossa, in via individuale o collettiva, dal curatore o dal liquidatore dinanzi al tribunale ordinario. 
Il secondo livello di conseguenze per i creditori attiene al voto. 
Le ricadute non si limitano all’ipotesi del conflitto di interessi, che può comportare l’esclusione dal voto stesso, ma investono i casi in cui l’esercizio del diritto sia viziato da abuso. Nell’evenienza in cui la violazione della buona fede sia esondata in un abuso del diritto, in chiave collusiva o strumentale, il consenso o il dissenso sono inefficaci e possono essere sterilizzati dal giudice[35]. 
Come chiarito in via di principio dalla giurisprudenza di legittimità l’atto compiuto in divieto del divieto di abuso può essere dichiarato inefficace[36]. 
La distinzione tra buona fede oggettiva e abuso del diritto è un dato sistematico consolidato[37]: se la prima opera sul piano dell’interpretazione e dell’integrazione del rapporto obbligatorio, generando obblighi ulteriori rispetto a quelli espressamente previsti; il secondo incide sui limiti di esercizio del diritto soggettivo, imponendo una coerenza funzionale tra potere e scopo. La buona fede impone, in altri termini, comportamenti leali e collaborativi; l’abuso censura condotte formalmente legittime ma sostanzialmente scorrette, che arrecano un sacrificio ingiustificato alla controparte o perseguono finalità estranee alla funzione del diritto. La violazione della buona fede comporta tendenzialmente solo rimedi risarcitori, ma può sconfinare nella patologia dell’atto, implicandone l’inefficacia, quando veicola un abuso, sovvertendo la regola interna al diritto soggettivo che ne condiziona l’esercizio alla giustificazione sostanziale[38]. L’abuso del diritto è una spia rossa della violazione del principio di buona fede oggettiva, a sua volta non più soltanto clausola idonea a risolvere di volta in volta i problemi interpretativi del caso concreto, ma principio imperativo suscettibile di invalidare l’atto che l’abbia contraddetta[39]. 
Se un creditore, inizialmente collaborativo, muta ex abrupto orientamento e vota contro un piano sostenibile senza ragioni obiettive e sopravvenute, il giudice può finanche giungere a neutralizzare l’incidenza del voto, considerandolo “non espresso”. Del resto, nel diritto civile, la violazione della buona fede può comportare non solo il risarcimento del danno, ma anche la perdita degli effetti dell’atto illecito o altre misure volte a tutelare concretamente il soggetto leso[40]. 
Il voto appare legittimo fintantoché si mostra correlato a un interesse economico razionale; diviene abusivo se strumentale o ricattatorio. In questo contesto, la buona fede oggettiva tutela l’affidamento ragionevole generato da condotte coerenti, e si esprime nel divieto di venire contra factum proprium, che preclude l’esercizio di un diritto in contrasto con comportamenti precedenti idonei a escluderlo. Il principio, di matrice germanica (Verwirkung), postula l’abusività dell’esercizio dopo prolungata inerzia, ed è recepito nei Principi UNIDROIT. In sostanza, l’abuso si realizza quando l’esercizio del diritto contraddice un atteggiamento di apertura mantenuto lungo l’intero procedimento, inducendo nel debitore l’idea di un placet poi repentinamente smentito. Esemplificativamente una banca che vota contro al solo fine di ottenere condizioni di favore non riconosciute agli altri creditori può vedere il proprio voto paralizzato. 
Certo, in linea di principio, le parti sono libere di ritirarsi dalle trattative, ma tale libertà si restringe progressivamente in relazione al consolidarsi delle trattative stesse, attraverso la specificazione del loro oggetto. Oltre una certa soglia, quando si è formato un affidamento ragionevole sull’approdo a un contratto o a uno strumento di regolazione della crisi, il recesso richiede una giustificazione oggettiva, la cui prova spetta a chi intende sfilarsi dalla negoziazione matura. Le parti, d’altronde, possono anche convenzionalmente impegnarsi a proseguire le trattative, consolidando i risultati negoziali mediante una puntuazione di clausole. 
Nel contesto della composizione negoziata, ove l’esperto ha obbligo di rendicontazione, è, anzi, plausibile che le verbalizzazioni degli incontri fissino punti di approdo rispetto ai quali ogni scelta successivamente eccentrica debba essere razionalmente giustificata. 
L’argine all’arbitrio del creditore è, allora, l’argomentazione doverosa, che il creditore deve offrire tempestivamente, in sede di percorso o di procedimento unitario, per delimitare lo spazio di sindacabilità giudiziale. 
Quando il voto risulti in contraddizione rispetto al precedente approccio del creditore, il rimedio risarcitorio non è sufficiente, poiché il danno si estende alle spese per le trattative, al tempo sprecato e alla preclusione irreparabile di opportunità alternative. Se l’art. 18 consente di richiedere al tribunale l’adozione di provvedimenti cautelari per condurre a termine le trattative, analogamente sembra proponibile, pertanto, un’istanza cautelare rivolta al giudice dello strumento di regolazione della crisi, ogni qualvolta il voto determinante di un singolo creditore sia stato espresso in malafede a tal punto da poter essere considerato abusivo. 
5 . Un’osservazione conclusiva
La clausola generale di buona fede, nel diritto della crisi d’impresa, è presidio di razionalità relazionale e coerenza sistemica. Non un elemento esornativo, ma una regola operativa alla fin fine necessaria, perché idonea a orientare l’agire delle parti e a condizionarne la legittimità, in un contesto segnato da pluralità di interessi, instabilità economica ed esigenze di coordinamento. 
Nella trasposizione in ambito di crisi della clausola generale non sembra esservi nulla di nuovo, anzi qualcosa d’antico. Si coglie nell’innesto addirittura un’eco della lex mercatoria medievale: in allora allora furono i mercanti a forgiare regole condivise, nate dalla pratica, non imposte dall’alto, per consentire agli scambi di prosperare in un mondo frammentato[41]. 
Oggi, la clausola di buona fede assolve una funzione tutto sommato analoga: armonizza principi normativi e flessibilità, amalgama equità e aderenza alla prassi, offrendo uno strumento di governo di situazioni complesse, in continuo movimento. 
Come i mercanti medievali costruirono regole per facilitare lo scambio, oggi la buona fede può permette al diritto di entrare nel vivo dei rapporti economici, di coniugare norme e valori[42]. 
Certo, la clausola va maneggiata con cautela, perché nell’indeterminatezza si annida sempre il rischio dell’imprevedibilità e dell’arbitrio. Si tratta di un rischio che va contenuto con un’interpretazione sistematica, saldamente ancorata ai principi costituzionali e a quelli propri della materia concorsuale. Nella consapevolezza che l’applicazione della buona fede non può ridursi a una verifica ex post delle condotte, perché essa impone alle parti, prima ancora che al giudice, di misurarsi con l’effettività del rapporto, con le sue implicazioni economiche e con le aspettative ragionevoli maturate nel corso delle trattative. Nel diritto della crisi, la buona fede assume, perciò, una funzione conformativa: struttura le relazioni, incide sull’esercizio dei diritti soggettivi e favorisce la costruzione di soluzioni compatibili con l’interesse della massa e con la continuità dell’azienda. Consente al sistema giuridico di adattarsi alle occorrenze del mercato, senza smarrire la propria funzione ordinante. In tal modo il sistema si appropria di un meccanismo che permette alle regole di dialogare con le prassi e di preservare l’equilibrio tra norma e realtà economica, in un contesto – quello della crisi – in cui ogni divaricazione tra la prima e la seconda mette a repentaglio la tenuta stessa del sistema. La clausola di buona fede diventa allora cerniera tra diritto e mercato, facendo emergere un significato normativo che coincide, spesso, con quello condiviso e sperimentato dagli operatori. Come se il diritto, alla prova dei fatti, fosse chiamato a imparare dalla realtà il modo più giusto di esercitare sé stesso. 

referaggio Baccaglini

Note:

[1] 
G. Giampiccolo, La buona fede in senso soggettivo nel sistema di diritto privato, in Riv. dir. comm., 1965, I, 335 ss. V. anche F.D. Busnelli, Buona fede in senso soggettivo e responsabilità per fatto ingiusto, in Riv. dir. civ., 1969, I, pp. 427 ss. 
[2] 
Sulla nozione di buona fede la letteratura è sterminata: si v., tra gli altri, anche per gli ulteriori rimandi G. Alpa, La completezza del contratto: il ruolo della buona fede e dell’equità, in Vita not., 2002, 611 ss.; M. Barcellona, Clausole generali e giustizia contrattuale: equità e buona fede tra codice civile e diritto europeo, Torino, 2006; Id., La buona fede e il controllo giudiziale del contratto, in Il contratto e le tutele. Prospettive di diritto europeo, in S. Mazzamuto (a cura di), Torino, 2002, 324 ss.; M. Bessone-A. D’Angelo, Buona fede, in Enc. giur. Treccani, V, Roma, 1988; C.M. Bianca, La nozione di buona fede quale regola di comportamento contrattuale, in Riv. dir. civ., 1983, 209 ss.; Id., Buona fede nel diritto privato europeo, in Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e contemporanea, Garofalo (a cura di), Padova, 2003, 201 ss.; C.M. Bianca-S.Patti, voce Buona fede (in senso oggettivo), in Lessico in tema di buona fede ed equità, in Riv. dir. civ., 2001, pp. 537 ss.; F. Benatti, La clausola generale di buona fede, in Banca, borsa, tit. cred., I, 2009, 241 ss.; F. Busnelli, Note in tema di buona fede ed equità, in Riv. dir. civ., 2001, I, 544 ss.; P. Rescigno, Il principio di buona fede, Milano, 1985, passim R. Sacco, La buona fede nella teoria dei fatti giuridici di diritto privato, Torino, 1949.
[3] 
La buona fede è un universo in espansione. Già vent’anni fa un “censimento” sottolineava come intorno agli anni '60 del XX secolo le menzioni della buona e della mala fede nel codice civile fossero circa settanta, che successivamente erano divenuti “settantacinque richiami alla sola buona fede, e altri venti alla mala fede”: così G.M. Uda, La buona fede nell'esecuzione del contratto, in Studi di diritto privato, diretta da F.D. Busnelli, S. Patti, V. Scalisi e P. Zatti, Torino, 2004, 1.
[4] 
Tra i contributi più recenti vanno segnalati G. D’Amico (a cura di), Principi e clausole generali nell’evoluzione dell’ordinamento giuridico, Giuffrè, 2017; S. Patti, Ragionevolezza e clausole generali, Giuffrè, 2016; F. Piraino, La buona fede in senso oggettivo, Giappichelli, 2015; P. Gallo, Contratto e buona fede, Utet, 2014; R, Villanacci, La buona fede oggettiva, Esi, 2013, passim.
[5] 
Negano la funzione integrativa della buona fede e correttezza, attribuendole un ruolo di valutazione in concreto della condotta tenuta dalle parti U. Breccia, Le obbligazioni, in Tratt. dir. priv. a cura di Iudica e Zatti, Milano, 1991, pp. 13 ss.; L. Bigliazzi Geri-U. Breccia-F.D. Busnelli-U. Natoli, Diritto civile, 3, Torino, 1989, pp. 70 ss.; Majello, Custodia e deposito, Napoli, 1958, p. 47. V. anche L. Bigliazzi Geri, voce «Buona fede nel diritto civile», nel Digesto IV ed., Disc. priv., sez. civ., II, Utet, 1988, 179 s.
[6] 
G. Alpa, Problemi di interpretazione del contratto nella prospettiva dell’avvocato europeo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2019, 1241. In giurisprudenza v. Cass. 12 marzo 2014, n. 5782, in Italgiure.
[7] 
V. anche per gli ulteriori rinvii A. Di Majo, La buona fede correttiva di regole contrattuali, in Corr. giur., 2000, 1486 ss.; Id., Principio di buona fede e dovere di cooperazione contrattuale, in Corr. giur., 1991, 781; M. Franzoni, Buona fede ed equità tra le fonti di integrazione del contratto, in Contr. e impr., 1999, 83 ss.; P. Gallo, Buona fede oggettiva e trasformazione del contratto, in Riv. dir. civ., 2002, 239 ss.; M. Morelli, La buona fede come limite all’autonomia negoziale e fonte di integrazione del contratto nel quadro di congegni di conformazione delle situazioni soggettive alle esigenze di tutela degli interessi sottostanti, in Giust. civ., 1994, I, 2168 ss.; S. Rodotà, Le fonti di integrazione del contratto, Milano, 1962.
[8] 
M. Grondona, Solidarietà e contratto: una lettura costituzionale della clausola generale di buona fede, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2004, 727.
[9] 
G. Villanacci, Autonomia privata e buona fede nella complessa relazione evolutiva con la normativa consumeristica, in Contr. e Impr., 2018, 917 ss. 
[10] 
La buona fede reca il vizio intrinseco d’indeterminatezza di ogni clausola generale, che secondo una felice definizione è “termine o sintagma di natura valutativa caratterizzato da indeterminatezza, per cui il significato di tali termini o sintagmi non è determinabile (o detto altrimenti le condizioni di applicazione del termine o sintagma non sono individuabili) se non facendo ricorso a criteri, parametri di giudizio, interni e/o esterni a diritto tra loro potenzialmente concorrenti”: V. Velluzzi, Le clausole generali. Semantica e politica del diritto, Milano, 2010, 88.
[11] 
Lealtà, onestà e considerazione degli interessi altrui sono espressione, non solo dei valori costituzionali, ma anche dei principi contemplati dai trattati istitutivi dell’Unione Europea. Per tutti v. E. Navarretta, Buona fede e ragionevolezza nel diritto commerciale europeo, in Eur. Dir. priv., 2012, 953 ss.
[12] 
Le due figure, della buona fede e della correttezza, sono accomunate già da F. Messineo, Manuale di diritto commerciale, III, Milano, 1959, 27, ove il principio di correttezza viene letto quale atteggiamento del “principio, più generale, di buona fede oggettiva”.
[13] 
C.M. Bianca, La nozione di buona fede quale regola di comportamento contrattuale, in Realtà sociale ed effettività della norma, I, Milano, 2002, 419, ad avviso del quale un comportamento ossequioso dell’art. 1375 c.c. è quello del debitore che comunica al creditore le circostanze rilevanti per l’esecuzione del contratto con riferimento alla singola posizione negoziale. 
[14] 
In tema v. tra gli altri F. Venosta, Profili della disciplina dei doveri di protezione, in Riv. Dir. Civ., n. 6/2011, 840 ss.
[15] 
L’obbligato deve custodire diligentemente le cose altrui, adottando misure adatte a tal fine, ed è tenuto ad attivarsi senza indugio per contenere o impedire l’aggravamento di un pregiudizio già conclamato.
[16] 
P. Montalenti, Nuove clausole generali nel diritto commerciale tra civil law e common law, in Osservatorio dir. civ. comm., 2015, 149, evidenzia che “la “traslazione” [di clausole generali] dal diritto civile al diritto commerciale crea, in ragione della complessità economica sottostante, una maggiore complessità nella specificazione della clausola”. Prospetta, di contro, una ricostruzione unitaria della buona fede F. Di Marzio, Crisi, contratti e ristrutturazione, in Dirittodellacrisi.it, 19.11.2021, § 26. 
[17] 
Del resto, come acutamente osservato, A. D’Angelo, Il nuovo diritto societario e la clausola generale di buona fede, in Contratto e Impresa, 2/2004, 769 ss., l’intero modello civilistico “propone oggi una prospettiva di più ampio ed intenso sindacato giudiziario alla stregua della buona fede, che investe il merito stesso delle scelte dei privati”.
[18] 
V. Pinto e R. Sacchi, Diritti e garanzie comuni dei dissenzienti nel concordato preventivo, negli ADR e nel pro, in NLCC, 2, 2024, 476 ss.
[19] 
Nel quadro dei procedimenti c.d. negoziali di regolazione delle crisi la “buona fede” costituiva un dato acquisito già in anticipo sul suo formale travaso: v. A. Patti, Crisi di impresa e ruolo del giudice, Milano, 2009, 67 ss.; E. Bertacchini, I creditori sono gli unici “giudici” della fattibilità della proposta... con il limite dell’abuso dello strumento concordatario in violazione del principio di buona fede, in Dir. fall., 2011, II, 615. 
[20] 
In tema, con un atteggiamento critico, v. D. Galletti, Epifania della crisi del credito, fra potere e soggezione, Pisa, 2025, passim. 
[21] 
Sull’innesto della clausola v. tra i primi scritti R. Rordorf, I doveri dei soggetti coinvolti nella regolazione della crisi nell’ambito dei principi generali del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Il Fall., 2021, 595. Più in generale, sull’importanza acquisita progressivamente dalle clausole e dai principi generali nel diritto della crisi v. M. Libertini, Ancora a proposito di principi e clausole generali a partire dall’esperienza del diritto commerciale, in Orizzonti dir. comm., 2/2018, 15; v. anche R. Brogi, Clausole generali e diritto concorsuale, in Il Fall., 2022, 877 e ss. 
[22] 
In tema v. anche G. Fauceglia, Il nuovo diritto della crisi e dell’insolvenza, Torino, 2022, 15 ss. 
[23] 
Si è icasticamente evidenziato che “la buona fede concorsuale non è compatibile con i principi di autonomia negoziale e libertà contrattuale, e si oppone alla ricerca di soluzioni egoistiche” e che “il risanamento dell’impresa costituisce il superiore e sopraindividuale interesse che permea la trattativa”: L. Guerrini, Il D.L. n. 118/2021 sulla composizione negoziata della crisi d’impresa: l’alba di una buona fede ‘concorsuale’?, in NGCC, 1/2022, 243 ss. 
[24] 
Sui processi decisionali che guidano i creditori nella crisi d’impresa, anche nell’ottica della c.d. “teoria dei giochi” si veda la recentissima, approfondita monografia di N. Usai, La crisi d’impresa tra responsabilità e irrazionalità, in Quaderni di giurisprudenza commerciale, Milano, 2025, 47 ss. 
[25] 
La più significativa indagine in tema è rappresentata, per ampiezza di argomentazioni anche in punto di implicazioni, dalla monografia di D. Lenzi, I doveri dei creditori nella crisi d’impresa, in Quaderni romani di diritto commerciale, 2022, passim. 
[26] 
Sulla concretizzazione della buona fede “in modo che la stessa diventi la fonte della regola applicabile al caso specifico” v. anche F. Macario, Fattispecie estintiva e buona fede nell’esercizio tardivo del diritto di credito, in Nuova giur. civ. comm. 2021, 1171. 
[27] 
Cass. 30 giugno 2021, n. 18610, in Italgiure: “Non integra un'abusiva concessione di credito la condotta della banca che, pur al di fuori di una formale procedura di risoluzione della crisi di impresa, abbia assunto un rischio non irragionevole, operando nell'intento del risanamento aziendale ed erogando credito ad un'impresa suscettibile, secondo una valutazione "ex ante", di superamento della crisi o almeno di proficua permanenza sul mercato, sulla base di documenti, dati e notizie acquisite, da cui sia stata in buona fede desunta la volontà e la possibilità del soggetto finanziato di utilizzare il credito a detti scopi”. 
[28] 
Cass. 29 febbraio 2016, n. 3955, in Italgiure: “È revocabile, ai sensi dell'art. 67, comma 1, n. 2, L. fall., ed, in ogni caso, ex art. 67, comma 2, L. fall., la rimessa conseguente alla concessione di un mutuo garantito da ipoteca destinata a ripianare uno scoperto di conto, laddove il mutuo ipotecario ed il successivo impiego della somma siano inquadrabili nel contesto di un'operazione unitaria il cui fine ultimo è quello di azzerare la preesistente obbligazione. La garanzia ipotecaria non è espressione di autotutela preventiva, in quanto costituita per debito preesistente, in tutti i casi in cui il mutuatario non abbia ad acquisire contestualmente nuova disponibilità finanziaria, essendo, in tal caso, la garanzia associata ad un rischio di credito già in atto”. Cass. 21 febbraio 2018, n. 4202, in Italgiure. 
[29] 
Cass. 29 marzo 2007, n. 7768, in Italgiure. V. Cass. 16 novembre 2021, n. 34510, in Italgiure
[30] 
Osserva opportunamente N. Usai, La crisi d’impresa tra responsabilità e irrazionalità, cit., 54 ss., che l’atteggiamento dei creditori è contrassegnato assai spesso da due fenomeni: quello dell’“apatia razionale, laddove i costi della partecipazione attiva alla procedura potrebbero eccedere gli eventuali benefici” e della conseguente “avversione alle perdite” e quello dell’“effetto gregge”, che in ragione del limite cognitivo che ostacola valutazioni oggetti, sospinge i creditori più deboli ad un “appiattimento … sulle posizioni dei ‘creditori forti’”. 
[31] 
La paternità della teoria dell’obbligo legale di rinegoziare incentrata sulla lettura della clausola di buona fede è di F. Macario, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, 1996, passim. La teoria è stata ripresa dallo stesso Autore in una serie di scritti successivi, cfr., ex multis, Rischio contrattuale e rapporti di durata nel nuovo diritto dei contratti: dalla presupposizione all’obbligo di rinegoziare, in Riv. dir. civ., 2002, 63 ss.; Le sopravvenienze, in Trattato del contratto, V, a cura di V. Roppo, Milano, 2006, 495 ss.; voce Revisione e rinegoziazione del contratto, in Enc. dir., Ann. II, t. II, Milano, 2008, 1026 ss. 
[32] 
Bank of England, Quarterly Bulletin, 1993. 
[33] 
ABI, Codice di comportamento in materia di ristrutturazione dei debiti delle imprese, 1999 e successivi aggiornamenti. 
[34] 
Cass. 25 novembre 2008, n. 28056, in Italgiure: “Il principio di correttezza e buona fede - il quale, secondo la Relazione ministeriale al codice civile, "richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore" - deve essere inteso in senso oggettivo ed enuncia un dovere di solidarietà, fondato sull'art. 2 della Costituzione, che, operando come un criterio di reciprocità, esplica la sua rilevanza nell'imporre a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge, sicché dalla violazione di tale regola di comportamento può discendere, anche di per sé, un danno risarcibile”. 
[35] 
Tra i doveri di condotta scaturenti buona fede si annovera anche quello di non abusare dei propri diritti a discapito della controparte contrattuale: v. F. Galgano, Il negozio giuridico, in Trattato di diritto civile comm., III, 1, 2002, Milano, 499 ss.; Id., Qui suo iure abutitur neminem laedit?, in Contr. impresa, 2011, 311; C. Miriello, La buona fede oltre l'autonomia contrattuale: verso un nuovo concetto di nullità?, in Contr. impr., 2008, 284 ss.; M. Lamicela, Dolo e abuso del diritto: il giudice controlla le parti contraenti, ivi, 2012, 1447 ss. 
[36] 
Cass. 18 settembre 2009, n. 20106, in Italgiure: “Si ha abuso del diritto quando il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di divieti formali, lo eserciti con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà furono attribuiti. Ricorrendo tali presupposti, è consentito al giudice di merito sindacare e dichiarare inefficaci gli atti compiuti in violazione del divieto di abuso del diritto”. 
[37] 
Su questi temi v. S. Pagliantini (a cura di), Abuso del diritto e buona fede nei contratti, Torino, 2010. 
[38] 
Di diverso avviso G. D’Attorre, I principi generali nel diritto della crisi d’impresa, in Nuova giur. civ. comm., 2019, 1086. Una qualche apertura si ritrova, invece, in M. Fabiani, Il codice della crisi di impresa e dell’insolvenza tra definizioni, principî generali e qualche omissione, in Foro it., 2019, I, secondo il quale i comportamenti dei creditori non conformi al canone della buona fede e della correttezza vanno repressi con la tecnica risarcitoria, ma “forse, spingendosi un poco più in là, anche con la neutralizzazione dei loro modi di partecipare al concorso”. 
[39] 
Sottolinea C. Scognamiglio, L’abuso del diritto, in I Contratti, 1/2012, 5 ss. “l’abuso del diritto non è un atto illecito, ma un atto invalido, destinato ad essere privato di effetti”. 
[40] 
A. D’Angelo, La buona fede, in Trattato Bessone, Il contratto in generale, IV, Torino, 2004, 143 ss. 
[41] 
F. Galgano, Lex mercatoria, il Mulino, 2010, 248 ss. In precedenza, Id., Storia del diritto commerciale, il Mulino, 1976. 
[42] 
È stato suggestivamente sottolineato come la buona fede costituisca un insieme di regole sociali, che il diritto si limita a recepire A. Di Majo, Delle obbligazioni in generale, in Commentario Scialoja-Branca, Zanichelli-Foro it., 1988, sub art. 1175, 306, nt. 1. 

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