Il terzo obbligo previsto dall’art. 4, comma 2, a carico del debitore prevede che questi debba gestire il patrimonio o l’impresa durante i procedimenti nell’interesse prioritario dei creditori. Anche in questo caso la norma richiama disposizioni specifiche relative alla composizione negoziata. L’art. 16, quarto comma, prevede infatti che l’imprenditore debba gestire il patrimonio e l’impresa senza pregiudicare ingiustamente gli interessi dei creditori. L’art. 21, sotto la rubrica “gestione dell’impresa in pendenza di trattative” aggiunge che l'imprenditore in stato di crisi gestisce l'impresa in modo da evitare pregiudizio alla sostenibilità economico-finanziaria dell'attività. Quando, nel corso della composizione negoziata, risulta che l'imprenditore è insolvente ma esistono concrete prospettive di risanamento, lo stesso gestisce l'impresa nel prevalente interesse dei creditori.
Sia la norma generale contenuta nell’art. 4 che le specifiche disposizioni relative alla composizione negoziata riguardano la gestione dell’impresa, gestione che può essere finalizzata alla prosecuzione dell’attività in una prospettiva di continuità aziendale ovvero avere un obiettivo più limitato, essendo diretta a conservare il valore dell’avviamento in vista di una futura cessione o affitto d’azienda o anche di un eventuale esercizio provvisorio in sede di liquidazione giudiziale. Le finalità possono cambiare ed avere quindi caratteristiche molto diverse. Quel che non muta è la finalità generale: sia che l’imprenditore si trovi in stato di crisi o invece di insolvenza, egli deve gestire patrimonio ed impresa nell’interesse prioritario dei creditori.
Il precetto discende direttamente dal fatto che l’imprenditore in difficoltà deve avere a mente che egli risponde delle proprie obbligazioni ai sensi dell’art. 2740 c.c. con tutti i propri beni, presenti e futuri. Per altro verso la giurisprudenza della Corte EDU ha affermato che l’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione tutela il diritto di credito quale “bene” che deve essere tutelato da ogni illegittima ingerenza, ad esempio nei casi di riduzione o sospensione della prestazione, tutte le volte che il credito goda di una sufficiente base giuridica nel diritto interno idonea a fondare il legittimo affidamento del creditore[16].
Ne deriva che il debitore nella gestione dell’impresa non può ledere indebitamente gli interessi dei creditori. Se è vero che nell’esercizio dell’impresa è insito il rischio e quindi il possibile pregiudizio per i creditori in caso di esito negativo dell’attività, quando si verifichi una situazione di crisi o di insolvenza l’imprenditore deve avere particolare attenzione alla tutela dell’interesse dei soggetti che, in caso di esito infausto, vedono messa a rischio la garanzia patrimoniale rappresentata dal suo patrimonio.
Di qui l’indicazione che l’attività del debitore deve essere orientata a tutela dell’interesse prioritario dei creditori. Il legislatore precisa anche che tale obbligo deve essere adempiuto durante i procedimenti che sono evidentemente quelli menzionati nella prima parte dell’art. 4 e cioè i procedimenti per l’accesso agli strumenti di composizione della crisi e dell’insolvenza, distinti dalle trattative cui fa del pari riferimento la prima parte dell’art. 4, che non sono richiamate con riguardo agli obblighi di gestione in parola. Non si tratta dunque di tutte le misure, accordi e procedure volti al risanamento o alla liquidazione secondo la definizione degli strumenti di composizione della crisi o dell’insolvenza, ma soltanto dei procedimenti, che sono quelli regolati dagli artt. 40 e ss. del codice nell’ambito del c.d. procedimento unitario.
Si tratta quindi del procedimento per l’accesso alla liquidazione giudiziale, regolato dall’art. 41, del procedimento regolato dall’art. 44 per l’accesso con riserva di deposito del piano e della proposta ai vari strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza, del procedimento regolato dall’art. 40 che si applica al concordato preventivo, alla domanda di omologazione degli accordi di ristrutturazione, al piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione. E’ da ritenere che anche la domanda di omologazione del concordato liquidatorio semplificato regolato dall’art. 25 sexies rientri nella previsione posto che la norma ora citata richiama, sia pur soltanto per il deposito dei documenti, l’art. 39. In senso contrario si potrebbe osservare che nel concordato liquidatorio semplificato non vi è fase di ammissione, ma soltanto il giudizio di omologazione. Per contro tuttavia l’art. 25 sexies prevede pur sempre una delibazione del tribunale e dalla data della pubblicazione del ricorso sul registro delle imprese si producono gli effetti ordinariamente connessi alla presentazione della domanda di concordato preventivo.
Dal confronto della disciplina degli obblighi a carico del debitore nel caso della composizione negoziata e secondo i principi generali dettati dall’art. 4 che si riferiscono all’accesso agli strumenti di composizione della crisi e dell’insolvenza risultano, come si è già accennato, rilevanti differenze. L’art. 16 fa obbligo all’imprenditore che accede alla composizione negoziata di gestire il patrimonio e l’impresa senza pregiudicare ingiustamente gli interessi dei creditori. Tale obbligo è ripreso dall’art. 21 che individua tali obblighi prevedendo che in caso di crisi egli debba gestire in modo da evitare pregiudizio alla sostenibilità economico-finanziaria dell’attività e che in caso di insolvenza, purché reversibile, debba invece seguire il prevalente interesse dei creditori.
L’art. 4 dello schema di d.gls. non distingue tra stato di crisi e stato di insolvenza, disponendo che comunque nei procedimenti di accesso agli strumenti di composizione della crisi e dell’insolvenza il debitore debba gestire il patrimonio e l’impresa nell’interesse prioritario dei creditori, anche quando vi sia soltanto uno stato di crisi. La differenza di linguaggio non è certo casuale e dipende ragionevolmente dal fatto che nel caso regolato dall’art. 4 si apre una procedura che ha caratteri di concorsualità anche se ampiamente differenziati e comporta in misura maggiore o minore un controllo sull’attività dell’imprenditore, se non uno spossessamento attenuato.
Tuttavia l’interesse prioritario dei creditori va valutato con riferimento alle caratteristiche specifiche di ogni procedura. Di ciò dovrà tenersi conto in futuro, prendendo soprattutto in considerazione il fatto che nelle procedure di ristrutturazione l’esistenza di una maggior alea è in re ipsa rispetto alle procedure liquidatorie in senso stretto. A tale proposito viene in considerazione la nuova disciplina del concordato preventivo in continuità, dove per quanto concerne l’omologazione l’art. 112, comma 1, lett. f), prevede che il tribunale debba verificare che il piano non sia privo di ragionevoli prospettive di impedire o superare l’insolvenza. Tale norma deriva direttamente dall’art. 8, par. 1, lett. h) della Direttiva n. 1023/2019 che stabilisce che il piano debba essere accompagnato nelle procedure di ristrutturazione da una dichiarazione, che gli Stati membri possono chiedere sia convalidata da un esperto esterno o da un professionista nel campo della ristrutturazione, in ordine al fatto che il piano stesso ha prospettive ragionevoli di impedire l'insolvenza del debitore e di garantire la sostenibilità economica dell'impresa.
Il legislatore ha preso atto che, soprattutto nelle attuali situazioni di crisi diffusa legate alla pandemia ed agli altri eventi drammatici di questi mesi, la previsione sulla quale viene costruito il piano non può essere formulata che in termini di ragionevolezza e non di certezza o quasi certezza. Ciò amplia il rischio che la prosecuzione dell’attività possa determinare ulteriori perdite e ampliare la sfera dei crediti prededucibili. Tale maggior rischio non può però esser visto come lesivo dell’interesse dei creditori, almeno fin quando non venga leso il diritto di percepire dal concordato non meno di quanto spetterebbe loro in caso di liquidazione, secondo la previsione dell’art. 84, comma 1, del codice.
Torniamo ora alle regole previste dagli artt. 16 e 21 del codice nel solo ambito della composizione negoziata. L’art. 16, come già ricordato, dispone che l’imprenditore deve gestire il patrimonio e l'impresa senza pregiudicare ingiustamente gli interessi dei creditori. Anziché far riferimento al prioritario interesse dei creditori qui si prevede che i loro interessi non debbano essere lesi ingiustamente. La diversità di linguaggio non è casuale.
Come si è ricordato, nel caso dei procedimenti di accesso agli strumenti di composizione della crisi o dell’insolvenza, vi è già l’avvio di una procedura concorsuale, sì che si giustifica la tutela prevalente dei creditori a tutela della loro garanzia patrimoniale. Nel caso invece della composizione negoziata dove l’imprenditore è in bonis e dove ancora non è avviata una procedura, non si sono realizzate forme di spossessamento sia pur parziale, l’imprenditore mantiene la pienezza dei poteri di gestione con l’unica avvertenza che egli non deve pregiudicare gli interessi dei creditori tutte le volte in cui tale pregiudizio sia ingiusto, e dunque quando compia atti gestori che superano la normale alea dell’attività d’impresa o quando trascuri gli altri doveri che l’art. 4 pone a suo carico, in particolare i principi di buona fede, di comunicazione ai creditori delle informazioni relative alla situazione dell’impresa, di rapido svolgimento delle trattative. Si tratta di regole che abbiamo in precedenza esaminato.
In linea di massima, tuttavia, l’imprenditore ha la piena disponibilità dell’attività gestionale e non è tenuto a svolgerla con particolari limitazioni.
Tuttavia l’art. 16 non può essere adeguatamente compreso, se non viene letto congiuntamente all’art. 21. Da questa norma si ricava, infatti, che durante la composizione negoziata l’imprenditore incontra vincoli di scopo della gestione dell’impresa che non vigono altrimenti. L’art. 21, primo comma, ultima parte, fa infatti obbligo all’imprenditore di gestire l’impresa in modo da non recare pregiudizio alla sostenibilità economico-finanziaria dell’attività, se si trova in stato di crisi, e nel prevalente interesse dei creditori se sussiste lo stato di insolvenza, ma vi sono concrete prospettive di risanamento. Tale principio era già stato affermato dal primo comma dell’art. 9 del D.L. n. 118, aggiunto dalla legge di conversione.
Proprio perché conserva i poteri di amministrazione ordinaria e straordinaria, per i quali ultimi l’eventuale dissenso dell’esperto ha soltanto effetti di moral suasion connessi alle conseguenze dell’iscrizione nel registro delle imprese, l’imprenditore ha la piena responsabilità della gestione dove i vincoli cui essa deve venir finalizzata nella duplice ipotesi della crisi e dell’insolvenza comporta che la regola della business judgment rule non possa trovare completa applicazione.
Questo tema, dei limiti della discrezionalità dell’imprenditore nella gestione della crisi, merita un breve approfondimento.
Si è discusso molto in dottrina sulla natura e sui limiti dell’obbligazione prevista dall’art. 2086 c.c., tanto per quanto riguarda l’istituzione degli assetti adeguati quanto per quel che concerne la reazione alla situazione di crisi o di insolvenza, se essa comporti o meno l’applicazione della business judgment rule. Parte della dottrina lo ha escluso, parte si è invece espressa positivamente[17]. Con riguardo ai doveri previsti dall’art. 2086, merita di essere sottolineato il rilievo, espresso però con riferimento alla prima versione del codice della crisi contenuta nel D.Lgs. n. 14/2019 e quindi alla rilevanza degli indicatori di crisi oggi soppressi, che, malgrado la sua portata precettiva, la norma non faccia riferimento a regole vere e proprie, ma a standard di natura aziendalistica che lasciano margini di discrezionalità nella loro applicazione[18].
E’ innegabile che le regole che gli amministratori, anche della capogruppo, sono chiamati ad applicare corrispondono principalmente ad un dovere di diligenza, che implica un certo margine di apprezzamento discrezionale nella valutazione delle situazioni che si possono verificare. Di conseguenza ci pare innegabile che in queste ipotesi gli amministratori siano tenuti appunto ad un dovere di diligenza il cui esercizio può essere sindacato soltanto nel quomodo dell’adempimento, vale a dire se vi sia stato un processo decisionale diligente e razionale. Vi è spazio, di conseguenza, per l’applicazione della BJR.
Questo non è però, in gran parte, il contenuto delle regole dettate dall’art. 2086, soprattutto per quanto concerne la predisposizione di assetti adeguati alla tempestiva rilevazione della crisi. In queste ipotesi, infatti, il legislatore non si limita a chiedere il rispetto dell’obbligo di diligenza, ma impone dei doveri che si avvicinano ad una vera e propria obbligazione di risultato[19], vi sono cioè obblighi specifici che debbono consentire, ad esempio, di valutare l’idoneità dei flussi di cassa a far fronte alle obbligazioni future nei dodici mesi successivi.
Venendo alla reazione al prospettarsi della crisi ed al ricorso agli strumenti previsti dall’ordinamento per il ripristino della continuità aziendale, qui certamente il margine di discrezionalità è decisamente maggiore. Si pensi alle scelte relative alla decisione di negoziare con i creditori in sede extragiudiziale o di ricorrere ad una delle procedure di composizione della crisi e dell’insolvenza, di avvalersi di consulenze esterne, di aderire a soluzioni transattive, di invocare moratorie ecc. Direi che la regola della BJR trova qui il suo terreno di elezione e ciò, evidentemente, anche nel caso in cui si tratti della condotta degli amministratori della capogruppo con riferimento ad una crisi che riguardi alcune componenti soltanto del gruppo ovvero l’intera organizzazione. Il rispetto dei principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale comporta però che la discrezionalità abbia dei limiti, alla luce dei principi di diligenza e professionalità.
E’ su questo terreno che vengono in esame i principi dettati dagli artt. 16 e 21, con riferimento, va ricordato, alla sola composizione negoziata, che regolano i limiti della discrezionalità dell’imprenditore in termini sufficientemente nitidi. Il pregiudizio per i creditori che segue alle scelte gestorie può esservi, ma non può determinare un danno ingiusto. E per altro verso i limiti delle scelte gestorie sono indicati con chiarezza: non recare pregiudizio alla sostenibilità economico finanziaria dell’attività e gestire nel prevalente interesse dei creditori in caso di insolvenza, purché vi siano concrete prospettive di risanamento.
La piena responsabilità dell’imprenditore per la gestione in pendenza della composizione negoziata si ricava anche a contrario dall’art. 24, comma 3, che precisa che anche per gli atti di straordinaria amministrazione, i pagamenti, e più in generale per tutti gli atti gestori revocabili e per quelli soggetti ad autorizzazione resta ferma la responsabilità dell’imprenditore.
Se la disciplina è dunque chiara in caso di composizione negoziata ed anche, in virtù della norma di cui all’art. 4, comma 2, lett. c) nell’avvio dei procedimenti di accesso alle procedure in continuità e liquidatorie, non abbiamo, al di là dei principi affermati a livello internazionale[20]e del già ricordato disposto dell’art. 4, comma 2, una norma che al di fuori della composizione negoziata esprima l’obbligo dell’imprenditore in stato di crisi o di insolvenza e che si trovi in bonis, di gestire l’impresa nell’interesse dei creditori, con il vincolo di non aggravarlo desistendo quindi quando non vi siano concrete prospettive di risanamento.
Formalmente il legislatore ha dettato le nuove regole contenute nell’art. 21 soltanto per la composizione negoziata ed esse non trovano applicazione quando lo strumento compensativo si chiude. Apparentemente quindi l’imprenditore con la chiusura del procedimento di composizione negoziata ricupera degli spazi di discrezionalità nella gestione dell’impresa. Non più sottoposto al controllo dell’esperto, egli non incontra neanche i limiti indicati dall’art. 21 che si applica soltanto nell’ambito della composizione negoziata, mentre il dovere di agire nell’interesse prioritario dei creditori riguarda soltanto i procedimenti di accesso agli strumenti di composizione della crisi e dell’insolvenza.
La differenza nella posizione dell’imprenditore in pendenza e al di fuori dello strumento compensativo è però più apparente che reale. Nel caso in cui si tratti di società e si sia verificata la perdita del capitale sociale oltre ai limiti del terzo, la gestione potrà essere soltanto prudenziale, anche se più non sussiste il divieto di nuove operazioni, perché, fatte salve le speciali deroghe dettate in via temporanea per la pandemia, la deroga alla regola capitalizza o liquida è possibile soltanto in pendenza della composizione negoziata. L’art. 2486 c.c. vincola gli amministratori a conservare l’integrità ed il valore del patrimonio sociale . Più in generale gli artt. 2394 e 2476 c.c. impongono agli amministratori, come regola generale di condotta, la conservazione del patrimonio sociale nell’interesse dei creditori.
Il principio affermato dall’art. 2086 comporta che l’imprenditore ha il dovere di adoperarsi per il ripristino della continuità aziendale e si è detto che la continuità aziendale in tanto può essere ripristinata in modo duraturo in quanto sia assicurato l’equilibrio economico-finanziario, come richiede l’art. 21 quando vi sia lo stato di crisi. Se vi è insolvenza, per quanto in astratto non si possa escludere che ad essa si possa porre rimedio anche con soluzioni negoziali non disciplinate dalla legge, è improbabile che vi sia spazio per la prosecuzione dell’attività d’impresa al di fuori delle garanzie offerte da una procedura. L’esercizio dell’impresa in tali condizioni determina ragionevolmente l’accumulo di ulteriori perdite che comportano l’aggravamento del dissesto e che non si giustificano al di fuori di una seria ipotesi di ristrutturazione o di una adeguata prospettiva di alienazione dell’azienda.
L’art. 2086 stabilisce che per ottemperare agli obblighi di attivarsi senza indugio per il superamento della crisi ed il ripristino della continuità aziendale l’imprenditore collettivo deve adottare uno degli strumenti previsti dall’ordinamento. Si pone pertanto la questione di individuare quali siano tali strumenti.
E’ evidente che tra essi rientrano le procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza, oggi nel linguaggio del codice rientranti nella definizione di strumenti[21]. Per esse rileva l’obbligo sancito dall’art. 4 che prevede che nei procedimenti di accesso a tali procedure debba essere tutelato in via prioritaria l’interesse dei creditori.
Tuttavia vi possono essere anche altre soluzioni. Sempre con riferimento alla composizione negoziata occorre ricordare che l’art. 23 prevede che essa si possa chiudere, nel caso in cui debitore e creditori abbiano raggiunto un accordo, con una delle soluzioni previste dal primo comma della norma[22]. Si tratta del contratto con i creditori previsto dalla lettera a), della convenzione di moratoria di cui alla lettera b) e dell’accordo sottoscritto dall’imprenditore, dai creditori e dall’esperto che produce gli effetti del piano attestato senza necessità però dell’attestazione prevista dall’art. 56 del codice. L’art. 23, comma 2, prevede anche altre soluzioni, prima tra tutte gli accordi di ristrutturazione, ma anche il piano attestato, il concordato liquidatorio semplificato introdotto dal D.L. n. 118/21 insieme alla composizione negoziata e gli strumenti di composizione della crisi e dell’insolvenza. Qui però interessano soprattutto le soluzioni previste dal primo comma, perché hanno carattere negoziale e si aggiungono agli strumenti ora detti.
Il codice della crisi mette a disposizione anche la composizione negoziata, che in sé non è una procedura, ma che può concludersi nelle forme previste dalla norma ora citata.
Il riferimento dell’art. 2086 agli strumenti previsti dall’ordinamento offre dunque all’imprenditore un ampio range di soluzioni con cui porre rimedio alla crisi e ripristinare o consolidare la continuità aziendale. Va sottolineato che nella scelta tra le varie soluzioni possibili gli amministratori della società o impresa collettiva, anche nel caso di holding, come del resto l’imprenditore singolo, godono di un’ampia discrezionalità. Si tratta infatti di scelte tecniche che dipendono dalla situazione concreta sulla quale occorre intervenire. Non si può neppure escludere che essi possano far ricorso a trattative stragiudiziali, senza accedere a nessuna delle procedure cui si è fatto riferimento, ovvero anche che la situazione di crisi venga risolta con apporti di capitale esterno. Il limite è evidentemente rappresentato dal dovere di mantenere o ripristinare la continuità aziendale, così come previsto dall’art. 2086 c.c., e di non dar luogo a profili di responsabilità connessi alla perdita del capitale sociale.
Come si è detto, in sede di composizione negoziata una volta iniziate le trattative, l’imprenditore ha la piena disponibilità della gestione dell’impresa. Egli tuttavia deve rispettare il vincolo generale previsto dall’art. 12, comma 1, del codice che sia ragionevolmente perseguibile il risanamento e che, ai sensi dell’art. art. 23, comma 1 non vi sia pregiudizio alla sostenibilità economico-finanziaria dell’attività. A tale proposito il punto 7.5 del Protocollo contenuto nel decreto dirigenziale 28 settembre 2021, emanato ai sensi dell’art. 3 D.L. n. 118 e confermato dall’art. 13 del codice, rileva che “dinanzi ad uno stato di crisi, è opportuno che l’esperto ricordi all’imprenditore che deve gestire l’impresa per evitare pregiudizio alla sostenibilità economico-finanziaria dell’attività”. A tale proposito si aggiunge: “non vi è di norma pregiudizio per la sostenibilità economico-finanziaria quando nel corso della composizione negoziata ci si attende un margine operativo lordo positivo, al netto delle componenti straordinarie, o quando, in presenza di margine operativo lordo negativo, esso sia compensato dai vantaggi per i creditori, derivanti, secondo una ragionevole valutazione prognostica, dalla continuità aziendale (ad esempio, attraverso un miglior realizzo del magazzino o dei crediti, il completamento dei lavori in corso, il maggior valore del compendio aziendale rispetto alla liquidazione atomistica dei beni che lo compongono)”. Infine “con le trattative in corso e ancora sussistendo concrete prospettive di risanamento, la gestione, in caso di insolvenza, dovrà avvenire nel prevalente interesse dei creditori”.
La norma regolamentare illustra meglio il già ricordato vincolo alla gestione dell’impresa ed alla prosecuzione dell’attività espresso dall’art. 21, primo comma, del codice. Come si è visto, la norma afferma che l’imprenditore in stato di crisi gestisce l’impresa in modo da evitare pregiudizio alla sostenibilità economico-finanziaria dell’attività. Quando nel corso della composizione negoziata risulta che l’imprenditore è insolvente, ma esistono concrete prospettive di risanamento, lo stesso gestisce l’impresa nel prevalente interesse dei creditori.
In caso di insolvenza la composizione negoziata può proseguire soltanto quando sia questione di insolvenza reversibile ed esistano quindi concrete prospettive di risanamento. In caso di crisi deve essere garantita la sostenibilità economico-finanziaria dell’attività con la conseguenza che la gestione caratteristica sia attiva o generi perdite che non sono di pregiudizio per i creditori perché salvaguardano la continuità aziendale e quindi il maggior valore dell’azienda rispetto all’ipotesi liquidatoria.
Questi precetti a nostro avviso hanno una valenza di sistema. Non si vede infatti perché doveri che valgono per un imprenditore impegnato a risolvere la crisi o l’insolvenza con una trattativa con i creditori, sotto il controllo dell’esperto, non dovrebbero valere al di fuori di tale ipotesi. Sembra ragionevole ritenere che il legislatore abbia qui codificato una regola di carattere generale che deve valere per tutti i casi in cui l’imprenditore non è in procedura, liquidatoria o conservativa che sia, ma sussiste una situazione di crisi o di insolvenza.